I
Nel 1967 Suzanne de Brunhoff scrive un libricino su Marx e la moneta che cade sotto lo sguardo di Deleuze, il quale ne fa il perno della sua lettura del tramonto dei Trente Glorieuses.
In Francia, negli stessi anni, alcuni economisti, riuniti sotto l’etichetta Circuitistes, cercano di inquadrare in una teoria monetaria moderna l’uso da parte dei governi della leva monetaria e valutaria per sostenere un industrialismo che arranca.
L’inflazione rende obsoleta ogni analisi che ritiene la moneta uno strumento neutro. La moneta ha un potere. Essa non ha solo il ruolo di misurare e quantificare il volare di scambio, ma ha anche un potere performativo.
La moneta non misura allo stesso modo se spesa dal proletario o se spesa dal capitalista, non ha lo stesso potere (d’acquisto), e non lo ha in virtù del fatto che non acquista la stessa merce. Il segno che misura il quanto di merci che posso acquistare non è neutro, non è stabile. Non è un mero metro che funziona allo stesso modo se usato da me o se usato dal mio vicino di casa. Quando si dice che l’inflazione in Italia è al 2%, oppure che lo spread è del 3% si parla come se l’effetto di questo aumento fosse uniforme per tutte le persone. E invece non è così. E lo sappiamo bene.
È l’ingresso del potere – della lotta di classe – nell’analisi della moneta.
Queste analisi, lo dico per inciso, si muovono sul terreno di un raffinato empirismo. Considerano la moneta come oggetto parziale. Non considerano la moneta ideale, la moneta senza corpo (ammesso che una cosa del genere possa darsi), la moneta usata in quanto unità di conto, moneta scritturale dei ragionieri (scontata l’evidenza lampante che anche la moneta scritturale ha una empiricità irriducibile), ma la moneta empirica, individuale, che tengo in tasca, e che nelle mie mani ha un potere diverso da quello che ha nelle mani di un altro individuo.
Questo potere della moneta era noto, così come erano note le metodologie per neutralizzarlo (deflazionarlo) sia annullando l’effetto-tempo nelle analisi neoclassiche di equilibrio, sia riducendo a indistinti operatori economici i gruppi sociali, come era uso fare nella teoria delle preferenze.
Per ciò che riguarda il tempo, la teoria neoclassica neutralizzava la differenza computando la distribuzione del reddito in uno scambio simultaneo. E invece lo scambio non è simultaneo, implica un ciclo, delle differenze di tempo; implica un inizio e una fine, e un riciclo, un ritorno dell’investimento. Acquisto della forza lavoro da parte del capitalista, produzione, vendita, ricostruzione del capitale monetario iniziale, consumo dei beni.
Il processo economico è un circuito temporale. Non è una somma di quanti ideali, come risulta dalla teoria dell’equilibrio neoclassica. È un processo storico.
In un testo di Augusto Graziani che farà scuola (Scambi simultanei e successione ciclica nel processo economico), pubblicato sui Quaderni Piacentini – n. 64 del luglio 1977 -, la teoria neoclassica conosce la temperie della lotta di classe – non del marxismo, ma della lotta di classe. È importante questa differenza – differenza che Graziani ribadisce in un convegno degli anni Ottanta organizzato dall’Istituto Gramsci.
Possiamo dire che una lira-salario è sempre uguale a una lira-profitto?, chiede Graziani.
La risposta, dice, è una sola: lira-salario e lira-profitto non variano nella stessa proporzione. L’intuizione e il buon senso ci dicono che per i salariati i prezzi che contano, quelli che determinano il loro benessere materiale, sono soltanto i prezzi dei beni di consumo. Per i profitti, invece, i prezzi che ne determinano la capacità di acquisto sono quelli ai quali viene acquistata la forza-lavoro, e cioè i salari.
La teoria neoclassica è costruita apposta per neutralizzare il conflitto di classe, dice Graziani. Al punto che, quando le contrattazioni hanno inizio, non si sa nemmeno chi sono i lavoratori, chi i capitalisti, chi gli imprenditori. Solo alla chiusura si sa chi ha interesse a diventare lavoratore, chi imprenditore, chi autonomo. Viceversa, dice Graziani, se l’economia è concepita come un circuito, la distinzione di classe si impone all’inizio. La differenza si impone all’inizio. Sono i capitalisti, e soltanto loro, che possono dare l’avvio al ciclo impiegando capitale monetario per l’acquisto di forza lavoro, e questa possibilità li differenzia strutturalmente dai lavoratori, i quali altro non possono fare che vendere la loro forza lavoro svolgendo così nel processo economico un ruolo totalmente diverso. Da questa differenza, dice Graziani, si producono, a cascata, altre differenze, che riguardano la spesa dei rispettivi redditi, gli uni investiti in salari e beni strumentali e materie prime, gli altri in beni di consumo. Per ciò che riguarda i beni strumentali e le materie prime si crea un circuito di consumo separato, interno alla classe dei capitalisti, dal quale rimane esclusa la spesa del reddito del lavoratori. Anche qui, a proposito dei consumi, si misura una differenza che non attiene alle preferenze di consumo individuali, ma attiene alle differenze di classe.
L’inflazione, dunque, non è neutrale rispetto alla distribuzione del reddito.
Nella teoria neoclassica questo potere della moneta, che è il potere di spostare la ricchezza da una classe all’altra, è neutralizzato. Per i neoclassici la moneta svolge un mero ruolo di moneta di conto, e, in linea di principio, può essere eliminata dagli schemi di equilibrio.
In una società con scambi simultanei non c’è posto per la moneta, scrive Graziani. Se gli scambi sono davvero simultanei non c’è posto per una moneta transattiva. Se gli scambi sono generalizzati non c’è posto nemmeno per la moneta precauzionale. A rigor di termini, l’equilibrio generale simultaneo è un equilibrio di baratto.
Dunque, l’idea di uno scambio immediato, senza denaro, l’eliminazione del denaro e dei rapporti di denaro, è un’idea interamente conforme e solidale al sistema neoclassico. L’idea che il denaro corrompa i valori, che il tempo alteri i valori, che l’esperienza spinga al cambiamento e all’alterazione, persino alla perversione, è un’idea esatta. Il denaro ha un potere, ha il potere di pervertire i valori – è bene – e un bene – che lo si sappia.
