C’era una volta la FIAT di Bocchigliero. Dagli operai idraulico-forestali ai tirocinanti

Bocchigliero

«Era na vota e mo’ chest’è ‘a realtà» – cantano i 99 Posse – per sottolineare che il tempo andato non torna più, non sarà più come prima, il tempo non può essere fermato e gli avvenimenti si succedono con un ritmo che ricorda il pulsare della vita. Ciò che resta nelle nostre menti e nei nostri corpi sono gli odori che si associano alle emozioni, le espressioni visive di teste parlanti, la dimensione onirica di soggetti che si muovono e interagiscono in un determinato spazio fisico, le tracce mnestiche della memoria semantica e, ovviamente, i segni e i simboli del linguaggio scritto.

Ed è proprio su questo sentiero che mi appresto a indagare ciò che è accaduto, il divenire dei contrasti dialettici in un determinato contesto.

La dimensione diacronica del racconto mette in evidenza che una serie di relazioni e interazioni reciproche non esistono più. Esse sono state trasformate, hanno subito una modifica, una variazione che ha imposto un cambiamento nella gerarchia dei valori sui quali si fonda la base riproduttiva di una determinata comunità.

Qualcosa del genere è accaduto in un piccolo Comune della Sila, ma il suo raggio d’azione ha riguardato l’intera Calabria, ed è collegato a variabili esogene, così come alle caratteristiche peculiari di quest’area regionale.

A cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, nel piccolo Comune dell’Altopiano silano, le cose non potevano andare diversamente: si seguiva il flusso delle lotte e delle rivendicazioni del movimento operaio, il quale era riuscito a spostare l’ago della bilancia a favore dei lavoratori. I diritti legati al lavoro si diffusero anche nelle periferie del Sud d’Italia e intercettarono i contadini resi ridontanti dai lavori agricoli, alcuni dei quali erano ancora finalizzati all’autoconsumo, mentre le lotte dei braccianti incrociavano quelle degli operai industriali.

In breve, i protagonisti che vennero coinvolti in quelle lotte intuirono che con la loro attività potevano trasformare l’esistente, acquisendo la consapevolezza che la lotta contribuiva ad affrontare la paura della fame e a rendere confortevole la vita dei lavoratori e delle lavoratrici, nonché quella dei loro familiari, grazie anche al fatto che il lavoro era diventato un principio fondamentale della Costituzione italiana, ossia quella” sostanza” universale e astratta che era la base della misura del valore.

Sull’altro versante, il borgo silano, a partire dalla fine del XIX secolo, aveva iniziato a gravitare in quella grande maglia reticolare esplicata dalla divisione internazionale del lavoro, mediante i flussi migratori in uscita, prevalentemente verso l’America del Nord e del Sud, sino agli anni venti del secolo scorso e, successivamente, dopo la seconda guerra mondiale, per lo più in direzione del Nord Europa e del Nord d’Italia.

La forza di questo flusso, in realtà, non si è mai interrotta, ma nei primi anni Settanta del secolo scorso, si è verificata una controtendenza, un arresto dell’emorragia che ha dissanguato (e continua a dissanguare) il tessuto sociale di questa piccola comunità e in generale di tutto il Sud d’Italia.

Tale controtendenza fu agevolata dal fatto che molti dei migranti, oltre ad abbandonare “l’amara terra”, avevano lasciato non solo la rete parentale di cui erano parte, ma anche i nuovi nuclei familiari appena formati. Le rimesse dei migranti conterranei, ossia i trasferimenti di denaro, in quel determinato periodo storico, rappresentavano preziose risorse in entrata, il cui valore economico eccedeva il mero sostentamento dei figli e delle mogli rimasti al paese. Infatti, tali eccedenze, formatesi con il duro lavoro, la lontananza dai propri congiunti e tutti i sacrifici connessi, erano indirizzate alla costruzione di case che non somigliassero ai vecchi tuguri in cui erano cresciuti.

Dunque, il progetto di ritornare nel luogo originario nella propria terra, nell’area di provenienza, trovò una corrispondenza e si saldò con le lotte del movimento operaio e contadino, il quale premeva affinché si creassero le condizioni per il miglioramento delle condizioni di vita dei ceti popolari.

Molti di coloro che fecero ritorno iniziarono il nuovo cammino lungo questa direttrice: bisognava scendere in piazza, manifestare, confrontarsi, discutere, provando a risolvere i conflitti e affrontando il problema comune della disoccupazione, una volta che decidevano di recidere il legame che li univa ai contesti industriali, in terre straniere.

