Il matrimonio al tempo di Burcardo di Worms

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Fra il 1107 e il 1112 il santo vescovo Borcardo di Worms scrive il Decretum, una raccolta di sentenze, di massime, di disposizioni, di prescrizioni, divenuta, negli anni successivi, una guida per i prelati di mezza Europa. L’opera non ha nulla di originale. Burcardo si limita a raccogliere un insieme di materiali antichi, e ci tiene ad avere, per ciascuna caso trattato, un testo Autoritativus, ovvero un testo autorevole. Compila le sue schede cercando le sentenze e le massime nei libri dei padri della chiesa, nei Vangeli e nella Bibbia. Infine, ottiene un sorta di canone, certamente non ufficiale, ma che col tempo e con l’uso acquisirà una validità quasi ufficiale.

Secondo Georges Duby, che all’argomento ha dedicato pagine famose (Il cavaliere, la donna, il prete. Il matrimonio nella Francia feudale), il Decretum fornisce un quadro generale di cosa il clero e l’alta società pensavano del matrimonio. Per questo motivo è un’opera preziosa. Se si aggiunge a ciò il fatto che il matrimonio, come istituzione sociale e sacramento, così come è sopravvissuto siano ai nostri tempi, nasce proprio in quest’epoca, si capisce l’importanza del testo.

Tanto interesse intorno al matrimonio è giustificato da motivazioni di ordine pubblico. Secondo Duby, “il matrimonio, concepito come rimedio alla concupiscenza, ordina, disciplina, mantiene la pace e allontana uomini e donne dall’area in cui ci si accoppia liberamente, senza regola e nel disordine”.[54]

Assecondare l’istinto bestiale e abbandonarsi alla crapula, trombare a destra e a manca, e da sera a mattina, liberare il desiderio e votarsi alla copula o alla frenesia onanistica non va bene, turba l’ordine sociale. Si possono generare liti, che partendo dal basso possono arrivare a insidiare tutti gli ordini, persino quello ecclesiastico.

Innanzitutto Burcardo prevede e istituisce un sistema di Delazione. In ogni parrocchia, sette uomini, eletti a tale scopo, si impegnano a denunciare al vescovo i delitti commessi dai parrocchiani. Per agevolare l’inquisitio, vengono previste una serie di domande da porre, in primo luogo a se stessi, e in subordine, ai vicini. Le domande riguardano i delitti, fissati nel numero di Ottantotto. Si tratta di infrazioni che vanno delle più gravi alle meno gravi.

Le prime Quattordici domande riguardano l’omicidio, “colpa gravissima che, per il groviglio di vendette che può provocare, scuote profondamente l’ordine sociale”. Subito dopo vengono le ventitré domande che riguardano il matrimonio.

Non è un caso che i delitti legati al matrimonio e alla fornicazione sono considerati gravi quasi quanto quelli legati all’omicidio. Tutto ciò che accompagna il matrimonio, ovvero la bramosia e la carne, la dote e gli averi terreni, nonché la purezza dello spirito e la patria celeste, sono tali da suscitare scontri, vendette, ratti, delitti, eventi, insomma, capaci di sfociare in episodi violenti in tutto simili a quelli provocati da un’ammazzatina.

Le trasgressioni sono elencate partendo dalla più grave. E non c’è cosa più grave dell’adulterio. Il maggior colpevole, in questo caso, è l’uomo sposato che ruba la moglie ad un altro. Il ratto di una donna è un atto intollerabile, e punito quasi come un omicidio. Il perché è presto detto. Il marito della rapita può scatenare una lite che può facilmente trasformarsi in una faida, e portare a conseguenze imprevedibili per l’ordine sociale.

Molto meno grave è mantenere in casa una concubina, o ripudiare la moglie, o risposarsi con una seconda moglie dopo aver ripudiato la prima.

Il matrimonio esclude non solo la poligamia e l’incesto, ma è anche indissolubile. A meno che non ricorrano motivi di particolare gravità, come l’aver sposato una parente, o aver sposato una persona manifestamente sterile.

Rubare la donna ad un altro è un crimine tra i più odiosi. Il colpevole, per espiare il delitto, “deve cambiare vita per un determinato periodo, «convertirsi», trasferirsi in un particolare settore della società, renderlo manifesto con segni evidenti, vestirsi e nutrirsi diversamente dagli altri”.

Queste limitazioni accessorie alla pena vera e propria davano soddisfazione alla comunità, erano la manifestazione che il marcio che rischiava di contaminarla era stato purgato.

Poi c’era la pena vera e propria. Non gusta ricordare che le pene venivano comminate, in misura maggiore o minore, a seconda che la trasgressione fosse commessa in casa o fuori casa, ovvero in base ad un criterio di minore o maggiore pubblicità del delitto. “I delitti che attentano all’ordine sociale – omicidio, furto, adulterio, incesto – precedono i peccati generalmente commessi in casa, come la fornicazione al di fuori del matrimonio, la magia, l’intemperanza e l’empietà; e le pene sono tanto più pesanti quanto più il peccato attenta alla quiete pubblica”.

Una punizione lieve – dieci giorni a pane e acqua – riscatta delitti giudicati minori, come la masturbazione maschile se praticata in solitudine (se praticata in compagnia la pena si triplica). La stessa pena viene comminata a chi fornica con una donna «Vacante» o a chi approfitti della propria serva.

La musica cambia se l’uomo è sposato. La stessa pena, Dieci giorni a pane e acqua, viene comminata a chi conosce la moglie “in posizione proibita, o durante le mestruazioni o se è incinta”, se poi è incinta e il feto si muove, la punizione raddoppia. Si quadruplica se il marito avvicina la moglie in un giorno proibito. Il marito che non si sa controllare merita la stessa pena del criminale che cava gli occhi o taglia una mano o la lingua a un altro uomo .

La medesima sorte tocca alla concubina abbandonata, che il giorno delle nozze attenti al matrimonio con sortilegi.

Invece, due anni d’astinenza spettano all’uomo che impasta il pane sulle natiche nude della moglie o che soffochi un pesce nel suo ventre, e cinque se la moglie versa sangue mestruale nella coppa del marito e sette quando ingoia sperma maritale.

Sette anni di quaresima penitenziale toccano all’uomo che concede la moglie ad altri uomini, simile pena tocca a chi rapisce una donna sposata o una monaca.

“Con il ratto e l’adulterio – continua Duby – l’attività sessuale maschile attenta infatti all’ordinamento sociale. Chi rapisce una donna infrange i patti coniugali ed è colpevole di uno di quei delitti pubblici che generano l’odio tra le famiglie, suscitano rappresaglie e lacerano e contaminano la comunità, ed è perciò naturale che si esiga da lui una penitenza che lo designi durevolmente agli occhi di tutti”.

Si tralascia qui la considerazione nella quale, nel Decretum, è tenuta la donna.

Essere inferiore nello spirito e nel corpo, costola di Adamo, megera, infingarda, menzognera, traditrice, istigatrice di delitti, spezza matrimoni, e soprattutto libidinosa, piena di voglie, mai sazia, capace di concupire l’uomo con mille trucchi, raggiri, incantesimi, e quando la passione nel marito cede alla mollezza, la donna “si spalma il corpo di miele, si rotola nella farina e con questa cuoce i dolci destinati al marito”.

Secondo Georges Duby, nel 1981 il matrimonio è bello e morto.

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