Nostalgia della Calabria. Vito Teti: Quello che resta

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L’illuminismo si era assunto il compito di liberare l’uomo dal mito e di emanciparlo alla ragione. Il suo scopo era portare la luce là dove c’erano le tenebre. Le tenebre non erano il risultato dell’ignoranza, ma di un sapere subordinato ad un padrone esterno, estraneo, onnipotente, minaccioso, cattivo. Un padrone che abitava ogni angolo della natura, che poteva risiedere in albero o in un animale, che poteva prodursi in un tuono e far scoppiare un incendio, che poteva manifestarsi in un terremoto o in un alluvione, che poteva punire l’uomo con la siccità, la carestia, la malattia, la sterilità, la sventura, la disgrazia, che poteva, attraverso il malocchio, la fattura, la pozione o il filtro voltare il destino di un individuo dal bene al male, o viceversa. Un sovrano dispettoso e ingordo che andava accontentato con riti, sacrifici, immolazioni, con tutta una serie di pratiche che, nel loro insieme, costituivano una religione. L’illuminismo voleva insegnare all’uomo a credere in se stesso, a non avere paura della natura, a non considerarla abitata da forze occulte, infestata da potenze estranee e invincibili, capici di suscitare eventi soprannaturali ai quali l’uomo non poteva opporre resistenza e ai quali doveva genuflettersi. L’illuminismo voleva insegnare all’uomo che la natura poteva essere dominata, che le forze che da essa si spigionavano sono forze governate da leggi, e che queste leggi sono le stesse della ragione umana, e che, dunque, conoscendo la natura umana interna, si poteva conoscere la natura esterna, che i due piani erano l’uno il riflesso dell’altro, e che conoscendo la ragione umana si poteva tenere al guinzaglio la natura esterna, e infine dominarla ed ottenere da essa la libertà, soprattutto la libertà dalla fede, dalla religione e dal bisogno; che si poteva, a partire dalla logica e dal proprio Io, fornire un nuovo fondamento al mondo. Non passò molto tempo, tuttavia, che si cominciò a dubitare del potere della ragione di ottemperare alle sue promesse. Non solo la fede e il mito non erano stati sconfitti, ma ben presto si scoprì che anche la stessa ragione, alla sua origine, aveva dovuto stringere un patto con il mito, e che, in virtù di questo patto, era costretta a sacrifici, al confronto dei quali, quelli dell’uomo religioso apparivano come peccatucci veniali. La ragione perse la dignità e il rispetto che l’avevano portata a dominare sopra l’uomo e il mondo, e si trovò a dover fare i conti con altri saperi, i quali attingevano la loro forza dalla vecchia sorgente della fede e del mito. In tutto questo rimescolamento ebbe un ruolo di primo piano il romanticismo.
Il lato terrificante della ragione si presentò già durante il Terrore seguito alla rivoluzione francese. Il Marchese de Sade seppe descrivere meglio di chiunque altro quel potere della ragione che lo aveva costretto alla residenza a vita in una cella della Bastiglia. Da allora la sovranità della ragione non poté non essere legata al sadismo: così come il sadismo omologava ogni oggetto di desiderio riducendo a nulla, allo stesso modo la ragione omologava l’individuo riducendolo a fattispecie di una legge universale e astratta, mostrando con ciò il suo vero volto violento e totalitario – irrazionale. Infine si scoprì che la complicità della ragione con il mito aveva un risvolto ancora più oscuro e primitivo. Al contrario di quello che si era creduto, la ragione non aveva preso vita autonomamente, ma era interamente una evoluzione del mito (Dialettica dell’illuminismo).
Esiliato nella natura sotto forma di mana, lo spirito preparava le essenze separate della razionalità moderna. Le divinità olimpiche non erano più direttamente identiche agli elementi, ma li significavano. Gli dèi si erano separati dagli elementi come essenze dei medesimi. Un giorno il rapporto si sarebbe rovesciato e ci si sarebbe appropriati del potere attribuito alla cosa. Non erano le potenze mitiche sovrannaturali, visibili nel feticcio o nell’idolo, ad aver creato l’uomo e a governare il mondo, ma, al contrario, era l’uomo ad aver creato le divinità come specchio in cui il fanciullo doveva riconoscere se stesso. Il giorno che l’Io si insediò nella sua posizione e prese possesso del potere appartenuto alle entità mitiche, si aprirono le cataratte a quell’arcaismo che si sfogò nelle peggiori barbarie. Rimesso in piedi, elevato all’altezza di Dio, l’Io, con i suoi orrori, con gli operai alle catene di montaggio, ridotti a matricole, i sensi tarpati, con i campi di lavoro e di concentramento, i gulag, le bombe atomiche, le guerre aeree, i missili teleguidati sui civili, la tortura, i gas tossici, gli allevamenti intensivi, l’alfabetizzazione coatta, la medicalizzazione intensiva, le deforestazioni, la plasticaficazione degli oceani, la desertificazione, la nutrizione forzata, eccetera; l’Io granitico della scienza e della tecnica moderne svelò il suo volto mitico. Ma a ciò, nel frattempo, avevano provveduto Nietzsche e Freud. La ragione illuminata doveva rinunciare al suo privilegio e al suo dominio, non poteva più porsi come criterio assoluto e discriminante, perché cominciava a chiarirsi come l’unità del suo senso e delle sue leggi erano nient’altro che un sintomo di forze oscure, inconsce, che agivano in modo per niente razionale o legale. Agli occhi di Nietzsche e di Freud l’Io, con tutta la sua legalità e le sue catene causali, la cosa in sé, il mondo oggettivo e il suo corrispettivo soggettivo e tutti gli altri arnesi delle scienze positive, appariva come una finzione necessaria, ma pur sempre finzione, e come tale destituibile di ogni universalità e intemporalità. La verità della ragione si presentava come una interpretazione tra le altre, ovvero come una forzatura, e la forza stessa non appariva come un punto fisso su uno sfondo determinato, ma come un gioco di differenze e di quantità, tale che supporre delle unità piene, per esempio degli atomi, era ancora fingere un fermo immagine là dove tutto è instabile e complicato e dove non ci sono unità semplici, ma quanti di energia, unità non semplici, complesse, instabili. La finzione di un Io cosciente che presenzia alla formazione della scienza e dei suoi derivati si era affermata come espediente che aiuta a vivere, a partire da un magma di quanti dinamici, in un rapporto di tensione con tutti gli altri quanti dinamici. L’Io non era quell’essere che presenziava, non era un divenire, ma era un pathos, era il fatto elementarissimo da cui soltanto risulta un divenire e un agire. Allo stesso modo l’inconscio non era la presenza nascosta, virtuale, potenziale che si attualizzava come Io nel lapsus o nel motto di spirito. Anche l’inconscio svaniva come puntualità presente e fissa e assumeva piuttosto i tratti di un campo di forze alla luce del sole, dal quale partivano messaggi a rappresentanti e a delegati, messaggi che partivano da un passato che non era mai stato presente.
Tutto ciò non si manifestò soltanto come uno sconvolgimento nel pensiero o nella teoria, coincise anche con uno sconvolgimento politico ed economico che segnò la fine dell’Europa come centro del mondo.
Solo in questo contesto, e non prima, poteva apparire l’etnologia.
L’illuminismo era stato molto severo con la superstizione, con la magia, con la stregoneria, con l’ossessione per i morti, i fantasmi e i revenant, gli spiriti, i mostri, gli idoli, i feticci, l’astrologia, l’alchimia, le credenze del popolino nelle virtù miracolose di pozioni, di unguenti, di creme balsamiche a base di farina di ossa o di oli di midollo di santi, di mestruo di vergini assunto come coadiuvante della fertilità, eccetera. L’illuminismo era stato severo con il passato in generale, che considerava come un suo stadio primitivo, e dunque imperfetto. Era stato severo con l’uomo comune, il quale, anziché usare la ragione, si faceva gabbare dall’indovino, dal cerusico, dal barbiere, dal maniscalco, dallo speziale, dall’alchimista, dal cartomante, dall’astrologo, dal prete, dal ciarlatano. Ma poi, non più saldo sulle sue gambe, l’illuminismo non poté riaffermare la sua superiorità su questi altri saperi. Fu così che si diede la stura ad ogni forma di conoscenza, purché essa avesse una struttura minimamente logica o comunque riconoscibile e comunicabile, espressa nella forma del giudizio ipotetico (Se A allora B) o assertivo (A è B), eccetera.
Questa apertura consentì all’etnologia di studiare le società e le culture diverse da quella tecno-scientifica, senza che l’etnologo venisse considerato un ciarlatano. Non si trattava più di rapportare queste culture alla tecno-scienza e ai suoi metodi, per determinare una scala di gradazioni evolutive, ma di mostrare come queste società avessero elaborato sistemi, talvolta molto complessi, per rapportarsi al mondo, alla natura, al cosmo, alla malattia, alla vita collettiva, eccetera.
Fu così che anche il Meridione d’Italia, con le sue superstizioni, i suoi arcaismi, con il suo culto dei morti, con il suo cristianesimo prossimo all’idolatria, eccetera, si aprì agli occhi della scienza delle università del Nord.
 
