DA CROTONE CON FURORE

50 anni

Egli può perché pensa di potere
Bruce Lee

Nella scelta oculata, per la lettura di un libro, in un periodo in cui riesco a trovare del tempo disponibile dal lavoro salariato, mi sono immerso e lasciato trasportare dal flusso tumultuoso dei pensieri di Pasquale Cicalese: una serie di riflessioni che abbracciano gli avvenimenti economici, politici e sociali dell’Italia, negli ultimi 50 anni, ma che hanno come sfondo le sintesi dialettiche all’interno delle dinamiche globali, che mettono in primo piano il declino degli USA e in generale dei paesi dell’OCSE, l’ascesa della Cina e l’Europa in mezzo al guado.
Il libro presenta una struttura discorsiva innovativa: brevi paragrafi, che richiamano gli scatti di una macchina fotografica ad alta definizione, disposti in ordine cronologico, come se costituissero un “Libro giornale”, i cui dati e i fatti rilevati sono collegati in un ordine sistematico.
L’autore di questa ricerca, con il piglio della penna proletaria, esprime il suo vissuto, partendo dal presupposto che si sente come uno sconfitto che ascolta e raccoglie le voci di altri sconfitti.
Mi viene in mente un collegamento con una canzone dei CCCP, degli anni 80: «Esiste una sconfitta pari al venir corroso, che non ho scelto io ma è dell’epoca in cui vivo».
Cicalese, nello scoperchiare verità scomode, individua il filo conduttore di una crisi che affonda le sue radici nei primi anni 70 del secolo scorso e che ha preso in pieno i compagni di strada della mia generazione.
Sembra che sia la coscienza individuale sia la coscienza collettiva non possano rimanere nel vuoto, la rottura degli equilibri dinamici, all’interno di una formazione sociale, che ha raggiunto il suo apice, impone un cambiamento, il quale non è sempre lineare, progressivo, positivo. Marx ci ricorda che: «Le circostanze fanno l’uomo non meno di quanto l’uomo faccia le circostanze». Il che significa che la modifica dell’ambiente richiede il cambiamento di se stessi, in primo luogo, altrimenti intervengono spinte regressive, come giustamente emerge da questa raccolta di articoli: «Il rapporto lavoro-capitale era arrivato ad uno snodo che imponeva una scelta radicale. Andare avanti e trovare nuovi modi di lavorare e di vivere, dato lo sviluppo della produzione…….. Oppure andare indietro, tornare ai rapporti di fine Ottocento e inizio Novecento, con salari insufficienti, immiserimento delle masse, disoccupazione e povertà». (Pag. 98)
In questa situazione inedita, in questo guazzabuglio, fior d’intellettuali di sinistra hanno ceduto alle tentazioni e lusinghe del capitale, gli stessi protagonisti e fautori dello Stato sociale – qui vedo il movimento operaio che spicca – sono stati colti di sorpresa e quindi avvolti nei tentacoli di una macchina gigantesca, che di fatto è sfuggita di mano agli stessi capitalisti industriali. Sul punto che ho estratto e che ho appena evidenziato, condivido la sintesi di Leo Essen, nella sua presentazione di questo libro, quando riprende la domanda che pone Joan Robinson nel 1971: «A cosa serve l’occupazione?». Per parlare, appunto, della Seconda Crisi della Teoria Economica.
Aggiungerei un aneddoto, per provare a spiegare quali fossero le reazioni dei promotori e sostenitori dello Stato sociale, in quel periodo, quando qualcuno osava mettere in risalto i primi segnali di crisi di quel paradigma. Una delle caratteristiche che contraddistingueva l’Università della Calabria, caratteristica connessa allo sviluppo dello Stato sociale, era che a mensa capitava di mangiare insieme ai docenti. In uno di quegli incontri conviviali, là dove c’era lo spazio per la discussione, Giovanni Mazzetti ci raccontò che nei primi anni 70 scrisse un articolo nel quale rilevava le prime crepe dello Stato sociale, ma la replica di una famosa giornalista del Manifesto, come Rossana Rossanda fu: «Sei troppo serio!». Tanta era la superbia e la supponenza di una parte degli intellettuali di quel periodo, che si illudevano di aver raggiunto conquiste definitive, al punto di credere che si potesse fare a meno di lavorare.
