I
Gli Stati Uniti d’America, dice Stephanie Kelton (Il Mito del Deficit), sono ricchi di risorse reali – tecnologie avanzate, forza-lavoro istruita, macchinari, suoli fertili e un’abbondanza di risorse naturali. Abbiamo la benedizione di avere tutto ciò che conta in quantità sufficienti – dice. Possiamo costruire un’economia che offra a tutti la possibilità di vivere una vita degna, non dobbiamo fare altro che orientare il bilancio pubblico in funzione delle risorse reali.
Senza soldi queste risorse rimangono inutilizzate – ferme. Senza una domanda sufficiente i lavoratori rimangono disoccupati e i macchinari si arrugginiscono nei capannoni e i laureati vanno a fare gli spazzini. Poiché solo lo Stato può immettere moneta in circolazione, tocca allo Stato fare la prima mossa.
Ma quanti soldi può far girare lo Stato? C’è forse un limite, o può operare incondizionatamente?
Un limite c’è, dice Stephanie Kelton, e si chiama inflazione. Come si insegna agli studenti del primo anno di economia, dice, l’eccesso di spesa pubblica si manifesta come inflazione. Un deficit è la prova di una spesa eccessiva solamente se innesca spinte inflazionistiche.
Il bilancio dello Stato non funziona come il bilancio di una famiglia. Esso è solo uno strumento per regolare la quantità di moneta in circolazione. E la prova che questo bilancio è stato gestito male è la disoccupazione.
In ogni caso, dice Kelton, per vedere se stiamo spendendo troppo dobbiamo guardare l’inflazione.
Inflazione significa un continuo aumento del livello dei prezzi. Se i prezzi aumentano più velocemente dei redditi, ciò vuol dire che si sta verificando una diffusa perdita di potere d’acquisto.
La vera punizione per un debito eccessivo è l’inflazione, non l’insolvenza.
La MMT non promette pasti gratis. Non propone di stampare soldi per distribuirli a pioggia a chi non ha fornito precedentemente alcuna prestazione. Il contrario. La MMT propone di erogare una paga, e dunque un reddito, a tutte quelle persone che, per effetto delle restrizioni al bilancio dello Stato, vivono la cosiddetta disoccupazione involontaria. Ma tutto ciò sarà possibile solo e soltanto se si smette di considerare il bilancio dello Stato come il bilancio di una famiglia, ovvero come un bilancio che regola le uscite in misura esatta delle entrate.
Supponiamo una spesa S, pari a 100 dollari, che significa che il governo emette 100 dollari spendendoli nell’economia. Ora, dice Kelton, supponiamo che il governo imponga un prelievo fiscale pari a 90 dollari, che significa che il disavanzo dello Stato alla fine ci lascia in tasca 10 dollari. Attualmente, il governo coordina qualunque spesa in deficit con la vendita di un ammontare equivalente di titoli di Stato, cioè “indebitandosi”. Il punto da tenere a mente, dice, è che i 10 dollari che servono per comprare i titoli del Tesoro sono stati messi a disposizione dalla medesima spesa in deficit dello Stato. In questo senso, la spesa dell’emittente di moneta si autofinanzia. Lo Stato non vende i titoli di debito perché ha bisogno di soldi: le vendite di titoli hanno l’unico scopo di permettere a chi possiede saldi positivi in bilancio (moneta liquida) di scambiarli con titoli del Tesoro (moneta meno liquida). Lo scopo di tutto ciò è sostenere i tassi di interesse, non finanziare il governo.
Dunque, dice Kelton, sostituire titoli di debito con contante (o viceversa) non ha alcun effetto sulla ricchezza netta del settore privato. Invece di detenere buoni del Tesoro, adesso gli investitori detengono lo stesso valore sotto forma di contante. Laddove la ricchezza netta rimane inalterata, l’acquisto di titoli produrrebbe però un effetto in termini di reddito. Questo perché i titoli di Stato sono strumenti che fruttano un interesse, mentre il contante no. Quando la FED sostituisce titoli con moneta il settore privato perde tutti gli interessi che avrebbe altrimenti ricevuto. In tal modo, il ritiro del debito porterebbe via anche i redditi da interesse del settore privato.