II
 
Incoraggiati e rassicurati dalla scienza arrivarono anche i turisti, smaniosi di assistere e magari partecipare a riti, a canti, a balli, a epifanie, ad apparizioni, a estasi, a tumulazioni, a disseppellimenti, per poi essere accettati alla stessa mensa e tracannare intrugli e pozioni, o strusciarsi e farsi rapire dagli stanziali e partecipare alla vita vera e diventare protagonisti anche di un sabba, per poi tornare a casa, sazi di una esperienza culturale tutt’altro che libresca.
Il rischio cui va incontro l’etnologo è di trasformare i saperi e i luoghi del Sud in oggetti culturali.
Ciò che bisogna evitare, dice Vito Teti (Quello che resta. L’Italia dei paesi, tra abbandoni e ritorni) è lo sguardo estetizzante, esotico, romantico. Bisogna invece guardare al Sud come a un mondo sommerso di potenzialità diverse. Bisogna avvicinarsi al Sud con molta cautela, perché in agguato ci sono la retorica, le mitizzazioni del passato, le glorificazioni del buon tempo antico. Bisogna evitare qualsiasi rivisitazione neoromantica che suggerisca o invogli una riconquista nostalgica, o considerazioni all’insegna del «come era bello una volta», sorta di idealismo utopistico del passato, tentativo di proiettare nel passato l’ideale che non è vissuto nel presente, o di rimpianto di un buon tempo andato, mitizzato e mai esistito nelle forme di tanti inventori di paradisi perduti. Bisogna evitare che l’avvicinamento al Sud si costruisca sull’opposizione alla modernità, con la speranza di risvegliare un passato leggendario, medievale, oppure un passato remoto ancestrale di incorrotta semplicità. Bisogna evitare comportamenti post-moderni, in cui la tradizione torna come negazione della tradizione o invenzione della tradizione. In cui la tradizione viene tradotta liberamente, interpretata ad uso e consumo dell’interprete, senza alcun ancoraggio al testo e al suolo o al contesto di riferimento. Bisogna evitare di trasformare la fame del Sud in mito dell’abbondanza, l’inferno in paradiso, i rapporti di dipendenza dei ceti popolari in enfatiche ideologie del dono. Infine, dice Teti, bisogna evitare di trasformare il Sud e il Mediterraneo nell’oggetto più scontato del consumo turistico: cibo, sole e mare.
Tutte queste precauzione, le quali rischiano di produrre l’effetto contrario di circoscrivere un Sud intangibile, inconoscibile: isola fantastica nota solo ai proprio abitanti, e forse nemmeno a essi; tutte queste precauzioni sono necessarie per inscrivere i saperi tradizionali del Sud in un contesto scientifico, evitando di trasformarli in oggetti culturali, ovvero in oggetti di consumo. Ma in verità, tutte queste precauzioni sono guidate da una dottrina forte, formulata da Walter Benjamin nelle Tesi sulla filosofia Storia, tesi volte a superare ogni storicismo, ogni idea di progresso, ogni concezione di un tempo vuoto e di un futuro indefinito dove incasellare i fatti del passato. Mentre lo storicismo postula un’immagine «eterna» del passato, il materialista storico, dice Benjamin, vi vede un’esperienza unica con esso (Tesi VXI). Il che non vuol dire che il rapporto al passato è di tipo prospettico, e che ogni persona ha di fronte fatti che interpreta e con i quali costruisce il passato che più gli si attaglia. Non ci sono fatti al di fuori del legame con essi. Non c’è alcun testo da interpretare. Il passato, prima di essere interpretato, deve avvenire. Il procedimento dello storicismo è quello dell’addizione; esso fornisce una massa di fatti per riempire il tempo omogeneo e vuoto (Tesi VXII). Per il materialista il tempo non è un contenitore vuoto, in cui il passato vi si trova situato in una posizione più o meno lontana. Il passato è carico di attualità, che può schizzare nella continuità della storia (Tesi VIX), e ciò perché c’è un’intesa segreta fra le generazioni passate e la nostra. Noi siamo stati attesi sulla terra. A noi, come ad ogni generazione che ci ha preceduto, è stata data in dote una debole forza messianica, su cui il passato ha un diritto (Tesi II).
In ogni caso, dice Teti, bisogna evitare la retorica.
Sulla retorica erano piovute condanne capitali nell’Ottocento e nel Novecento. Si voleva colpire la vuotaggine elevata a sistema. Nelle seconda parte del Novecento le cose migliorarono, e in molte discipline, a partire dal diritto, dalla filosofia, dalla semiotica, dalle tecniche di informazione e comunicazione di massa, eccetera, non si poté più fare a meno di essa. Eppure, tutto ciò non bastò a togliere il senso negativo che la parola si trascinava dietro, quel senso di ostentazione e menzogna, alle quali si contrapponevano i miti della spontaneità. A un centro punto della sua storia si trovò a designare un cancro, cioè il male per eccellenza di tutte le letterature, di tutti i modi di parlare, che si riducono a gusci vuoti, votati all’insignificanza (Garavelli, Manuale di retorica).
Quando si parla di retorica, chiarisce Garavelli, si parla di due cose dipendenti l’una dall’altra, ma ben distinte. L’una è pratica e tecnica comunicativa, e insieme il modo in cui ci si esprime (persuasivo, appropriato, elegante, adorno, eccetera, e, degenerando, falso, ridonante, vuoto, esibizionistico, eccetera). L’altra cosa chiamata retorica è una disciplina e perciò un complesso di dottrine: è la scienza del discorso, l’insieme delle regole che ne descrivono il funzionamento. Come chiarisce bene Paul de Man (Allegorie della lettura), la retorica è sia lo studio dei tropi e delle figure, sia il commento, l’eloquenza o la persuasione.
Quando Teti parla di retorica, quando dice che bisogna evitare la retorica, intende riferirsi proprio a questo secondo significato. Tuttavia, in modo implicito (quest’uso non viene mai tematizzato – perlomeno in Quel che resta), fa un ricorso costante alla retorica.
Senza l’intervento della retorica ciò che egli vorrebbe far parlare resterebbe muto.
Ma cosa vorrebbe far parlare?
Intanto le rovine. Ma si sa, alla lettera, le rovine non parlano. Vorrebbe far parlare i morti, ma anche i morti, alla lettera, non parlano. Infine, vorrebbe far parlare i calabresi, ma anche i calabresi si rifiutano ostinatamente di parlare. E si rifiutano perché l’esperienza del sé, ciò che si presume sia la propria esperienza, ciò che si presume di provare in prima persona, il dolore, la sofferenza, l’angoscia, la melanconia, ma anche il piacere, l’allegria, l’ebrezza, sono esperienze uniche, irripetibili, saldate in un tutto compatto, fissate in un punto che rimane in bilico tra passato e futuro, carico di tensione, che può schizzare nella continuità della storia. L’esplosione rimane sempre un fatto perturbante (Unheimliche direbbe Freud), incomprensibile, e incomprensibile in quanto indecifrabile, ma indecifrabile perché ogni cifra è errata, inadeguata, falsa. Se anche si ammettesse la possibilità di decifrare il cuore del calabrese, se si convenisse sul fatto che in fondo ad esso vi è contenuto un significato attingibile con un procedimento scientifico, rimarrebbe un resto di resistenza passiva, come sa bene il Freud dell’Interpretazione dei sogni: ogni sogno produce insieme al suo significato anche i suoi significanti, per ogni interpretazione ci vorrebbe un nuovo vocabolario, il che significa destabilizzare l’idea stessa di segno e di vocabolario, di grammatica e di logica.
Il rapporto del significato a ciò che lo significa rimane inestricabile, perciò ogni parola che si provi a dirlo apparirà falsa, retorica.
Questa falsità suona dolorosa all’orecchio di chi è rimasto, soprattutto quando ascolta il racconto dell’emigrante, il quale cerca di rivendicare l’appartenenza comune con parole e con un accento che falsificano la sua esperienza, e che, allo stesso tempo, tradiscono, all’orecchio di chi l’ascolta, la sua perdita dell’autenticità e dell’archivio; parole che traducono male o che non traducono per niente, perché non c’è più niente da tradurre, e che, di rimando, falsificano anche le parole, supposte autentiche, di tutti quelli rimasti, i quali, per effetto di questa allocuzione, perderanno la parola, e la perderanno nell’istante in cui conquisteranno il dialetto. Il tentativo di tradurre il proprio sé, di dire chi siamo, cosa siamo diventati, produce quella perturbazione e quel senso di estraneità che si sperimenta quando si riascolta la propria voce registrata.
Chi parla per noi nel registratore? Chi parla come noi e al nostro posto?
A parlare per noi, siamo ancora noi, è la traccia sonora, è l’Io differito, a parlare per noi sono le tracce, sono i ruderi, sono i resti, sono le spoglie. Ma come è possibile che l’inanimato – il morto – parli? E poi, l’inanimato parla per davvero o parla solo per metafora? E ciò che dice è vero o è falso?
 
III
 
Dunque, la Calabria – prima di tutto -, la sua sofferenza più vera e più profonda, la sua rassegnazione al dolore di fronte alla montagna che migra e si spopola, a paesi che spariscono dalle mappe, come Precacore; a paesi che si spengono e che rappresentavano l’anima della Calabria – dice Teti; paesi che potevano essere recuperati a nuove forme di economia e di vita e che invece sono morti ad uno ad uno, in solitudine, o nel chiasso dei media, come Cavallerizzo.
Mentre l’interesse era concentrato sulla riforma agraria e sull’assalto al latifondo che interessava soprattutto la Sila e il Marchesato, molti paesi venivano abbandonati, rischiando l’estinzione, la cancellazione assoluta, la morte definitiva, e non la morte apparente che si manifesta nei ruderi, nei resti, nei sopravvissuti, nei revenantes, negli emigranti, nei nuovi paesi rifondati in Canada o in Argentina; la morte assoluta, che non sopravvive nemmeno nella polvere.
Nel momento in cui ciò che resta si sbriciola e si polverizza, dice Teti, perde la forma e viene meno la possibilità di interpretarlo.
Oggi, dice Teti, con la crisi dei modelli di sviluppo dominanti, la necessità di riconquistare i luoghi sembrerebbe andare in direzione di una possibile composizione dei territori separati e più fragili. Nel periodo della riscoperta e della valorizzazione delle culture locali, dell’affermarsi delle tematiche ambientaliste, della richiesta di turismo culturale e di sviluppo sostenibile, la Calabria, le sue montagne, le sue coste, i suoi boschi, i suoi monumenti, i suoi centri – con tutte le distruzioni perpetrate – potrebbero diventare il luogo in cui affermare, sperimentare, tentare nuovi modelli, anziché praticare e costruire nuove rovine. Perché ciò avvenga, ci sarebbe bisogno di persuasione, ma invece prospera, continua a prosperare la retorica – dice Teti, che subito dopo aggiunge: La Calabria si trova di fronte a un bivio, a una scelta, a una scommessa. Deve decidersi, senza raccontarsi favole, senza inventare leggende.
La Calabria in persona, qui, prende la parola – parla. È chiamata a compiere delle scelte. Ma come è possibile che essa parli, se non è né qui né lì; come è possibile che parli, se non attraverso una figura, un tropo, un locus communis, un τόπος, un luogo, una pietra, una casa, una piazza, un prete, un etnologo, dei quali si impossessa e che usa come feticci, come simboli, come posseduti, come pane e vino consacrati, come oggetti mistici e religiosi, come metafore che, lasciandosi penetrare dal sovrasensibile, divenendo simile al dissimile, e perciò significandolo, si accollano il compito di trasportarlo, di teletrasportarlo e di trasmetterlo.
Nello stesso momento in cui si ammonisce la retorica, il racconto di favole, nello stesso luogo in cui si invoca la persuasione (cioè la retorica), in questo stesso luogo si scongiura la retorica. Siamo al cospetto di una retorica buona e di una retorica cattiva, di una figura positiva e di una figura negativa dei tropi e del luogo: luogo che fa paura e luogo che rasserena, centro che spiazza e centro che appaesa (Freud, Il perturbante) .
In un gesto di accoglienza smisurato che non riesce a frenare, e che, sia chiaro, non può frenare, Teti fa parlare persino i morti, fa parlare le pietre, le case diroccate, i muretti a secco, le voragini, la polvere, i silenzi.
I defunti, scrive Teti, non abbandonano mai del tutto il luogo abitato da vivi: essi hanno una profonda nostalgia della vita, hanno un desiderio di tornare nell’antica casa, tra i loro familiari. I defunti, i morti-antenati, con il loro ritorno, previsto e controllato, come accade nel corso delle feste, partecipano, a pieno titolo, al processo di rifondazione del Mondo.
Anche le pietre parlano. Gli oggetti, dice Teti, sono un feticcio, parlano, ricordano, appartengono alle persone che li hanno posseduti, quasi ne raccontano la vita dopo morti. Una casa è ancora infestata dagli spiriti delle persone trapassate.
 
