Durante la seconda guerra mondiale le più importanti città Germaniche (131 città) furono colpite dal cosiddetto area bombing, un piano di bombardamenti indiscriminati pianificato dalla Royal Air Force sin dal 1940, e messo in atto nel 1942. La strategia dell’area bombing non rispondeva solo alla marginalità assunta nel conflitto dalla Gran Bretagna dopo il 1941, ma anche alla mancanza di alternative credibili.
Nello stesso periodo in cui si progettava l’area bombing, venivano messi a punto piani e progetti davvero fantasmagorici: il piano di tempestare con pioli di ferro i campi arati per impedire il raccolto; il progetto HabBakuk, di uno studioso di glaciologia – Max Perutz –, con il quale si mirava a produrre una gigantesca e inaffondabile portaerei in picrete – una sorta di ghiaccio artificiale potenziato; il piano di una rete difensiva di raggi invisibili; eccetera.
Di fronte a questi progetti, il piano di bombardamento a tappeto delle principali città, appariva, e in effetti era, molto più credibile.
Nel 1942 il governo di sua maestà diede la sua benedizione al piano, considerandolo capace di “Distruggere il morale della popolazione civile nemica e, in particolare, dei lavoratori dell’industria”.
Il piano causò una grandissima distruzione. Alcune città furono colpite dagli attacchi aerei una o due volte. Altre città – Amburgo, Dresda, Colonia – furono completamente rase al suolo. Come causa diretta dei bombardamenti vi furono 600 mila vittime; tre milioni e mezzo di abitazioni distrutte, e 7 milioni e mezzo di senza tetto.
Cosa ha significato questa immensa distruzione per i Germanesi? chiede Winfried Georg Sebald [Luftkrieg und Literatur, 2001; it. Storia naturale della distruzione].
Non lo sappiamo, risponde Sebald.
Non lo sappiamo perché quell’annientamento entrò negli annali della nuova nazione che si costruì a partire dal 1947 soltanto sotto forma di vaghe generalizzazioni. Un annientamento, dice Sebald, che sembra non aver quasi lasciato postumi dolorosi nella Coscienza Collettiva; un’operazione di annientamento, continua Sebald, che è rimasta in larga parte esclusa dalla consapevolezza di sé elaborata a posteriori dalle vittime, che non ha mai svolto un ruolo rilevante nelle discussioni relative allo stato d’animo profondo della Germania e che non ha mai assunto i connotati di esperienza-simbolo nell’Immaginario Collettivo.
Durante la ricostruzione, i Germanesi, dice Sebald, rimossero, insieme alle macerie, anche il ricordo della distruzione.
La ricostruzione, orientando la popolazione verso il futuro, la costrinse a tacere su quanto aveva vissuto. Il deficit di testimonianze coeve non fu colmato nemmeno dopo il 1947. In virtù di una tacita intesa, dice Sebald, lo stato di annichilimento materiale e morale in cui versava l’intera Germania non doveva essere descritto.
L’atto conclusivo della distruzione restò così, nei suoi aspetti più foschi, un infamante segreto di famiglia su cui gravava una sorta di tabù, un segreto che probabilmente non si poteva confessare nemmeno e se stessi.
In ogni caso, aggiunge Sebald, la quasi totale assenza di turbe davvero profonde nella Vita Psichica della Germania induce a concludere che la nuova società della Repubblica Federale Tedesca ha consegnato le esperienze compiute agli albori delle sua storia a un meccanismo di rimozione perfettamente funzionante che la porta a espungere tale evento dal suo bilancio emotivo permettendole di interpretare come un’altra pagina gloriosa tutto ciò che è riuscita a superare con successo e senza dar segno della minima debolezza interiore.