L’idea che il denaro sia solo un equivalente generale, generalità astratta, denaro ideale, unità di conto, denaro immaginario, e non anche denaro effettivo, mobile, finito, cosa assoluta; l’idea di uno scambio senza denaro, parassita questa concezione di un denaro ideale, inteso come mera unità di conto. C’è bisogno di una unità di conto ideale, di una moneta che non lascia traccia, che non pesa, non si altera, non si distrugge, una moneta trascendentale, evanescente, in cui il tempo e lo spazio, dunque l’esistenza, sono ridotti, annullati, cancellati, tale da poter contare e trattare tutti sullo stesso piano sincronico, misurare tutti con un efficiente e integro metro di misura – il puro quanto; c’è bisogno di questo strumento per produrre uno stato di equilibrio. Bisogna scontare una moneta ideale per poter supporre uno scambio pratico, effettivo, reale, equo. La giusta risoluzione dei contratti, il pareggio di bilancio, l’estinzione dei debiti, la fine delle contrattazione devono affidarsi a questa moneta ideale, infinita, indissolubile, incorruttibile, la quale deve intervenire e porre fine a ogni differenza di forza, deve saldare i conti, pareggiarli, azzerarli, silenziarli, portarli in pareggio. Negli schemi di equilibrio neoclassici questo ruolo è affidato al banditore, al battitore d’asta immaginario. Il banditore porta l’ordine, conduce la serie delle differenza a equilibrio, pareggia gli scostamenti, smussa le differenze, equilibra le pretese, i desideri, ritocca e aggiusta, rende fattibile lo scambio, indica una soluzione, dà un indirizzo. Bisogno di farsi battere per realizzare il proprio desiderio. Bisogno di sottomettersi per far giungere la legge e chiudere entro i tempi regolamentari, senza dilungarsi ad oltranza, in serie senza fine, cambi e ricambi per giungere a far entrare giusto giusto cosa effettiva in cosa effettiva. Si chiede l’intervento del battitore per porre un termine, segnare un termine, affettare, tagliare, segare, incidere, graffiare, legare, forare, percuotere, disegnare, pittare.
E poi ci si lamenta, perché il battitore taglia, pareggia, non guarda in faccia nessuno, non è nemmeno una persona, un semplice altro, ma un grande altro.
Il passaggio si compie in tre fasi. Prima fase del desiderio, dell’abboccamento, del contatto, del tu per tu, del rapporto a due, a due a due, della serie degli scambi possibili – tutta la problematica della serie delle determinazioni, empirismo basico inconcludente. La serie delle permute possibili rimane senza collegamento, dunque senza valore, le possibili merci con le quali voglio scambiare la mia merce sono più piccole o più grandi di quello che dovrebbero essere per entrare nella mia merce. Il prezzo è più alto o più basso – senza equilibrio, pareggio di bilancio, avanza sempre un resto, che è un resto effettivo, un pezzo di cosa, un morso di merce. Dunque, senza transito, senza passaggio, senza scambio, desiderio serrato che non diventa piacere, che si protende e rimane in attesa, non incide, non assegna, non si assegna. Ecco imporsi il secondo momento, in cui sorge sullo sfondo della struttura duale una struttura ternaria, quando il terzo s’intromette come ostacolo alla soddisfazione immaginaria del fascino duale, ne rileva le voglie, cioè le nega e le risolve in un valore ideale, in un ordine simbolico, quello della valorizzazione oggettivante che finalmente permetterà ad ogni merce offerta di tagliarsi in quanti determinati, tale da entrare esattamente nei quanti della merce domandata, senza resto, pareggiando il bilancio.
Negando la negazione che oppone il compratore al venditore, il banditore – il terzo, il fallo – pone finalmente questi momenti o frammenti nella loro piena oggettività.
Banditore assente – ucciso. Battitore d’asta logico, legale, nessuna commistione con il sensibile; presente in alto. Banditore assente nella sua abissalità. Questo discorso dell’Altro, del Terzo, è l’ordine stesso. Nel Banditore il venditore pratico diventa un offerente legale (domanda, offerta), mettendo alla prova del simbolico i suoi fantasmi immaginari, e finisce, se tutto va bene, per diventare quello che è e accettarsi come tale. Nel Banditore l’offerta e la domanda trovano interamente il loro centro e il loro ordine intorno al Martello significante, insegna del padre, insegna del diritto, insegna della legge, immagine fantasmatica di ogni diritto – altitudine trascendentale.
La figura del banditore – l’assenza, l’inaccessibilità, l’abissalità – nonché essere richiesta, reclamata, invocata, reclamata a prestare e a prestar fede, a dar credito, ad anticipare il quanto che lasci transitare il desiderio empirico differenziale, incontenibile, incommensurabile, serrato nella sua differenza, nel suo mutismo; nonché essere reclamata, proprio perché indifferente alla differenza, all’unico e alle sue proprietà, è scongiurata, maledetta, accusata, avversata, caricata di anatemi, come usa fare il credente e ogni santa inquisizione contro il denaro, sterco del demonio: il denaro è l’estraneo, lo straniero, che, se inavvertitamente ospitato, sovverte i costumi, la tradizione, l’identità, scomparendo poi senza lasciar traccia. Il denaro non ha patria, non ha radici, non testimonia (diversamente dal tesoro dell’aristocrazia tradizionale) di alcuno specifico merito, né del riconoscimento altrui, né del valore in battaglia, né della provenienza da una buona famiglia, ecc. Proprio per questa indifferenza alla dimensione passata, ai meriti pregressi, il denaro può spostarsi così facilmente: chi ha nelle proprie mani denaro può spostarsi così facilmente: chi ha nelle proprie mani denaro detiene il relativo potere d’acquisto a prescindere da come si sia procurato quel denaro. Per ciò stesso lo straniero ha anche una relativa facilitazione nel raccogliere denaro, perché può agire senza il freno del giudizio della propria comunità, senza remore né scrupoli, e gli si riservano compiti che nella comunità portano qualche stigma (Zhok).
Viene proposto un binarismo in cui è possibile, magari difficile, ma sempre possibile, distinguere il momento strumentale dal momento performativo (alla Searle). È proprio il binarismo, la logica binaria, che implementa la politica di ritorno ad uno stato adamitico in cui il denaro avrebbe funzionato in modo ideale, in cui non sarebbe stato preso nel vortice di inflazioni e rivalutazioni.
Rottura con la moneta-merce. La moneta-(segno) non esprime questo o quel contenuto – l’oro, l’argento, il lavoro, eccetera -, si esprime attraverso i contenuti ai quali permette di transitare, di circolare, di girare. Si esprime di volta in volta nel quanto vale questa cosa qui, quest’altra cosa qui; transita e permette il transito – circola.
II
Non è più l’età della crudeltà né quella del terrore, ma l’età del cinismo (Anti-Edipo). Ricardo ha già mostrato che il macchinario non costa mai tanto lavoro quanto ammonta il lavoro che viene sostituito da esso. Dunque, dice Marx, non è volgare quando mette i lavoratori sullo stesso piano del macchinario o della bestia da soma o della merce, perché (dal suo punto di vista) la produzione di tipo industriale esige che essi siano solo macchinario o bestia da soma, perché sono solo merci nella produzione borghese. Ciò è stoico, obbiettivo, scientifico, cinico. Al contrario, Multhus, che vuole salvargli l’anima, li abbassa sotto le bestie, sacrificandoli, quando le medesime esigenze della produzione minacciano le decime o l’interesse del proprietario terriero.