III
 
Ma che cos’è precisamente un luogo?
Esistono per davvero i luoghi, oppure l’esistenza gli fa difetto?
Il luogo conferisce orientamento – dice Teti – tuttavia è la religione che fonda la possibilità di affermare un luogo e un centro.
Un luogo senza centro, senza una chiesa, un logo geometrico e razionale, un Kolchoz sovietico, ad esempio, incute terrore.
Un luogo senza un centro non è ancora un luogo.
Inoltrarsi in un’area ignota e dare vita a un nuovo insediamento, dice Teti, sono atti precari dall’esisto a dir poco incerto; sono gesti rischiosi che possono porre in pericolo la presenza stessa.
Ernesto de Martino, dice Teti, ha scritto pagine fondamentali sull’ansia, l’angoscia, il senso di smarrimento che colpiva i contadini dell’Italia meridionale quando si allontanavano dallo spazio noto, dal famoso «campanile» del loro paese, inteso come centro spaziale e mentale, a partire dal quale orientarsi e percepirsi nello spazio e nel mondo.
Il centro territoriale, dice Teti, si struttura a partire da un centro percettivo, dall’io che misura e organizza lo spazio, ridefinendolo costantemente, e così ridefinendo se stesso. Gli spostamenti in territori lontani, ignoti o poco frequentati erano possibili attraverso una continua ripetizione, mitica e rituale, del centro.
Nelle società tradizionali, dice Teti, nascere significa nascere in un luogo, essere e sentirsi consegnati ad uno spazio ben definito e riconoscibile, a una residenza, a un centro. Il luogo di nascita è costitutivo della personalità, della mentalità, dell’identità dell’individuo, che si sente depositario di vicende che lo hanno preceduto. Anche dopo la morte continuerà ad essere presente nel luogo in cui è vissuto.
Il centro, continua Teti, rifonda e ricrea il mondo, lo spazio, ma anche il tempo. Si comprende allora in che senso è possibile affermare una sorta di «sentimento del luogo». Le persone di uno stesso luogo sono e si sentono accomunate da gesti, riti, storie, sensazioni, percezioni, emozioni, memorie, feste, divinità, antenati ad esso strettamente legati.
L’uomo delle società euro-asiatiche e mediterranee, dice Teti, aspira a vivere sempre al centro del mondo; in ogni sua attività, in ogni sua costruzione, appare sempre impegnato in una ricerca di centro, di un luogo sacro.
Il vero Mondo è sempre al centro.
Nelle grandi civiltà orientali (Mesopotamia, Egitto, India, Cina), dice Teti, il Tempio non è solamente un’imago mundi, ma è nello stesso tempo la riproduzione terrestre di un mondo trascendente. Il cristianesimo e l’ebraismo hanno ereditato questa concezione del Tempio come copia di un archetipo celeste. Per gli ebrei, un paese intero e una città sono luoghi sacri per eccellenza, che risantificano continuamente il mondo. Per i cristiani il Santo Sepolcro è il centro, il luogo «unico», più altamente denso di sacralità. Le reliquie hanno rappresentato luoghi di costruzione di un centro, elementi di «sacralizzazione» dello spazio: una sorta di axis mundi. «Hic locus est», ecco il luogo o semplicemente «hic»: è questo il motivo che ricorre in tutte le iscrizioni apposte sui sepolcri dei primi martiri nel Nord Africa.
Il luogo è costitutivo della personalità. E tuttavia, dice Teti, il centro territoriale si struttura a partire da un centro percettivo, dall’io che misura e organizza lo spazio, ridefinendolo costantemente, e così ridefinendo se stesso. E nonostante ciò, dice Teti, nascere è sempre nascere in un luogo, essere e sentirsi consegnati ad uno «spazio» ben definito e riconoscibile, a una residenza, a un centro. Il luogo di nascita è costitutivo della personalità, della mentalità, dell’identità dell’individuo. Il contadino che si allontana dal centro rischia di perdersi. Rischia di perdere il senno. In gioco c’è il sé, che è un rimando al centro. Ma il centro non è un luogo geografico. Il centro è prima di tutto un sito religioso. E la religione è il Tempio, ma il Tempio non è un luogo fisico, è un corpo mistico, imago mundi, la riproduzione terrestre di un mondo trascendente.
Non si riesce a seguire il filo complicato di questo discorso di Teti perché qui si aggrovigliano sensibile e sovrasensibile, empirico e trascendentale, e tutto si raddoppia o si sdoppia. Il centro – il Tempio – è, a un tempo, 1) luogo empirico e 2) imago mundi, immagine – simbolo – di un luogo trascendente. È insieme luogo sensibile e luogo sovrasensibile. Il groviglio diventa ancora più intricato quando ci si interroga sulle possibilità di pensare il sovrasensibile. Un Io empirico vede di volta in volta questo o quest’altro sito. Non vede mai il centro. Fintanto che rimane confinato nella sua finitezza il centro sarà un punto che dovrà necessariamente sfuggirgli.
Il centro non è un punto sensibile. È un punto sovrasensibile. Non è percepibile con i sensi. Solo un segnaposto, una pietra, una casa, una dimora, un tempio, una piazza, una statua, un idolo, un feticcio – la serie è aperta – può supplire la sua assenza, diventare un simbolo, indicare, significare, parlare, dire il centro, ma dirlo in sua assenza. I ruderi, le pietre, i resti, le spoglie, i castelli che Teti fa parlare sono simboli o feticci che fanno segno a qualcosa che non è mai stato presente, e che si rifiuta alla presenza. Teti può parlare con i custodi, può chiedere di entrare nel castello per vedere con i propri occhi il centro, ma dovrà attendere e attendere sulla soglia il permesso. Nell’attesa potrà scrive mille storie su quel centro che gli si nega, e potrà scrivere, solo fintanto che esso gli si negherà, potrà interrogare le mura, far parlare i merli, e persino la polvere, potrà far parlare il silenzio, far parlare i morti, potrà chiedere e chiedere, e supplicare di entrare, e intanto rimanere con quel vuoto che lo divora, come K davanti al castello. Tutto ciò con cui può aspirare di parlare è un simbolo, un vitello d’oro, un’immagine acheropita, una pietra sulla quale costruire la sua chiesa, la sua casa, la sua storia. Tutto ciò a cui può aspirare è un supplemento di centro, un supplente. Tutto ciò che può metterlo in contatto con il centro – la metafora – sarà anche tutto ciò che lo terrà per sempre lontano da esso. Di più, il desiderio di un centro, anticipandone la venuta e regalando al mondo un punto fisso nelle pietre di una chiesa, di una piazza, di un campanile, di una casa, di un significante, eccetera, ma sempre nelle vesti di un supplemento di centro, è anche ciò che ne impedisce l’arrivo effettivo. Ciò che ne permette la venuta è anche ciò che la impedisce. Ciò che permette il bene è anche ciò che apre al male. Per questo motivo Teti fa un uso maldestro della retorica.
Il centro avrà sempre questa doppia valenza (bene e male, insieme). Sarà ciò che lega e ciò che slega. Sarà ciò a partire da cui si potrà emigrate, e ciò a partire da cui si potrà ritornare. Ma il centro, che fonda l’identità, che struttura la personalità, che lega ad un luogo, eccetera, non si presenta mai veramente, ma solo metaforicamente, attraverso i suoi rappresentanti, i sui legati, i suoi delegati, i suoi supplenti. Se il centro diventasse esso stesso effettivamente e pienamente il supplente, si annullerebbe il centro. Se si perdesse la differenza che lo sdoppia nel supplemento, con il supplente sparirebbe anche il centro. Il supplente svolge le funzione di colui del quale fa le veci, si comporta come il sostituito, ma non potrà mai sostituirsi al centro, non perché gli faccia difetto qualcosa, anzi, condivide con l’assente molte proprietà, ma non può sostituirlo, perché ha un sovrappiù empirico che guasterebbe l’assente, come in effetti lo guasta. Ma se fosse possibile levare al supplente la sua doppiezza, la sua natura metaforica, e lo si convertisse in un centro effettivo, con ciò si annullerebbe l’idea stessa di centro, perché l’idea non può essere un questo o un quello effettivo, se non metaforicamente. Dio non può essere in questo, e non essere in quello. Dio deve essere in tutto. Dio è in tutto, ma non è il tutto. Se fosse il tutto, allora non ci sarebbe più bisogno di retorica, non ci sarebbe più bisogno di significanti che facciano segno ad un significato. Ogni cosa coinciderebbe perfettamente col suo significato, ogni cosa sarebbe il centro di se stessa. Non ci sarebbero più turbamento e angoscia, non ci sarebbe nostalgia, perché il centro non sarebbe un passato che non è mai stato presente, un vuoto incolmabile, non recuperabile, non attingibile se non per intermediazione di un supplemento, ma sarebbe immaginato e desiderato come un passato perduto, che, dopo una ricerca estenuante, sarebbe ritrovato.
E invece il centro, poiché non si presenta, se non come nostalgia, ovvero come metafora del centro, ha sempre la forma di una pietra a-cheropita, una pietra parlante non fatta dalla mano dell’uomo, perché l’uomo ancora non c’era. L’uomo compare solo dopo l’indicazione del centro. Eppure, questa pietra parlante, si rivolge all’uomo, supponendo la sua presenza. Parla in sua assenza, ma supponendone la presenza. Si rivolge a lui dicendogli: Ecco, è qui, su questa pietra, che dovrai costruire la tua chiesa. Non solo la pietra parla e si rivolge al credente supponendone la presenza, ma si rivolge al credente supponendo, anche, che egli dia credito e comprenda ciò che essa dice. Come è possibile tutto ciò, come è possibile comprendersi, se l’uomo ancora non c’è, né tanto meno la sua lingua? Tutto ciò è possibile perché, dice Teti, l’ignoto diventa noto per effetto di una ripetizione, mitica e rituale. L’ignoto si replica, si duplica, si ripete in un io sensibile e in un io sovrasensibile. Dio si duplica nell’uomo: corpo e spirito santo. L’io si duplica e si retro-data, e si invia il messaggio che contiene l’indicazione del sito del Tempio. In un film di fantascienza si tratterebbe di un flashforward, di una premonizione, ma di un fleshforward che arriva da un futuro e si indirizza ad un passato che non è mai stato presente.
Il trascendente, il trascendentale, l’apriori, si presenta all’uomo e lo costituisce, ma l’uomo non lo precede, e non può precederlo, nessun fatto può precedere la condizione di ogni fatto, eppure il trascendente o il trascendentale devono avvenire, devono annunciarsi in un corpo sensibile, in un tempio, in una chiesa, in una casa, in una pietra, in un fatto o in un artefatto, in un idolo, in un’icona, o in una statua che non è un manufatto, ma che è a-cheropita, trovata, rinvenuta, scoperta, fatta, ma non dall’uomo, perché l’uomo (l’Io) è ancora atteso. Un tempio e un luogo che non saranno mai solo e semplicemente luoghi fisici, geografici, ma sempre e contemporaneamente luoghi spiritali, sociali, culturali, così che la cultura si vede affiorare insieme alla natura, non contrapposta ad essa, ma in essa, prima dell’uomo.
Nella società tradizionale, dice Teti, il luogo veniva scelto e annunziato dagli eroi, dalla divinità, dai santi, dalla Madonna. Agli uomini spettava scoprirlo. In Calabria non esiste luogo che non abbia avuto una fondazione mitica. Tutti i miti di fondazione parlano dell’intervento divino e della scoperta che ne fa l’uomo. Quadri, dipinti, immagini acheropite, sculture, appaiono in sogno o dal vivo alle persone, e indicano il luogo in cui debbono essere ubicati. Il santo o la Madonna gli segnalano esattamente dove devono essere collocati i luoghi di culto, le chiese, i santuari. C’è un legame stretto tra luogo, divinità, sentimento del luogo, popolazione di zone disabitate, ricostruzione di un nuovo centro.
A scegliere per me che non sono qui, dovrà essere stato un altro, ma quest’altro sono ancora io. A scegliere sono stati i santi o la Madonna, ma la Madonna e i santi sono supplementi dell’io, i supplenti di un io che si anticipa in essi facendosi poi annunciare da un passato che non è mai stato presente. L’Io si anticipa e si invia la telecomunicazione con l’indicazione del luogo e di chi deve scoprirlo, cioè se stesso. La tele-comunicazione anticipa sia il luogo sia l’Io, anticipa la differenza tra l’Io e il luogo. Il gioco dell’uovo e della gallina tra l’Io e il luogo è possibile a partire da questo invio, il quale presenta l’Io e il luogo in loro assenza. In questa storia tutto si sdoppia o si raddoppia. Un io empirico psicologico (culturale) che ancora non c’è si lascia annunciare da un io trascendentale che è una proiezione anticipata, un supplente, di un Io empirico atteso ma assente. Il supplente non è effettivo, non è nemmeno semplicemente o totalmente assente, fa le veci dell’assente, è presente in sostituzione dell’assente, sta al posto dell’assente, in attesa che esso si presenti. Ma il ritorno dell’effettivo, ritorno che dovrebbe coincidere con una sorta di a-nostaglia (come la chiama Teti) sarebbe una sciagura peggiore di un centro metaforico che dà il là al bene e la stura al male, che fa trovare la strada di casa, ma che la fa anche perdere, che rassicura con una dimora, una identità e una cultura, ma che getta all’angoscia di perderle e di perdersi.
 