In fin dei conti, dice Sebald, nelle premesse del miracolo economico tedesco ci sono senz’altro gli aspetti positivi di mobilitazione dell’economia di guerra nazista, ma c’è anche la perdita della zavorra storica andata in fiamme tra il 1942 e il 1945 a Norimberga, Colonia, Francoforte, Aquisgrana, Braunschweig, Wurzburg, Amburgo. Se ad alimentare il miracolo economico Germanico hanno contribuito i fattori economici noti e identificabili, a fungere da catalizzatore, dice Sebald, fu la corrente di energia psichica, a tutt’oggi ancora inesausta, che ha la sua fonte nel segreto – di cui nessuno fa parola – dei cadaveri murati nelle fondamenta dell’edificio statale della nuova Germania. Un segreto che compattò la Germania, più di quanto non sia mai riuscito a fare un fine positivo. Questi nessi, dice Sebald, assumono un valore particolare proprio oggi, quando la Germania si appresta a ricalcare per estensione i confini del territorio occupato dalla Wehrmacht nel 1941.
Cosa fermenta nel sottosuolo della Germania? E perché ciò che è stato seppellito deve essere occultato? E cosa è stato occultato nel sottosuolo – nell’inconscio politico – della Germania?
Innanzitutto, – dice Sebald – la distruzione di Amburgo, il rogo che portò alla morte, nel giro di poche ore, un’intera città, con tutti i suoi edifici e tutti i suoi alberi, con i suoi abitanti, gli animali domestici, le attrezzature e gli impianti di ogni genere.
 

 

Nel 1943, nel pieno di un’estate lunga e torrida, la Royal Air Force, appoggiata dall’ottava flotta aerea americana, effettuò una serie di incursioni su Amburgo. Il fine dell’«Operazione Gomorra», questa la sua denominazione in codice, era – sin dove possibile – quella di annientare e ridurre completamente in cenere la città. Durante l’attacco del 28 luglio, che iniziò all’una di notte, furono sganciate diecimila tonnellate di bombe dirompenti e incendiarie sulla zona residenziale a est dell’Elba, sui quartieri di Hammerbrook, Hamm-Nord e Hamm-Sud, Billwerder Ausschlag, Sankt Georg, Elibek, Barmbek, Wandsbek. Nel giro di pochi minuti, sui circa venti chilometri quadrati dell’area attaccata, scoppiarono ovunque giganteschi incendi e si propagarono così rapidamente che, già un quarto dopo al caduta delle prime bombe, l’intero spazio aereo divenne – a perdita d’occhio – un unico mare di fiamme. E in capo ad altri cinque minuti, all’una e venti, si scatenò una tempesta di fuoco così intensa che nessuno mai, fino a quel giorno, l’avrebbe creduta possibile. Il fuoco, levandosi nel cielo in vampe alte duemila metri, attirava a sé l’ossigeno con una violenza tale che le correnti d’aria raggiunsero la forza di uragani e rintronarono come poderosi organi nei quali fossero stati tirati all’unisono tutti i registri. L’incendio continuò così per tre ore. Giunta al culmine, la tempesta prese a sollevare i cornicioni e i tetti delle case, fece mulinare nell’aria travi e intere file di pannelli pubblicitari, sradicò alberi e trascinò con sé esseri umani trasformati in fiaccole viventi. Dietro le facciate che crollavano, lingue di fuoco alte come palazzi salivano al cielo: simili a una mareggiata, si riversavano nelle strade a una velocità di oltre centocinquanta chilometri all’ora, come rulli di fuoco rotolavano con ritmo anomalo su piazze e luoghi aperti. In alcuni canali ardeva anche l’acqua. Nelle carrozze dei tram si scioglievano i finestrini mentre nelle cantine delle pasticcerie le provviste di zucchero entravano in ebollizione. Chi era scappato dai rifugi cadeva adesso, in grotteschi contorcimenti, sull’asfalto liquefatto che si gonfiava in grosse bolle. Nessuno sa con certezza quanti abbiano perso la vita quella notte o quanti siano impazziti prima di essere colti dalla morte. Al sopraggiungere dell’alba, la luce estiva non riuscì a fendere la cappa di piombo che sovrastava la città. Il fumo aveva raggiunto gli ottomila metri di altezza e lassù si era allargato in un gigantesco ammasso nuvoloso e cumuliforme, simile a un’incudine. Vampe di calore, che i piloti dei bombardieri raccontano di avere avvertito attraverso i loro apparecchi, continuarono a levarsi per un pezzo dagli ammassi di pietre che ancora ardevano fumanti. Quartieri residenziali con un fronte su strada di ben duecento chilometri complessivi furono distrutti senza remissione. Ovunque corpi orribilmente dilaniati. Su alcuni guizzavano ancora le fiammelle azzurrognole del fosforo; altri bruciando avevano assunto un colore bruno o purpureo e si erano ridotti a un terzo della loro grandezza naturale. Giacevano contorti nelle pozze del loro grasso in parte solidificato. Quando in agosto – raffreddatesi le macerie – le brigate costituite da soldati in punizione poterono cominciare lo sgombero insieme ai prigionieri del lager, all’interno di quel perimento di morte, dichiarato fin dai primi giorni zona interdetta, vennero trovate persone che, stordite e uccise dal monossido di carbonio, erano ancora sedute al tavolo o con la schiena contro la parete. Ma si rinvennero anche ammassi di carne e di ossa o intere montagne di corpi, lessati nell’acqua bollente che era schizzata fuori dalle caldaie esplose; altri, ancora, furono scoperti ormai carbonizzati e ridotti in cenere a causa del calore che aveva superato i mille gradi, sicché per rimuovere i resti di intere famiglie bastava adesso un semplice cesto della biancheria.