È lo Stato che rifornisce i privati della moneta con la quale possono acquistare i titoli del debito pubblico, ed è sempre lo Stato che fornisce la moneta degli interessi. Dunque, i bilanci dei privati sono valorizzati con una moneta che lo Stato fornisce in esclusiva. Quando il privato acquista titoli dallo Stato, semplicemente sta cambiando la forma in cui ha deciso di detenere la sua ricchezza.
Secondo la visione convenzionale, dice Kelton, al centro dell’universo monetario si trova il contribuente, in ragione della credenza per la quale lo Stato, di per sé, non possiede denaro. Ne consegue che gli unici soldi disponibili per finanziare lo Stato devono provenire dalle persone comuni come noi.
La MMT ribalta questa prospettiva: non è il contribuente a finanziare le spese dello Stato, bensì è la Banca centrale, cioè il governo centrale stesso a finanziare i privati. L’idea per la quale sono le tasse a finanziare le spese dello Stato è pura e semplice fantasia.
Tenuto conto di questa premessa, ovvero che il debito deve essere commisurato al tasso di inflazione, segue che l’unico parametro che lo Stato deve prendere in considerazione per regolare il flusso della spesa, e dunque per bilanciare il suo intervento, è costituito dalle Risorse produttive reali.
Finché a fronte del denaro immesso in circolazione dallo Stato ci sono Risorse Reali corrispondenti, il tasso di inflazione non può aumentare, perché il denaro, mettendo in circolo queste risorse, ne rappresenta, a livello contabile, esattamente la contropartita. Quando, invece, le risorse reali raggiungono il pieno impiego, ogni unità aggiuntiva di denaro non farà altro che aumentare il livello dei prezzi, e ciò in quanto una medesima quantità di risorse reali sarà numerata da una maggiore quantità di risorse contabili o monetarie.
Queste considerazioni di Kelton traducono l’economia nel linguaggio di una semiologia semplificata, dove il denaro si presenta come il mero segno contabile di un sottostante valore effettivo. Se la ricchezza non si leva dalla sua inoperosità è perché non ci sono abbastanza nomi per evocarla.
La differenza tra Numerario e Numerato riproduce la differenza tra intelligibile e sensibile, tra signans e signatum, ponendo l’economia sullo stesso piano della linguistica e considerando la moneta come un segno (moneta-segno).
La definizione medievale del segno, dice Jakobson (Saggi di linguistica generale): aliquid stat pro aliquo, è stata ripresa e riconosciuta valida e feconda. Così il tratto caratteristico costitutivo di ogni segno in generale e di ogni segno linguistico in particolare è il suo carattere duplice; ogni unità linguistica è bipartita e coinvolge due aspetti: il sensibile e l’intelligibile, o, in altre parole, il signans o significante e il signatum o significato. Questi due elementi costitutivi del segno linguistico – e del segno in generale – si presuppongono e si richiamano l’un l’altro.
Ora, c’è questa complicazione, che è stata la croce degli economisti austriaci, i quali non volevano assolutamente sentir parlare di una moneta-segno, convinti, a ragione, che il segno si trascini dietro la sostanza e la metafisica.
Gli austriaci preferivano una moneta-merce, perché essa, garantendo l’estinzione immediata del debito, abolirebbe la scrittura contabile. Con la moneta-merce i conti sono tutti immediatamente estinti, ogni vincolo di bilancio è immediatamente rispettato – il debito non può nascere, dunque nemmeno la scrittura contabile.
Un residuo dell’idea che il vincolo di bilancio vada rispettato nell’ambito di ogni singolo periodo si trova, dice Augusto Graziani, nella convinzione, tipica degli autori di scuola neoclassica, che l’unica ed autentica forma di moneta sia la moneta metallica, e che le monete cartacee correnti altro non siano che sostituti provvisori, a fronte dei quali, in un’economia ben ordinata, dovrebbe trovarsi un deposito di metallo di valore equivalente (a fronte dei biglietti in circolazione, la banca di emissione dovrebbe tenere riserve auree corrispondenti).