IV
 
Un’ulteriore cautela bisogna assumere nei confronti del post-moderno, e dell’idea che il centro è dappertutto, ovvero che non c’è più centro.
L’uomo d’oggi, dice Teti, sperimenta, dovunque, sia pure in forme diverse, il rischio di perdersi e di non avere più un centro di riferimento, un sentimento dei luoghi che lo orienti nel più vasto mondo. La post-modernità crea dei «non-luoghi antropologici» (Marc Augé), degli spazi né identitari, né relazionali, né storici; incapaci, comunque, di recuperare il passato nel presente. Se recuperano il passato, lo recuperano banalizzandolo come oggetto modulare adatto al bricolage, come un mattoncino Lego adatto a comporre una figura temporanea, mattoncino che assume un senso relativo nel contesto del gioco in cui viene inserito, ma che può assumere svariati significati, a seconda delle figure in cui viene utilizzato: ponte, macchinina, omino, strada, ferrovia, eccetera, e, di volta in volta, brandello di rotaia, di ruota di scorta, di asse portante, di muro, di mattonella, di testa, di occhio, di cervello, eccetera.
Mentre i luoghi antichi repertoriati, classificati o promossi a «luoghi della memoria» o, come Teti proferisce chiamarli, «luoghi della nostalgia», occupano un posto specifico e circoscritto, al contrario, le installazioni necessarie per la circolazione di uomini, beni, prodotti, (strade a scorrimento veloce, svincoli, aeroporti, stazioni ferroviarie), gli stessi mezzi di trasporto, i grandi centri commerciali, le grandi catene alberghiere, le strutture per il tempo libero, la complessa massa di reti cablate o senza fili, i campi profughi e i luoghi di accoglienza dove sono parcheggiati i rifugiati del pianete, le favelas e i quartieri dormitorio dei poveri di diverse parti del mondo, possono essere considerati non-luoghi della post-modernità. Essi, dice Teti, non hanno la forza e la solidità di un territorio noto e condiviso, che accomuna, unifica, e magari separa: hanno la labilità di una terra di nessuno, di passaggio, di transito, di omologazione, nella quale le persone rischiano di essere fantasmi, visioni senza consistenza e personalità.
Si potrebbe pensare che ai non-luoghi, alla fine dei luoghi storici, concreti, relazionali, corrisponda, dice Teti, una sorta di anostalgia, ovvero l’assenza di nostalgia, la fine del «sentimento del luogo», di qualsiasi luogo, non avendo le persone più alcun centro di orientamento, alcuna «patria» da rimpiangere. L’uomo della post-modernità si avvicinerebbe all’uomo delle società primitive: l’ipotetica anostalgia dell’uomo primitivo – che sarebbe stato legato esclusivamente a un luogo antropologico delimitato, sicuro, interiorizzato, da cui non si allontanava mai – si avvicinerebbe all’anostalgia determinata dalla scomparsa dei luoghi localizzati nel tempo e nello spazio.
La fine del centro, e conseguentemente del luogo, rappresenterebbe la fine anche della nostalgia e del perturbamento, visto che la nostalgia (perlomeno nell’interpretazione prevalente che ne da Teti) è nostalgia di qualcosa, nostalgia-di. Nel post-moderno la nostalgia, perdendo il riferimento alla cosa, diventerebbe nostalgia-di-niente, ovvero a-nostalgia.
Se si intende la nostalgia come un che di umano che si produce in riferimento a un luogo e a un centro, o, che, più radicaleggiane, si struttura come differenza tra nostalgia e luogo, si può parlare, in senso postmoderno, di a-nostalgia, intendendo appunto la a-nostalgia come il riferimento dell’uomo a qualcosa che non-è più. Ma questo non-essere è ancora un qualcosa. In quanto assente, il luogo non smette di funzionare come luogo, anzi, proprio in quanto è assente fa sentire la sua mancanza, suscita la nostalgia. Dunque, la a-nostalgia, in questo schema post-moderno, corrisponde esattamente alla nostalgia. Se essa non è un momento di scongiuro in un lavoro del lutto, in un ri-seppellimento convulsivo del centro o delle spoglie del centro, in un tentativo (vano, e che rivitalizza il morto) di far sparire ogni traccia di ciò che si ritiene la causa del dolore (nostalgia); se il non-luogo (come dice bene la locuzione) non è la fine assoluta del luogo – non è il no assoluto – ma è il luogo seppellito sotto il non-luogo, allora siamo ancora nella differenza tra luogo e nostalgia. E ha ragione Teti nel dire – contro il post-moderno – che il luogo non è mai completamente cancellato e il non-luogo non si compie mai totalmente. I luoghi e i non-luoghi nella società concreta si compenetrano reciprocamente, si oppongono o si evocano.
I non-luoghi, dice Teti, non annullano il sentimento del luogo, ma tendono anzi a costituirsi come «territori» dove questo bisogno si afferma e si amplifica.
A questo punto, dice Teti, proprio in quanto l’uomo ha percezione di se stesso, ed ha percezione di se stesso in quanto percepisce un centro (anche nella sua forma negativa, a-nomica, a-topica), egli può distinguere tra la mondializzazione che deterritorializza e il cosmopolitismo che riterritorializza, tra una forza che spaesa e una contro-forza che appaesa.
Il cosmopolita, dice Teti, non è colui che si muove in qualsiasi parte del mondo come uno zombie, non è colui che cambia indifferentemente mille alberghi a assaggia mille pietanze, illudendosi di conoscere, così, la cultura dell’altro. Il vero cosmopolita è colui che viaggia e cammina con un «villaggio nella memoria» e che sa riconoscere gli altri villaggi che incontra, quando sta fermo o quando si sposta.
Il cosmopolita non è un turista che si muove in un universo standardizzato, il quale crede che assumendo il cibo come si fa con l’ostia, diventerà partecipe dello spirito del luogo. Gli dei sono fuggiti, rimane il pasto nudo.
Il turista viaggia, il cosmopolita cammina.
La concezione salvifica del camminare, dice Teti, è presente in tutte le religioni. È un dato delle culture tradizionali di quasi tutte le parti del mondo. Il viaggio è un elemento fondante di verità, di novità e di giustizia. Il Cristo delle leggende e delle fiabe popolari di Calabria viaggia per il mondo, da solo, insieme a Pietro o ad altri discepoli, e sconfigge la fame, denuncia le menzogne e le oppressioni, afferma la verità e la giustizia. Camminare significa conoscere, capire, cambiare, migliorare le proprie condizioni. Il Vecchio camminante di cui parla il folklore calabrese è l’uomo con esperienza del mondo, che ha acquisito, grazie alla sua erranza, capacità d’interpretare e conoscere meglio il proprio luogo d’origine.
Abbiamo forse perso l’abitudine di camminare – dice Teti. Il cammino dà ancora senso ai luoghi, all’abitare, alla conoscenza della casa e delle case.
Tuttavia, aggiunge Teti, non basta camminare, naturalmente. Bisogna avere una direzione, una meta, una nuova comunità da costruire e da inventare. Bisogna essere disponibili, in queste nuove forme di pellegrinaggio, alla scoperta, all’incontro, allo shock, allo spaesamento, al dialogo, a mettere in discussione le proprie certezze, ad accorgersi che il mondo in cui si vive è meno familiare di come si immaginava e che, per questo, è indispensabile conferire ai luoghi una nuova identità.
Dunque, riassumendo, il non-luogo post-moderno è ancora un luogo moderno, si struttura nell’opposizione al luogo. E il luogo si palesa nella differenza tra centro e nostalgia, dove la nostalgia è la traccia del centro. Il nostalgico, che non ha il centro come presenza tangibile, ma solo come presenza della sua assenza, si incammina, ma non viaggia, perché il viaggio è il passaggio da una presenza ad un’altra, da un pietanza ad un altra, da una location ad un’altra, da una stazione ad un’altra, in un turbinio dove tutto è pieno e pienamente intercambiabile. Mentre il camminante, sospinto dalla traccia, che è presenza di una mancanza, ricama l’orma di un tutto che così passa attraverso le trame delle piccole cose, dei piccoli e dimenticati segni di vita che ci circondano; il camminante si incammina, ma più che camminare, erra di cosa in cosa: il centro è in ogni cosa, ma non è una cosa. Il camminante percepisce il suo errare come l’inseguire un centro che si disloca, in un gioco di rimandi che può far perdere la testa e la strada. Se il centro fosse disponibile, e Teti crede che in certe circostanze lo sia, allora lo si potrebbe fissare in un passato mitico da rimpiangere, in quanto paradiso perduto, o in una meta da raggiungere, e, dunque, ordinare il tempo in una filosofia della storia, dove si progredisce e si impara nel tragitto e nel travaglio che porta dal paradiso perduto al paradiso promesso. Ma il centro non è disponibile come lo è una cosa.
Il fatto che il centro non sia disponibile, non vuol dire, come crede il post-moderno, che non ci sia centro o che il centro sia dappertutto. Il messianismo, il progressismo e il postmodernismo funzionano fintanto che si pensa il centro come una cosa presente, che può essere rimossa o ripristinata. Ma il centro non è mai stato presente, a presentarsi è sempre la sua traccia, e la traccia è sempre la traccia del centro e non la traccia dell’uomo, l’uomo non ha potere sul centro.
Infine, dice Teti, è stata la sorella Chiara, del Monastero delle Suore di Clausura, Sorelle povere di Santa Chiara, monastero ubicato a Scigliano, a indicarmi il senso del restare in una terra che ha conosciuto storie di fughe e di arrivo.
«Nel frammento di ciò che siamo – scrive la sorella Chiara – si ricama l’orma di un tutto che passa attraverso le trame delle piccole cose, dei piccoli e dimenticati segni di vita che ci circondano».
Solo pensando il centro come presenza si può, di volta in volta, tenerlo come fondamento dell’Io, o pensare l’Io come fondamento del centro, e muoversi, a discrezione, dall’uno all’altro dei termini delle coppie che esso rende possibili: Appaesamento/Spaesamento, Camminare/Viaggiare, Cosmopolitismo/Mondialismo, Erranza/Meta. I termini di queste coppie sono intercambiabili essendo l’uno l’antitesi dell’altro. Se Teti oscilla spesso tra l’uno e l’altro dei termini delle coppie, eleggendo l’uno o l’altro come condizione ottimale, lo può fare perché in effetti non si escludono, ma sono intercambiabili, oppure funzionano in una dialettica.
 
