Il valore aggiunto come volontà di potenza. Il Nietzsche di Bataille

bataille

I

Nella Prefazione al suo Nietzsche Bataille va subito al dunque. Nietzsche, dice, sarebbe stato il filosofo della «Volontà di potenza» [o della Volontà di volontà, come dice Heidegger]; come tale egli si poneva, come tale è accettato. Io credo, dice, ch’egli sia piuttosto il filosofo del male. Il fascino, il valore del male, mi sembra, per lui diedero senso a ciò che voleva dire quando parlava di potenza. Nietzsche, dice, provò avversione per quello che, mentre egli era vivo, si ordinò nel senso di questa volontà.
Questa considerazione di apertura è di primaria importanza. Si pone in netto contrasto con la lettura che negli stessi anni stava conducendo Heidegger. Mentre Heidegger si sforza di mostrare come Nietzsche, fino in fondo, sia un pensatore della Volontà di potenza, Bataille dice subito il contrario. È un grave errore partire dalla volontà o dalla potenza, oppure interpretare questa volontà come scaturigine del valore. Il valore, dice Bataille, va cercato nel male. Questo male non è il male della tragedia, di un mondo soverchiato e sballottato da forze ostili. Il male non ha a che fare con l’ostilità. Bisogna escludere subito questa possibilità. Il male, dice Bataille, non ha a che fare con l’azione, con l’attività, con qualsiasi forma di politica, di impegno politico, di socialismo, di anarchismo, di liberalismo. In campo, quando si tratta del male, non troviamo della forze: non la lotta negativa contro – la reazione. Ognuno di noi impara amaramente, dice, che lottare per qualcosa significa perderla. È qui evidente il tratto anti-hegeliano. Ogni filosofo della lotta – della reazione – rimane un filosofo eminentemente hegeliano.
In carcere (Ex Captivitate Salus), Carl Schmitt confessa infine il suo hegelismo e dice che ci si classifica attraverso il proprio nemico. Ci si inquadra grazie a ciò che si riconosce come inimicizia. Cattivi sono certo gli annientatori (Vernichter) che si giustificano adducendo che gli annientatori vanno annientati. Ma ogni annientamento, dice, non è che auto-annientamento. Il nemico invece è l’altro. Ricordati delle grandi proposizioni del filosofo [il riferimento implicito è a Hegel]: il rapporto con se stessi nell’altro, questo è il vero infinito. La negazione della negazione, dice il filosofo, non è una neutralizzazione; al contrario, il vero infinito ne dipende. Ma il vero infinito è il concetto fondamentale della sua filosofia.
Chi può essere il mio nemico? – si chiede Schmitt.
Evidentemente, risponde, soltanto colui che può mettermi realmente in questione. Solo io stesso. O mio fratello. Ecco. L’altro è mio fratello. L’altro si rivela fratello mio, e il fratello, mio nemico.
Non si tratta di una domanda teorica. Come in Hegel, ciò che mi mette in questione – l’altro – è un altro determinato. Ciò che mi mette in questione è un atto di guerra. Non ci si interroga sul nemico, senza subirne l’invasione.
La Volontà di potenza, aspirando all’azione, dunque al bene, aspira alla sua subordinazione. Superare lo stadio dell’azione, dice Bataille: altrimenti sarò soldato, rivoluzionario di professione, scienziato, eccetera, ovvero sarò subordinato a un fine. Quando un uomo si pone il fine di impadronirsi del potere nello Stato, dice, agisce, sa ciò che deve fare. Poco importa che fallisca: immediatamente inserisce il suo essere con vantaggio nel tempo. Ogni suo istante diventa utile, dice, in ogni momento gli è data la possibilità di procedere verso il fine prescelto: il suo tempo diventa un cammino verso tale fine (ed è tutto questo che abitualmente si chiama vivere). Lo stesso accade se ha come fine la sua salvezza. Soltanto se non è subordinata a un soggetto preciso che la supera, la vita rimane integrale.
Nel travaglio (lavoro) dell’azione ciò che era solo possibile in quanto fine, in quanto progetto, in quanto idea, diventa ora effettivo, vero. Ma questa possibilità – che è progetto – è una cattiva possibilità, e nell’azione, alla fine del ciclo, ripropone lo stesso che era all’origine, arricchito di un sovrappiù. Non trova niente di diverso da ciò che era nelle premesse, nel progetto, nell’idea. Il fine giunge alla fine, e alla fine ritrova ciò che già era nelle premesse. Per questo la chiamo cattiva possibilità. Il lavoratore diventa servo del fine, ogni sua azione deve tendere a realizzare l’utile. Rifiuto del lavoro significa qui rifiuto della teleologia, rifiuto del progetto, rifiuto dell’idea – rifiuto della trascendenza.
Cattiva possibilità non solo perché il lavoro è lavoro subordinato – e questo, di per sé, non è ancora il peggio. Ma perché il destino del lavoro è segnato, sin dall’inizio è segnato: alla fine del processo si ritrova ciò che era all’inizio. Non si ritrova niente di nuovo. Nessuna novità. L’utile piega il tempo e lo fa ritornare sui suoi passi, identico. Nel figlio si ritrova il padre, e il parto è questo ritorno al passato.
Se mi si capisce, scrive Bataille, la «volontà di potenza», considerata come un termine, sarebbe ritornare indietro. Seguendola, ritornerei alla condizione servile. Mi prefiggerei di nuovo un dovere e il bene che è la potenza voluta mi dominerebbe. La leggerezza che esprimevano il riso e la danza di Zarathustra si riassorbirebbero; invece che alla felicità sospesa sull’abisso, sarei ancorato alla pesantezza, alla servilità del progetto. L’ultimo scritto portato a termine da Nietzsche, dice Bataille, l’Ecce Homo, afferma l’assenza di scopo, l’insubordinazione dell’autore ad ogni progetto. Situata nella prospettiva dell’azione, l’opera di Nietzsche è un aborto.

