Il recente saggio di Eugenio Donnici riporta alla ribalta un conflitto che ha segnato la storia economica italiana e che oggi si ripropone con forza: la sfida tra Giovanni Agnelli e Luigi Einaudi sulla riduzione dell’orario di lavoro e il ruolo dell’innovazione tecnologica.
Nel 1933, Agnelli lanciava una proposta che oggi suona rivoluzionaria: ridurre la giornata lavorativa da 8 a 6 ore, mantenendo lo stesso salario, per assorbire l’impatto della disoccupazione tecnologica. Allora, la sostituzione di 25 operai con macchine minacciava 100 posti di lavoro. Per Agnelli, la via d’uscita era la redistribuzione del lavoro senza sacrificare la domanda interna.
Einaudi, economista liberale, bocciò la proposta: la maggiore produttività (+20% stimata da Donnici) avrebbe, secondo lui, riequilibrato il sistema da sola, senza bisogno d’interventi. Ignorava però, secondo Donnici, il nodo dei rapporti di proprietà: il “fattore invisibile” che determina chi controlla e beneficia dei frutti dell’innovazione.
Un conflitto che brucia ancora oggi
Donnici rilegge il confronto storico alla luce delle sfide contemporanee. L’industria automobilistica globale è di nuovo in crisi: la sovrapproduzione è strutturale, come dimostra il caso cinese, dove solo il 20% della capacità produttiva di veicoli elettrici viene utilizzata.
In Germania, il sindacato IG Metall sperimenta la settimana di 4 giorni a salario invariato, mentre negli Stati Uniti lo sciopero del 2023 del sindacato UAW chiede le 32 ore settimanali. In Italia, invece, il tema resta marginale: il dibattito è concentrato sul salario minimo, ma la riduzione dell’orario di lavoro rimane un tabù.
Un attacco al cuore del capitalismo
Il saggio non si limita a un’analisi storica. Donnici critica radicalmente l’illusione che il capitalismo possa ridistribuire spontaneamente i frutti dell’innovazione. Per lui, la riduzione dell’orario di lavoro – senza tagli salariali – è incompatibile con un sistema fondato sul profitto.
Reddito di cittadinanza e salario minimo vengono bollati come palliativi: non eliminano il problema dell’eccedenza strutturale di forza lavoro, che il capitale continua a sfruttare. Nel frattempo, la finanziarizzazione dell’economia e l’indebitamento globale (oltre 200 trilioni di dollari) servono solo a rimandare la crisi, paralizzando ogni reale trasformazione.
Perché è un tema urgente
Con l’esplosione della microtecnologia e dell’intelligenza artificiale, il nodo affrontato da Agnelli nel 1933 torna drammaticamente attuale. Eppure, manca un movimento sindacale forte che ne faccia una battaglia politica. La crisi di colossi come Stellantis e Volkswagen è la prova che il modello Einaudi – l’idea di un equilibrio spontaneo del mercato – non può fermare la sovrapproduzione.
Per Donnici, la vera alternativa resta la più scomoda: mettere in discussione la proprietà privata dei mezzi di produzione. Un tema che, oggi come ieri, rimane ai margini del dibattito pubblico.
Chi controlla i frutti dell’innovazione?
In conclusione, Donnici rilancia una domanda politica più che tecnica: chi controlla e beneficia delle trasformazioni tecnologiche? Senza un conflitto aperto col capitale, la “catena paurosa” di crisi e disuguaglianze continuerà.
E forse Marx, se fosse tra noi, applaudirebbe la lucidità dell’analisi. Ma non risparmierebbe una condanna: l’incapacità collettiva di liberarsi di un sistema che ha già gli strumenti per emancipare l’umanità, ma continua a perpetuare lo sfruttamento.