 
V
 
Dopo avere esplorato il rapporto sincronico tra nostalgia e luogo, ed essere incappato in un garbuglio che non è riuscito a districare, e che in effetti non è districabile, Teti esplora il rapporto diacronico con la nostalgia.
La nostalgia non è più il rapporto ad un centro che è assente, che sfugge, e si manifesta solo nei suoi supplenti, nei suoi delegati, nei suoi simboli, ma è il rapporto ad un paradiso perduto; non è il rapporto ad un luogo mitico, ma ad un tempo mitico.
Il melanconico moderno (Teti riparte) si comprende a partire dalla melanconia intesa come sentimento e condizione dell’uomo errante, sradicato, esiliato, come manifestazione di nostalgia autentica e non retorica dell’individuo che abbandona, per necessità o per scelta, la casa, l’universo d’origine.
Nostalgia dello sradicato, e nostalgia dell’esiliato, di colui che viene strappato al centro e si dispera, e di colui che, invece, abbandona il centro di sua iniziativa.
Reliquie sono i «partiti» e i «rimasti» – dice Teti -: le parti di un corpo dimezzato, i frammenti che sognano e cercano un’impossibile unità, mentre affermano una nuova identità proprio attraverso la consapevolezza di una «separazione» ineliminabile, la presa d’atto che è impossibile ricostruire l’antica «unità». L’emigrato smarrisce la propria ombra, diventa lentamente un altro individuo. Egli rincorre sempre l’ombra perduta, tenta di annullare la frattura e le lacerazioni compiute con la «scelta» di partire. Continua a sentirsi parte del Paese Uno – il paese che ha lasciato -, anche se non ritroverà mai l’antica ombra. Nemmeno quando torna definitivamente in paese potrà ricomporre la lacerazione operata con la partenza. Egli ci ricorda i personaggi che hanno perduto l’ombra o che scoprono un loro sosia inquietante di cui è popolata la narrativa ottocentesca e la letteratura psicoanalitica sull’ombra e sul doppio. L’insorgere del doppio, l’apparire di un altro individuo o di un sosia da intendere come lato sconosciuto, inquietante, negativo della personalità, può condurre a un’irrimediabile scissione dell’io.
L’individuo che esce fuori di sé può smarrirsi, dice Teti, ma può ritrovarsi, può ricomporre la scissione del proprio io. Il Doppio può accompagnare l’individuo in un’opera di rinascita, di salvezza, o di «redenzione», dopo un lungo, doloroso e pericoloso itinerario di mortificazione, angoscia e smarrimento.
La letteratura romantica e quella vampiresca hanno narrato, dice Teti, in maniera incisiva, sia il rischio di perdita della «presenza» del soggetto, sia la possibilità di ricomporre in un’ulteriore unità l’antico io disintegrato, frantumato, disperso. Il vampiro appare il prototipo negativo e inquietante dell’uomo melanconico sempre sradicato e smarrito, sempre impegnato ad affermare una nuova identità. Il vampiro è diventato metafora dell’inquietudine, dell’erranza dell’uomo moderno. Nello stesso tempo, segnala il rischio radicale della modernità: l’impossibilità che l’uomo possa ricomporre la scissione dell’io e ricostituire una diversa identità. La drammaticità del vampiro sembra consistere proprio nella consapevolezza della sua impossibilità a «guardarsi» e «trovarsi». Il vampiro non può specchiarsi, non può riconoscersi.
Non si torna indietro una volta che ci si è messi in viaggio – dice Teti. Se si torna, la casa è cambiata, è distrutta, è andata in rovina, è bruciata, circondata o sovrastata dalle erbe, è irriconoscibile. Tutto è cambiato: le cose, le persone, i rapporti. Chi torna è cambiato. Niente è più come prima. Chi è partito diventa un defunto per coloro che sono rimasti, un moderno revenant. Il suo ritorno può creare indifferenza o turbamento. Chi torna è destinato alla delusione. L’emigrato, già con la partenza e con il viaggio, ha assunto una nuova identità.
La dispersione, la frattura, lo sdoppiamento, dice Teti, riguardano, in maniera diversa, anche coloro che sono rimasti, i familiari, gli amici, i conoscenti di coloro che sono partiti. Mille volte essi rincorrono, sognano, evocano con l’immaginazione il nuovo mondo raggiunto dagli altri. Si sorprendono spesso a pensare un loro possibile io lontano dal paese.
Con l’emigrazione, dice Teti, finisce l’antica identità dei paesi calabresi, chiusi, arroccati, isolati; nasce la nuova identità delle popolazioni in viaggio, in fuga, anche quando sono ferme. Colui che si è spostato e colui che è rimasto fermo si percepiscono l’uno come immagine, fantasma, leggenda, ombra, doppio dell’altro. Uno come «reliquia» dell’altro.
Il centro, adesso, non è più un simbolo, è un luogo effettivo, e come tutte le cose effettive e singolari, subisce il trascorrere del tempo. La partenza degli emigranti altera i luoghi anche per quelli che sono rimasti. Tutto ciò che era solido si dissolve nell’aria, il tempo muta ogni cosa, affiora l’angoscia di non trovare in nessun posto il proprio destino.
Col tempo, dice Teti, avrei cominciato a pensare che le mie inquietudini e instabilità, la paura e l’ansia dell’attesa e della partenza, il sentirsi sempre altrove e mai in nessun posto dipendessero da un sentimento legato alla perdita del centro. Ero nato in un universo che usciva dalla tradizione, da un posto noto e sicuro, con un campanile di riferimento. Ero avvolto, circondato, avvinghiato, caricato da emozioni e sentimenti nostalgici. L’universo tradizionale diventava un grumo, un nodo, un nugolo di nostalgie che avviluppava la vita di tutti, di chi partiva e di chi restava. Il mio desiderio di tornare e poi quello di partire, il disaggio per la partenza stessa, per il treno, il pullman o la macchina, l’angoscia delle feste che preannunciavano un possibile ritorno, o per l’estate che si avvicinava e prefigurava un ritorno, diventavano occasioni per ammalarsi di quella malattia che i dottori della leva a Cagliari e i dottori dello studentato a Roma mi diagnosticarono come turbe nevrotica reattiva. Mentre abbozzavo e mi confortavo con l’idea che si trattasse di un abuso di acqua di sorgente bevuta da ragazzo al paese, sapevo che quella malattia non era una malattia, era il sentimento di quelli che erano partiti e di quelli che erano rimasti. E se la parola nostalgia è stata associata a passatismo, immobilismo, conservazione, lamentela inconcludente, arroccamento o alterità, inferiorità, inadeguatezza e incapacità di adattarsi alla modernità, di mutare, per via di un attaccamento inconcludente a ciò che è stato, io sapevo che non era così, e che la nostalgia era il patema del tempo andato che non torna più.
Se la nostalgia non è legata al luogo, ma è legata al tempo, il rimedio non può essere il ritorno a casa.
Il vecchio termine tedesco Heimweh per nostalgia, dice Teti, termine che con la sua radice heim rimanda alla casa, al focolare e alla patria, venne affiancato dal termine nostalgia, che rimarca appunto come il dolore sia dolore per il ritorno a casa, e non solo per la partenza. L’Heimat (la patria) non era persa nello spazio, non era rudere, spoglia, polvere, era persa nel tempo, era memoria, ricordo, lutto. Era tristezza, insonnia, perdita di forze, febbri intermittenti, angoscia e palpitazioni al cuore, frequenti sospiri, astenia, ottusità dell’anima concentrata quasi esclusivamente sull’idea della patria, erano il delirio malinconico fissato. Il rimedio era il ritorno, così ci si illudeva – dice Teti. Ma il ritorno era impossibile. Ogni ritorno di emigranti, esuli, errabondi, stanziali si trasformava in delusione, in lenta consapevolezza che era impossibile tornare in un mondo esploso, in cui nulla era rimasto come prima. Le persone in fuga, irrequiete, fuori posto, non facevano che scontare e verificare l’assenza e l’inesistenza della patria, e maturare la convinzione di essere stranieri ovunque, anche sotto il campanile che li aveva visti nascere.
Se il viaggio non è un viaggio nello spazio, ma è un viaggio nel tempo, scrive Teti, non si torna più indietro; una volta che si è partiti non si torna più. Non si può tornare alla casa lasciata. Quando si torna la casa è cambiata, è distrutta, è andata in rovina, circondata e sovrastata dalle erbe, è irriconoscibile. Chi torna è cambiato, si sente estraneo al mondo che trova ed è avvertito come estraneo da coloro che sono rimasti. Non può raccontare i propri cambiamenti, non verrebbe creduto e non può comprendere i cambiamenti avvenuti nel mondo che aveva lasciato.
Valeva la pena tornare? – chiede Teti.
Valeva la pena essere partiti?
Il problema – scrive Teti – non è il ritorno al luogo, ma al tempo passato. E allora la nostalgia diventa un sentimento da cui non si guarisce. La lontananza è un sentimento delle persone sopravvissute all’esplosione del mondo. E riguarda tutti, anche chi è rimasto.
La nostalgia è la sofferenza provocata dal desiderio inappagato di tornare. Ma non c’è ritorno nel tempo – dice Teti. La mentalità contadina, con il tempo che ritorna, è stata spazzata via dall’idea di un tempo lineare e progressivo, irreversibile. Perciò la nostalgia riguarda tutti, è un sentimento universale, è l’affezione stessa del tempo – posto che il tempo sia un contenitore vuoto dove il futuro scorre verso il passato.
L’emigrato e l’esule, dice Teti, diventano le metafore dell’uomo moderno, che vive insieme spaesamento e necessità o desiderio di tornare. La casa non è sempre quella lasciata, può essere «altrove». La casa può essere ovunque.
Questo tempo nuovo sradica e spaesa più dei terremoti, più delle alluvioni, più delle frane e degli smottamenti, più dell’incuria dell’uomo, degli incendi, delle esplosioni, delle guerre, delle bombe. Il tempo moderno, che con il suo incedere dissolve i rapporti feudali, patriarcali, idillici, straccia i variopinti lacci contadini che legavano la persona al suo superiore naturale. Un tempo che incede autoritario riducendo tutto a niente, fino ad arrivare a raggiungere il suo limnite interno, la fine del tempo irreversibile, la post-modernità.
Il termine Heimat e il termine nostalgia, dice Teti, si legano alla critica del tempo moderno. Il capitalismo e l’illuminismo vengono associati alla distruzione dei saperi, delle culture, delle emozioni tradizionali. Questo legame si rinforza, e afferma un’idea di patria e di nazione che, in apparenza regressiva, si mostra in verità come rigenerativa, risorgimentale. Lentamente il dolore e il rimpianto del luogo perduto si trasformano in un nuovo senso di appartenenza, in orgogliosa rivendicazione della propria identità che viene affermata e inventata proprio a partire dalla dispersione e dall’esilio.
Rimpianto del paradiso perduto, del mondo rurale, della campagna, dice Teti, la nostalgia può essere intesa anche come coscienza polemica nei confronti dello spaesamento determinato dalla moderna società, dall’industrializzazione, dall’esodo di grandi masse dalla campagna nelle moderne città che determina l’erosione dell’antico mondo. La nostalgia del passato pre-capitalistico, la speranza rivoluzionaria in un avvenire nuovo, la restaurazione e l’utopia, la dimensione messianica ebraica e quella utopico-libertaria accomunano un vasto ed eterogeneo insieme di intellettuali, scrittori, politici e teologi (Franz Rosenzweig, Martin Buber, Gershom Scholem, Gustav Landauer, Franz Kafka, Walter Benjamin, Ernst Bloch, Ernst Toller, Erich Fromm, Gyorgy Lukács).
 