L’industrialismo prende forma, ma non è sufficiente che siano disponibili gli elementi. Problema d’avvio. Perché l’Europa e non l’Asia?, chiede Deleuze. A proposito della navigazione d’altura Braudel si chiede: perché non le navi cinesi o giapponesi, o addirittura musulmane? Perché non Sindbad il Marinaio?
Non è la tecnica, la macchina tecnica, che manca.
Non è piuttosto il desiderio che rimane preso nelle reti dello Stato dispotico, tutto investito nella macchina del despota? Allora il merito dell’Occidente, bloccato sulla sua angusta rotta d’Asia, sarebbe forse d’aver avuto bisogno del mondo, bisogno di uscire da casa propria? La sua forza sarebbe stata la sua debolezza, lo spazio ristretto, la scarsa resistenza che lo ha fatto scivolare nell’Oceano?
Marx, dice Deleuze, mostra l’incontro di due elementi principali: da una parte il lavoratore deterritorializzato, diventato lavoratore libero e spoglio, con la propria forza lavoro da vendere, dall’altra il denaro decodificato, diventato capitale in grado di comprarla. Il proporsi di questi due elementi ci dà solo la congiunzione estrinseca di questi due flussi, flusso di denaro e flusso di produttori. L’incontro, dice Deleuze, avrebbe potuto non avvenire. Se è avvenuto, è perché ogni sorta di fattori contingenti ha favorito questa congiunzione: rivoluzione dei prezzi, riserva abbondante di manodopera, formazione di un proletariato, facile accesso a fonti di materie prime, condizioni favorevoli alla produzione di macchine e attrezzi.
Quanti incontri per la produzione della cosa!
In più, dice Deleuze, ogni elemento mette in conto parecchi processi di decodificazione e deterritorializzazione d’origine molto diversa. Per il lavoratore, deterritorializzazione del suolo per privatizzazione (le enclosures); decodificazione degli strumenti di produzione per appropriazione; privatizzazione dei mezzi di consumo per dissoluzione della famiglia e della corporazione; decodificazione del lavoratore a vantaggio del lavoro stesso o della macchina (divisione funzionale del lavoro). E, per il capitale, deterritorializzazione della ricchezza per astrazione monetaria; decodificazione dei flussi di produzione per mezzo del capitale commerciale.
Dati tutti questi oggetti parziali, finiti, senza scopo, che vanno a zonzo. Dove? Non lo sappiamo ancora. Da essi il capitalismo non inizia, la macchina non è montata se non quando il capitale si appropria direttamente la produzione, e il capitale finanziario e quello mercantile non sono più che funzioni specifiche corrispondenti a una divisione del lavoro nel modo capitalistico della produzione generale.
Comunque, aggiunge Deleuze, e qui segue la linea tracciata da Brunhoff, prima ancora che la macchina di produzione capitalistica sia montata, la merce e la moneta operano una decodificazione dei flussi per astrazione. Innanzitutto, dice, lo scambio semplice iscrive i prodotti mercantili come quanta particolari di un’unità di lavoro astratto. Ma, continua Deleuze, solo quando un equivalente generale appare come moneta si accede al regno della quantitas, che può avere ogni sorta di valori particolari o valere per ogni sorta di quanta. Questo è il rapporto più semplice e più antico, che nel mercantilismo si inserisce negli intervalli del corpo sociale pre-esistente, facendo transitare una merce da un mercato a un altro. Acquista là dove una merce è a buon mercato e vende là dove è cara. Si tratta di un capitale di alleanza. Vende per comprare e compra per vendere. Sta in un rapporto di alleanza con la produzione non capitalistica – donde l’alleanza della borghesia mercantile e finanziaria con la feudalità.
La macchina capitalistica, dice Deleuze, comincia a funzionare quando il capitale cessa di essere capitale d’alleanza per diventare capitale filiativo. Il capitale diventa filiativo quando il denaro genera denaro, quando compra forza lavoro e la impiega per valorizzare il capitale, per figliare nuovo denaro.
Qui, dice Deleuze, nel capitale filiativo e propriamente borghese, si presenta il problema della caduta tendenziale del saggio di profitto, problema che non può essere capito fintanto che si intende il plusvalore come codice. E invece il plusvalore è un flusso. Appare anzitutto che questa tendenza alla caduta non ha mai fine, ma si riproduce da sé riproducendo i fattori che la contrastano. Ma perché non ha fine? Probabilmente per le stesse ragione che, dice, fanno ridere i capitalisti e i loro economisti, quando constatano che il plusvalore non è matematicamente determinabile. E ciò perché non è lo stesso denaro quello che entra nelle tasche del salariato e quello che si iscrive nel bilancio dell’impresa. Il denaro non è lo stesso denaro quando a tenerlo in mano è il lavoratore e quando a tenerlo è il capitalista. Nel primo caso, dice Deleuze, sono segni monetari impotenti di valore di scambio, un flusso di mezzi di pagamento relativi a beni di consumo e valori d’uso, una relazione biunivoca tra la moneta e una gamma imposta di prodotti; nell’altro caso, sono segni di potenza del capitale, flussi di finanziamento, un sistema di coefficienti di produzione differenziali che manifestano una forza prospettica. In un caso il denaro rappresenta un taglio-prelievo possibile su un flusso di consumo – una cedola di consumo; nell’altro una possibilità di comando. Una virtualità – precisa Deleuze, non una potenza.
Suzanne de Brunhoff ha potuto mostrare nel sistema capitalistico, dice Deleuze, l’importanza del dualismo bancario tra la formazione di mezzi di pagamento e la struttura di finanziamento dell’accumulo capitalistico, tra la moneta di scambio e la moneta di credito.
Prima di lasciare per un momento Deleuze, mi preme ricordare questo suo inciso sul quale tornerò in seguito: Il plusvalore non è matematicamente determinabile. Lo sfruttamento non ha una misura esatta. Non è esigibile in termini matematici, numerici, astratti.
III
Il capitalismo usa due monete. Dunque in Marx ci sono due monete. Due monete fanno funzionare la macchina.
La prima moneta è equivalente generale, la seconda moneta è moneta di credito.
Per quanto riguarda la prima moneta, Brunhoff spiega come non bisogna affrettarsi a considerala una merce, né tanto meno, a considerarla pari a tutte le altre merci, cioè posata sulla base del lavoro costata per produrla, come fa Ricardo.
Questa primo tipo di moneta non è specifico del sistema capitalistico di produzione. È una moneta che troviamo anche in altri sistemi. Si tratta della forma generale di moneta che accompagna la circolazione generale delle merci, per esempio nel mercantilismo. Questo tipo di moneta continua a circolare nel capitalismo, nonostante il capitalismo sviluppi una sua forma particolare di moneta, la moneta-fiduciaria.
