La megghiu gioventù tu rruvinasti. Emilio Sereni e il capitalismo nelle campagne

calabria1912

Si tratta, dapprima, di processi molecolari, di piccoli spostamenti nelle campagne o nelle coltivazioni. L’agrario, il commerciante, il contadino, spinti dal demone degli affari o della fame allargano il campo dei loro interessi. Il mutamento delle forze produttive si ripercuote sui rapporti di produzione, che resistono, si perpetuano, anche quando è evidente che sono dannosi, ma si perpetuano per abitudine, per affezione, per preservare il contesto entro cui operano, eccetera. Poi si dissolvono, senza che nuove relazioni si instaurino, impedendo alle attività produttive di svolgersi regolarmente o semplicemente di svolgersi e basta. Allora tutto precipita, e non è la rivoluzione, nemmeno l’involuzione, ma la confusione, il caos, le forze produttive che non si collegano e si scaricano o nella guerra effettiva o in una guerra bianca ancora più distruttiva.
È il rintuzzarsi delle forze produttive e dei rapporti di produzione o la dialettica degli impulsi che produce la sua economia non senza sfrido. Il mutamento dei rapporti di produzione, scrive Sereni (Il capitalismo nelle campagne), si ripercuote, nella vita di ciascuno, in un mutamento di relazioni, di abitudini, di rapporti sociali, di opinioni e di pregiudizi. Poi, scrive, man mano, i singoli processi individuali confluiscono, si confondono in grandi correnti di pensiero, di opinioni, di azioni, varie e contrapposte, che esprimono le aspirazioni, le speranze e i timori delle nuove classi che lo sviluppo economico ha portato alla ribalta della storia. Il mutamento investe tutta la vita economica, tutta la vita sociale, altera la composizione delle classi sociali, disloca i posti e le postazioni, getta nel fango chi aveva una posizione ritenuta stabile e innalza a nuova gloria chi era nel fango. Tutto ciò che era solido si dissolve, i vecchi riti e i vecchi miti fondativi vengono sostituiti da riti e miti freschi di zecca. Monumenti nuovi sostituiscono quelli finiti nella polvere, e un’opera generale di traduzione, anzi, di semplice e rozza trascrizione, o alterazione, sostituisce la vecchia lingua con una neo-lingua fresca e potente, tanto amministrativa quanto letteraria e poetica – la differenza conta poco. E tutto questo sommovimento, scrive Sereni, retro-agisce sull’ulteriore sviluppo dei rapporti di produzione. Le stesse ideologie, nate su un dato quadro strutturale, divengono un agente della sua trasformazione, alimentando le armi della lotta.
La bellezza e la potenza della descrizione di Sereni del Risorgimento italiano, le armi, le passioni, i protagonisti – le forze produttive e i rapporti di produzione –, gli agenti – il borghese, il latifondista, il contadino, il bracciante, il piccolo borghese e il mafioso, l’usuraio, il banchiere, il nobile decaduto, i Pasolini di Romagna, i Boncompagni, i della Gherardesca, il povero contadino costretto all’emigrazione, la donna che filava al telaio casalingo costretta a ingrossare l’esercito dei nulla facenti, dei non istruiti, dei senza lavoro, eccetera – le comparse – le antiche famiglie nobili con pedigree ultra-secolari assise nel Senato del giovane regno italico, il tetro squallore nel quale viene gettato il sotto-proletariato e la piccola borghesia meridionale, l’esercito di avvocati e medici condotti meridionali, l’esercito di riservisti del futuro partito-stato totalitario, le aspettative deluse dal nuovo stato Sardignolo, eccetera: tutto ciò Sereni lo racconta in modo magistrale. Descrizione precisa e perfetta – certo un po’ pedante, nell’applicazione del teorema di Marx – ma che non ha eguali nella storiografia italiana. In primo piano ci sono sempre le forze produttive e i rapporti di produzione, e sullo sfondo le vicende umane, non certo meno importanti, ma sempre collocate nella giusta posizione strutturale – mai protagoniste, ma nemmeno soverchiate da forze anonime, siano esse le forze anonime del mercato – la mano invisibile e il lassaiz-faire – o le forze meccaniche e anonime delle leggi di sviluppo. È la storiografia degli scrittori del Partito Comunista Italiano, i migliori, che per splendore d’analisi eguagliano e superano gli storici francesi e inglesi.