VI
 
L’anti-illuminismo romantico talvolta si lega al marxismo annacquandolo in un discorso che se la prende con la civiltà in generale, con la divisione del lavoro (come in Adorno), con l’alienazione, con il denaro, con lo sfruttamento, con il potere, con il totalitarismo, eccetera. Si guadagnano i temi dell’ecologismo, delle differenze di genere e di cultura, eccetera, ma si perde la particolarità del marxismo, il quale è innanzitutto una critica del plusvalore.
In un corso universitario tenuto nell’inverno 1955-56 all’università di Friburgo (Il principio di ragione), Heidegger dice che l’epoca in cui viviamo è determinata in base all’afflusso e alla fornitura di un’energia naturale. L’essenza dell’uomo è ora determinata dall’atomo, e non vi sarebbe era atomica senza scienza atomica.
La scienza positiva, dice Heidegger, segue il travolgente impulso a ricondurre la sparsa molteplicità delle cose a una nuova unità intesa come elemento portante.
Che cosa indica tale irresistibile impulso che spinge la scienza ad assicurarsi un’unità sempre più adeguata di ciò che le si offre come patrimonio rappresentabile di teorie e di fatti osservati? – chiede Heidegger (60).
Il domandare delle scienze, risponde Heidegger, viene ogni volta nuovamente spronato a eliminare le contraddizioni che emergono al suo interno. L’eliminazione avviene mediante un progresso che porta alla risoluzione delle contraddizioni in un’unità adatta a sostenere ciò che, apparentemente, è contraddittorio, adatta cioè a fornirgli un fondamento. Nell’impulso che spinge il rappresentare e il dominare oltre le contraddizioni, domina la pretesa alla fornitura di un fondamento. Questo dominio si scatena in modo spaesante.
Se qui è adoperata al parola «spaesante» (unheimlich), dice Heidegger, essa non è intesa in un senso patetico, ma va pensata, in termini letterali e obiettivi, in riferimento al fatto che lo scatenarsi, unico nel suo genere, della pretesa alla fornitura del fondamento minaccia tutto ciò che vi è di familiare (heimisch) per l’uomo, privandolo di qualsiasi fondamento e di qualsiasi terreno per un radicamento nella propria terra, privandolo, cioè, di tutto ciò da cui sono cresciuti finora ogni grande epoca dell’umanità, ogni spirito capace di grandi aperture e ogni marcata configurazione dell’uomo. La pretesa del grande e potente principio del fondamento che va fornito sottrae all’uomo odierno il radicamento nella sua terra. Vi è un enigmatico gioco di rimandi fra la pretesa alla fornitura del fondamento e la sottrazione del terreno.
Ciò che dovrebbe fornire la base che raccoglie e sussume dando un senso unitario al molteplice, è anche ciò che toglie il terreno da sotto i piedi.
Questo enigma è rilevato con ancora maggior forza da Freud.
Non c’è dubbio, dice Freud (Il Perturbante, 1919), che il perturbante appartenga alla sfera dello spaventoso, di ciò che ingenera angoscia e orrore. Nelle lingue neo-latine, in particolare in italiano e portoghese, il temine Unheimliche non ha una corrispondenza esatta.
L’Unheimliche (il perturbante, come è tradotto in italiano) è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare.
La parola tedesca Unheimliche, dice Freud, è evidentemente l’antitesi di heimlich – confortevole, tranquillo, da Heim, casa, heimisch patrio, nativo – e quindi familiare, abituale, ed è ovvio dedurre che se qualcosa suscita spavento è proprio perché non è noto e familiare. Non tutto ciò che è nuovo, per il fatto di essere nuovo e inconsueto è spaventoso. Vi sono cose nuove che sono piacevoli sorprese.
In inglese, continua Freud, Unheimliche è tradotto con uncanny, gastly, e, detto di una casa, Unheimliche diventa haunted, infestato dagli spettri, dai fantasmi.
In tedesco Heimliche si riferisce a ciò che appartiene alla casa, che non è straniero, che è familiare, domestico, fidato e intimo, che rammenta il focolare.
Heimliche è il fidato, l’intimo, rammenta il focolare, il grato senso di quieto appagamento, il senso di agio e di tranquillità e di sicura protezione, come quello che suscita la casa confortevole, raccolta nel suo recinto, nei suoi confini, l’intimità domestica.
Heimliche è anche l’intimità personale, dice Freud, l’essere intimi dell’uomo con la donna. Intimo è ciò che viene tenuto caro, tenuto per sé, nascosto nel proprio intimo, che è tenuto celato, in modo da non farlo sapere ad altri o da non far sapere la ragione per cui lo si intende celare. Fare qualcosa di Heimliche (dietro le spalle di qualcuno). Svignarsela Heimliche – di nascosto, alla chetichella. Appuntamenti Heimliche, segreti. Amore Heimliche, segreto, scappatella, peccato Heimliche, inconfessabile, parti del corpo Heimliche, intime, da tenere nascoste. Tanto chiuso – Heimlichesornione, insidioso e maligno verso persone crudeli, quanto aperto, libero, partecipe e servizievole verso l’amico sofferente. L’arte Heimliche, la magia.
Tra le diverse sfumatura del significato della parola Heimliche ve ne sono alcune, scrive Freud, che coincidono con il suo contrario Unheimliche.
Heimliche è un termine che sviluppa il suo significato in senso ambivalente, fino a coincidere col suo contrario, Unheimliche.
Unheimliche è in certo modo una variante di Heimliche.
Perciò, scrive Freud, si può dire che l’Unheimliche – lo sradicante, lo spaesate – è l’angoscia spaventosa suscitata da quanto ci è noto da lungo tempo, da ciò che ci è familiare, da ciò che è Heimliche. A far paura è il familiare, come nel lutto. A far paura è il ritorno del familiare defunto seppellito, a far paura è il ritorno del morto, dello spirito, dello spettro, del revenant. A far paura è il ricordo, la memoria, la ripetizione.
Quando ci si perde in un bosco, dice Freud, e cercando la strada di casa si ritorna più volte nello stesso posto, è soltanto il fattore della ripetizione involontaria che rende spaesante ciò che di per sé sarebbe innocuo, insinuandoci l’idea della fatalità e dell’ineluttabilità laddove normalmente avremmo parlato di caso. Oppure, quando capita di imbattersi in uno stesso giorno più volte nello stesso numero – lo stesso numero di posto sul treno, lo stesso numero di stanza di albergo, lo stesso numero sul vaporetto – la cosa ci appare spaesante, e chi non fosse corazzato contro le tentazioni della superstizione si sentirebbe incline ad attribuire a questo ostinato ritorno del medesimo numero un significato misterioso, diabolico.
L’angoscia dell’Unheimliche, secondo Freud, è legata a qualcosa di rimosso che ritorna. Se questa è la natura dello spaesante si capisce come, dice Freud, l’Heimliche possa trapassare nel suo contrario, l’Unheimliche. L’elemento spaesante non è niente di nuovo o di estraneo, ma è invece qualcosa di familiare che si è estraniato a causa della sua rimozione. Lo spaesante è qualcosa che avrebbe dovuto rimanere nascosto ma che invece è affiorato. Nell’unheimliche affiora il dubbio che qualcosa di inanimato – il morto – possa essere animato o rianimato.
La spaesamento fa paura perché in esso si palesa l’appaesamento.
Ma perché il paese dovrebbe far paura?
Il paese non è il rimosso puro e semplice. Non è ciò che viene semplicemente seppellito da un diluvio, da un terremoto, da una frana – il resto, il rudere, le spoglie -, e che, dunque, diventa doloroso perché portarlo in superficie e alla coscienza significherebbe ridestare il dolore per la perdita. Il rimosso non è una presenza che se ne sta sotto terra, e che, da lì, incute paura. Il rimosso è la traccia del morto – non è il morto. Il rimosso è lo spettro – il morto che torna. A far paura è lo spettro.
Ci si lascia sempre qualcosa dietro le spalle. Questa cosa, che non si vede, che non appare, incute terrore.
Perché?
Se ciò che ci si lascia alle spalle è un paradiso perduto, perché questo paradiso dovrebbe far paura? Se il morto è una persona cara, perché è necessario assicurarsi che stia lì, che stia sotto terra e non si muova, collocandovi sopra un segno, una pietra, una lapide, ad indicare appunto che quella è la dimora del morto e che da lì non deve muoversi?
Il ritorno del morto fa paura.
Ma cosa ritorna del morto, se ritorna?
Ciò che ritorna non è, evidentemente, il morto in carne ed ossa. Ciò che ritorna non è il paese effettivo. Il paese effettivo non c’è più (non c’è mai stato, nasce distrutto, nasce dall’alluvione) ci sono le sue spoglie. Ma non sono le spoglie a far paura. A far paura sono i morti che parlano.
Perché, allora, ripetere un’esperienza dolorosa?
Se il ritorno al paese fa male, se anche il ricordo del paese fa male, perché farlo ritornare, perché pensarci ossessivamente?
È la domanda che Freud pone in Al di là del principio di piacere.
Se il paese è motivo di una grande depressione; se il lutto e la melanconia per la perdita dell’oggetto amato possono portare anche al suicidio, perché ostinarsi a farli ritornare?
Bisogna forse supporre, si chiede Freud in Al di là.., che accanto al principio di piacere, vi sia un altro principio, un principio indipendente, forse ancora più primitivo, un principio masochista che vuole il male, che vuole il ritorno ad uno stato precedente.
Ma è impossibile volere il male, perché il male è pur sempre un volere. Dunque, è impossibile pensare il male a partire da una fonte autonoma. Bisognerebbe pensarlo a partire dallo steso principio di piacere.
Per non rimanere bloccati in un dualismo inconcludente, bisogna affidarsi a questa tesi sgangherata, aporetica: il dolore come un supplemento di piacere.
Teti prova angoscia e dispiacere, nostalgia. Si allontana dal paese, anzi, il servizio militare e l’istruzione universitaria – la caserma e la scuola, la scuola come caserma – lo traggono via, lo trasportano lontano dal paese (metafora vuol dire trasferimento – transfert).
Il dolore si spiegherebbe 1) con una teoria repressiva, o 2) con una teoria contro-repressiva.
Nel primo caso si sarebbe tradotti via dal paese con la forza, e dunque il dispiacere sarebbe causato da un potere esterno, estraneo, sovrano, negativo.
Nel secondo caso il dispiacere sarebbe sempre causato da una forza estranea, ma da una forza, in questo caso, che anziché agire con il bastone, agirebbe con la carota. Una forze che, anziché punire, sorveglierebbe, anziché costringere direttamente, costringerebbe per mezzo della seduzione.
In entrambi i casi il dispiacere sarebbe la conseguenza di una forza esterna. Ci sarebbero due forze, due principi, uno negativo e l’altro positivo (un principio di piacere e un principio di dispiacere). Ad uno stadio primitivo, una sorta di paradiso terrestre pienamente presente a se stesso, un stadio di non corruzione, di coincidenza perfetta tra sensibile e sovrasensibile (privo di alienazione, totemismo, mito, feticismo, eccetera); a questo stadio primitivo, caratterizzato da una forza positiva, corrisponderebbe una contro-forza negativa, diabolica, demoniaca, infernale, ma comunque essa stessa pienamente presente. Dunque, due principi indipendenti e pienamente presenti.
Come mai, allora, una volta tornati al paese, il dispiacere non cessa, e, anzi, si intensifica? Come mai il ritorno è doloroso e funesto come la partenza?
L’andare e il venire fanno forse parte di un unico movimento?
Ricordo le ore passate nei boschi delle Serre con il mio amico scrittore Sharo Gambino – scrive Teti (79). Nei viaggi in macchina verso la Certosa entrava in uno stato di ansia e di agitazione che gli passavano solo quando realizzava che avevamo preso una strada diversa da quella lungo la quale era stato compiuto uno scempio. Non sempre si riusciva a evitarla. In quei casi, attraversando il viale che porta verso i luoghi sacri di Bruno da Colonia, la Certosa e Santa Maria del bosco, con il laghetto, Sharo compiva l’atto sacrale di chiudere gli occhi o di girarsi dall’altra parte. Non sopportava di guardare il luogo dove un tempo si ergevano, in fila, degli alberi imponenti e secolari, tagliati per fare posto a un nuovo edificio, una caserma, in un «deserto» dove c’era solo l’imbarazzo della scelta di spazi edificabili.
Chi ritorna prova dispiacere perché non ritrova più i luoghi che aveva lasciato. Il tempo ha cambiato ogni cosa. Ma anche se nel tempo le cose fossero rimaste intatte, il che non è possibile, ma se per magia fossero rimaste intatte, il dolore si sarebbe presentato ugualmente, perché il tempo avrebbe agito sullo spettatore, cambiandolo.
Anche in questo caso il dolore è teorizzato come effetto dell’azione di due presenze, di due presenti: una presenza passata e una presenza presente.