Dal fatto che in alcune circostanze storiche – in molte circostanze, ma non in tutte – come moneta sia stata usata una merce (con un suo particolare valore d’uso) non bisogna concludere che la moneta sia una merce. Ed è altrettanto sbagliato considerare la moneta-merce – la merce-oro, per esempio – come punto di partenza del denaro-merce. Lascio in sospeso questa questione, sulla quale ritornerò in seguito.
La circolazione metallica, sembra suggerire Brunhoff, serve come punto di partenza, perché il denaro ha la sua origine nella merce stessa. La condizione affinché l’oro svolga nei confronti delle altre merci la funzione di denaro, è che esso abbia svolto in precedenza, nei loro confronti, la funzione di merce. Ma non appena diventa denaro deve smettere di essere merce.
Una merce non può funzionare come denaro. Funziona come denaro solo quando viene esclusa dalla serie. Rimanendo oro, rimanendo valore d’uso, il denaro riprende potere d’acquisto, oscilla, non si fissa, si presenta come un metro che misura in maniera diversa a seconda di chi lo tiene in mano – un metro quantistico.
Rimane un mistero il perché il denaro, nel punto di stacco, deve essere stato una merce. Sia come sia, una volta staccato dalla serie, il denaro detiene il monopolio, esclude ogni altra merce, impedisce a ogni altra merce di costituirsi come equivalente generale.
In questa sua funzione di equivalente generale, dice Brunhoff, il denaro è neutro rispetto al valore di scambio delle merci. Non altera il valore di scambio. Che si produca una differenza tra il prezzo e il valore, cioè che una merce venga venduta al di sopra o al di sotto del suo valore, è una questione che non intacca la funzione dell’equivalente generale, che è quella di equiparare i quanta, cioè di ricorrere in ogni quanta allo stesso modo, di ritornare in ogni merce per la parte che compete.
Misura dei valori, mezzo di circolazione, unità di conto, la moneta è anche mezzo di tesaurizzazione. Poiché chi ha venduto non ha sempre bisogno di comprare subito, la moneta può essere ritirata dalla circolazione. Non spesa. La propensione al consumo, e dunque al risparmio, può inibire lo scambio e portare alla crisi. Dunque, dice Brunhoff, la moneta, anche in questo suo aspetto di equivalente generale, porta alla crisi, ma si tratta di una crisi che non intacca la neutralità della moneta. La moneta tesaurizzata rimane neutra, sterile.
La sua circolazione stessaha per condizione la formazione di tesori, i quali, dice Brunhoff, sono sterili. Il denaro tolto dalla circolazione diventa sterile, non figlia profitto.
Questo aspetto filiativo del denaro deve essere approfondito. Una moneta di conto, un equivalente generale, va da sé, non figlia e non deve figliare. Sarebbe un cattivo funzionamento quello di una moneta di conto che figliasse, che contando commettesse degli errori di conto o di calcolo e generasse un sovrappiù – la moneta di conto è esatta, per definizione – a priori. Se cominciasse a figliare vorrebbe dire che è uscita fuori dal conto, uscita fuori dalla sua generalità, dalla sua idealità.
La moneta in quanto equivalente generale è valida per ogni sistema di scambio, anche il sistema capitalistico.
Il rapporto della moneta con il capitalismo è analizzato da Marx in relazione alla produzione. Le riflessioni che Marx avanza in proposito riguardano una teoria della moneta integrata con la teoria della produzione: una moneta di produzione.
In particolare, in riferimento al capitalismo, si pone il problema dell’avvio della produzione, della relazione della moneta con l’avvio della produzione. Avvio che non può certo essere disposto da una moneta vincolata agli scambi.
Il capitale-denaro, il capitale monetario, dice Brunhoff, è il prius motor di ogni capitalista che intraprenda un affare e debba acquistare merci produttive (forza-lavoro, mezzi di produzione). Come la circolazione delle merci presuppone quella della moneta, così la circolazione del capitale implica quella del capitale-denaro. Che sta all’inizio, ma anche alla fine del ciclo, dove il capitale riappare sotto forma monetaria.
La produzione si avvia, dice Brunhoff, perché il capitalista anticipa il denaro all’inizio del primo ciclo. Gli investimenti sono rappresentati da D-M. Il denaro comanda lavoro, si presenta come comando, ma può comandare, precisa Brunhoff, solo e soltanto se funziona anche come denaro del primo tipo, se cioè funziona come mezzo di circolazione, come moneta che il capitalista spende come capitale-denaro. Importa poco, dice, la moneta che si usa: moneta metallica, titoli di credito, segni valore, ecc. La sola condizione monetaria fondamentale è che il capitale da anticipare deve essere anticipato in denaro – e non in merci. Il motivo è evidente. Il primo ciclo non può essere avviato con merci, perché le merci non sono ancora state prodotte. Dunque, deve iniziare con un denaro che violi il principio della circolazione semplice, il principio secondo cui per comprare bisogna prima aver venduto. L’operaio, immerso fino ai capelli nella circolazione semplice, deve prima vendere la sua forza-lavoro come merce, se vuole acquistare altre merci. L’imprenditore, al contrario, può acquistare merci senza prima aver venduto, ecco spiegato perché ha bisogno di un denaro che – costitutivamente – sia diverso da quello usato dal lavoratore. Un denaro che non esprime un equivalente, ma che esprime un comando.
