Embraco: cronaca di una fabbrica moribonda

Immagine di naive art

 

1. Video e dintorni

Nella vicenda degli operai dell’Embraco ci sono immagini rimaste impresse nella memoria semantica. Per questo emerge la necessità di ricostruire il puzzle.
Alcuni dipendenti dello stabilimento di Chieri si incatenano ai cancelli. Uno di loro dice che vogliono solo lavorare. Pochi secondi dopo, la voce della stessa persona, inizia a diventare tremula, le parole faticano ad uscire dalla sua bocca, è distrutta! Ma regala all’intervistatore un ultimo, decoroso e flebile suono, «Aiutateci!».
La forza della disperazione ha dato alle persone in lotta due minuti di gloria. A partire da quel momento inizia la discesa nel buio del dolore, della perdita. I riflettori, una volta spenti, lasciano solo fiochi ricordi nella memoria episodica. Ogni operaio sa bene dentro di sé che non ci saranno “imprese buone” pronte a scommettere sul patrimonio di conoscenze che hanno accumulato nel corso degli anni.
Tutta l’esperienza accumulata svanisce con la pre-annunciata fine di quella relazione produttiva che ha scandito il ritmo della vita e forgiato l’esperienza di uomini e donne in carne e ossa.
Se il corpo è stanco e ancora assopito alla disciplina della fabbrica, il cervello inizia a pulsare, evocando i fantasmi dell’insicurezza economica, i quali sono stati messi a tacere nei congelatori che ognuno di loro ha contribuito a costruire.
A nulla è valso essere servizievoli e condiscendenti alle politiche aziendali: essere sempre presenti, elargire l’intelligenza, il sudore, il respiro, il sonno, portarsi a casa immagini oniriche, confondere la casa con la fabbrica e altre peripezie varie. La suprema “legge economica” fa sentire tutto il suo peso e manda in frantumi le ragioni e le illusioni sia della “comunità” locale che di quella nazionale.
Per anni, forse, tranne che nei precedenti periodi di crisi, in pochi si sono resi conto che la propria vita era legata in modo viscerale ai compressori che altri soggetti compravano.
C’era una forte interdipendenza con compratori sconosciuti, lontani dal luogo di produzione. Eppure, è proprio questa separazione una delle caratteristiche principali delle relazioni mercantili. La cooperazione non è il presupposto di coloro che sono coinvolti nelle relazioni produttive, ma è il risultato di un processo storico determinato, laddove ciascuno agisce separatamente e tutti sono uniti coattivamente per generare il profitto, cioè il denaro che deve partorire altro denaro, ma in una progressione geometrica crescente.
È impossibile distoglie lo sguardo dalle immagini degli operai davanti ai cancelli, immagini cariche di emozioni. Nella mente affiorano altre immagini, alcune sono statiche e in accordo con il degrado e lo squallore che ci circonda, altre in movimento e in totale contrasto con quel senso di impotenza che evoca l’intervista dell’operaio. Tra i tanti interrogativi prende forma quello che scalcia con veemenza: Ma che fine ha fatto quel tessuto sociale che nella prima parte degli anni 70 del secolo scorso ha fatto dire agli Agnelli di turno che nelle fabbriche comandavano gli operai?
È noto, o almeno lo dovrebbe essere, che il potere contrattuale dei lavoratori dipendenti aumenta man mano che cresce il bisogno della loro forza lavoro. Solo in queste circostanze – ancora oggi – si può alzare la voce. Tant’è vero che una delle rimostranze, su cui hanno battono il chiodo coloro che hanno dedicato tempo e spazio alla questione Embraco, è connessa con l’aumento salariale dei colleghi slovacchi.