Il nuovo Stato, dunque, che si estende dalle Alpi alla Sicilia, e che assomma diversi regimi fiscali, diversi livelli di produttività del lavoro, diversa ampiezza dei sistemi di comunicazione e informazione, diversa collocazione delle forze lavoro e densità delle parcelle produttive, viene dapprima costretto entro un unico regime doganale, che, di per sé, suscita squilibri profondi nelle singole economie regionali, squilibri, scrive Sereni, che vengono dapprincipio attenuati o nascosti dalla estrema deficienza degli strumenti di comunicazione. Strumenti che, bisogna segnalarlo subito, Sereni lo scrive apertamente, e questo è un altro tratto caratterizzante dell’approccio marxista, strumenti che non sono meri mezzi piegati a un fine, ma rientrano (sono recuperati) essi stessi al fine per il quel rappresenterebbero dei mezzi – le ferrovie, per esempio, sono sia lo strumento per l’unificazione dei mercati, dunque per spingere la penetrazione capitalistica e recuperare all’industrialismo le zone agricole remote e pre-moderne, sia lo strumento per decostruire i rapporti di produzione che regolano le attività produttive autoctone, sia, esse stesse – e qui finisce la distinzione tra mezzi e fini – attività riproduttiva di interesse diretto del capitalismo. Le ferrovie costituiscono il primo business del capitalismo del tardo Ottocento. Ed è un errore considerarle solo e soltanto come meri strumenti. Le ferrovie sono tecnologia di comunicazione, ma sono, prima di tutto, capitale fisso, rinnovato da capitale variabile, che restituisce profitto per il capitale investito, per il quale è perfino difficile dire se il capitalista adoperi questo capitale come strumento per il suo arricchimento o non sia egli stesso strumento – Marx dice funzionario – del capitale in azione, dove il capitale è da intendersi non come gruzzolo, né come apertura di credito, ma come processo, come contraddizione determinata.
Questi cosiddetti strumenti di comunicazione vengono inseriti da Sereni in un quadrante strutturale. Non basta il treno, non bastano le vie marittime, il canale di Suez e le miglia di strada comunali e regionali che vengono costruite, e non basta considerare le strade e i porti che si costruiscono nel nuovo Stato, bisogna considerarle nell’intero quadrante e tracciare le rotte e dunque le influenze, considerare fin dove si scaricano le forze produttive, fin dove i rapporti di produzione consentono di inoltrarsi. Iniziare dalle borse-merci dell’Illinois e vedere come si scaricano sul paesello Lucano di Viggiano che, scrive Sereni, ha fornito a tutti i paesi d’Europa e d’America centinai e centinai di emigrati che per le vie e le strade cantavano Son Viggianese, Tutto il mondo è mio paese. Collegare a queste strade la produttività del lavoro, così come si esprime, ad esempio, nella produzione del frumento che, negli anni Ottanta, era di 32 ettolitri per ettaro in Inghilterra, di 22 in Olanda, di 20 in Belgio, di 23 in Germania, di 15 in Francia, mentre in Italia non superava gli 11 ettolitri.
L’esposizione al mercato mondiale era ormai tale, scrive Sereni, che una serie di buoni raccolti di riso nelle lontane Indie, poteva rovinare il piccolo produttore di riso della Lombardia e dell’Emilia, prima ancora che egli avesse potuto rendersi conto delle mutate condizioni di mercato e avesse potuto, in conseguenza, mutare l’orientamento produttivo della sua piccola azienda.
