Quando per gli antagonisti era ancora un obbligo catechizzare i nuovi arrivati la bibbia era composta da Storia e coscienza di Classe e Costituzione e lotta di Classe.
Conoscere il secondo libro, meno noto del primo, era obbligatorio. L’autore, Hans-Jürgen Krahl, era cresciuto all’ombra di Adorno. La prima parte del libro risente fortemente dall’insegnamento della scuola di Francoforte. Lo sviluppo del tema del lavoro, della incarnazione (la cosiddetta alienazione) e dell’inevitabile gioco della differenza – per la precisione Krahl scrive: se l’intera società si riduce a un’unica dimensione, vuol dire che scompaiono tutte le differenze di una logica dell’essenza. Non sarebbe la fine della rivoluzione? Allora avrebbe ragione Adorno: la prassi è impossibile. – questo gioco deve molto all’insegnamento hegeliano appreso più all’Istituto che all’università.
Il livello della filosofia di Krahl non ha nulla da invidiare alla più guapa french theory.
Ciononostante, la miseria della Teoria Critica, dice Krahl, consiste nell’assenza della questione organizzativa. L’esperienza del fascismo pare aver suggerito alla Teoria Critica e a Adorno che la prassi collettiva, che l’azione politica – il collettivo, il movimento – che quella necessità di mettersi insieme e lottare per uno scopo comune decompone la classe, la fa divenire una massa, la fa ritornare a una brutalità pre-politica, eccetera.
Infondo, dice Krahl, la posizione rassegnata, che giunge ad affermare l’irrevocabile integrazione della classe operaia nel sistema capitalistico, si ispira a un concetto tradizionale di proletariato industriale che non coglie più le possibili forme di mutamento del lavoro complessivo.
Insomma, Adorno aveva fatto il suo tempo. La sua filosofia, legata all’esperienza del nazismo e dello stalinismo, non aveva niente da dire su un mondo cambiato enormemente.
Non eravamo più di fronte a un partito che totalizza e subordina alla sua azione gli stati e i parlamenti, eravamo dentro un processo di socializzazione del lavoro produttivo e della proprietà privata capitalistica che si svolge sul terreno stesso del modo capitalistico di produzione e che, quindi, relativizza il significato del lavoro e del tempo lavorativo.
Non ritengo – dice Krahl – che si possa, per questo, parlare di una seconda fonte di plusvalore, ma è certo – è certo! – che la realtà del processo di produzione non coincide più con il processo lavorativo. La produzione non avviene più – o esclusivamente – nei luogo di produzione. Il lavoro che produce plusvalore si slega dalla produzione. È la fine del concetto di lavoro produttivo.
Già Rubin – negli anni Venti –, ribaltando il rapporto tra produzione e circolazione e legando la sua teoria del valore alla circolazione, faceva fatica a segnare il margine tra lavoro produttivo e improduttivo. Ma qui siamo a un ribaltamento definitivo.
Se è così, dice Krahl, se la contraddizione fra socializzazione e proprietà privata, fra lavoro sociale e lavoro privato dispiega una dimensione nuova e tale da manifestarsi, allora, in una certa misura, si è allargata anche la totalità della classe proletaria. Per questo stesso fatto si allarga anche il concetto di lavoro produttivo, al di là del singolo reparto di fabbrica vera e propria. E, secondo me, dice Krahl, non è possibile tradurre tutti questi problemi in un’adeguata coscienza partitica della totalità, in coscienza di classe, se ci si attiene a un concetto tradizionale di proletariato industriale, se cioè si rimane aggrappati all’esercito degli operai che lavorano alle macchine.
Krahl scrive questi testi nel 1968-69. Nel 1962-63, sui Quaderni Rossi, Mario Tronti aveva impostato chiaramente questi stessi temi.
Questa dislocazione del lavoro produttivo – questa relativizzazione del lavoro produttivo. Questa svalutazione del lavoro – si sviluppa all’interno della tradizione del marxismo occidentale che, dice Krahl, va da Lukács, attraverso Horkheimer, fino a Merleau-Ponty, e che porta alla coscienza ciò che gli strateghi del riformismo socialdemocratico e dell’ortodossia del marxismo sovietico hanno rimosso: la riduzione del progresso emancipativo a progresso tecnico, della rivoluzione sociale a rivoluzione industriale. Questa tradizione del marxismo occidentale riapre la prospettiva di una politica e di una violenza che rifiutano il compromesso, propone l’idea di una liberazione che va al di là dell’intensificazione industriale attuata mediante piani. La riduzione del processo rivoluzionario di liberazione a rivoluzione industriale continua a trascinare con sé la miseria della reificazione e sottomette gli individui alla servitù impersonale dei mezzi materiali di produzione.
La fine del lavoro produttivo seppellisce l’industrialismo sovietico e l’operaio massificato. L’operaio sociale non è un lavoratore, è un ribelle, una sorta di sottoproletario che aspira a staccare la sua cedola di reddito garantito, di basic income.
Oggi, è sotto gli occhi di tutti, questo movimento è giunto al culmine – è finito. Da una parte ci sono gli operai, che pendono verso il plusvalore assoluto, dall’altra ci sono i disoccupati. Il basic income ha complicato il loro rapporto. Non ha portato pace né agli uni né agli altri.