La complicazione deriva dalla circostanza che la moneta-merce è finita, è sensibile, dunque non ha, e non può avere, fintanto che la si considera nella sua piattezza, un volare determinabile prima della sua estinzione. Potendo oscillare tra un più e un meno, addirittura non consente la tenuta di scritture contabili. Il prezzo di una merce varia sino all’istante della chiusura delle contrattazioni, e sino a quando non cessa di essere una merce. Quella entità oscura chiamata potere di acquisto si fissa, se si fissa, solo a cose fatte. Dunque, a rigore, la merce non ha valore: questa è la complicazione.
A questa prima complicazione se ne aggiunge un’altra.
La prima complicazione è superata con l’introduzione della cosiddetta moneta-segno, e, sino a un certo punto, ha ragione Keynes nel dire che la moneta-segno precede l’apprezzamento, e ha ragione la MMT, quando, invertendo il ragionamento dei neo-classici, dice che il bilancio dello Stato non funziona come quello di una famiglia, e che è proprio la moneta messa in circolo dallo Stato a fornire la possibilità alla ricchezza di esprimersi in quanto merce. E, implicitamente, riconosce (ma solo implicitamente) la prima complicazione, quando dice che la moneta-segno, oltre una certa soglia (ma non si tratta di soglia, la moneta-segno manifesta questo scarto in ogni circostanza), la moneta-segno smette di comportasi come un mero segno (come un signatum), e manifesta la sua natura di merce, ovvero di ente finito, sensibile (signans). E non potrebbe essere altrimenti, poiché solo e soltanto in quanto può estinguersi, la moneta può funzionare come tale. Per estinguersi la moneta deve avere la natura di un signans.
La moneta-segno può estinguere un debito se è finita (prima complicazione), ma se è finita non può fissare il prezzo (secondo complicazione). Dunque, la moneta può funzionare solo se possiede entrambe le facce, se è, contemporaneamente, moneta-merce e moneta segno, se è signans e signatum, se è un segno – così come lo intende Jakobson.
A questo punto, però, emerge una terza complicazione.
II
Le vere crisi che abbiamo di fronte, dice Kelton, non hanno niente a che vedere con il deficit pubblico o i diritti sociali. Il fatto che il 21 per cento di tutti i bambini negli Stati Uniti si trovi in condizioni di povertà è una crisi. Il fatto che il nostro sistema infrastrutturale sia valutato di livello D+ è una crisi. Il fatto che la disuguaglianza sia oggi a livelli che si erano visti l’ultima volta durante la Gilded Age americana di fine Ottocento è una crisi. Il fatto che il lavoratore americano medio non abbia visto sostanzialmente alcuna crescita del salario reale dagli anni Settanta a oggi è una crisi. Il fatto che 44 milioni di americani sono oppressi da 1.700 miliardi di debiti studenteschi è una crisi. E il fatto che alla fine potremmo veramente non poterci “permettere“ alcunché se continuiamo a esacerbare il cambiamento climatico e la distruzione della vita sul pianeta è probabilmente la crisi più grave di tutte. Queste sono crisi reali, non il deficit pubblico.
Non abbiamo bisogno di rompere i salvadanai bancari dei privati per sradicare la povertà o per avere quel programma federale di lavoro garantito, retribuito dignitosamente, per cui si batteva Coretta Scott King.
Il vero problema è la sottoutilizzazione delle risorse. Il vero problema è la disoccupazione, e questa si supera con una job guarantee. La risposta migliore all’affermazione «Ci rubano il lavoro!» è «Tutti devono avere un lavoro!».
La soluzione MMT alla disoccupazione involontaria, dice Kelton, è l’introduzione di un programma di lavoro garantito (job guarantee) che stabilisca un diritto legale a un buon lavoro, ben pagato e con buoni benefit. Ciò contrasterebbe uno degli effetti più perniciosi che derivano dal commercio internazionale: la disoccupazione che troppo spesso si è abbattuta su intere comunità che hanno perso posti di lavoro a causa della concorrenza estera. Non è sufficiente fornire formazione e altre forme di assistenza ai lavoratori che si sono visti portare via il lavoro dalla concorrenza internazionale.