…dentro il perimetro della morte riuscivano ad aprirsi una via per raggiungere i cadaveri, ammucchiati nei rifugi antiaereo, solamente con il lanciafiamme, tanto fitto era il nugolo di mosche che ronzava loro attorno, mentre i gradini e i pavimenti delle cantine brulicavano di vermi viscidi e lunghi come dita. Ratti e mosche avevano preso possesso della città. Pingui e insolenti, i ratti scorrazzavano per le strade. Ma ancora più disgustose erano el mosche. Grosse, di un verde iridescente, come mai si erano viste. A grumi si voltolavano sul selciato, si posavano sulle rovine per accoppiarsi e si scaldavano, pigre e satolle, sui vetri in frantumi delle finestre. Quando ormai non riuscivano più a levarsi in volo, strisciavano dietro di noi attraverso le minime crepe, imbrattando ogni cosa.

 

 

Rispetto al disastro materiale e morale causato dall’area bombing, dice Sebald, possiamo parlare solo di una continua strategia di evitamento e di costanti inibizioni.
Salvo rare eccezioni, nessuno ha avuto la forza di ricapitolare le esperienze traumatiche, e ciò per motivi che dipendono in parte dalla natura dell’evento e in parte dalla Struttura Psicosociale delle loro personalità.
In ogni caso, dice Sebald, non è facile confutare la tesi secondo cui, noi Germanesi, siamo stati finora incapaci di far emergere gli orrori della guerra aerea nella Coscienza Collettiva attraverso raffigurazioni storiche o letterarie. Sembra proprio che in quegli anni nessuno fra gli scrittori Germanesi volesse o sapesse mettere per iscritto qualcosa di concreto sul decorso e le conseguenze di quella lunghissima campagna di annientamento. E la realtà non cambiò nemmeno a guerra finita. La corporazione degli storici Germanesi, dice Sebald, (notoriamente una delle più produttive) non ha, sino ad oggi, elaborato alcuno studio globale o anche solo di base su questo tema. Unica eccezione di un certo rilievo letterario è il libro di Heinrich Böll, L’angelo tacque. Tuttavia, questo libro, dice Sebald, improntato a una malinconia insanabile, non lo si poteva certo imporre ai lettori contemporanei, e di questo lo stesso editore e forse perfino Böll erano consapevoli, tant’è vero che il libro fu pubblicato solo nel 1992, con quasi cinquantanni di ritardo.
Questa data non è casuale. Nel 1992 la Germania si apprestava a ricalcare per estensione i confini del territorio occupato dalla Wehrmacht nel 1941.
La storia venne azzerata, e si ripartì dal 41.
La macchia venne cancellata – dice Sebald. E la Germania poté tornare in campo in grande stile a dire la sua.
Il mutismo era finito.
Quali sono state le ragioni del prolungato mutismo?
Sebald fornisce una doppia spiegazione, soggetta alle necessità del doppio vincolo.