Con il termine “rimboschimento” s’intendeva l’avviamento e l’esplicazione di un’attività lavorativa, svolta, in prevalenza, dai capifamiglia maschi e alle prese con il retaggio patriarcale. Al netto di questa precisazione antropologica, nel momento di massima espansione, cioè quando a livello regionale i “forestali” raggiunsero il picco di circa 30.000 operai, a Bocchigliero, tra Opera Sila, Legge Speciale Calabria e Azienda delle Foreste regionali, vi erano intorno a 300 operai, divisi in squadre che agivano nel territorio comunale, in base a specifiche competenze.

Il piccolo paese montano, al mattino presto, si svegliava con il frastuono, le voci e il movimento accelerato degli operai che si spostavano in massa nelle direzioni pianificate, con gli autobus o con i propri mezzi di locomozione privati; la ritirata, nel pieno pomeriggio, assumeva un tono trionfale e impartiva una sorta di cadenza temporale, una scansione della giornata lavorativa, per dire che iniziava il dopo-lavoro che ognuno ritagliava secondo i propri bisogni. Con il calar della sera, la piazza si riempiva di soli maschi giovani e adulti, che passeggiavano avanti e indietro come in un percorso ipnotico, parlando di politica, di contrattazioni lavorative, di sport, di donne e frivolezze di vario genere, mentre nelle cantine si tracannavano ettolitri di vino, senza dimenticare, tra una partita di carte e l’altra, di “stramaledire il Governo”.

I piccoli commercianti, gli artigiani, le imprese edili, i titolari di attività agricole e pastorali, persino le vecchie casate “nobili” del piccolo Comune, dovettero fare i conti con questa scansione del tempo, in quanto gli operai idraulico-forestali rappresentavano il perno attorno a cui ruotava l’intera comunità, fermo restando la valvola di sfogo del fenomeno migratorio in uscita.

Gli stessi commercianti scambiavano, rendevano liquidi, gli assegni circolari non trasferibili ricevuti dai “forestali”, come se fossero delle banche, proprio perché lo strumento di pagamento in mano agli operai era garantito dall’utilità sociale che esplicava il loro lavoro: l’operazione, la transazione era di sicuro buon fine.

I “forestali” non costruivano solamente strade, muretti, ponticelli, cunette, canali di scolo, gabbioni e dighe per contenere le frane, reti idriche per assicurare l’acqua potabile, non rimboschivano solamente migliaia di ettari di territorio, sui quali poi vigilavano contro gli incendi. La loro funzione era quella di mantenere viva l’intera comunità, ponendo un freno, un argine allo spopolamento.

Di certo, non mancavano le dicerie, le prese in giro e i luoghi comuni alimentati dalla mentalità gretta dei piccoli borghesi, i quali facevano di tutto per discreditare l’opera di mantenimento e sistemazione idro-geologica del territorio silano.

L’accusa più grossa che gli veniva rivolta era questa: «Dormono in piedi, con i menti appoggiati sui manici dei propri arnesi di lavoro». Niente di più infondato!

E poi, il prendere il motocarro, che aveva sostituito l’asino, non appena arrivati a casa, per andare a coltivare il proprio appezzamento di terra, era un altro punto a loro favore, poiché, oltre a produrre cibi di qualità, tenevano il territorio pulito e in ordine, preservandolo dagli eventuali incendi.

Negli anni Ottanta iniziò il graduale e inesorabile cambio del paradigma e il numero degli operai idraulico-forestali, in dieci anni, fu quasi dimezzato. Si passò dai 27.000 del 1984 ai 15.233 del 1994.

Dagli atti parlamentari del 1996 apprendiamo che l’entrata in vigore della legge n. 442 del 1994 sancì il blocco delle assunzioni, minando, nel concreto, la realizzazione dei programmi di esecuzione dei lavori.

I promotori del Disegno di legge in materia di impiego dei lavoratori idraulico-forestali chiesero espressamente al Governo d’incrementare le forze lavorative, anche mediante il ricorso al lavoro a tempo determinato, «utilizzando le ore resesi disponibili a seguito di pensionamenti e del collocamento fuori servizio di personale impegnato a tempo indeterminato» (1)

Tuttavia, in questo settore la forma contrattuale a tempo determinato rimase un pio desiderio. Non ci sono state nuove assunzioni, e nel Comune di Bocchigliero l’intero corpo lavorativo fu eliminato. Per la precisione, ne sono rimasti solo due.

La riduzione all’osso del corpo dei “forestali”, della FIAT (era questo il marchio con cui venivano identificati in Calabria) ha prodotto un’altra “realtà”, che rimanda al declino dello Stato sociale e alla nostra incapacità di affrontare le problematiche che tale crisi ha generato.

Dire che con lo smantellamento del “rimboschimento” il borgo ha perso la sua forza trainante, equivale ad affermare che l’abbandono e lo spopolamento hanno preso il sopravvento e di conseguenza il 70 % delle case sono disabitate.