II

Nella formula D-M-D troviamo dispiegata la teleologia di cui parla Bataille. Forma D-M-D, scrive Marx (Libro 1,II,4): trasformazione di denaro in merce e ri-trasformazione di merce in denaro, comprare per vendere. Il denaro che nel suo movimento descrive quest’ultimo ciclo, si trasforma in capitale, diventa capitale, ed è già capitale per sua destinazione.
Il denaro, che è capitale per destinazione, per scopo, è capitale in potenza, capitale possibile. Per diventare capitale effettivo, deve attendere di diventarlo, deve investirsi in un’azione, in un lavoro, in un travaglio, in un parto. Da questo parto ritorna arricchito. Nel figlio rivive il padre.
Il processo, scrive Marx, può essere scisso in due parti. D-M, compera, il denaro è trasformato in merce, e M-D, vendita, la merce è trasformata in denaro. Il risultato nel quale si risolve tutto il processo è: scambio di denaro contro denaro, D-D. Alla fine del processo – del ciclo – ritorna lo stesso che avevo all’inizio.
A che serve dunque il passaggio per la merce M? Serve a far diventare vero il Denaro. La Merce serve il Denaro.
Se, nella formula D-M-D, il Denaro è il Potere di acquistare ogni Possibile merce, e una merce vale l’altra – da qui deriva la loquela sociologica intorno alla cosiddetta alienazione -, questo Denaro possibile è Denaro Ideale.
Nella formula D-M-D, scrive Marx, non si lascia andare il denaro che con la perfida intenzione di tornarne in possesso. Il denaro viene quindi soltanto anticipato.
L’anticipo è apertura di Credito – Fiat. Non c’è bisogno dello sguardo retrospettivo alla storia dell’origine del capitale, scrive Marx, per riconoscere che il Denaro è la prima forma nella quale esso si presenta: la stessa storia si svolge ogni giorno sotto i nostri occhi. Ogni nuovo capitale calca la scena, cioè il mercato – mercato delle merci, mercato del lavoro, mercato del denaro – in prima istanza come denaro, ancora e sempre: denaro che si dovrà trasformare in capitale attraverso processi determinati.
A prima vista, scrive Marx, il ciclo D-M-D sembra senza contenuto, perché tautologico. All’inizio e alla fine del ciclo si trova sempre denaro. Scambiare la stessa cosa contro la stessa cosa sembra un’operazione tanto inutile quanto assurda. Una somma di denaro, aggiunge Marx, si può distinguere da un’altra somma di denaro, in genere, soltanto mediante la sua grandezza.
Insomma, vuol dire Marx, se consideriamo il Denaro come mera grandezza – come unità di conto – il ciclo si chiude in una tautologia. All’inizio e alla fine troviamo sempre lo stesso Denaro. Se astraiamo da ciò in cui il D(enaro) si presenta, oppure, se crocifiggiamo e uccidiamo ciò in cui il denaro si incarna, l’Identità di D(io) diventa una tautologia. Di estinzione parla proprio Marx qualche riga sopra: nel D ciò che si è estinto è il corpo del valore d’uso.
Allora perché scendere dal cielo del Possibile, all’atto effettivo dell’esistenza? L’esperienza dell’incarnazione fa diventare vero ciò che è mera possibilità, ma in quanto carne e corpo del valore la merce deve poi farsi da parte.
Se c’è una differenza tra il primo e il secondo D, questa differenza non potrà essere qualitativa, ma dovrà essere quantitativa. In fin dei conti, dice Marx, vien sottratto alla circolazione più denaro di quanto ve ne sia gettato al momento iniziale. La forma completa di questo processo è quindi D-M-D’, dove D’ = D+ΔD, cioè è uguale alla somma di denaro originariamente anticipata, più un incremento. Chiamo Plusvalore questo incremento, ossia questa eccedenza sul valore originario. Quindi nella circolazione il valore originariamente anticipato non solo si conserva, ma in essa altera anche la propria grandezza di valore, aggiunge un plusvalore, ossia si valorizza. E questo movimento lo trasforma in capitale.
Il movimento trasforma l’anticipo in Capitale. Che cos’è l’anticipo, nel momento in cui viene anticipato, se non è ancora Capitale? È Denaro.
Senza questo riflusso l’operazione è fallita – scrive Marx. L’investimento nell’azione teleologica non è sicuro. Può fallire. In esso agisce una certa chance: una buona possibilità si fa valere. Ma in che modo? e perché?