Quello che è scarsamente conosciuto, invece, è tutto il processo che si è delineato a partire dalla crisi dello stato sociale e dalla sconfitta del movimento operaio che in quell’organizzazione aveva fissato le proprie rivendicazioni. Ci sono tanti sentieri di ricerca che vale la pena approfondire. Per esempio, si può trovare traccia di uno di essi nell’articolo qui. I quadro storico accennato è importante al fine di non fissare il discorso sull’immediato presente, al punto da lasciar intendere che ci si trovi sempre all’anno zero.
Gli avvenimenti che sono stati raccontati negli ultimi due mesi in merito alla temporanea/definitiva chiusura dello stabilimento di Chieri, non possono essere considerati isolatamente. Vanno inquadrati nel flusso storico che ha come denominatore comune il ridimensionamento del settore industriale.
Non basta il grido “al lupo! al lupo!” del ministro Calenda, il quale, nonostante conosca le dinamiche delle relazioni aziendali, finisce con l’ avanzare dei sospetti sui presunti aiuti Ue e lanciare accuse sul dumping sociale. Come se per un attimo avesse dimenticato i miliardi di euro erogati dal Governo alle imprese italiane per la fiction relativa alla trasformazione dei posti di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato.
Gli stessi sostenitori del modo di produzione capitalistico non percepiscono che i rappresentanti del capitale, come ha affermato Marx, tanto tempo fa, sono “creature di questo specifico sistema di produzione”, non i creatori come in tanti continuano a fantasticare.
In un recente libro – La filosofia e le sue storie – Umberto Eco, nell’illustrare lo stile del Manifesto del 1848, sottolinea che, dopo l’elogio di Marx e Engels per le conquiste materiali che si verificano con l’ascesa della classe borghese, c’è un capovolgimento drammatico: “lo stregone si trova impotente a dominare le potenze sotterranee che ha evocato, il vincitore è soffocato dalla propria sovrapproduzione…….”
Nel percorrere gli aspetti salienti della storia della Embraco, la quale ha messo a soqquadro la vita di tante persone, è molto difficile trovare dei documenti che utilizzino un approccio analitico per affrontare il problema che stiamo cercando di delineare. Anzi, la stragrande maggioranza degli articoli pone l’accento sulla “cattiveria” di quei capitalisti che portano le fabbriche all’estero. Sembrano parafrasare il linguaggio dei bambini: se produci e investi in Italia sei buono, altrimenti sei cattivo.
Gli stessi operai, molto spesso, cascano nella trappola di giochi a somma zero: io vinco e tu perdi; se io esporto tu importi, e così via o così sia! Ma non è sempre così. Nel corso della storia si trovano esempi di controtendenze che mostrano la maturazione di una capacità metacognitiva. Anche se poi si capitola. Come nel 1871, quando gli operai francesi e tedeschi, resisti conto di essere diventati carne da macello nel sanguinoso conflitto franco-prussiano, provarono a parlarsi. Può essere questo l’esempio di un probabile sentiero da seguire per uscire dal vicolo cieco dei nazionalismi? Oggi sono più importanti gli operai delle acciaierie italiane o di quelle tedesche?

