La crisi e le ore di lavoro: un secolo dopo

agnelli e einaudi

Il periodo più intenso della collaborazione di F. Caffè con il Manifesto fu tra il 1980 e il 1981. Galapagos racconta che, tra i suoi primi articoli, Caffè riprese l’analisi di un carteggio tra il senatore Giovanni Agnelli e Luigi Einaudi, che la redazione intitolò: “Lavorare meno lavorare tutti”. Secondo G. Mazzetti (Ai confini dello Stato sociale), questo slogan fu coniato per la prima volta dalla CISL. Se la CISL successivamente abbandonò il tema, per gli altri sindacati rimase soltanto uno slogan da richiamare in modo meccanico.
Gli scambi epistolari apparvero sulla rivista “La Riforma Sociale”, diretta da Einaudi, nel gennaio 1933. Nel giugno 1932, il presidente della FIAT rilasciò alla Word Press un’intervista sulle ore di lavoro e la crisi, suscitando un ampio dibattito internazionale. Il 5 gennaio 1933, Agnelli scrisse a Einaudi per spiegare, in modo pragmatico, la disoccupazione “tecnica”, legata all’introduzione delle macchine nella produzione industriale. Egli propose un modello semplificato, partendo dal salario di sussistenza, dove l’intero ammontare veniva speso per la riproduzione della forza lavoro e delle famiglie degli operai.

Nota metodologica

Nel seguire il ragionamento che sta alla base dello scambio epistolare, formulo un modello che esprime una sintesi comune dei diversi valori numerici utilizzati. Nello specifico, circoscrivo l’analisi numerica di Agnelli all’interno del modello (tabella) proposto da Einaudi, il quale sottolinea la produzione aggiuntiva e i relativi compensi di ciò che lui definisce “capitale tecnico”. Gli autori convengono sull’utilizzo del dollaro come unità di conto e ipotizzano il costo medio di una giornata lavorativa pari a un verdone. Nella mia rielaborazione introduco gli euro, per rendere il modello attuale e ipotizzo una giornata lavorativa pari a 80 euro per semplificare i calcoli.

Un modello esplicativo della realtà economico-sociale degli anni Trenta, del secolo scorso, caduto nell’oblio.