IV
Deleuze, e questo tema lo possiamo ritrovare in tutti gli argomenti proposti nella IItalian Theory, soprattutto in Tronti e Potere Operaio e, successivamente, in Autonomia Operaia, Deleuze sgancia il plusvalore dal lavoro. Il plusvalore (plusvalore = sfruttamento economico, sfruttamento del lavoratore) il plusvalore, dice Deleuze (lo si legge sempre nell’Anti-Edipo) non può essere definito dalla differenza tra il valore della forza-lavoro e il valore creato dalla forza-lavoro, ma dalla disparità tra due aspetti della moneta. Una moneta tenuta in tasca dalla gente, e che continua a funzionare in maniera tradizionale, come reddito convertibile equamente in oggetti di consumo, e una moneta usata dal capitalista e che esprime la potenza economica, il potere di avviare la produzione, il potere di comandare e di comandare il lavoro. È l’ingresso del potere nell’analisi della moneta. Questa uscita filosofica fa il pari con l’uscita di Nixon, la segue passo passo. Anche negli USA si pone il problema di sganciare la moneta dal valore d’uso dell’oro, per affermare una moneta fiduciaria come pura moneta di comando. Non importa il cosiddetto sottostante, lo sfruttamento non ha niente a che fare con un sub-stante chiamato lavoro, e la moneta non ha niente a che fare con un sub-stante chiamato oro, chiamato economia effettiva. È l’idea stessa di economia che viene sovvertita dalla tematica del potere. La moneta è un flusso, è una forza, un flusso creato istantaneamente dalle banche, dice Deleuze. Creato ex nihilo, dal niente, a partire dal niente, mero sintomo differenziale, forza, polemica, eccetera. Invece di trasmettere una moneta che derivi da una precedente vendita, dunque che compri dopo (dopo) aver venduto, la banca – la banca centrale, ma anche le banche ordinarie, non dimentichiamo il loro potere di creare moneta derivata, la leva, eccetera – la banca, dice Deleuze, scava all’estremità del corpo pieno una moneta negativa (debito iscritto nel passivo delle banche) e proietta all’altra estremità una moneta positiva (credito dell’economia produttiva sulle banche), flusso a potere mutante, pura disponibilità, potere di comandare – comando. C’è un attacco senza precedenti al marxismo tradizionale, all’idea di una sub-struttura economica la quale determina un sovra-struttura culturale, istituzionale, di comando, dove la forza è sempre commisurata a una infrastruttura economica. Dove il potere è sempre e prima di tutto potere economico – il potere che deriva dal luogo, dal suolo, dalla casa, dal proprio, dall’intimo. Qui il potere non deriva da un sottostante, da un collaterale – debito senza collaterale, come nella storia dei sub-prime, degli SVP (Special Purpose Vehicle) e degli Asset Bached Securities – Abs. Tutto il lavoro del lutto, la melanconia, la denegazione, la furia devastante che investe l’occidente capitalista su temi che riguardano il suolo, la patria, la famiglia, la nascita, le radici, la lingua madre, la pulizia della lingua e la pulizia etnica eccetera, sono prese in questo vortice che ha a che ha al centro la moneta fiduciaria, lo sganciamento del dollaro dall’oro, la svolta di Nixon del 1971.
Dell’opposizione di classe, che vede il lavoro contrapposto al capitale, si mantiene solo l’elemento polemico, lo scontro, il conflitto.
Questo salvataggio del conflitto, a scapito del lavoro, si ritrova un po’ dappertutto. Persino economisti rispettabili, pienamente inseriti nell’accademia, penso ad Augusto Graziani, ma affini al marxismo, sono sedotti da questo discorso del potere. Negli anni Settanta Graziani comincia a formulare una teoria economica – Circuitismo – che avrà un corrispettivo in Francia – Circuitistes – e una discreta fortuna internazionale, trovando, in tempi più recenti, un’eco nella teoria Monetaria Moderna. Questo indirizzo ha al centro l’idea di due monete, una moneta pop, usata per gli scambi della gente comune, e una moneta Hard (sexy, fallica, teocratica), una moneta fiduciaria, utilizzata dall’industria per comandare il lavoro. Una moneta basata su niente, senza sub-strato, se non la fiducia che si ha nel suo potere, il credito riconosciuto al suo potere – potere della banca centrale di decidere cosa si produce e chi produce.
In un intervento a un convegno organizzato a dall’Istituto Gramsci a Roma nel 1983 Graziani dice: del marxismo butterei via tutto, il neoclassicismo è sicuramente più sofisticato, meglio dotato di strumenti analitici. Del marxismo salverei solo la lotta, il conflitto – l’elemento polemico. Lo dice a un convengo dove sono raccolti i maggiori economisti italiani dell’area del dissenso – c’è pure Tronti. Del vecchio Marx si ritiene valido solo l’aspetto polemico, conflittuale. Il lavoro viene costretto all’angolo. Il potere non passa più per il lavoro e per le lotte laburiste, sindacali, eccetera. Il potere passa per le banche, per la finanzia, per chi crea moneta, eccetera. Nello scambio capitale-lavoro, dice Graziani, non si tratta di scambiare merci già prodotte, bensì di dare avvio al processo economico, proprio allo scopo di realizzare una produzione di merci. Nel momento ideale in cui la fase della produzione ha inizio, non esistendo ancora alcuna merce, non può esistere nemmeno la merce-moneta. La moneta deve essere quindi potere d’acquisto senza essere merce: essa non può dunque avere altra natura se non quella di promessa di pagamento, e cioè la natura di moneta creditizia. Moneta che può comprare senza essere derivata da una precedente vendita. Moneta di credito, moneta di comando. Senza questo comando la produzione non può cominciare. È notevole il fatto che Graziani indichi questo momento come momento ideale. Si inizia dall’idea, dell’idealismo. Si parte dalla potenza del denaro per finire all’attualità (postuma) del consumo del lavoratore. Vale la pena di notare, aggiunge, una conseguenza derivante dal fatto che, in questa fase di avvio, la moneta assume natura di credito. Il pagamento fondamentale che viene effettuato è il pagamento del salario per l’acquisto della forza-lavoro. Se il salario viene pagato mediante moneta creditizia, e quindi mediante una promessa di pagamento, ciò significa che, in termini reali, il salario viene versato posticipatamene, e non già anticipato come tante volte si è portati a credere. Si tratta di una precisazione importante, sulla quale bisogna ritornare.
L’opposizione non è tra capitale e lavoro, dice Deleuze. L’opposizione è altrove. L’opposizione è tra la classe e i fuori-classe; tra i servi della macchina, i capitalisti, e quelli (gli autonomi) che la fanno saltare o fanno saltare i congegni; se vogliamo, tra i capitalisti e gli schizo. E gli schizzo sono gli autonomi, sono la fine dei partiti comunisti occidentali, la fine dell’unione sovietica, la contestazione giovanile, i capelloni, il partito di Pannella, il femminismo e i fumatori di canne, la lotta continua e il potere operaio, i furti nei supermercati, il rock e il pallone, la medicina alternativa, l’echinacea, yoga, Kundalini, Amaroli, lo Stato assistenziale con il suo carico di lavori inutili e di supponenza amministrativa, Marrakech Express e Mediterraneo, eccetera.
Il denaro rappresenta la mobilità del capitale, la sua libertà di comando, dice Negri a un seminario all’École Normale Supérieure, nel 1978. Dunque, sbagliano i russi, e sbaglia Vygodskij, sbaglia Rosdolsky, sbagliano tutti i vecchi baffoni del partito comunista italiano e della sinistra comunista extra-parlamentare quando vogliono, per esempio, sottomettere i Grundrisse al Capitale e leggere i Grundrisse, non a partire dalla differenza, ma a partire dal valore capitale della legge: legge della caduta tendenziale, legge valore-lavoro, legge della composizione organica e del profitto, eccetera. Non ci sono leggi, dice Negri. Ci sono solo tendenze, ci sono forze che si sormontano, che si muovono, che si affrontano, ci sono amici e ci sono nemici, tutto diviene, e tutto deriva da questo scontro. Lo scontro è tutto. L’opposizione è tutto. La politica è tutto. E robe di questo genere, che oggi non ci dicono più nulla su chi siamo, su chi guadagna un salario, e chi un salario non ce l’ha, su chi accumula fortune e chi accumula disperazione.
