Il fascino della torre di Babele e il bisogno di un linguaggio comune

musca

Salimbene da Parma, nella sua Cronica, narra di un esperimento psicolinguistico, commissionato e patrocinato da Federico II di Svevia. Fu proprio durante l’impero di quest’ultimo, com’è noto, che a Palermo fiorì la Scuola siciliana di letteratura. La città, al centro del Mediterraneo, divenne il punto d’incontro di almeno quattro culture: quella greca, quella latina, quella araba e quella ebraica. Federico II, cresciuto all’ombra di Innocenzo III, il quale accettò la tutela nell’ottica di controllare il futuro imperatore, ebbe dei violenti scontri con il potere ecclesiastico. Nella storia della Chiesa, il periodo che va da Innocenzo III (1198-1216) a Bonifacio VIII (1294-1304), ha visto la nascita e l’affermazione della “monarchia papale”. La Chiesa spostò l’ago della bilancia dal potere spirituale a quello temporale: non si occupava solo di diffondere la parola di Dio tramite le Sacre Scritture, ma anche e soprattutto della gestione degli affari sul territorio dove esercitava il proprio potere.
I sovrani, cioè i re e gli imperatori, a loro volta, ritenevano che il loro potere derivava direttamente da Dio, quindi mettevano in discussione la prerogativa spirituale del papa di rappresentare la connessione con la sfera celaste. Tutti i tentativi dicotomici di separare il sacro dal profano, il diavolo dall’acqua santa, diedero vita a una serie interminabili di conflitti e forme di comunicazioni patogene, che sfociarono in disastri sociali, nei quali non erano coinvolti solo il clero e la ricca aristocrazia terriera, ma anche il popolo grasso e quello minuto.
Tale premessa si è resa necessaria, per provare a spiegare la valenza e il significato dell’esperimento psicolinguistico, seguendo un’altra traiettoria.
Federico II, stando alle fonti storiche che ci sono pervenute, era un ottimo linguista, parlava molte lingue, alcune in via di formazione, come l’italiano, il francese e il tedesco, altre consolidate, come il greco e il latino, ma conosceva anche l’arabo. L’apertura mentale è una condizione necessaria per apprendere le lingue straniere, ma coloro che esperiscono questo processo, specialmente quando imparano più di una lingua contemporaneamente, percepiscono una sorta di confusione. Infatti, succede che sbaglino il registro linguistico, con l’interlocutore che hanno di fronte.
Pertanto, la mia ipotesi è che la spinta terrena che riceve Federico II a realizzare l’esperimento prende le mosse dal disagio esistenziale legato, da una parte, all’esposizione a lingue diverse, dall’altra, alle difficoltà ad essere compreso dagli altri, per via dei non rari corti circuiti che costellano la comunicazione umana, mentre la spinta “divina” trova la sua linfa, molto probabilmente, nel suo desiderio sconfinato di scoprire la lingua primigenia.
La crudeltà dell’esperimento fu quella di separare dei bambini appena nati dalle loro madri e affidarli a delle balie, le quali avevano l’ordine di accudirli in ogni modo, ma non potevano parlare direttamente con loro, né tanto meno parlare in loro presenza, per nessun motivo. In un certo senso, gli sperimentatori, che seguirono le direttive di Federico II, crearono un laboratorio di privazione sensoriale, mediante il quale avrebbero assecondato le speranze dell’imperatore di scoprire che i bambini avrebbero iniziato a parlare spontaneamente in latino, in greco o in ebraico. Purtroppo – come rileva Watzlawick – l’esperimento, nonostante tutti gli sforzi messi in campo, «fu fatica vana e i bambini morirono tutti». (1)
A quanto pare, gli esseri umani dipendono dalla comunicazione, quindi in condizioni di isolamento estremo, i risultati sono a dir poco catastrofici, se non letali.
Uno degli assiomi chiave, elaborato da Watzlawick e altri componenti dalla scuola di Palo Alto, è: non si può non comunicare.
Il desiderio di ritornare al ceppo originario e di scoprire la lingua primigenia rimanda al mitico racconto della torre di Babele, una costruzione verticale che consente agli esseri umani di scalare il cielo, il simbolo ambivalente del tentativo di ritornare all’unità, all’Uno, ma anche di disperdersi sulla terra e poter parlare lingue diverse. Pietra su pietra, mattone su mattone, sintagma dopo sintagma, triade mittente-segno-destinatario – la più piccola unità di ogni ricerca pragmatica – dopo triade, si cerca di dar forma a una scala per elevarsi dalla bolgia, provando a contrastare la confusione. La “lingua unica” che si divide e si diffonde, diventa plurale, le differenze arricchiscono i linguaggi, il ceppo originario si dirama e ogni diramazione diventa più complessa, spingendo, nel contempo, nella ricerca dell’unità indivisibile.