Se nella fabbrica A lavorano 100 operai e il loro salario medio è di 80 euro al giorno, per una paga oraria di 10 euro all’ora, ogni giorno nasce una domanda di 8.000 euro di beni e servizi, che vengono acquistati sul mercato. Se a livello macro, cioè a livello aggregato, non ci sono intoppi, afferma G. Agnelli, gli affari girano bene, non si parla di crisi e quindi non c’è bisogno di lubrificare i meccanismi economici.
Ora, siccome gli industriali tendono a risparmiare il lavoro e a guadagnare di più, fanno a gara a chi introduce le migliori innovazioni tecnologiche, quindi succede che nel sito produttivo A, l’applicazione di nuovi macchinari permette a 75 operai di compiere il lavoro che prima era svolto da 100. Il che significa che 25 operai rimangono disoccupati, mentre gli altri 75 producono la stessa quantità di prima, ma con meno ore, ossia 600 ore invece che 800, sulla base di una giornata lavorativa media di 8 ore. Quindi per produrre la stessa quantità di prima sono sufficienti solo 6 ore. Le aziende che operano nello stesso settore, se non si adeguano, rimangono fuori mercato. Una volta che l’innovazione si è generalizzata, si verifica un incremento del tasso di disoccupazione, se i lavoratori e le lavoratrici resi superflui non trovano un’occupazione alternativa. I 25 operai che rimangono fuori riducono i loro consumi, i quali vanno ad incidere sulla produzione di altre aziende. Se teniamo presente che in quegli anni si assiste a una crisi industriale terrificante, il senatore Agnelli ha sotto gli occhi la riduzione della domanda di beni e servizi, rispetto al periodo precedente, e di conseguenza prende atto che per soddisfare i bisogni del mercato una parte dei 75 operai ancora attivi diventa ridondante.
Certo – continua il Presidente della F.I.A.T – voi economisti ci avete abituato a credere che ad un certo punto l’equilibrio sarà ripristinato, ma per noi capitalisti, quando ci troviamo sulla “china discendente”, ci sembra che questa “catena paurosa”, appena descritta, non abbia mai fine.
Tuttavia, egli constata, sul piano empirico, che in seguito all’invenzione tecnica, apportata nel processo produttivo, la quantità di beni prodotta nello stabilimento A rimane invariata, utilizzando 600 ore di lavoro anziché 800, quindi si presenta la possibilità di pagare lo stesso ammontare di salari, senza espellere i 25 operai, rimpiazzati dalle macchine, riducendo la giornata lavorativa da 8 a 6 ore.
Agnelli, nel porre la sua attenzione alla crisi dilagante, individua una soluzione empirica alla disoccupazione involontaria, legata alle innovazioni tecniche, ma poi asserisce che tale modello sussiste nella sua testa e funziona, in qualche, misura da parafulmine ai “collassi spaventevoli” della domanda aggregata a cui i suoi occhi assistono impotenti. Quindi, un dubbio lo assale e rivolgendosi al suo collega senatore del Regno, chiede: «Nel mio discorso, ho trascurato qualche fattore invisibile, sul qual voi economisti vi dilettate?».
A dire il vero, Einaudi sulla questione dei “fattori invisibili”, che di fatto limitano le condizioni di vita di milioni di lavoratori, evade la risposta, non perché l’argomento sia troppo sottile per le sue capacità intellettuali. No! C’è una ragione pratica che accomuna entrambi gli interlocutori: sebbene assistano a una profonda crisi economica e sociale, non avvertono una situazione di disagio tale da spingerli al cambiamento. I fattori invisibili a cui accenna Agnelli esistono e si chiamano rapporti sociali di produzioni, infatti gli sviluppi delle forze produttive non trovano un risvolto positivo, se non vengono messi in discussione i rapporti della proprietà privata.
Quest’ultima puntualizzazione è necessaria e svolge una funzione meta-cognitiva nell’ambito dei rapporti sociali in cui sono immersi i due interlocutori, esprime un tentativo di spiegare le resistenze al cambiamento, non solo della classe che detta gli ordini del giorno dell’agenda sociale, per imporre il proprio punto di vista, ma anche della classe lavoratrice, la quale cede alle lusinghe, alle persuasioni e all’uso della forza bruta dei membri del gruppo dominante, accettando l’idea mistificatrice che i guai dei lavoratori siano collegati alla “scarsità di risorse”, e che quindi essi siano costretti ad estendere o mantenere invariato il loro orario di lavoro.
Einaudi riprende il discorso del Presidente della F.I.A.T., evidenziando nel modello l’allargamento del ciclo produttivo, con l’introduzione della macchina, intesa come “qualunque procedimento tecnico atto a risparmiare lavoro”; percepisce che gli industriali sono impazienti di arrivare al nocciolo del problema. Pertanto, gli fa notare che dopo l’introduzione dell’innovazione tecnologica, oltre alla diminuzione del lavoro socialmente necessario, per produrre il valore di 8.000 euro di beni, si verifica un incremento della produzione del 20 % che corrisponde a un valore monetario di 1.600 euro e rappresenta il compenso spettante agli inventori e ai risparmiatori che hanno contribuito a fabbricare la macchina.