Le tecnologie di comunicazione sono importanti, ma non sono sufficienti. Per funzionare come valore di scambio – dunque per funzionare nel processo di valorizzazione del capitale – esse devono manifestarsi per qualcun altro, diverso dal loro produttore, come un valore d’uso. Affinché la tecnologa di comunicazione entri in valorizzazione, è necessario che in un qualche mercato, per esempio quello del frumento, lo squilibrio diventi insopportabile. Questo squilibrio non attiene solo alle dinamiche della forza lavoro o alla composizione organica del capitale o ai rapporti di produzione, eccetera. Anche qui, l’alterazione di un solo elemento deve portare al cambiamento di posizione negli altri elementi dello scacchiere economico. La forza lavoro può essere disponibile, possono essere disponibili i capitali e le materia prime, ma non sono pronte le navi, le vie commerciali, eccetera. È il quadro strutturale complessivo che deve tendere verso un diverso piano di equilibrio.
Dal 1871 al 1880, scrive Sereni, la superficie delle terre sottoposte a coltura è quasi raddoppiata negli Stati Uniti. È aumentata nella stessa proporzione la superficie coltivata a grano e a granturco, e la rispettiva produzione. La superficie per il grano passa da circa 20 milioni di acri a 38 milioni, e quella di granturco da 34 a 62 milioni. La produzione (in bushel) di grano passa da 290 a 500 milioni e quella di granturco da 1, 2 a 1,7 milioni. L’aumento della produzione granaria, scrive Sereni, è assai più che proporzionale all’aumento della popolazione. Nel periodo considerato la produzione di cereali per abitante è più che raddoppiata. Lo stesso trend si registra in Argentina. Tra il 1881 e il 1885 le esportazioni di grano australiano raddoppiano. Mentre nel decennio 1881-90 le esportazioni dall’India si mantengono intorno a una media di 10 milioni di quintali.
Non è ancora sufficiente che la produzione aumenti, e non è sufficiente che ci siano delle tecnologie di comunicazione pronte all’uso, che ci siano delle navi e dei porti, che ci siano dei treni e delle carrozze, che ci siano delle strade ferrate e delle strade pavimentate per far arrivare il grano del Nebraska a Grottaferrata, eccetera. C’è bisogno che in ogni tratta il bene mosso sia valore d’uso e valore di scambio, che sia per qualcuno un business e per qualcun altro, contemporaneamente – parliamo dello stesso bene – sia un ottimo valore d’uso, che lo stesso segmento o momento produttivo sia per qualcuno mezzo e per qualcun altro fine, e, soprattutto, che sia per entrambi profittevole, che tutta la catena sia, in potenza, poi in effetti le cose posso prendere tutt’altra piega, che sia, dicevo, almeno in potenza, profittevole, momento di guadagno, momento di valorizzazione del capitele o mero momento d’incasso della rendita finanziaria, agraria, eccetera. Tutta questa complicazione strutturale Sereni la conosce e la domina perfettamente, e riesce a seguire il grano e il grano turco dalle pianure del Midwest americano fino alla piana di Sibari dove, quando arriva, getta sul lastrico famiglie contadine che erano tenute assieme con la colla secolare di un’economia domestica, agreste, patriarcale, in cui il nonno e il nipote e la figlia e la zia avevano una precisa collocazione produttiva, di clan, di genere, eccetera.
Il grano dell’Oklahoma decostruisce e depotenzia le forze produttive dell’agro pontino, della valle del Sele, del tavoliere delle Puglie, della Valle del Salso, della campagna salentina, di Nardò, Copertino, Galatone, eccetera.
Sul mercato di Liverpool, già centro di smistamento del commercio granario europeo, gli effetti di questi smottamenti strutturali, scrive Sereni, cominciano a farsi sentire sin dal 1875, e si accentuano negli anni seguenti. L’inverno del 1878-79, scrive, era stato assai duro in tutta l’Europa, il raccolto granario era insufficiente ai bisogni. Ma, contrariamente alla generale aspettativa, il prezzo del grano non aumentò. «Se noi scrivessimo a New York – si legge su The Mill, organo dell’industria molitori inglese – che ci occorrono 50 milioni di ettolitri di grano, ci risponderebbero per telegrafo: li riceverete… I porti americano sono inondati di grano: nel corso di una sola settimane se ne sono imbarcati due milioni di ettolitri.»
