Quando ancora non ci si vergognava di sputare sulla famiglia e si scriveva senza la paura di essere bollati come «sinistri»; quando si aveva l’impudenza di collegare capitalismo e popolazione – ma non alla Bentham – si scrivevano e si pubblicavano libri come «La morte della famiglia» di David Cooper. Libro arrivato tardi, nel 1971, quando i giochi era fatti. Quando la spinta decostruttiva generata dal picco della piena occupazione del 1962 si era definitivamente smorzata, tanto da far apparire esagerati e fuori luoghi quasi tutti gli slogan di cui il libro è composto.
Sposarsi non va bene – scrive Cooper. Mettere su famiglia non va bene. Il matrimonio è una fabbrica di produzione e riproduzione di proletari. La famiglia è un modulo «che viene ripetuto nelle strutture sociali della fabbrica, dei sindacati, della scuola (sia inferiore che superiore), dell’università, delle società commerciali, della chiesa, dei partiti politici e dell’apparato governativo, delle forze armate, degli ospedali, dei manicomi, e così via» [pagina 10].
La famiglia è una cellula del Sistema, «nella sua funzione di socializzazione primaria del bambino, gli instilla più controlli sociali di quanti evidentemente egli non abbia bisogno per farsi strada nella corsa ad ostacoli disposta dagli agenti extra-familiari dello stato borghese, vuoi la polizia, gli amministratori dell’università, gli psichiatri, gli assistenti sociali o la ‘propria’ famiglia che passivamente ricrea il modello della famiglia dei suoi genitori.» [29]
Cosa sia la polizia, la scuola, gli assistenti sociali e gli impiegati delle poste, pare scontato. Più difficile è avere un’idea dello stato borghese.
Sia come sia, nella famiglia, dice Cooper, «c’è una effettiva disposizione in serie». La famiglia è parte di un sistema di serializzazione che contribuisce alla formazione «di code di persone che lavorano nella struttura istituzionale e che aspettano un autobus che non arriva mai» [64]. Questo autobus conduce alle porte dello spazio ristretto e strutturato della fabbrica, della scuola e della caserma; conduce verso lo spazio infinito dove l’individuo «esplode in una grande eiaculazione galattica che si sparge per tutto l’universo.» [sic! 43]
Nell’attesa, la famiglia lavora alla propria riproduzione, e lavora alla riproduzione del sistema, della scuola, delle poste e della fabbrica.
La famiglia, strutturata come una piccola fabbrica di produzione di lavoratori, «anonimizza, serializza, ordina, cataloga gli individui» al fine di rendili abili a guadagnarsi un pezzo di pane col quale sfamare se stessi e allevare figli abili a produrre plus-prodotto e ad allevare altri figli, in una serie di gestazioni ripetute.
Quello che vuole l’individuo dell’anti-famiglia, «non è masticare la pagnotta, ma consumare il sistema così da riuscire infine ad assaggiare se stessi» [sic!, pagina 65]
Per dissolversi, bisogna fare l’amore, bisogna scopare, bisogna fottere il più possibile, perché «fare l’amore è una cosa buona in se stessa, e quanto più spesso accade, in qualunque modo possibile o immaginabile e il più frequentemente possibile, tanto meglio». [47]
Scopare fa bene. Il desiderio libera: «la cosa più liberante è sempre quella che reca più gioia» [53].
La gioia è lo stato in cui l’individuo si trova prima che «l’indottrinamento della famiglia superi un certo stadio, e prima che inizi l’indottrinamento della scuola primaria». La gioia è uno stato primitivo in cui «ogni bambino è, almeno potenzialmente, un artista, un visionario e un rivoluzionario» [29]
Inutile dire che qui, in questi slogan, la verve romantica raggiunge cime inarrivabili. Viene il dubbio che questo mondo alla rovescia, questo regno edenico senza regole, questo regime di desiderio puro, non sia l’altra faccia della medaglia, non sia il dopolavoro, o il lavoro stesso, non più serializzato, ma personalizzato, customizzato, eccetera. In cui «il letto (e non lo sciopero, il sit-in, la molotov), è la grande arma segreta non sfruttata dalla rivoluzione che dobbiamo fare»[112].
Nel letto si scopa, e scopando si libera il desiderio, scopando si ritorna bambini, si ridiventa artisti, musicisti, poeti e cantanti – e cantare libera.
In questo libretto sulla famiglia, scritto nel 1971, ci sono innumerevoli slogan e ricette per una vita gioconda. Si tratta di slogan entrati nel lessico quotidiano e diventati regole di comportamento. Molte di queste prescrizioni sono diventate dei cliché, come questo, proposto a pagina 45: «Prima di poter amare un individuo appartenente al sesso opposto dobbiamo essere capaci di amare a sufficienza uno del nostro stesso sesso». O la ricetta salva coppia, che prescrive «di inserire nel rapporto centrale a due, altri rapporti più o meno periferici con altre persone, in modo di arricchirlo a tutti i livelli e rafforzare l’intensità» [53]. O la ricetta dell’orgasmo totale, la quale promette veramente di scoprire il bambino che c’è in noi: «l’orgasmo è l’esperienza totale della transessualità. Il fottitore viene fottuto durante il suo fottere. Nel fare l’amore diventiamo non soltanto di due sessi, ma anche di tutte le età e di tutte le generazioni. Diventiamo un felice neonato» [118].
In un’opera come questa non potevano mancare alcuni azzeccatissimi anatemi. Il primo contro i computer – siamo nel 71! [99]. Il secondo contro l’aritmetica, e contro tutti quelli che insegnano le tabelline. «Pisciare in faccia» alle persone che credono «di insegnare ad altra gente che due per due non fa cinque o sei o tre è un atto di violenza poetica» [133].
Non si può chiudere questa carrellata di slogan senza menzionare questa profezia: «Il movimento parte dal fottere per arrivare al mangiare» [97].