Al posto dell’operaio, rilevato dal sistema, quell’operaio detestato da Tronti in Operai e capitale, troviamo nuove figure, neoterritorialità, dice Deleuze, spesso artificiali, residuali, arcaiche; solo sono arcaismi a funzione del tutto attuale, il nostro modo moderno di affastellare, di reticolare, di inventare pseudo-codici o gerghi. Neo-arcaismi, piuttosto folkloristici, rappresentano forze sociali ed eventualmente politiche (dai giocatori di bocce, ai distillatori in proprio, passando per gli ex combattenti), minoranze etniche, problema basco, i cattolici irlandesi, le riserve indiane. Si formano spontaneamente nel movimento di deterritorializzazione (territorialità di quartiere, territorialità di grandi complessi edilizi, della Gang).
V
La forma del valore è puro e semplice comando, dice Negri a Parigi nel 1978. Questo approccio ci pone oltre il marxismo, dice. Questa proposta non è ricevibile della vulgata marxiana, la quale non comprende più Marx. Questo spunto teorico nega la possibilità di un’interpretazione generale del pensiero marxiano che muova da una considerazione oggettivistica e da una definitiva attribuzione del suo discorso all’economia. Da questo nuovo punto di vista teorico si critica radicalmente la vulgata del marxismo nei suoi aspetti di volta in volta catastrofisti e consolatori, oggettivistici e opportunisti, comunque sempre economicistici.
Il denaro è comando.
La teoria del valore deve essere considerata a partire da questo nuovo indirizzo. La teoria del valore allora appare, dice Negri, come una subordinata astratta della teoria del plusvalore, dal punto di vista della classe. Ora, la teoria del valore è non solo subordinata ma subisce, dentro la subordinazione, un formidabile dislocamento ed è, in questo quadro, sottoposta ad una essenziale metamorfosi. Vale a dire che, quando la teoria del valore non riesce a commisurarsi a quantità di tempo di lavoro o a dimensioni individue di lavoro, a quel punto l’impossibilità della misura dello sfruttamento modifica la figura dello sfruttamento. Lo svuotamento della teoria del valore, la sua evacuazione da ogni elemento di commisurazione, non tolgono la legge del valore ma la riducono a una formalità. La forma del valore è puro e semplice comando, pura e semplice forma politica.
In questo discorso di Negri, come nelle equazioni di Graziani, si perde il raffinato empirismo di Deleuze. Si perde l’elemento empirico e materiale, il momento passivo, inconscio. Si oscilla tra un idealismo inconsapevole e un empirismo ingenuo. Graziani parla del momento iniziale come di un momento ideale – qualche circuitista dell’ultima ora ha tirato in ballo persino Aristotele, i suoi strumenti, la potenza e l’attualità, eccetera, per cercare di far funzionare le equazioni neoclassiche riadattate alla moneta-segno, proponendo un surrogato di hegelismo.
La moneta è moneta fiduciaria – il potere è auto-investitura, decisione, sovranismo, speech act, performativo. La moneta è creata dalla banca dal nulla, scrivendo nel bilancio una mera passività a fronte di un credito verso l’industria. È spesa per pagare i salari dei lavoratori – e in questo passaggio subisce una metamorfosi che bisogna spiegare: diventa equivalente generale. È spesa dai lavoratori per comprare beni di consumi. Ritorna nelle mani dell’industria che la porta in banca per estinguere esattamente il debito contratto all’inizio del ciclo. Tutto perfetto, tutti i conti sono saldati e tutti i bilanci sono in equilibrio. Senonché, notano i circuitisti, fuori dal giro contabile, fuori dalla contabilizzazione matematica, rimane il plusvalore. Non c’è moneta per stimare il plusvalore. Non c’è moneta per misurare lo sfruttamento. Lo sfruttamento, ciò che è proprio del capitalismo, rimane fuori dal conto – rimane escluso. Non è apprezzabile, non ha senso, è il non senso stesso – l’irrazionale. Tant’è, dicono i circuitisti, che esso deve essere pagato in nature. Le banche devono essere pagate in natura. Sono pagate, senza sapere quanto sono pagate. Non si conosce più il quanto. Il plusvalore ritorna, c’è ritorno economico, ma questo ritorno si presenta di persona, come oggetto parziale, oppure, come dice Marx, con una terminologia kantiana, il sopravalore torna indietro come merce assoluta, come cosa, non come idea, e come moneta segno, ma come oggetto refrattario a ogni misurazione. Oppure, come moneta effettiva, come potere d’acquisto. Ecco l’inizio di questo sofisticato empirismo, di questo materialismo verace. Per introdurre il quale metto un po’ da parte Deleuze, per passare a un testo di un paio di anni successivo all’Anti-Edipo, ma che condivide con esso questo strano materialismo, o empirismo sofisticato, Il fattore (o fattorino) della verità, di Derrida.
La moneta-segno di Graziani arriva sempre a destinazione. Parte dalla banca e ritorna alla banca. Torna indietro identica, tale da azzerare il debito e chiudere il conto. Il funzionamento di questa moneta è identico a quello della moneta neoclassica. Unità di conto, valore ideale, non intaccato empiricamente. Circola, senza circolare veramente. L’intuizione e il buon senso ci dicono che una moneta può non arrivare sempre a destinazione, e che quando vi arriva, non sempre è la stessa moneta di prima. Il buon senso ci dice che è la stessa moneta, ma il buon senso si basa su un credito che precede quello concesso dalla banca all’imprenditore, e cioè il credito che divide la moneta in un valore facciale, che rimane o rimarrebbe identico, e un potere d’acquisto, che varia o varierebbe. Qui il condizionale è d’obbligo, perché la possibilità che sia il valore facciale, sia il valore nominale si perdano per strada è sempre all’ordine del giorno.