Giova precisare che il discorso di Einaudi si basa su due semplificazioni della realtà produttiva di beni destinati alla vendita: la prima consiste nel mantenere invariata la capacità di acquisto di beni e servizi da un momento all’altro, cioè dal processo produttivo senza macchina a quello con la macchina; la seconda rende il modello interpretativo della realtà meno complicato, in quanto non dà importanza alla distinzione tra beni di consumo diretti e beni strumentali.
Dunque, l’apporto della macchina determina una riduzione della fatica dei lavoratori a parità di salario e presuppone, secondo l’impostazione di Einaudi, un aumento della produzione, che dipende dalle capacità organizzative dell’imprenditore, dagli inventori, cioè dalle conoscenze e competenze scientifiche in quel determinato periodo e contesto e dal saggio d’interesse. Nella mia rilettura del modello ipotizzo un incremento di 1.600 euro di produzione aggiuntiva, mentre Einaudi suppone un incremento di 20 euro della produzione aggiuntiva, cosicché la produzione totale passa da 100 a 120 unità giornaliere.
In queste circostanze, se vengono soddisfatte tutte le condizioni o le variabili che entrano in gioco – sostiene Einaudi – il sistema tende all’equilibrio, la situazione economica è stabile.
Dopodiché, lo schema di Einaudi cerca di entrare in profondità, dando rilievo ai dettagli matematici, individuando due categorie salariali: quella degli operai stazionari e quella dei progressivi. Tale separazione deriverebbe dalle difficoltà a uniformare le innovazioni tecnologiche, dato che una riduzione generalizzata a 6 ore per tutti i 100 lavoratori comporterebbe una perdita per quelli stazionari e un guadagno dei lavoratori progressivi che, peraltro, andrebbe a compensare lo squilibrio del primo gruppo.
Da buon liberale, non riesce a generalizzare gli aumenti di produttività a tutti i dipendenti, poiché, come ho già rilevato, non mette in discussione i rapporti di produzione capitalistici; riconosce le implicazioni delle tesi individuate da Keynes nella sua opera Essays in persuasion, in relazione agli straordinari aumenti della capacità produttiva registrata nel secolo precedente e sugli ulteriori sviluppi che si prospettano già negli anni trenta del XX secolo, nonostante la terrificante crisi che si vive in quel periodo. Tuttavia, non coglie l’aspetto essenziale che genera la crisi, ovvero la sovrapproduzione e la connessa domanda aggregata inadeguata, mostrando così di rimanere ancorato ai suoi rigidi principi liberisti e nella credenza che le forze del mercato siano in grado di autoregolarsi.
Cosa accadrebbe – chiede Einaudi – se la giornata lavorativa, dopo l’introduzione del “capitale tecnico” e la conseguente espulsione di 25 operai dal processo produttivo, rimanesse di 8 ore per i 75 operai ancora attivi, anziché ridurla a 6 ore ed impiegare l’intero gruppo di 100?
Il gruppo stazionario di 50 operai darebbe luogo ad un valore della produzione equivalente a quella anteriore all’introduzione della macchina, ossia 4.000 euro, mentre il gruppo progressivo, fermo restando le 8 ore giornaliere, creerebbe una quantità di prodotti pari a 5.600 euro, di cui 2.000 euro ai 25 operai, 1.600 euro come valore aggiuntivo ai risparmiatori e agli inventori e i restanti 2.000 euro, che corrispondono agli aumenti di produttività e il relativo taglio dei 25 operai dal sito produttivo A, finiscono nelle tasche dell’imprenditore che organizza e gestisce il processo produttivo.
Il nocciolo della questione, secondo Einaudi è: «Che fare del margine disponibile dal gruppo progressivo?».
Il margine derivante dall’impiego della macchina non può essere destinato alla riduzione dell’orario di lavoro, in quanto per Einaudi questa strategia non rappresenta la soluzione al problema della disoccupazione o perlomeno, a suo giudizio, il percorrere tale strada condurrebbe al fallimento e sarebbe un rimedio temporaneo.
Nella sua scala gerarchica mette al primo posto gli interessi degli inventori, dei risparmiatori e in particolare degli imprenditori, i quali corrono il rischio dell’introduzione della macchina. Ovviamente, è distante anni luce dal concetto della macchina come lavoro oggettivato, come “lavoro morto”, che è il risultato delle conoscenze e delle competenze e in generale del sapere collettivo, non solo della generazione attuale, ma anche delle precedenti generazioni. Egli ha un’idea degli inventori come dei soggetti avulsi dal contesto storico, come se estraessero le nuove scoperte da un cappello a cilindro, alla stessa stregua dei maghi. Certo, il lavoro del singolo, il lavoro particolare, quando emerge, fa la differenza! Ma la domanda è: «Cosa sarebbe stato Leonardo Da Vinci senza il Rinascimento?».