Dal 1871-75 al 1894-98, il prezzo del grano in Inghilterra cade del 51%, quello dell’orzo del 39%. L’effetto si allarga a tutta la filiera dell’allevamento. Il prezzo del prosciutto sul mercato inglese cade del 26%, quello del burro del 25%. L’onda deflattiva si allarga al Belgio, alla Francia, alla Germania, dove gli agricoltori invocano misure protettive. In Italia, scrive Sereni, gli effetti si registrano nel 1880-81. Il prezzo del grano precipita da Lire 35,87 al quintale di gennaio 1880 a Lire 26,86 (-23%) di dicembre dello stesso anno. Nonostante i dazi protettivi, la spinta concorrenziale produce i suoi effetti sino alla fine del secolo. La superficie coltivata a grano cala in tutta Europa. In Italia da una media di 46,6 ettolitri nel periodo 1879-83 cade a 43,3 nel biennio 1886-87, a 38,8 nel 1888 e a 38,4 nel 1889. Il ribasso colpisce anche le altre produzioni verso le quale gli agricoltori si erano indirizati. Investe i prodotti dell’allevamento. Cala la rendita fondiaria. Mentre le città beneficiano dei bassi prezzi, sulle classi lavoratrici delle campagne vengono scaricati i maggiori i costi.
Sviluppando in proporzioni mai viste, sulle terre libere del Nuovo Mondo, la produzione mercantile, industrializzata, meccanizzata, dei cereali, il capitalismo agrario, scrive Sereni, attira nell’arena della concorrenza internazionale, tutta una serie di nuovi paesi, sconvolgendo così i metodi e le forme primitive, patriarcali, semi-feudali della produzione agraria del mondo intero. Nei paesi della vecchia Europa, scrive, la rendita agraria resta gravemente falcidiata: lo sviluppo del capitalismo nelle campagne riduce all’assurdo il monopolio della proprietà terriera non più solo in teoria – come avevano già fatto notare i teorici più conseguenti del capitalismo, a cominciare da Ricardo – ma anche in pratica.
In Italia, più che altrove, scrive Sereni, l’onda agraria che arrivata dal Nuovo Mondo, rovina la grande massa dei produttori, provoca profonde trasformazioni nei rapporti di proprietà e di produzione. Provoca – specie nel Mezzogiorno – una vera e propria degradazione dell’agricoltura, un regresso della tecnica, la riviviscenza di forme di sfruttamento pre-capitalistiche. Chi subisce le più profonde e durature conseguenze, scrive, non è la grande proprietà nobiliare, ex feudale, ma bensì la proprietà contadina particellare. È sui piccoli e piccolissimi contadini, sui loro sistemi familiari basati sull’autoconsumo e sulla piccola produzione artigianale, sulla tessitura casalinga gestita dalle donne, eccetera, che si abbatte l’onda della deflazione agraria, spezzando legami che avevano resistito per secoli, gettando sul lastrico campagne, borghi, paesi, intere regioni, producendo una sovrappopolazione relativa (relativa, sottolinea Sereni) una sovrappopolazione relativa mai vista, una popolazione contadina stracciona, affamata, denutrita, malarica, pronta per l’emigrazione. La terra stessa, scrive Sereni, esausta, rifiuta i suoi prodotti alla tecnica primitiva del contadino particellare. Nuovi, strani morbi – anch’essi importati d’oltremare! – colpiscono le sue colture. Il crollo dei prezzi dei prodotti agrari rende insostenibile il peso dei debiti usurari. Comincia per il contadino l’odissea dei pignoramenti forzati delle poche masserizie, dei frutti pendenti, del fondo stesso. Dei danni della deflazione ci si rifà sul contadino. Soprattutto sul contadino meridionale e delle Isole. Saranno questi contadini che daranno il maggior contingente di espropriazione forzata per mancato pagamento d’imposte, e saranno ancora loro che forniranno l’esercito di nullatenenti imbarcati a forza sulle navi per il nuovo mondo. Si parlerà di sovrappopolazione assoluta, si dirà che i meridionali si ammucchiano e proliferano come conigli. Si dirà che non c’è terra a sufficienza