Ma per fare tutto ciò, dice Kelton, bisogna smontare il mito del deficit, e per farlo bisogna mostrare che le basi teoriche su cui poggia sono appunto mitologiche.
Queste basi sono 6.
1) Per cominciare, dice Kelton, affronterò l’idea che il bilancio dello Stato sia come quello di una famiglia. Si tratta probabilmente del mito più pernicioso di tutti. Obiezione: Lo Zio Sam non ha bisogno di procurarsi i soldi prima di poterli spendere. Noi sì.
2) Il secondo mito è quello secondo cui i disavanzi sarebbero la prova di un eccesso di spesa. Il governo sta «vivendo al di sopra dei propri mezzi». Supponiamo che lo Stato spenda immettendo nell’economia 100 dollari ma raccolga di tasse solo 90 dollari. La differenza è nota come deficit (o disavanzo) pubblico. C’è però un altro modo di guardare a questa differenza, e cioè che il deficit dello Zio Sam genera un surplus per qualcun altro. Questo perché la perdita di 10 per lo Stato è sempre corrispondente a un incremento di 10 in qualche altra parte del sistema economico.
3) Il terzo mito è quello secondo cui i deficit comporterebbero un fardello per le generazioni future. Prova empirica: debito al 120% nel dopoguerra e aumento della ricchezza e non delle tasse.
4) Il quarto mito che dovremo affrontare, dice Kelton, è costituito dalla concezione secondo la quale i deficit pubblici sarebbero dannosi perché “spiazzano“ (crowding out) gli investimenti privati compromettendo così la crescita a lungo termine. Questo discorso si basa sul presupposto fallace per cui per poter finanziare i propri deficit il governo ha bisogno di entrare in concorrenza con altri debitori per accedere a un’offerta limitata di risparmi. È vero il contrario: i deficit fiscali di fatto incrementano i risparmi privati e possono facilmente accrescere gli investimenti da parte del settore privato.
5) Il quinto mito, dice, è quello secondo cui i deficit rendono gli Stati Uniti dipendenti dagli altri paesi. Questo mito ci porta a credere che paesi come Cina o Giappone abbiano un enorme potere di ricatto su di noi per il fatto di detenere grandi quantità di titoli del debito pubblico statunitense. I dollari non provengono dalla Cina, ma dagli Stati Uniti. Perciò in realtà non stiamo prendendo a prestito dalla Cina, ma piuttosto la stiamo rifornendo di dollari, consentendole poi di scambiarli con un asset sicuro e che frutta interessi chiamato buono del Tesoro statunitense (US Treasury bond). Non c’è assolutamente nulla di rischioso o pernicioso in tutto ciò – dice. Se volessimo potremmo annullare immediatamente quel debito con dei semplici tocchi sulla tastiera del computer della Fed.
6) Il sesto mito, dice, è quello per cui l’estensione dei diritti di assistenza sociale e previdenziale ci spinge nel lungo periodo sulla strada di una crisi fiscale. Il nostro governo sarà sempre in grado di soddisfare gli obblighi di pagamento futuri in quanto non può mai rimanere a corto di soldi. I soldi non mancheranno mai. La vera domanda è che cosa quei soldi saranno poi in grado di acquistare. I mutamenti demografici e gli impatti del cambiamento climatico pongono sfide reali che possono mettere sotto stress la disponibilità delle risorse. Abbiamo bisogno di sapere con certezza che stiamo facendo tutto quanto è in nostro potere per gestire le nostre risorse reali e per sviluppare metodi di produzione più sostenibili mano a mano che le coorti della generazione dei baby boomers escono dalle schiere dei lavoratori. Se però parliamo di pagare le pensioni e l’assistenza sociale, allora possiamo sempre permetterci di mantenere le nostre promesse sia ai pensionati attuali che alle generazioni future.