III

In D(io) il corpo del valore d’uso deve estinguersi affinché D(io) possa porsi come fondamento delle determinazioni in atto, come unità della molteplicità di questi atti. Tutte le determinazioni si fondano sullo stesso D(io): io percepisco, io giudico, io agisco. L’io penso, dice Kant, deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni, cioè ogni cogitatio dei cogitata. Ma questo non bisogna intenderlo come se in ogni atto, in ogni pensiero in senso esteso fosse sempre presente anche la rappresentazione dell’io, bensì nel senso che io sono cosciente del collegamento di tutti i miei atti con il mio D(io), cioè che sono consapevole di essi nella loro molteplicità come di una mia unità, un’unità che si fonda sulla mia egoità (come subiectum) in quanto tale. Solo sul fondamento del D(io) penso può essermi data una molteplicità.
È importante che D(io) risorga dal valore d’uso M(e). D(io) deve elevarsi ad unità di conto. Deve distinguersi, scindersi – deve prodursi la differenza – dalla sua determinazione empirica – dall’oro, per esempio. Non c’è numerario possibile senza questa crocifissione e resurrezione – senza questa aufhebung.
Torno un attimo indietro per sottolineare un punto messo in evidenza da Marx e sul quale mi fermerò in seguito.
Cosa distingue il ciclo M-D-M dal ciclo D-M-D? – chiede Marx.
Nella circolazione M-D-M, dice, il Denaro viene trasformato in merce che serve (la merce) come valore d’uso. Dunque, il Denaro è definitivamente speso. Nella formula inversa D-M-D, il compratore non lascia andare il Denaro che con la perfida intenzione di tornarne in possesso. Ma, aggiunge, sottratto alla circolazione il D(io) si pietrifica, torna ed essere valore d’uso. Senza questo ritorno, dice Marx, l’operazione è fallita. Il fallimento è sempre in agguato. Il progetto è sempre insidiato dalla buona possibilità. Sulla circolazione pende il pericolo del fallimento, e questo pericolo si chiama buona possibilità. Ma se torna, subito deve ripartire, perché in tasca del suo possessore D(io) non ha contenuto, non vale niente, si pietrifica, torna valore d’uso – di più, perde anche il suo valore d’uso proprio. Alla lettera: si pietrifica, torna cosa insensata – cosa assoluta.
Il D(io), dice Marx, è la figura delle merci, nella quale i valori d’uso particolari sono estinti. Senza questa estinzione lo scambio è impossibile, l’equivalenza è impossibile. Ha voglia di meravigliarsi Cipolla (e con lui Braudel) del fatto che nel Cinquecento la Lira venisse usata come unità di conto, senza che ad essa corrispondesse una moneta metallica! Affinché la Moneta (Me) funzioni in quanto D(io) essa deve estinguersi e risorgere. La moneta senza corpo fisico, senza un corpo di valore d’uso, una mera carta moneta non ha dovuto attendere il Novecento per fare il suo ingresso in scena. Già a Lodi, nella locale clearing house, si aveva l’astuzia di creare unità di conto con un tratto di penna.