2. I torrenti del linguaggio digitale

Dunque, non solo riprese televisive mandate in onda alle ore di punta, ma anche tanti articoli, alcuni scritti in fretta e furia, e quasi pubblicati apposta per confondere ogni tentativo di individuare uno spiraglio nella selva delle parole. Nessuno dei documenti che ho trovato prova a collegare la vicenda della Embraco ai problemi che nascono come conseguenza degli aumenti di produttività. Non ci sono segnali di apertura mentale che lascino intendere che, in qualche misura, la chiusura dello stabilimento possa essere legata alla saturazione dei mercati, come conseguenza dell’aumento della capacità produttiva.
La storia dello stabilimento di Riva di Chieri, iniziata negli anni 70, ci aiuta ad orientarci. Costruito dalla Fiat Aspera, produceva frigoriferi e compressori a tenuta stagna, su licenza americana. Nel 1985, la Fiat si libera del satellite e lo cede alla Whirpool, la principale multinazionale americana di elettrodomestici. Nel 2000 la Whirpool, dopo aver portato la produzione al massimo, impiegando circa 2.500 dipendenti, cede la fabbrica alla sua controllata Embraco. Da fonti della Rassegna CGIL si apprende che la produzione di compressori, prima che entrasse in gioco Embraco, si attestava intorno a 4,5 milioni di pezzi l’anno.
La società Embraco è un gigante mondiale, controllata da un altro colosso mondiale, quindi ha nel suo DNA il mito dell’espansione. Nei loro piani strategici c’era l’obiettivo di aumentare la loro quota di mercato a livello globale. Pertanto, decisero di aprire un’altra filiale in Slovacchia, senza valutare che la fiera dell’Est potesse diventare saturata in un arco di tempo molto breve. La crisi della fabbrica piemontese iniziò nel 2004, quando entrò in funzione la nuova linea produttiva a Spisska Nova Ves.
Indubbiamente ci sono state una serie di condizioni favorevoli che hanno attirato l’investimento Embraco in quest’ultima area, in primo luogo, il costo della manodopera più basso. Ma dovrebbe essere evidente che questo tipo di logica aziendale mira ad una sorta di cannibalizzazione di sé stessi, qualora si dovesse produrre di più e vendere gli stessi quantitativi di prima. Ovviamente, non ho analizzato i piani aziendali, così come non dispongo dei dati della contabilità gestionale, essendo questi ultimi in possesso dei soli analisti interni e non soggetti alla pubblicazione.
In ogni caso, anche senza analizzare i dettagli delle politiche aziendali della multinazionale brasiliana, che rimane un’affiliata del gruppo Whirpool, è possibile dedurre dalle diverse ricostruzioni di questa vicenda due direttrici sintetiche.
La prima è più o meno nota: in seguito alla prima crisi del gruppo Embraco, nel 2004, vengono annunciati 812 esuberi, quindi intervengo le istituzioni locali e il Governo centrale con finanziamenti pubblici e l’azienda ritratta, ma la metà delle persone ritenute in esubero viene lasciate a casa. Nel corso degli anni, quando i riflettori non erano presenti, in un silenzio assordante, c’è stata una continua espulsione della forza lavoro.
Nel 2011 la Primo Ministro Slovacca Iveta Radikowa inaugura a Spisska Nova Ves una nuova linea di produzione della società Embraco, contribuendo con finanziamenti pubblici e sgravi fiscali di diversi milioni di euro, ma in linea di massima di pari entità a quelli concessi dagli enti pubblici italiani.
Nel 2014 la crisi divenne più grave, e alla minaccia di lasciare l’Italia, la regione Piemonte firmò un accordo e sborsò altri soldi. Ma l’emorragia continuò fino al collasso attuale.
La seconda direttrice è meno evidente, poiché, in base ai dati che è stato possibile reperire, è necessario fare delle congetture.
Nel 2011 la fabbrica slovacca ha quasi raggiunto il livello di produzione che aveva quella piemontese nel 2000, cioè 4,2 milioni di pezzi. Dalla stessa fonte si apprende che il volume complessivo, a livello mondiale era, nel 2011, di 30 milioni di compressori.
Ecco cosa scrive, invece, A. Rociola nel 2018: «l’azienda detiene il 25% del mercato globale, con oltre 37 milioni di compressori prodotti ogni anno» (AGI Economia 20/02/2018).
A mio avviso, quindi, bisognerebbe partire dal riconoscimento di questo notevole incremento della produttività che si è verificato nel periodo di tempo che va dal 2011 al 2018. Poi, giustamente, si obietta da più fronti: «Perché tagliare proprio in Italia?».
La risposta potrebbe essere duplice:

a) è molto difficile che i media nazionali ci informino sugli eventuali sbaraccamenti che avvengono negli altri paesi, anche in quei paesi come la Slovacchia che godono di un trend positivo;

b) il “gioco senza fine” al quale siamo ormai abituati ad assistere passivamente terminerà quando i lavoratori dipendenti acquisiranno una consapevolezza rispetto alle proprie condizioni di vita, cioè quando comprenderanno che ci troviamo in una situazione paradossale che ci impone di abbandonare il vecchio gioco.

In merito al problema che sto cercando di estrinsecare, sarebbe necessario, in primo luogo, che venissero sperimentate una serie di pratiche sociali che mirino alla collaborazione tra gli stati nazionali, al fine di pianificare il caos della produzione mercantile. In altri termini, lo Stato non dovrebbe più essere al completo servizio del mercato.
In secondo luogo, i produttori diretti di un determinato sito produttivo dovrebbero essere in grado di connettersi con gli operai, i tecnici, gli impiegati della stessa azienda che opera in un altro paese e provare a mettere in discussione la proprietà privata dei mezzi di produzione. Un passaggio, quest’ultimo, essenziale se si ha come obiettivo quello del godimento dell’abbondanza, che viene creata e distrutta da un modo di produzione che è diventato anacronistico.
Questo non significherebbe l’abolizione tout court della proprietà privata – non c’è nessuna intenzione di fare dei proclami per spaventare i possessori di beni personali!-, ma la socializzazione della stragrande maggioranza dei mezzi di produzione che è sotto le redini di una piccolissima percentuale della popolazione mondiale.

 

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