Di fronte all’imperversare della crisi dei primi anni trenta del secolo scorso, l’economista piemontese non può far finta di niente, non può tacere, quando prende atto dei milioni di disoccupati sparsi in tutti i paesi più industrializzati del mondo, così come non può sconfessare il suo credo politico, che prevede un sussidio per non morire di fame
Tuttavia, egli insiste imperterrito sulla sua tesi, e non percepisce che si trova al cospetto della disoccupazione tecnica o involontaria, tant’è che afferma che l’aiuto alla sopravvivenza di coloro che sono senza un lavoro, nonché delle loro famiglie, dev’essere disegnato in modo tale da non indurli a rimanere aggrappati alla “professione di disoccupati”.
Non si rende conto che si trova immerso in una profonda crisi strutturale di sovrapproduzione, che gli industriali non investono, poiché il ROI prospettico è negativo, non vede che il sistema si è bloccato, in ossequio alla destinazione di quel margine. Tira dritto come se nulla fosse, sostenendo che la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario non possa intervenire nella produzione degli “stessi beni” e fantastica di un’espansione della produzione di nuovi beni e servizi, che andrebbero a soddisfare prontamente la domanda dei consumatori sul mercato. Immagina di essere catapultato ai tempi di Jean-Baptiste Say e con lui sentenzia che l’”l’offerta crea la propria domanda”, ossia la produzione genera il reddito per acquistare tutto ciò che viene prodotto. Nella mente di Einaudi, la negazione del problema degli sbocchi viaggia contemporaneamente alla giustificazione e perpetuazione degli extra-profitti, in un contesto in cui la disoccupazione dilaga; preferisce convergere gli incrementi di produttività sugli oneri figurativi degli imprenditori, dopo aver remunerato i “risparmiatori”, intesi come soggetti esterni all’impresa (le banche).
Allora, che fine fa il capitale di rischio? Nel suo discorso sparisce dalla circolazione e diventa un tabù.
A cosa corrisponde il denaro apportato dall’imprenditore che diventa capitale?
Quel denaro corrisponde al “lavoro risparmiato” e in misura maggiore allo sfruttamento dei lavoratori, farli lavorare 8 ore, quando la riproduzione del loro salario è pari a 6 ore.
Quindi, nel cadere nelle grinfie della mistificazione, affida le sorti della riduzione dell’orario di lavoro al mercato, alla competizione tra industrie stazionarie e quelle progressive e soprattutto sferza i disoccupati, sui quali cadrebbe la responsabilità di non far sorgere la domanda di nuovi beni e servizi, se essi “continuano a dormire sonni tranquilli all’ombra di un sussidio permanente”.
In conclusione, sebbene i due interlocutori, come ho sottolineato qui sopra, appartengano alla stessa stratificazione sociale, c’è una sottile differenza che contraddistingue i loro modi di pensare e di agire, rispetto al fenomeno della disoccupazione: il senatore economista non esprime dubbi sulla propria condizione sociale, sottovaluta l’impatto del “capitale tecnico” sul risparmio di manodopera, individuando come variabili prioritarie la guerra, le crisi sociali di India e Cina, l’aumento dei dazi doganali e i connessi meccanismi di difesa, eccetera, ragion per cui pone la riduzione dell’orario di lavoro alla fine della sua scala gerarchica, sostenendo che il riequilibrio implica gradualità, tempi lunghi e un atteggiamento spontaneo (naturale) di non intervento sulle forze che interagiscono nel mercato; il senatore industriale, che ha una visione pragmatica delle relazioni sociali, oltre ad esprimere un dubbio sulle proprie condizioni di esistenza, è toccato materialmente dagli effetti della crisi, con la conseguente riduzione delle vendite e i relativi licenziamenti, quindi parte dal presupposto che il “fattore tecnico” rappresenti una componente fondamentale del problema della disoccupazione; al contrario di Einaudi, Agnelli pensa che la riduzione generale ed uniforme dell’orario di lavoro sia un problema all’ordine del giorno, da non rimandare a un futuro vago ed indefinito, non cade nel fascino di espressioni idiomatiche del tipo “l’alea incerta del domani” utilizzata da Einaudi nel suo ragionamento ed innanzitutto non s’illude che gli aggiustamenti o i riequilibri possano attuarsi con degli “automatismi naturali”, anzi, bisogna spingere nella direzione di “aiutare le forze naturali” ad affrontare e supera i dolori del cambiamento, aggiungerei io.

(1) L. Einaudi, La crisi e le ore di lavoro, in «La Riforma Sociale», gennaio-febbraio 1933, p. 1-20, https://www.luigieinaudi.it

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