III
Il discorso di Kelton è basato su un’idea semplice e suggestiva. Ciò che conta è l’economia reale, le Risorse produttive reali. L’economia reale non si avvia se non interviene lo Stato a nominare questa ricchezza. Solo l’atto di denominazione mette in circolazione la ricchezza. Non ci sono scorciatoie. L’economia ha due facce, una faccia reale, formata dalle forza produttive e dagli strumenti di produzione, e una faccia Nominale, fatta dalla Moneta. È una macchina a due facce, o a due ruote, e non può funzionare senza una delle due.
L’economia non è fatta di risorse reali che viaggiano da sole, come pretende la scuola austriaca. Accanto all’economia reale deve sempre prodursi un’economia monetaria o finanziaria. Finanza e industria sono due facce della stessa medaglia, sono il signans e signatum dell’economia.
Nello schema MMT proposto da Kelton l’economia non si avvia se non interviene lo Stato a immettere moneta nel circuito. Di più, il circuito non si forma senza l’intervento dello Stato. Le forze produttive e i mezzi di produzione rimangono inoperosi senza questo intervento esterno. È il Fiat – come il Fiat divino – che crea il mondo economico.
Come può lo Stato immettere carta inconvertibile nel circuito e pretendere che questa carta sia accettata come verrebbe accettato un bene con un valore intrinseco – per esempio l’oro?
Per far accettare la carta come moneta, lo Stato non ha altro mezzo che costringere i cittadini a pagare un tributo sotto forma di questa carta-moneta inconvertibile. La moneta è sostenuta e fa leva sul valore del tributo.
Il tributo, di per sé, non ha valore, corrisponde semplicemente al potere dello Stato di comandare i suoi cittadini. In verità lo Stato ordina ai cittadini di rifornirlo di beni e servizi – difesa, sicurezza, infrastrutture, educazione, etc. e in cambio di questi servizi, offerti sotto coercizione, lo Stato accredita i conti dei cittadini delle somme corrispondenti – somme distribuite arbitrariamente, secondo la legge dell’arbitrarietà del segno.
Nello Stato patrimoniale del cittadino la carta-moneta figura come credito. Nel 1252, quando a Firenze venne introdotto il Fiorino d’oro, il cittadino portava alla zecca una quantità di metallo prezioso in lingotti, e la zecca consegnava un uguale ammontare di oro coniato in monete – sottratto il costo di coniazione. Tra la metà del Duecento e i primi del Trecento il Fiorino d’oro di Firenze si impose in tutta Europa come il mezzo di pagamento per eccellenza nel sistema degli scambi commerciali e delle transazioni finanziarie, assumendo il ruolo di moneta internazionale predominante, come succede oggi con il dollaro.
A un certo punto, le zecche (o le banche) al posto della moneta metallica iniziarono a consegnare titoli che rappresentavano l’oro. La Zecca (la banca di emissione) si impegnava a consegnare al detentore di carta-moneta tante monete d’oro quanto era il valore nominale espresso dal titolo. Questa fantastica invenzione, che tanto giovò al grande commercio internazionale, andò avanti quasi ininterrottamente per diversi secoli. Nel frattempo si scoprì non solo che queste carte di credito potevano essere cedute per estinguere debiti, ma che i crediti/debiti da esse rappresentati potevano essere compensati (annullati), senza ricorrere alla consegna, e dunque alla circolazione, di alcuna moneta d’oro. Ci si rese conto che il potere del denaro nasce dal contratto e non dall’oro, anche se l’oro continuò ad essere ritenuto una garanzia (un’assicurazione) di ultima istanza.
Ci si rese conto, insomma, che il denaro è un sistema a tre variabili: 1) un referente (oro, valore intrinseco), 2) un significato (titolo, valore facciale), 3) un significante (carta-moneta, potere d’acquisto). In questa semiotica tripartita, un po’ alla Peirce, il Titolo, al più, può essere un’ipotesi sul referente, un’ipotesi che può essere confermata o smentita nel momento in cui il Titolo realizza il suo potere di acquisto.
Anche Keynes riconosce un primato del Titolo sul Referente. Nel Trattato dice che i debiti e i prezzi debbono essere stati anzitutto espressi in Moneta di Conto. Solo dopo che l’ammontare del credito/debito si è fissato nel titolo, e si è definito il suo rapporto al referente, il titolo stesso si presenta come moneta, ovvero come significante.