La Germania – Sebald parla sempre di Germania, della nazione germanica, di memoria collettiva, di coscienza collettiva, di memoria nazionale, eccetera, senza fornire una spiegazione minima di cosa intenda (siamo nel 2001) con Germania. Anche quando si riferisce agli anni tra la fine del conflitto mondiale e la fine della guerra fredda, quando di Stati Germanici ce n’erano almeno due – se si escludono, per esempio, l’Austria e il Südtirol (ma l’Austria e il Südtirol erano – sono – nazioni germaniche? E il Südtirol è uno Stato, oppure è una nazione delocalizzata? – tenendo conto del fatto che ha un’ampia autonomia dallo Stato italiano, autonomia para-statale garantita dai Trattati di Parigi del 1947.); anche quando si riferisce agli anni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale, quando di Germania non ce n’era più nessuna, Sebald parla di Germania; anche quando accenna alla nazione Germanica e alla letteratura Germanica, non si capisce a cosa si riferisca, tenuto conto del fatto che la guerra ha avuto anche un momento importante che ha riguardato appunto la definizione, non proprio teorica, di ciò che deve essere considerato germanico innanzitutto – e i roghi di libri, le espulsioni dalle università di professori non propriamente Germanesi, gli esili più o meno volontari, eccetera, hanno spinto la ricerca, intorno e a proposito della Germanesità, sin nel corpo stesso della letteratura e della teoria.
Non si tratta di considerazioni secondarie. A maggior ragione dopo il 1992, quando la storia è sembrata voler arretrare al 1941, e quando la lunga mano Germanese ha iniziato ad allungarsi e ad afferrare l’afferrabile, dentro lo Stato, e fuori dallo Stato germanico.
Eppure, nonostante tutte le riserve avanzate, siamo qui ancora a parlare di Germania, come se, per tacito accordo, sapessimo di cosa stiamo parlando.
Questo tacere, questo silenzio a proposito della Germania, della nazione e dello Stato intorno al quale qui ci si interroga e che si evoca come se fosse del tutto evidente cosa sia e dove sia, che si evoca in maniera diretta, come se si trattasse di indicare una semplice presenza, che si evoca appunto per metterlo in discussione, non immette, questo stesso interrogare, in un circolo? E questo circolo non va tematizzato? Visto e considerato che non si tratta, in questo caso, nel caso della Germania, soltanto di un mero vizio del ragionamento, di un cosiddetto circolo vizioso. Perché nel caso della Germania la domanda è pressante, non solo per la storia del Novecento, ma per i tentativi attuali di allungare le mani su fette consistenti dell’Europa continentale.
Sebald dice che è stato possibile ricostruire la Germania seppellendo il ricordo degli anni compresi tra il 1942 e il 1947.
La Germania, la nazione Germanica, la letteratura Germanica, hanno potuto riprendere a parlare a partire da un silenzio, a partire da un’altra Germania rimossa, seppellita, tumulata.
In un primo momento, dice Sebald, si decise di andare avanti come se non fosse accaduto nulla. Ma solo perché si era in preda al panico. Chi era stato colpito decise di andare avanti volgendo lo sguardo dall’altra parte, con un atteggiamento che appare senza dubbio come una mancanza di sensibilità morale al limite del disumano. A marciare era un convoglio di sopravvissuti, per la maggior parte ancora completamente sotto shock, incapaci di raccontare alcunché, ammutoliti o in preda a singhiozzi e a grida disperate, in preda ad una paralisi della capacità razionale ed emotiva. Numerosi tra i profughi erano caduti in uno stato di demenza.
Sig Dagerman, inviato di un giornale svedese, nel 1946 visitò Amburgo. Percorse le aree distrutte a bordo di un treno sovraffollato, nessuno guardava fuori dal finestrino, e poiché invece lui lo faceva, tutti capivano che era straniero.
Questo mutismo, dice Sebald, questo ripiegarsi su se stessi e distogliere lo sguardo, sono il motivo per cui sappiamo così poco di ciò che i Germanesi hanno pensato e veduto nei cinque anni tra il 1942 e il 1947. Un mutismo, dice Sebald, che arrivò sino al disgusto di esistere.