Un passato che ha fissato la sua presenza nella memoria, mal combacia con una presenza presente e fissata anch’essa nella memoria. Dolore che deriva dal differenziale (dal confronto) tra due presenza, una presenza positiva (il passato) e una presenza negativa (il presente).
Anche in questo caso si parte da due presenze piene, una positiva e l’altra negativa, le quali, in virtù di questo differenziale, produrrebbero come resto il dolore della nostalgia.
Perché ritornare, allora? Se il dolore è causato dal ritorno e dal confronto tra un passato morto e ricordato e un presente visto dal vivo, perché ritornare? A meno che non si supponga che la volontà di tornare sia anche volontà di farsi male, desiderio di farsi male, o, meglio, farsi male per desiderare, spingere, subire la resistenza, penetrare, ritrarsi, ammosciarsi.
Infine, prova dispiacere anche chi rimane, quando confronta il suo presente con il futuro che gli sarebbe toccato se fosse emigrato. Si gioca sempre lo stesso gioco di chi è partito, ma a carte invertite .
C’è un’ulteriore circostanza che Teti non tematizza apertamente. Si tratta della circostanza performativa della sua scrittura a proposito di nostalgia e Calabria. Il paese si spaesa, allora Teti scrive dello spaesamento. Ci sarebbe una causa esterna che agirebbe su Teti producendo come effetto la sua teoria. La teoria sarebbe un effetto secondario e accessorio dello spaesamento – una sovrastruttura. La scrittura direbbe in altri termini (per metafora), impropriamente, ciò che lo spaesamento è propriamente.
Siccome è stato escluso ogni intervento esterno, ogni principio esterno, perché ogni esterno è risultato il supplente dell’interno stesso; siccome è stato escluso ogni potere o principio autonomo che toglierebbe al proprio la sua proprietà – il paradiso terrestre, il paese nativo, la lingua madre, la condizione primitiva, eccetera; siccome si è mostrato che non c’è proprietà senza ex-propriazione, che non c’è Heimliche senza Unheimliche, che dispiacere è piacere differito, allora bisogna concludere che la metafora non è un modo improprio di presentare il proprio, ma è il differimento del proprio. La metafora è il paese differito. Non è la supplente su un posto vacante, è la supplente su un posto sognato (sognato dalla supplente: Siccome sono qui, e sono supplente, allora sarò supplente di un ruolo effettivo). Il paese perduto è un effetto retroattivo di questa metafora. Il paese perduto o è un che di ineffabile o è una metafora. I ruderi sono la metafora del paese, non perché, in quanto resti, rimanderebbero ad un paese che un tempo era intatto. Un paese intatto è un paese solo possibile, virtuale, che diventa possibile nei resti, nei ruderi. Un paese intatto è un presenza retrodatata. Siccome ci sono questi resti, questo scempio, questa divisione, siccome c’è questa diaspora, eccetera, allora vuol dire che ci sarà stato (ipotesi attuale circa un evento accaduto nel passato) un paese unito, intatto, presente, pacificato, paradisiaco. La divisione sarà sopravvenuta (ipotesi attuale circa un evento accaduto nel passato) per effetto di una calamità, di un terremoto, di un alluvione, della fame, della siccità, della guerra, eccetera (la causa sarebbe sempre esogena). Il male è identificato col demonio, e il bene suppone un aldilà di ogni fatto (esclusione di ogni fatto, messa tra parentesi dei fatti).
Per eliminare l’angoscia e il dolore basterebbe eliminare il sogno. Ma eliminando il sogno si elimina anche il supplente, ed eliminando il supplente si elimina la possibilità di provare piacere. Il piacere e il dispiacere, il diavolo e l’acqua santa, sono l’uno il supplente dell’altro, l’uno il differito dell’altro, l’uno il trattenuto dell’altro. Ci si trattiene da un piacere, per un piacere successivo. Si prova un dolore per poter provare un piacere.
In un frammento della primavera del 1888 (14,173), Nietzsche dice che il dolore è qualcosa di diverso dal piacere, ma non è il suo contrario. Il piacere è condizionato da una successione ritmica di piccoli stimoli di dispiacere. Così avviene per esempio per il solletico, anche per il solletico sessuale nell’atto del coito: vediamo qui che il dispiacere agisce come ingrediente del piacere. Sembra un piccolo impedimento che viene superato e a cui segue subito un altro piccolo impedimento, che viene a sua volta superato – questo gioco di resistenza e vittoria suscita nel modo più forte quel sentimento generale di potenza eccedente e sovrabbondante che costituisce l’essenza del piacere.
A questo punto non ci sarebbe piacere propriamente detto. Soprattutto, visto che il piacere è una successione ritmica di piccoli dispiaceri, non ci sarebbe opposizione tra dispiacere e piacere. L’uno non sarebbe la negazione dell’altro. Non essendoci negazione, non ci sarebbe nemmeno Aufhebung. La dialettica di padrone e servo non vi opererebbe.
Non c’è ritorno al paese che possa restaurare, rilevare, recuperare la pienezza perduta, perché non c’è alcuna pienezza, non c’è origine piena. La cosa, dice Derrida (Speculare – su “Freud”), comincia nel ritornare, nel tendere verso l’annullamento del proprio processo. Il piacere s’incontrerebbe per strada. Niente piacere prima e niente piacere dopo, ma solo durante, al passaggio del passo. Tutto come se fosse il piacere a limitarsi incessantemente, trattando con se stesso, contraendosi per prepararsi a se stesso, per produrre, risolvere, rigenerare, perdere e conservare se stesso. Manifestandosi come una specie di contro-piacere, una tensione contrapposta ad un’altra nel limitare il piacere e renderlo possibile, un contrarsi per poi slanciarsi, una tensione contrapposta ad un’altra nel limitare il piacere e renderlo così possibile. Tutto avverrebbe allora nel quadro delle differenze di messa in tensione. L’economia non è generale. Spesso, sotto questo nome, si intende un’economia semplicemente aperta ad un dispendio assoluto. Qui, fin nel suo cedimento ultimo, l’economia sarebbe un’economia di strettura (un’economia ristretta). L’obiettivo polemico di Derrida è Bataille e il suo hegelismo senza riserve, e in generale tutte le economie cosiddette del dono, contrapposte alle economie della riserva. Se l’origine è un effetto speciale di una manovra retroattiva, mancherebbe la fonte da cui attingere per il primo passo. A meno che, per permettere il primo passo, non si prenda a prestito, e si sostenga la spesa senza possibilità di ammortamento. Contraendo un debito insolvibile e assumendo impegni senza che nessuno possa onorarli o rispondere per essi. Cosicché il debitore e, prima di tutto, il teorico che ha promesso più di quanto sia in grado di mantenere, si sa insolvibile. Lo speculatore si troverebbe in stato fallimentare. L’impegno a trattare una questione diverrebbe un debito, se non proprio una colpa che egli non riparerà più.
Teti è ritornato in cerca di un paese che si è dato nei ruderi e nei resti, i quali hanno supplito ad un passato che non è mai stato presente e che non diventerà mai presente, se non nei resti, nei ruderi, nei documenti, nella memoria. Ha attinto ad una riserva finta, violando il principio di equivalenza.
I ruderi stanno per il paese, significano il paese, rimandano al paese, lo significano metaforicamente, allo stesso modo in cui la banconota metaforizza l’oro delle banche, oppure il lavoro degli operai, oppure il mero potere di conio delle banche centrali o del sistema bancario. Ogni tentativo di estinguere il debito e togliere di mezzo i supplementi non fa che estenderli, prorogarli, dilazionarli, in un processo che pare interminabile, come in uno schema Ponzi, in cui si estinguono debiti contraendo altri debiti, perché la riserva originaria è anch’essa un debito, ovvero una cambiale (un surrogato di valore) che sta al posto di un deposito fittizio. L’interminabile, dice Derrida, non è accidentale, non sopraggiuntane, dall’esterno, per indicare l’incompiutezza. La ripetizione e il transfert speculativi aprono il cammino. Senza sconto della cambiale nessun investimento. Ogni eventuale progresso, dice Derrida (149), non può dunque prodursi che all’interno del transfert metaforico. Il prestito è la legge. Senza prestito, nulla avrebbe inizio: non ci sono fondi in proprio. Tutto comincia con un transfert di fondi, e si ha interesse a prendere a prestito, e perfino l’interesse primario. Il prestito frutta, produce plusvalore, è il primo motore di ogni investimento. Si comincia così con lo speculare, scommettendo su un valore da prodursi come a partire da zero. E tutte queste “metafore” confermano, a titolo di metafore, la necessita di quanto dicono. Il prestito non sarebbe che provvisorio, il prestito presuppone fondi propri, le cambiali e il denaro debbono essere in ultima istanza garantiti da un fondo proprio. Teti si avvia verso il proprio paese partendo dai resti, con la promessa di estinguere il debito, di ridurre le metafore ad un senso proprio, letterale, testuale, documentario, di restituire, partendo dai resti, il paese vero e proprio. Si impegna con se stesso a togliere le metafore, la traslazione, il trasporto, la dislocazione, la deterritorializzazione e lo spaesamento e a restituire il paese stesso che ha creduto di vedere in questi resti, in queste metafore. Ma non c’è speranza di restituire il paese alla sua pienezza, perché il paese stesso, il piacere che ci si procura avvicinandosi (o il dispiacere che si prova allontanandosi, e non ci si può allontanare se non si è stati vicini), si produce nel transfert, nella traslazione, nella metafora. Si vuole estinguere la cambiale appropriandosi dell’oro, ma l’oro vale fintanto che c’è una cambiale che lo valorizza. Non si può eliminare questa differenza senza eliminare il valore. Il desiderio di un’economia generale, di una economia del dono, sarebbe di eliminare la cambiale e mettere le mani sull’oro. Ma l’oro, in sé, non è niente, non significa niente, non vale niente. Anche un tozzo di pane, in sé, non vale niente, è l’ineffabile. È solo il corrispettivo di un desiderio. Di più, il desiderio monta nella differenza che li separa e li fa sussistere. E l’unione è solo promessa, mai garantita. Bisogna assumere ad un tempo il desiderio e il colpo di dadi. Ciò che si chiama realtà, dice Derrida (167), non è nulla di indipendente da questa legge di différance. Ne è un effetto.
Teti non può liberarsi della metafora (con tutto ciò che ne consegue in termini di spaesamento e di nostalgia), perché proprio legandosi ad essa può dominare e indirizzare il desiderio verso il paese. Deve giocare tra due infiniti. Se si stringe ai ruderi, ai resti, alle spoglie, alle tombe, agli archivi, ai musei, ai documenti, eccetera, perde definitivamente il paese. Intuendolo in modo immediato e totale (senza il rimando simbolico), con subitanea e assoluta trasparenza, si fonderebbe con esso, in una comunione senza soluzione di continuità – ciò che chiede l’economia generale del dono; ciò che fanno gli archivisti di professione e i turisti, che scambiano il rudere per il paese stesso. Non si avrebbe più bisogno di pensare il paese, perché il paese sarebbe sempre presente. Non si avrebbe nostalgia, e nemmeno desiderio. Se, invece, lascia andare i ruderi e i resti, e li considera come mere pietre, carte, lapidi, tutte mute, se si libera di essi, perché non rimandano a niente, se non al turismo che li consuma avidamente, e si rintana nell’idea che il paese è un luogo della memoria e basta, un ricordo, un pensiero puro, finisce per liberarsi anche del paese, visto che il paese vive nell’impurità dell’archivio, del supporto mnemonico, del resto, della pietra, del rudere, del documento, del libro, dalla spoglia parlante.
Deve limitare il desiderio di un contatto immediato, il desiderio di sprofondare nei ruderi. Limitarlo senza sopprimerlo. Allo stesso tempo deve limitare il desiderio di farla finita con i ruderi, in quanto mezzi che si frappongono fra lui e il paese vero. Limitarlo senza sopprimerlo.
Il desiderio deve limitarsi per mantenersi. Deve frenarsi per avanzare. In una logica che non è oppositiva. In un dominio che sembra ricalcare il rapporto di servo e padrone, ma che non è dialettico, perché non c’è negativo, non c’è opposto. Il freno al desiderio è un freno del desiderio, per il desiderio. Si ha solo piacere che limita se stesso. Dolore che limita se stesso, con tutte le differenze di forza, d’intensità. Ci troviamo in una logica della differenza, dice Derrida, e non più in una logica dell’opposizione o della contraddizione. Il dolore non è il contrario del piacere, dunque non ci può essere rilevamento del dolore, assoluzione dal dolore e dalla colpa, senza eliminazione del desiderio. Il desiderio non può diventare padrone del dolore – Nietzsche.
 