Una volta tolto di mezzo l’oro, e trasformata la carta-moneta in moneta inconvertibile (moneta Fiat), la funzione del referente non sparisce, ma viene assunta da tutti i beni contro i quali la carta può essere convertita, o in un paniere di essi. Dunque, nulla cambia nella struttura tripartita. Adesso, anziché far riferimento a un singolo bene determinato, la carta-moneta si riferisce a ogni bene presente sul mercato, o è artatamente rapportata a un paniere di beni stabilito ufficialmente.
La moneta deve essere sempre convertibile nel paniere dei beni di riferimento. Se ciò non avvenisse perderebbe il suo potere di acquisto. Infatti, il suo potere di acquisto è misurato dalla quantità di beni che può prendere dal paniere. Siccome la quantità di beni che può acquistare è variabile, il Titolo, che rimane impresso nella sua fissità sulla carta, risulta essere una mera ipotesi su ciò che quella carta-moneta può comprare. Ipotesi che può essere confermata o smentita solo e soltanto nel momento in cui il titolo si estingue, e può essere confermata solo e soltanto in quanto il titolo si estingue, ovvero è finito. Eppure, e qui sta il miracolo, il Titolo deve funzionare come una sostanza, in esso devono poter transitare senza resto tutte le merci possibili. Senza questa surroga della sostanza non ci sarebbe moneta di conto (moneta-segno), e senza moneta segno non ci sarebbe scambio. Se il Titolo, ovvero la carta sulla quale è impressa la promessa di pagamento; se il signans non testimoniasse alcun signatum non ci sarebbe possibilità nemmeno di credere a un eventuale scambio. Allo stesso tempo, il signatum deve essere cancellabile, se il credito/debito non fosse cancellabile, se fosse eterno, come eterno deve essere il signatum, non funzionerebbe come titolo di Credito/Debito, posto che un credito/debito è tale solo e soltanto se ammette la sua fine, la sua estinzione. Nessuno darebbe soldi in prestito se il prestito durasse per sempre – il prestito deve avere una scadenza, un termine, una fine.
Qui emerge la terza complicazione. Questa complicazione si chiama potere di acquisto. Il signatum è valore nominale. Il valore effettivo, quello che per me è effettivamente spendibile, è sempre determinato dal contesto e dal moneto in cui il Titolo si risolve. Il risultato è variabile, e sovrascrive il titolo. In ogni istante sono consapevole del fatto che ciò che il titolo nomina è solo la sostanza, e che questa sostanza che tengo in mano o in tasca può non essere restituita nella misura esatta della promessa. Che dunque la differenza tra il Signans (ciò che è finito e varia) e il signatum (ciò che è infinito e non varia) si assottiglia sin quasi a sparire, e che se la si mantiene, e solo e soltanto perché senza questa finzione, senza questo pizzico di metafisica, gli scambi non potrebbero avere corso.
Il segno deve essere, allo stesso tempo, finito e infinito, sensibile e intelligibile – il che non è possibile se si rimane sul piano di una logica non metafisica.
Nel Capitale Marx si meraviglia di questi capricci metafisici. La sua meraviglia non va confusa con quella di un positivista o di un materialista. Marx è allievo di Hegel. Ritiene che il passo aldilà, verso l’alienazione, è indispensabile. Alienazione significa proprio questa cosa qui.
Se così stanno le cose, e il nome è un surrogato di sostanza, e questa sostanza è una veste del potere di acquisto, non bisogna aspettare l’inflazione per vedere gli scostamenti di cui parla Kelton. Questi scostamenti si producono già nella primissima immissione. Anzi, l’immissione non può dar credito senza installarsi in questa struttura differenziale, in cui il valore nominale è la promessa di un potere di acquisto. Ma a questo punto la differenza in cui si installa la MMT perde la sua consistenza. Promette più di quello che le è possibile, si impegna su un titolo nominale fidando in un potere neutro – ovvero in un non-potere.