Una tale evidenza non può sfuggire a chi vive nel borgo o vi fa ritorno di tanto in tanto. Il numero degli alunni nella scuola elementare è passato da circa 500, del 1972, a 10 del 2022. Questo dato sintetico costituisce una realtà che non può essere ignorata o negata.

Al contrario, il ricorso ai Tirocini d’Inclusione Sociale, intesi come strumenti per la risoluzione del problema della disoccupazione e la ripresa dalla “depressione economica” che affligge in particolar modo le aree interne, rappresenta una finzione fantastica che alberga nella mente degli sciocchi.

Nell’ottica del cosiddetto lifelong learning e dei work based learning programs, con il consenso della PA e dei politici cialtroni, anche nelle aree periferiche è passato il concetto che non esiste un problema di “occupazione” ma solo di “occupabilità”. (2)

In sintesi, i tirocini extra-curriculari, rivolti ai disoccupati e ai soggetti che vivono di espedienti, avrebbero lo scopo di formare e ri-formare i lavoratori e le lavoratrici, dato che questi ultimi non sarebbero in grado di esplicare le competenze necessarie per entrare “a pieno titolo” nel mondo del lavoro.

Persone la cui età media si aggira intorno ai cinquant’anni, con una serie di esperienze lavorative acquisite in diversi contesti, vengono indirizzate a seguire dei corsi di preparazione e inserimento nel mondo del lavoro. Per semplificare e senza cadere nelle banalità: ti riporto indietro nel tempo, ti impartisco quattro nozioni di biologia, di fisica ed educazione ambientale, quindi sei pronto a fare l’operatore ecologico o la guardia ecologica.

Voi credete davvero che gli operai del “rimboschimento” fossero più istruiti degli attuali “tirocinanti”?

Nient’affatto! Se il grado d’istruzione medio dei primi è la quinta elementare, quello dei secondi è il Diploma della scuola superiore di secondo grado.

Per di più, l’estensione degli stage e dei tirocini a tutti i percorsi scolastici, non solo a quelli professionali, non ha preparato il terreno per facilitare l’accesso dei giovani nel mondo della produzione di beni e servizi. Anzi, le barriere in entrata sono aumentate, poiché a tanti di loro viene proposto uno stage extra-curriculare. Pertanto, se agli studenti, in qualche modo, viene insegnato come adattarsi a condizioni di vita precarie, ai disoccupati viene detto di vivere la precarietà.

E poi, che peso assume l’espressione “Inclusione Sociale” nell’ambito lavorativo?

A me sembra che dietro ci sia la “pedagogia speciale”, il tentativo di ricorrere a parallelismi che non stanno con i piedi per terra, ossia di paragonare, di mettere sullo stesso piano il concetto di disabilità e quello di disoccupazione. In base a questo modo di ragionare, invece di riconoscere che il disoccupato è già pronto per essere impiegato in quelle attività produttive essenziali, che, di volta in volta, la società in cui viviamo individua come necessarie, si finisce per considerarlo debole e fragile, al punto che ha bisogno di un supporto, un’agenzia speciale (Alta Formazione!) che sforna formatori che aiutino il soggetto senza lavoro a trovare la “strada smarrita”.

Il paradosso di tutto questo modo di procedere si esprime non tanto nelle difficoltà a realizzare le infrastrutture occorrenti a ridurre i rischi idrogeologici, che in passato sono state l’orgoglio degli operai idraulico-forestali, quanto nella miseria generalizzata in cui si trovano gli Enti pubblici locali, i quali, presi con il cappio al collo, sono costretti a sfruttare i tirocinanti, per erogare i servizi che rientrano nell’ordinaria amministrazione: decoro urbano, assistenza agli anziani, manutenzione e pulizia delle stradelle interpoderali, etc.

I Comuni hanno le mani legate e la politica stracciona, succube del mercato, continua a disprezzare e deprezzare il lavoro.

Altro che salario minimo! In Calabria, a Bocchigliero, i “corsi per i tirocinanti” sono alla terza edizione, le persone coinvolte prendono 500 euro al mese, non hanno diritto alle ferie, alla malattia, non gli vengono versati i contributi previdenziali e i pagamenti vengono effettuati con ritardi gravissimi.

Non è semplice continuare a lavorare, quando percepiamo il messaggio: c’è bisogno, ma non mi servi!

Per il resto, sarà il lettore a trarre le proprie conclusioni.

————

  1. Atti parlamentari, Senato della Repubblica – 2– 1908. Comunicato alla Presidenza, 20 dicembre 1996.

  2. Per approfondimenti, si veda: Il lavoro c’è, se non lo trovi è colpa tua, www.coku.it

 

FOTO credit: http://users.telenet.be/carlo.fontana/nsmail17.jpeg

Articoli consigliati