VII
 
La nostalgia alimentare degli emigrati e delle persone che si allontanano dal luogo di origine non può essere ridotta a rimpianto per questo o quel cibo – dice Teti (284). Gli orti degli emigrati di New York (la yarda – garden) dove coltivano cavoli, rape, fagiolini, pomodori, peperoni, melanzane, appaiono il doppio dell’orto del paese, la cantina (sello – cellar), dove conservano salami, prosciutti, formaggi, olive, salse, vino, peperoncino, sottaceti, sottolio, appare il doppio della cantina del paese (magari mai posseduta, sognata – dice Teti). Anche nei film di registi italo-americani – Martin Scorsese, Stanley Tucci – il modo di preparare e consumare il cibo appaiono come una carta di identità degli emigrati.
Il sello è ben rifornito e la yarda è ampia abbastanza. Nei film le tavole sono ben imbandite, impreziosite da cibi rari, l’abbondanza vi regna senza misura, tutto è raddoppiato. Ma il doppio è metaforico, allude al paese, ad una cucina tradizionale, ad un mondo contadino e rurale di incontaminata semplicità, al quale rinviano le nuove carte di identità e il romanticismo (Pasolini, ad esempio). Questo mondo, dice Teti, non è mai esistito. È una proiezione retroattiva che presenta un paese dell’abbondanza e della pace, là dove invece c’era un paese della misera e del delitto. Questo doppio sognato, metaforico, questa riterritorializzazione cucinaria, che, con le sue immagini magnifiche, anche cinematografiche, rimanda ad un mondo di sogno e di fiaba, questo doppio, alimenta – contemporaneamente – il desiderio e l’orgoglio di una patria generosa e pia, e la nostalgia per il suo abbandono.
La patria ritrovata a tavola è il doppio di una patria sognata.
Eppure, Teti non si arrende all’idea che la patria ritrovata, il cello e la yarda, i film di Scorsese e di Tucci, siano immagini che non rimandano a niente, cibi che non rinviano a niente, vino e pane che non incarnano niente, se non un sogno, un nulla immaginato e costruito ad arte dagli emigranti per fornire le pezze di appoggio di una identità, a questo punto, fittizia, inventata, falsa, retorica, bugiarda.
Il desiderio di verità, non tenuto a freno, distrugge il simbolo. Distrugge il significato a cui rimanda, e distrugge il significante che incarna questo senso; distrugge il desiderio di imbandire le tavole e consumare quel cibo, distrugge la nostalgia della patria abbandonata, che quel cibo rappresenta
Se si vuol conservare il desiderio per quel cibo, per quelle immagini, per quei film, eccetera, bisogna frenare il desiderio tetico e ripartire.
È in questa oscillazione continua che si muove il libro di Teti. Quelle che vi si incontrano non sono contraddizioni logiche, sono contraddizioni performative. È il desiderio stesso che entra in conflitto con se stesso. Se alla prima pagina del suo libro Teti avesse sentenziato che tutto è un sogno e che tutto è falso, da buon etnologo e scienziato avrebbe dovuto, con una tesi, terminare il libro alla pagina 2. E invece oscilla in continuazione, in una pagina lascia andare il desiderio e imbandisce la tavola, alla pagina successiva tira le fila del discorso e frena il desiderio. La nostalgia e il desiderio, come si è visto in precedenza, si esprimono solo in questa oscillazione, in questo ritmo, in questo fort:da (Freud).
Non bisogna essere troppo severi con la nostalgia e con la patria. Alla pagina successiva (250) Teti oscilla già dalla parte opposta. Il termine Heimat e il termine nostalgia, scrive, cominciano già ad incontrare la critica della distruzione che il mondo moderno e industriale perpetrava dei saperi, delle culture, delle emozioni tradizionali. L’illuminismo e la borghesia industriale tagliano corto con il mondo tradizionale della superstizione e della miseria.
Non bisogna attendere molto a che il romanticismo recuperi il mondo seppellito dall’illuminismo e dal mondialismo del capitalismo. Baudelaire, dice Teti, sovverte il concetto di nostalgia come aspirazione verso un passato noto, verso un sito conosciuto ma perduto, verso un paese della cuccagna, e lo indirizza verso l’ignoto. La nostalgia diventa il ricordo e il rimpianto di cose lontane, di cose ignote, le quali possono prendere la forma (a questo punto retorica) di una nostalgia per la campagna, il mondo rurale, il paradiso perduto, eccetera, in funzione polemica nei confronto dello spaesamento determinato dalla società moderna, dall’industrializzazione, dall’urbanizzazione, dall’esodo di grandi masse dalle campagne nelle moderne città che determina l’erosione dell’antico mondo.
Condannata dai progressisti illuministi come segno di un passatismo, la nostalgia assume così il segno opposto di riscatto e di rivoluzione, e spostando il paese perduto nel futuro, ne ribalta di 180 gradi la prospettiva. A questo punto, dice Teti, la nostalgia non è più un concetto adatto a neutralizzare la storia, ma è capace di sprigionare, a certe condizioni, delle dinamiche sovversive. Il passato può e deve essere riscattato come un universo, un mondo sommerso, di potenzialità diverse, non compiute, ma suscettibili di future realizzazioni. Al nostalgico è stata data in dote una debole forza messianica, su cui il passato ha un diritto (Benjamin).
Il desiderio ritrova così un punto di resistenza per avanzare. Ma questo punto, appena fissato, rischia di dissolversi nel nulla, in un sogno, il sogno di un paese perduto, il quale allude ad un sol dell’avvenire. Ma la storia, con le sue miserie, con le sue distruzioni, con le sue devastazioni, con le brutalità oscene e senza fine, ha dimostrato che questo sogno è solo ideologia e nient’altro. Bisogna allora ritrovare un punto di solidità non immaginaria, non retorica, non promessa. E qui torna in scena (siamo alcune pagine più avanti, 263) quell’uno che esplode e si frantuma e si disperde, quell’uno effettivo distrutto dal capitalismo e dall’illuminismo, e che rivendica ora ciò che gli è stato tolto. Non si tratta più di un’allusione ad un mondo di sogno che funge da alibi per un’azione di cambiamento del futuro. Ma si tratta di un mondo passato effettivo che rivendica il suo posto nella storia.
Quando esplode e si frantuma l’antico universo, dice Teti, nasce un diffuso sentimento nostalgico. Le parti che lo compongono creano onde sonore e colori di nostalgia che non significano ritorno al passato ma linfa per costruire qualcosa di nuovo. La fuga, l’inquietudine, la nostalgia del qui e dell’altrove diventano caratteri forti di una nuova identità che si afferma con la frantumazione e l’esplosione dell’antico mondo.
Il libro di Teti si chiude qui – la posta tetica non ritorna come sintesi, si finisce per pagare il lettore con una cambiale. Ma potrebbe andare avanti all’infinito. L’interminabile non è accidentale, non sopraggiunge, dall’esterno, per indicare l’incompiutezza. La ripetizione e il transfert speculativi aprono il cammino. Un passo avanti richiede un passo indietro, e un passo indietro un passo avanti, finché il gioco regge, finché il piacere ha legna da ardere. Si toglie una metafora con un’altra metafora – rimandando il senso letterale.
 

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