Eppure, per un repentino capovolgimento – un capovolgimento che non risponde ad alcuna logica, che però non ha dell’irrazionale, e che, al contrario, permette proprio di edificare una razionalità e una identità ricevibili – questo mutismo, per un capovolgimento tanto improvviso quanto inspiegabile, si trasforma nel suo contrario. Se una Germania (non si contano più i se in questa storia – e neppure le Germanie) ha potuto, non dico esistere, ma perlomeno fungere da referente reale o immaginario per la ricostruzione di una identità nazionale, di un immaginario collettivo, e di una giurisdizione territoriale; se qualcosa ha potuto esistere è proprio a partire da un disgusto di esistere; se una parola – letteraria o meno – ha potuto essere pronuncia è a partire da un silenzio, da un mutismo durato fino al 1992.
Questa è una prima tesi sostenuta da Sebald.
La Germania è stata edificata grazie all’occultamento di un’altra Germania.
Questo occultamento, che non è mai terminato – nemmeno in queste pagine di Sebald – ha inizio subito, e ha diverse facce.
Innanzitutto, la faccia dello Stato nazista. Ogni volta che bisognava esorcizzare la gravità dell’ora, il regime mobilitava grandi orchestre che suonavano l’Aida, diffusa via radio. Poi c’era la censura della stampa, volta a impedire qualsiasi informazione dettagliata della distruzione.
La musica non cambiò nemmeno quando allo Stato nazista si alternarono le istituzioni create dagli Alleati. La reazione fu quasi naturale, dettata da un senso di sfida nei confronti dei vincitori, tacere e volgere lo sguardo da un’altra parte era un modo per negare la sconfitta, accettare la nuova Germania che si stava costruendo (compresi gli aiuti del piano Marshall), e andare avanti.
Anche qui ci sono più di una Germania. C’è una Germania che si affaccia sulla scena, mentre un’altra Germania viene scongiurata, nascosta, segregata, seppellita. E le due Germanie – qui sta il doppio vincolo – si reclamano a vicenda, una scaccia l’altra, e non c’è possibilità dell’una senza la possibilità dell’altra, non c’è presenza dell’una senza la presenza differita dell’altra – senza la delocalizzazione dell’altra, non c’è vita dell’una senza morte dell’altra, non c’è vita senza morte nel cuore.
Il seppellimento di una Germania, dice Sebald, ha alimentato il miracolo economico di un’altra Germania, fornì la corrente di energia psichica, a tutt’oggi ancora inesausta, che ha la sua fonte nel segreto – di cui nessuno fa parola – dei cadaveri murati nelle fondamenta dell’edificio statale della nuova Germania.
Nel 2001 Sebald invita ad abbandonare il mutismo, invita a riesumare il passato, proprio quel passato che, in quanto è censurato, è seppellito, è murato, è muto, permette di parlare.
E non è ormai più giustificabile che i Germanesi siano rimasti muti così a lungo 1) per compiacere i vincitori; 2) perché, siccome si erano dati come obiettivo ripulire e igienizzare al completo l’Europa, dovevano far fronte adesso all’angoscia montante di essersi trasformati, proprio loro, nel popolo dei ratti; 3) perché un popolo che aveva assassinato e torturato a morte milioni di esseri umani nei suoi lager, non poteva certo chiedere conto, alle potenze vincitrici, della logica politico-militare che aveva imposto la distruzione delle città Germanesi; 4) perché non pochi fra i destinatari degli attacchi aerei, pur nell’assoluta impotenza della loro ira repressa al cospetto di quella manifesta follia, vedessero nei giganteschi incendi una giusta punizione, quando non addirittura la ritorsione di un’istanza superiore con la quale non era ammesso discutere.
Sebald, per le ragioni appena esposte, tutte riprovevoli, invita ad abbandonare il mutismo, anche se poi, con un contro-movimento, deve, dapprima timidamente, riconoscere che rimanere in silenzio è un diritto.
Il diritto di tacere che la maggior parte di quelle persone rivendicò per sé, dice Sebald, è altrettanto inviolabile quanto quello dei sopravvissuti di Hiroshima. Ancora a venti anni di distanza, molti dei sopravvissuti alla bomba atomica non riuscivano a parlare di quanto era accaduto.