Da quest’angolazione, si ha come la sensazione di ripercorrere la strada del fallimento del successo e quindi di rimanere intrappolati nel linguaggio paradossale. Sul piano religioso è come se Dio ordinasse, simultaneamente, agli esseri umani di disperdersi sulla terra e di ricongiungersi a Lui.
La confusione, il disordine, il caos, nel corso della storia, hanno sempre terrorizzato la vita quotidiana degli individui associati, forse, la paura più grande dell’uomo è stata quella di perdere la propria integrità psico-fisica: in questi casi, un’onda chimerica travolge il labile io, che quindi non riesce a trovare una conferma, una forma di validazione nei rapporti sociali di cui è parte.
Il tormento che può affliggere la comunicazione umana non sorge dal parlare lingue diverse, se si parte dal presupposto che siamo tipi di “versi” e che quindi le parole, talvolta, astruse e contorte, con il loro suono e ritmo, possono essere tradotte – tradite – senza annullare l’armonia e il senso del messaggio verbale. L’arte del tradurre, sotto questo profilo, ha cercato di spezzare la maledizione della torre di Babele e ci siamo spinti al punto che gli interpreti simultanei, tanto per fare un esempio, vengono sostituiti da macchine sofisticate ed efficaci: Google ha recentemente presentato Pixel Buds, auricolari bluetooth in grado di tradurre più di 40 lingue diverse nella cosiddetta madre lingua. I guai iniziano, per così dire, quando si perde di vista la circolarità della comunicazione, finendo in vicoli ciechi e unilaterali, in quanto la pretesa dei contenuti che veicolano le parole negano i segnali non verbali e in generale l’aspetto relazionale delle interazioni reciproche. Nel parlare la stessa lingua, potremmo avere l’illusione che tutti i messaggi verbali vadano a buon fine ma così non è: le incomprensioni, gli equivoci, i fraintendimenti, le barriere, gli ostacoli che si frappongono nelle interazioni, eccetera, non possono essere eliminati del tutto e non sono in sé pericolosi, se gli interlocutori sono capaci di ricalibrare i messaggi.
Tuttavia, le sofferenze del non capirsi e i disagi esistenziali connessi possono condurre a forme di comunicazioni disturbate, sia nei rapporti diadici che in quelli multipli, quando i membri di un sistema relazionale si accusano a vicenda di “pazzia”, di “cattiveria o cattiva volontà”, ignorando, come scrive Watzlawick, che «l’essenza di un rapporto si dimostra come un fenomeno complesso sui generis che ha regolarità e patologie le cui caratteristiche non sono quindi imputabili né a un partner né all’altro; l’acqua è qualcosa di più e di diverso della semplice somma delle caratteristiche dell’idrogeno e dell’ossigeno». (2)
Finché la sfera e il cerchio continueranno a rimanere nel proprio mondo, senza provare a uscire dai propri confini, dalle modalità particolari di percepire la realtà e creare uno spazio condiviso, un linguaggio comune, allora è molto probabile che si rimarrà nel circolo vizioso delle relazioni disturbate. Nei rapporti diadici, in cui prevalgono forme di comunicazioni non sane, ogni partner si guarderà bene dal riconoscere la propria visione unilaterale e cercherà di far ricadere sull’altro le responsabilità delle sofferenze derivanti dal conflitto interpersonale. Sofferenze e insofferenze che non vanno ricercate nell’uno o nell’altro, non sono riducibili all’uno o all’altro; come nella chimica, si tratta qui di una combinazione di due o più elementi.
In queste circostanze, quando la palla di neve s’è ingrossata, quando A chiede acqua e B gli dà il vino, quando i circoli viziosi si sono incrostati, è difficile che si possa ricorrere alla meta-comunicazione, per uscire dall’empasse, mentre sembra che l’accessibilità alla struttura sovrapersonale, di cui fanno parte, sia relativamente semplice, per qualcuno che si trovi all’esterno, che non viva direttamente le suddette condizioni conflittuale. Succede allora che non appena le necessità esterne, che validano il contenuto della comunicazione vengano meno, se non si riesce a produrre il cambiamento di cui c’è bisogno, l’intero sistema relazionale crolla, implode su se stesso e ognuno prende la sua strada.