Un credito deve essere chiesto, la richiesta o rimane appuntata nella memoria oppure rimane appuntata in un registro. Da qualche parte deve rimanere, affinché possa essere trasmessa ai lavoratori. Gli stessi lavoratori devono appuntare la somma concessa da qualche parte, per poterne spendere, all’occorrenza, una quota parte, oppure l’intero ammontare, dunque per conoscerne, di volta in volta, il residuo. Senza un sistema di registrazione (mnemonica, digitale o di carta), sistema basato sulla fiducia e recepito da un contratto, la moneta non circolerebbe. Si tratta di un contratto fiduciario tra il creditore e il debitore. Contratto che si rinnova a ogni passaggio di mano, a ogni stazione di transito. Accetto la moneta come contro-valore di un bene che ho ceduto, nella speranza che un eventuale venditore accetti la stessa moneta in cambio della sua merce. Il garante finale del contratto è la banca di emissione, la quale si impegna ad accettare la stessa moneta, restituita infine dall’imprenditore. In definitiva, il contratto fiduciario riguarda la banca e l’imprenditore. Il vero debitore è l’imprenditore. Il consumatore – il lavoratore – ha tra le mani un mero equivalente generale che gli permette di far transitare le merci dalle mani dell’imprenditore alle sue, e il denaro dalle sue mani a quelle dell’imprenditore, in modo trasparente. Se così non fosse, i conti non potrebbero mai chiudersi in pareggio, e la moneta credito verrebbe meno allo scopo per cui era stata creata. Escluso quel resto, costituito dal plusvalore, che rimane, tra le manu dell’imprenditore, nel suo (apparente) mutismo. La chiusura del bilancio è possibile solo e solo se la moneta ritorna sempre e sempre nella stessa unità e natura. Senza scostamenti, senza alterazioni. Nel passaggio di mano, dalla banca all’imprenditore e dall’imprenditore al lavoratore e da questi di nuovo all’imprenditore e alla banca, la moneta deve rimanere sempre la stessa identica moneta.
Come è possibile questo miracolo, visto che Graziani ci ha detto che la moneta cambia a seconda di chi la tiene in mano, che essa non è la stessa nelle mani dell’operaio e nelle mani dell’imprenditore?
Il miracolo è possibile se poniamo un valore ideale che, in quanto tale, è inalterabile, e, accanto ad esso, un valore empirico, alterabile. Se poniamo la moneta in questa dualità, in questi due corpi, un corpo ideale, inalterabile, e un corpo empirico – materiale – alterabile, il gioco è fatto, ciò che doveva essere dimostrato è dimostrato. Senonché si tratta dalla più tradizionale partizione tra sensibile e intelligibile, del più tradizionale binarismo metafisico – con annessa svalutazione del momento materiale, fisico, corporeo. Sta di fatto che i conti sono chiusi in modo esatto, che le scritture contabili registrano movimenti con precisione matematica. E ciò è innegabile. La moneta si è costituita tramite un primo atto produttivo, quello della banca. Una volta creata viene ceduta e messa in circolazione, passa di mano e viene spesa. In ogni spesa si opera sia una deduzione, sia una sintesi, e non si può dedurre senza conoscere il totale. A ogni passaggio il totale si ripresenta. Nei bilanci rimane traccia sia della deduzione sia del totale, altrimenti i conti non funzionerebbero. Si deve registrare, sempre e in tutti i passaggi, sia la deduzione sia il totale. A un dare corrisponde sempre un avere, così il bilancio è costantemente in pareggio. Ogni possessore è in questa mobilità e nell’orizzonte del pareggio. Nella sintesi ritorna sempre la stessa moneta, sempre lo stesso ammontare. Questo ammontare che ritorna non può essere di ordine psichico o mentale, non è un’esistenza che varia al variare di chi la pensa – di chi la detiene. È bensì l’esistenza di qualcosa che esiste obiettivamente per chiunque. In tutte le sue forme, chiunque la detenga, rimane sempre la stessa nella sua obiettività. Ci si accorge subito che si tratta di un’obiettività ideale. La moneta è identicamente sempre la stessa in tutte le mani, in quelle dell’imprenditore e in quelle del lavoratore, in quelle del bancario e in quelle dell’erario, per quanto possa manifestarsi sensibilmente moltissime volte, nella formulazione datale dalla banca di emissione, in banconota, in scrittura contabile, in bit, eccetera, in queste sue apparizioni sensibili essa ha una individuazione spazio-temporale nel mondo, come tutti gli eventi corporei, come tutto ciò che è materiale nei corpi, ma non la forma spirituale stessa che rimane un quid ideale. Le forme sensibili si moltiplicano e variano, variano i conti e le scritture contabili, variano i registri e variano le tasche, ma in ogni tasca e in ogni mano, in ogni registro e in ogni conto viene segnata sempre e solo una moneta. La moneta rimane una sola. La parola cane, che viene pronunciata da diverse persone a indicare cani differenti, rimane per tutti sempre e solo la stessa parola, con lo stesso significato. Così per il denaro. È la stessa banconota a passare di mano – non la banconota fisica, che può essere sempre rimpiazzata da un sostituto, ma la banconota ideale, il suo valore facciale. Il significato ideale è unico. Così il denaro, che passa di mano in mano a dare il nome di conto a diverse merci, rimane per tutti sempre e solo lo stesso denaro, con lo steso valore (nominale).
Come avviene il passaggio dall’idealità contabile, per cui la moneta è una formazione che rimane nello spazio coscienziale dell’anima del banchiere che la crea, alla sua obiettività ideale?
Per mezzo della scrittura contabile (o della carta moneta, o dell’oro, o del bit) attraverso la quale essa si incarna nel suo corpo proprio monetario.
Come fa a diventare obiettiva nella sua idealità?
[Qui seguo passo passo Husserl, Origine della geometria]. Questo problema non può essere eluso. Ho già detto che la moneta-incarnata, la moneta sensibile, la moneta empirica, cambia di valore a seconda di chi la detiene. Non è sufficiente nemmeno la constatazione di buon senso che la moneta e la scrittura contabile riportano sempre e soltanto la stessa cifra. Per motivi altrettanto evidenti.
Come attingiamo l’obiettività?
Manca al denaro prodotto dal banchiere la persistenza che permette all’oggetto ideale di sopravvivere alla scomparsa del banchiere, alla sua morte. Manca un’esistenza che duri anche attraverso i tempi in cui il creatore e i sui colleghi non vivano nella vita desta, nella connessione comunicativa, manca ancora, agli oggetti ideali, un essere persistente indipendente dal fatto che qualcuno li realizzi o meno nell’evidenza.
L’importanza della scrittura contabile, documentata, sta appunto nel fatto di permettere la comunicazione anche senza un discorso personale immediato o mediato, di essere, per così dire, comunicazione virtuale, comunicazione di un banchiere che crea moneta ed è primo firmatario del patto di fiducia e ogni detentore di moneta nel circuito economico. La scrittura contabile trasmette il contratto e il patto di fiducia, rendendo virtualmente presente – presente senza essere presente di persona – il banchiere. Senza la scrittura contabile questo contratto non potrebbe circolare, rimarrebbe serrato come patto segreto tra il banchiere e l’imprenditore. Dunque, la scrittura è imprescindibile. In più, la scrittura non è un mero strumento della idealità del contratto, è il contratto stesso. Distrutta la scrittura non c’è contratto. Non c’è contratto fuori dalla scrittura. Come non c’è moneta al di fuori della banconota o della registrazione del bit. Una volta distrutto il bit è distrutta la moneta; distrutto il corpo materiale è distrutto anche il copro ideale. Non c’è un corpo ideale che sopravvive al corpo materiale, non c’è un’anima che sopravvive al corpo.