Sebald arriva anche a dire, contraddicendosi completamente – ma qui la logica deve essere messa da parte; dove essa vede contraddizioni, dunque limiti e strozzature, bisogna invece imparare a vedere possibilità e aperture – arriva a sostenere che bisogna tirare dritto, che chi è sopravvissuto deve andare avanti volgendo lo sguardo dall’altra parte, per evitare un atteggiamento voyeuristico che sembrerebbe senza dubbio come una mancanza di sensibilità morale al limite del disumano. Bisognerebbe, davanti al disastro, voltare lo sguardo da un’altra parte. Di fronte al dolore e al trauma, bisognerebbe azzittirsi e non guardare, rimanere in silenzio – per rispetto.
E poi, aggiunge Sebald, il fatto è che non è proprio possibile scandagliare l’epicentro del trauma – perché forse non c’è alcun epicentro; oppure perché la catastrofe che azzittisce e che allo stesso tempo rimette in moto il linguaggio non è accessibile, e non è accessibile non perché sia situata fuori del linguaggio, o sia nascosta in un posto segreto. Non c’è alcun segreto o posto segreto. Hiroshima non è un segreto per nessuno, tanto meno per i sopravvissuti. È lì, alla luce del sole, eppure non è accessibile.
Questa inaccessibilità non ha nulla a che vedere con la vergogna – la vergogna di essere sopravvissuti, o di essere diventati il popolo dei ratti. E non ha nulla a che vedere nemmeno con una certa astuzia politica che suggerisce, davanti ai vincitori, di minimizzare o tacere dell’accaduto.
Prendere a oggetto delle proprie ricerche le scene di orrore che accompagnarono la fine della Germania ha ancora oggi qualcosa di illegittimo – dice Sebald.
Se non è una legge positiva che impedisce l’accesso al trauma, di che legge si tratta?
Molte delle testimonianza raccolte, dice Sebald, dimostrano come gli individui e i gruppi continuino a essere incapaci, anche nel pieno della catastrofe, di valutare il grado reale della minaccia e di deviare dai comportamenti prescritti dai ruoli sociali.
L’incursione aerea su Halberstadt, racconta Sebald, prende avvio nel momento in cui il programma del cinema Capitol – programma che da anni non aveva mai subito cambiamenti e secondo il quale quell’8 aprile sarebbe stato proiettato Ritorno a casa con Paula Wessely e Attila Horbirger – viene interrotto da un programma prioritario, quello della distruzione, e la signora Schrader, che da una vita lavora al Capitol, si industria a sgomberare le macerie per lo spettacolo delle due del pomeriggio. E ciò non tanto per una reazione meccanica, come sembra suggerire in un primo tempo Sebald – la routine sarebbe continuata anche a cervello spento. Ma perché – dice Sebald – nel moto accelerato della catastrofe il tempo normale e la metabolizzazione del tempo non corrono alla stessa velocità: due tempi avanzano allo stesso tempo. Non è che le cose accadono all’improvviso, e ci vuole tempo perché vengano assimilate, come suggerisce Sebald quando dice che bisogna assumere, rispetto ai fatti, quella distanza indispensabile all’acquisizione di qualsiasi conoscenza. Il fatto è che le catastrofi – e qui Sebald è più convincente – le quali prendono per così dire corpo fra le nostre mani per poi scoppiare all’apparenza impreviste, anticipano invece a guisa di esperimento il punto in cui noi, da quella che per tanto tempo abbiamo creduto la nostra storia di soggetti autonomi, ricadiamo nella storia della natura. La caduta nella natura che la catastrofe annuncia rimane inaccessibile, muta, come la morte stessa, che non accade una volta sola, ma si ripete in ogni momento, in ogni parola, tra una parola e l’altra, come lo spazio muto che, separando le lettere, permette di discerne le une dalle altre, lasciando affiorare un senso. Appena si ri-inizia a parlare, ogni volta di nuovo, cala il silenzio. Che sia per pudore, o per vergogna, o per interesse, o per voyeurismo, o per calcolo, o per amnesia – i motivi sono infiniti, e azionano la manovella che fa ritornare il rimosso, cioè i morti – non importa, ciò che sappiamo, e continuiamo a ripetere, è che sappiamo così poco di ciò che è accaduto tra il 1942 e il 1947 – e non credo che ne sapremo mai di più. Anche se continuare a porsi la domanda è più che un dovere, è un imperativo fisiologico, come un dolore che risveglia – un dolore emicranico.

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