Il contesto diventa più complicato quando l’interlocutore è esposto a forme di comunicazioni paradossali e si trova in una condizione di dipendenza, per la quale non gli è consentito di ricorrere al linguaggio meta-cognitivo. Nei sistemi familiari, spiega Watzlawick, là dove i figli risentono dell’importanza della relazione, in quanto non sono ancora autonomi, si possono verificare situazioni indecidibili, quando i genitori squalificano le percezioni o i sentimenti dei loro figli oppure li sottopongono a ingiunzioni che prescrivono e contemporaneamente proibiscono un determinato comportamento. Il ragazzo, che riceve continuamente il messaggio, da parte di persone che reputa importanti (i genitori), di utilizzare qualsiasi mezzo per arricchirsi e nello stesso tempo un messaggio che inculca l’idea di essere sempre onesti, orbita nel “doppio legame” e non sa che pesci pigliare. Nel double bind non c’è via di scampo: il sistema si avvita su se stesso e qualsiasi tentativo di prendere una decisione viene annullato.
Il girare a vuoto, non è solo una caratteristica dei sistemi umani, qualcosa di analogo si verifica anche con i calcolatori, ossia quando un computer deve individuare un valore che non si trova nel campo del suo programma. Nello specifico, in alcune procedure decisionali matematiche, si pone il problema dell’arresto o della fermata, un problema che è stato formalizzato per la prima volta da Turing nel 1936.
Semplificando il discorso ai minimi termini, dato un algoritmo A e una serie di dati D (ingresso finito), si tratta di stabilire se la procedura di calcolo, la computazione dell’algoritmo termina oppure continua la sua esecuzione all’infinito.
La procedura computazionale individua, se con un numero finito di operazioni si può arrivare a una decisione si o no.
Una computazione è una sequenza di configurazioni, essa si arresta se la sequenza C1, C2, C3,……Ck è finita e, quindi, raggiunge uno stato accettante o rifiutante Ck.
Accade, però, che nell’immettere un determinato input, una macchina di Turing può accettare, rifiutare oppure non fermarsi, cioè continuare a girare all’infinito, senza segnalare che non è in grado di risolvere il problema. Dunque, non esiste un algoritmo generale in grado di trovare la soluzione, per qualsiasi input (ingresso). Il non fermarsi della macchina, traslato nei rapporti umani, equivale alla disconferma: non c’è un sano rifiuto, non si nega o si accetta l’altro, ma si verifica quella condizione, per la quale, come dice R. D. Laing, l’altro riceve ripetutamente il messaggio che “non esiste”.
I genitori che pongono al proprio figlio dei dilemmi irrisolvibili, quando, per esempio, lo accusano di non provare dei “sentimenti giusti” e qualsiasi cosa che faccia o dica viene risucchiata dal circolo vizioso dei giochi senza fine, attivano in modo, forse, inconsapevole la perniciosa cappa della mistificazione. Pertanto, non mirano solo a distruggere la sua esperienza interiore e invalidare il suo io, essi sovrappongono anche una falsa coscienza a questa devastazione, ripetono continuamente il mantra di far tutto ciò per il “suo bene”.
Simili dinamiche prendono corpo anche nel macrocosmo: i lavoratori e le lavoratrici dipendenti, nei rapporti di lavoro salariato con le imprese, nel tempo e nello spazio, ricevono continuamente il messaggio che hanno bisogno di loro, ma che rappresentano un costo. Quindi, affinché gli imprenditori possano continuare a utilizzare il lavoro dei dipendenti, è indispensabile che i loro salari siano minimi – ahimè, legge sul salario minimo! Se provano a mettere in discussione quest’assunto, vengono accusati di sputare nel piatto dove mangiano e quindi di non essere riconoscenti per gli sforzi paternalistici che gli imprenditori mettono in campo, quando in realtà perseguono solo lo scopo di tenere alti i profitti. Marx, Engels e tanti altri, nel corso della storia, hanno cercato di demistificare i rapporti sociali di produzione nei quali siamo immersi, ma è bello trovare la critica alla mistificazione da parte di un autore come R. D. Laing, quando afferma che si butta fumo negli occhi degli sfruttati, nel momento in cui si cerca di «far passare lo sfruttamento come una sorta di benevolenza degli sfruttatori».(3)

NOTE

1) P. Watzlawick,Il codino del barone di Münchhausen, Feltrinelli, Milano 2018, p. 20.
2) Ibidem, p. 16.
3) R.D. Laing, The Politics of Experience/The Bird of Paradise,, Penguin Books, London 1967, p. 49.