Da questo punto di vista ha ragione Cicalese, quando afferma che la sinistra storica ha smarrito la strada della lotta di classe, ma è anche vero che i lavoratori e le lavoratrici dipendenti continuino a non porsi la domanda del come emanciparsi dalle catene del lavoro salariato o meglio allentare il vincolo di subordinazione, nell’ottica pragmatica di dividere il lavoro necessario.
A distanza di mezzo secolo, quelle crepe si sono trasformate in voragini ed è davvero difficile trovare il bandolo della matassa. Ciò che desta stupore o panico è il fatto che la fase involutiva si stia protraendo per un lungo arco temporale e che nel contempo il quadro reazionario si complichi o fortifichi sempre di più. Gli artefici della Restaurazione del 1815 si cullarono nel sogno di riportare la società della vecchia Europa nell’Ancien Régime, ma furono contrastati e sconfitti dalla forza della borghesia, che si alleò con il proletariato in ascesa, in più occasioni, per poi voltargli le spalle.
Nella fase attuale, come si evince in questo libro, la borghesia padronale (finanziaria e criminale) diventa sempre più feroce, in quanto gode dell’appoggio, a mio avviso, del sottoproletariato che s’ingrossa giorno dopo giorno, anno dopo anno, altrimenti non si potrebbe spiegare il successo di una serie televisiva, come Mare fuori. Un esercito di mariuoli, di parassiti, di falsi malati, di commercianti di stupefacenti, di paraculi nei luoghi di lavoro, di inetti che vivono sulle spalle dei genitori pensionati, di venditori di balle, ma soprattutto di coloro che, come scrive Cicalese, seguono i video del «miliardario bolognese Vacchi, il quale sottopone la sua colf a umiliazioni, offese e anche bottigliate, se si rifiuta di ballare su TikTok». (Pag 108)
Del resto la frantumazione, l’atomizzazione, la precarietà e l’individualismo imperante nei rapporti di chi vive di lavoro, fanno si che molti di loro scivolino nel sottoproletariato, piuttosto che accettare la rigida e assurda disciplina del WorkFare.
Qualcuno potrebbe pensare che la fine del “Salario sociale di classe” lasci il puzzle sociale invariato. Niente affatto! Sembra proprio che al peggio non ci sia fine!
Lo svuotamento del Welfare, mediante le pippe decennali delle politiche di Workfare, nei variegati tentativi di creare “nuovo lavoro o nuovi lavori”, ci ha catapultati o perlomeno stiamo gravitando dentro l’area del Warkfare. La guerra ai salariati è diventata sempre più perfida, per sostenere le sporche e dannate guerre che ci circondano. Recentemente, l’Europarlamento ha approvato la relazione della Commissione europea che prevede uno storno dei fondi del PNRR, dalle politiche sociali al riarmo. Tommaso Di Francesco, una voce critica, spiega che i parlamentari europei hanno autorizzato un prelievo forzoso dai fondi destinati alle Regioni, per sostenere il lavoro, il diritto allo studio, la transizione ecologica, la sanità, ect., dirottandoli per l’aumento delle spese militari, un’operazione illegittima, che non è prevista nemmeno dai Trattati europei. (Il Manifesto, 02-05-2023)
Dunque, su quali basi procedere, in questo difficile contesto in cui ci troviamo?
Io penso che la cultura del proletariato e della classe operaia, anche di una città come Crotone, la cui ex-area industriale, tutt’ora non bonificata e per l’appunto classificata come ad elevato rischio sanitario – l’ultima volta che ci sono passato vicino, quell’atmosfera spettrale che emanava l’ex-sito industriale era impressionante, ma ho visto qualcosa di simile anche nella ricca Mosella (Moselle), in una delle aree più industrializzate d’Europa – non sarà spazzata via, essa riemergerà, quando troveremo la forza di rivitalizzarla. Un po’ come ha fatto Pasquale Cicalese, che da anni guarda ad Oriente e si è aperto alla fabbrica del mondo (la Cina), dove sono locate quelle fabbriche che molti Stati dell’Occidente hanno dismesso, ma che ora rivorrebbero indietro.

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