Se la moneta ha un corpo materiale, e questo corpo materiale e imprescindibile, e in più nessuna idealità sopravvive alla distruzione di questo corpo materiale, bisogna prendere in seria considerazione le riserve di Graziani sull’inflazione e chiedersi come è possibile che i conti si pareggino, se la moneta materiale cambia in continuazione. Come è possibile?
La struttura della moneta consiste nel fatto che, contrariamente a ciò che pare evidente a chi chiude i bilanci (ovvero che i conti si pareggiano sempre, che la moneta arriva sempre a destinazione), una somma di denaro può anche non arrivare a destinazione. La sua materialità, scrive Derrida, la sua topologia sono legate alla sua divisibilità, alla sua partizione sempre possibile. Essa può andare irreversibilmente in pezzi e proprio da questo cerca sempre di proteggerla il sistema neoclassico. Non che il denaro non arrivi mai a destinazione, ma fa parte della sua struttura il potervi anche non arrivare. E poi aggiunge, senza tale minaccia (rottura del contratto, divisione e moltiplicazione, partizione irreversibile del valore intaccato per un istante da ciascun contraente – inflazione e deflazione), il circuito del denaro non sarebbe nemmeno cominciato. Ma, con tale minaccia, può anche non finire. Qui, dice, la disseminazione minaccia la legge del contratto e la sua esattezza, la sua esigibilità, la sua verità contabile. Essa intacca l’unità del significante monetario, l’unità della moneta-segno. Il fatto che il denaro (il contratto fiduciario) abbia bisogno di scriversi, dunque di ripetersi, il fatto che la moneta si ripete in diversi scambi, sempre la stessa, ma in mani diverse a risolvere molti passaggio, la sua velocità di circolazione, la circolazione stessa, in cui la medesima banconota significa più merci, eccetera, questo fatto materiale stesso, sensibile, empirico, implica la possibilità – la minaccia – del non ritorno. Può tornare, acquista la possibilità (materiale) di tornare, ma proprio in quanto acquista questa possibilità materiale (possibilità finita di ripetersi all’infinito) di ritornare, acquista la possibilità di non tornare, di perdersi, disperdersi, perire, cambiare registro, cambiare valore, acquista un potere, un potere d’acquisto, che varia a secondo di chi la detiene, del luogo dove si trova e del tempo in cui fa valere il suo potere – stesso corpo, stessa moneta, stesso movimento (e non due corpi, due monete, un movimento + un falso movimento). Perché allora si reclama una moneta segno, una moneta indivisibile, che ritorni identica a se stessa? Si reclama un doppio corpo della moneta, perché solo l’idealità della moneta resiste alla divisione distruttrice. Strappate un bilancio, fatelo a pezzi, dicono i neoclassici, il pareggio rimane ciò che è. Tutto ciò non si può dirlo della materialità empirica, dunque deve essere implicita un’idealità. Essa soltanto, dice Derrida, consente alla singolarità della carta contabile di conservarsi. Se tale identità non è il contenuto semantico, dev’essere una certa idealità del significante (ciò che della sua forma è identificabile in quanto si distingua dai suo eventi e dalle sue riedizioni empiriche), e in effetti ciò che rimane ed è identificato come unico sia nel conto, sin sulla banconota, sia nel telefonino è il valore facciale. Questo sistema, dice Derrida, è di fatto quello dell’idealità del significante. L’idealismo che vi si annida non è una posizione teorica dell’economista o del teorico della moneta, tanto meno del banchiere o dell’imprenditore, è, invece, un effetto strutturale della significazione in genere. L’economista, soprattutto l’economista neoclassico, considera la moneta solo nel punto in cui, determinata dal suo contenuto, dall’idealità del valore che veicola, dal valore che resta, nel suo senso, al riparo dalla partizione, per circolare intatta, dal suo luogo di distacco al suo luogo di ricongiungimento, cioè allo stesso luogo – la banca. Di fatto, dice, la moneta non sfugge soltanto alla partizione, essa sfugge al movimento, essa non cambia posto. Non cambia mai posto – rimane sempre in capo alla banca. Ciò implica, dice, oltre alla limitazione idealistica della moneta, un’interpretazione del valore tale da evitare la divisibilità. La moneta-segno suscita di per sé una simile interpretazione: essa possiede i caratteri della spontaneità, della presenza a sé, del ritorno circolare a sé. Essa conserva tanto meglio in quanto si crede di poterla conservare senza accessori esterni, senza carte e senza buste: essa, si dice, risulta sempre disponibile dovunque si trovi. Sempre identica a se stessa. Identità che può esserle assicurata unicamente dal suo legame con l’idealità di un senso, nell’unità di una parola. Di tappa in tappa, dice Derrida, siamo sempre ricondotti a quel contratto dei contratti che garantisce l’unità di significante e significato. Quel contratto o quel significante trascendentale al riparo dalla minaccia e dalla potenza disseminatrice del corpo empirico. L’istanza del patto creditizio è il recupero, l’assunzione, il rilevamento, dice Derrida (il riferimento è al recupero dialettico di Hegel) della moneta nel sistema dell’idealismo. Piena di se stessa, della sua presenza, della sua essenza, tale presenza, dice Derrida, come nel contratto e nella fede giurata, esige l’insostituibile proprietà, la singolarità inalienabile, l’autenticità viva. Ne rimangono esclusi, in nome di un rapporto diretto, lo sdoppiamento, la ripetizione, la registrazione. La squalifica della registrazione e della ripetizione in nome dell’atto di parola viva e presente si piega a un ben noto programma. Ed è indispensabile al sistema. La materialità, dice Derrida, la faccia sensibile e ripetitiva della registrazione, la moneta sonante, spicciola e sonante, può dividersi e moltiplicarsi, svalutarsi e rivalutarsi, contare, ma contare male, distruggersi o smarrirsi – in essa l’originalità autentica si è già da sempre perduta. La moneta in sé, in senso neoclassico, in quanto luogo del significante e di una fede giurata, e per ciò di una parola vera piena e presente, ha la proprietà, effettivamente singolare, di non tollerare assolutamente la partizione. Se per disgrazia il denaro fosse divisibile o fosse ridotto allo statuto di oggetto parziale, l’intero edificio crollerebbe. Questo ovviamente può sempre accadere, dice Derrida, se il suo aver-luogo non ha l’idealità di una promessa. Tutto ciò accade sempre, sempre la moneta deve avere e trovare luogo, dice Derrida, e sempre, ma c’è la voce, il contratto, la fede a ingannarci sullo strano evento e a lasciarci la custodia ideale di qualcosa che si riduce al rango di oggetto parziale o divisibile: morso disseminabile – plusvalore che grida allo scandalo. L’inganno, dice Derrida, non sarebbe quello di questa idealità della moneta-segno che lascerebbe muto il plusvalore e senza parola lo sfruttamento, ma quello del presunto limite fra merce (il plusvalore) e moneta (il capitale).