per gente che spazzola i campi come cavallette. Che le cose non stiano in questi termini Sereni lo dice subito. Non parliamo di sovrappopolazione assoluta. Sgombriamo subito il terreno dai soliti preconcetti. Non sono le terre che mancano, proprio nelle regioni dove più imponente è il flusso dall’emigrazione, scrive. Al contrario: nel 1909, ad esempio, su 731 proprietari della Calabria e della Basilicata, ben 663 lamentavano l’abbandono di vaste estensioni di terre in conseguenza dell’emigrazione. Non è la terra, non sono le condizione naturali della produzione che mancano, non è qui, scrive, che va ricercata la forza che spinge all’emigrazione milioni di lavoratori agricoli, specie nel Mezzogiorno. È, ancora una volta, nelle condizioni e nei rapporti sociali,, nelle forme particolari che lo sviluppo capitalistico assume nell’agricoltura e, in generale, nell’economia italiana, che, scrive, vanno ricercate le forze motrici del fenomeno migratorio. Solo queste condizioni e questi rapporti possono spiegare il processo di formazione di questa sovrappopolazione artificiale (artificiale!) nell’agricoltura che nell’emigrazione trova la sua espressione e il suo scarico. Solo queste condizioni e questi rapporti ci possono dare la spiegazione del fatto che intere regioni, come la Basilicata, che in altri tempi erano bastate a sostenere una data popolazione, non bastano ora a sostenere una popolazione considerevolmente diminuita.
Il grano e il granturco del nuovo mondo arriva in Europa e in Italia e scioglie le famiglie, disgrega i ruoli sociali, decostruisce vecchie solidarietà. I ruoli sono perturbati, le relazioni diventano torbide, il genere si altera e vaga in cerca di nuove simmetrie. In una società, quale era quella italiana pre-risorgimentale, in agricoltura, scrive Sereni, (la fondamentale attività produttiva) l’esclusione della donna dal lavoro dei campi comporta necessariamente una sua netta inferiorità sociale: «Lu munnu àvi cincu basi: – dice il proverbio siciliano. – Un Diu, un Suli, un Re, un Liuni, un Maritu. Chisti su’ li basi chi cci misi l’Eternu Patri, ppi stari fermu: senza chesti, va a catafasciu. Diu tieni ‘n pugnu a tutti: lu Suli, a l’alimenti: lu Re, ali populi, lu Liuni, a l’armali: lu Maritu, ala la casa so’».
Vi è un campo, scrive Sereni, in cui la donna è ancora, in questo periodo, la signora incontrastata: ed è il campo dell’industria casalinga (telaio e forno). Questo è il luogo del suo lavoro (del travaglio, della fatica), qui dà un importante contributo col suo lavoro. La penetrazione del capitalismo anche in questo luogo, la sua pervasività permessa delle nove tecnologia di comunicazione (il treno, la nave, la strada ferrata, la strada pavimentata, il canale marittimo, il telegrafo, la carrozza con cavalli meccanici, eccetera), distruggendo l’industria casalinga, scrive Sereni, industrializzando talora altre attività domestiche (panificazione), eliminando la donna da altre attività produttive, senza peraltro attrarla al lavoro industriale, ha ancora aggravato, in gran parte della Sicilia e del Mezzogiorno, l’inferiorità sociale della donna. La quale si avvia, inseme all’esercito straccione a costituire quella meglio gioventù spinta verso le navi e i treni per un viaggio che promette loro di diventare i muratori e i minatori in ogni angolo del nuovo (e del vecchio) mondo, o a rimanere sola, vedova bianca, pregna ad agosto, sgravata a primavera, ostaggio di carusi e miseria.

Cristofiru Culumbu, chi facisti?
La megghiu gioventù tu rruvinasti.
Ed eu chi vinni mi passu lu mari
cu chiddu lignu niru di vapuri.
L’America ch’è ricca di danari
è girata di paddi e cannuni,
e li mugghieri di li «mericani»
chiangianu forti chi rristaru suli

(canto popolare calabrese, Avanti!, 25 dicembre 1908)

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