IV

Dal punto di vista qualitativo – per ciò che attiene alla loro sostanza – 110 sterline sono la stessa cosa che 100 sterline, cioè D(io). Sottratte alla circolazione cessano di essere Capitale. Il Capitale ritorna solo nella Circolazione, poiché, scrive Marx, la valorizzazione del valore, esiste soltanto entro tale movimento sempre rinnovato. Quindi, dice, il movimento del capitale è senza misura, e nella circolazione trova ad attenderlo la buona possibilità. Il senza misura non è il frutto di ingordigia o di immoralità, ma delle peripezie del cattivo infinito, nella serie delle compre e delle vendite nelle quale il Denaro in mano torna ad essere niente e deve ritrasformarsi in valore d’uso per valorizzarsi. Il valore d’uso, consolazione amara per il capitalista, valore d’uso che non può essere consumato, ma ammirato da lontano, le mani legate, i sensi tarpati, deve essere ceduto, se si vuole tornare in possesso di quel capitale tanto agognato. Insomma, se trattengo il D(io), esso diventa insensato, se lo lascio andare, rischio di perderlo, e se ritorna, e lo trattengo definitivamente, esso rischia di cadere nel non-senso. Il tesaurizzatore, dice Marx, è soltanto il capitalista ammattito, mentre il capitalista è il tesaurizzatore razionale. E la razionalità sta qui. Se trattengo il D(io) nego il suo valore-d’uso, se, invece, lo uso per quel che vale, rischio di consumarlo, ma il rischio comporta anche il suo ritorno con un premio per il rischio assunto.
Nella circolazione D-M-D, l’una e l’altra, dice Marx, merce e denaro, funzionano soltanto come differenti modi di esistere del valore stesso. Incarnazioni del valore. Il valore trapassa costantemente da una forma all’altra, migra e invasa sia il denaro, sia la merce, e di nuovo il denaro e poi la merce, e si trasforma così in un soggetto automatico.
Ecco costruita una macchina! D(io) è il motore che gira su se stesso, ritorna sui propri passi tirando il filo delle merci, filo che si avvolge, crescendo di giro in giro.
Il valore, dice Marx, ha bisogno di una forma autonoma, per mezzo della quale venga constatata la sua identità con con se stesso. Questa forma autonoma la conquista nel Denaro. Quindi, dice, il D(io) costituisce il punto di partenza e il punto di arrivo del processo. In assenza di questa identità, gli oggetti effettivi (i presunti valori d’uso) piombano nella loro posizione assoluta, e niente ha più valore – si cade nel nichilismo estremo. D(io) non può esser preso per una cosa. Si deve dapprima conquistare la sua trascendenza. Ma a differenza che nella tesaurizzazione, dove il denaro, ponendosi in antagonismo con la merce, si ferma nel suo momento astratto, e si risolve in nulla, nel ciclo D-M-D il Denaro, per sé preso, conta solo come una forma del valore, poiché questo ha due forme. Senza l’assunzione della forma fisica di merce il denaro non diventa capitale. Lanciato in cielo – trascendenza – il D(io) deve cadere a terra (incarnarsi) come merce, nella merce. Se vuol diventare capitale e ritornare (risorgere) in quanto D(io)’. Il capitalista sa, dice Marx, che tutte le merci, per quanto possano avere aspetto miserabile o per quanto possano avere cattivo odore, sono in fede e in verità D(io), sono giudei intimamente circoncisi e, per di più, mezzi taumaturgici per far del denaro più denaro. Se nella circolazione semplice, scrive Marx, il valore delle merci nei confronti del loro valore d’uso riceve tutt’al più la forma autonoma del denaro, qui esso si presenta improvvisamente come una sostanza dotata di proprio processo vitale e di proprio moto, per la quale merce e denaro sono entrambi pure e semplici forme. Ma c’è di più. Invece di rappresentare relazioni tra merci, il valore entra ora, per così dire, in relazione privata con se stesso. Si distingue, come valore originario, da se stesso come plusvalore, allo steso modo che Dio Padre si distingue da se stesso come Dio figlio, ed entrambi sono coetanei e costituiscono di fatto una sola persona, poiché solo mediante il plusvalore di 10 sterline le 100 sterline anticipate diventano capitale, e appena sono diventate capitale, appena è generato il figlio e, mediante il figlio, il padre, la loro distinzione torna a scomparire ed entrambi sono uno, 110 sterline.
Il valore, scrive, diventa dunque valore in processo, denaro in processo e, come tale, capitale. Viene dalla circolazione, ritorna in essa, si conserva e si moltiplica in essa, ne ritorna ingrandito e torna a ripetere sempre di nuovo lo stesso ciclo – D-D’.

V

Bataille decifra questa sottile teologia. Se sopprimo la considerazione del futuro, le preoccupazioni per l’avvenire, gli stati in cui queste preoccupazioni non ci toccano più, sono al di sopra o al di sotto dell’uomo.
I Capitale, come si è visto, è anticipo. Cosa si anticipa nell’anticipo? Si anticipa il suo ritorno. Questa è la struttura del tempo (e la struttura della valorizzazione del capitale), in cui ogni istante è asservito all’utile. Si progetta nell’Anticipo che questo anticipo ritorni integro, non alterato – semmai accresciuto, ma sempre integro nella sua identità qualitativa. Ma qui si annida una chance e una beffa per il capitale. Se l’Anticipo torna, e se ritorna anche arricchito di un plusvalore, e rimane nelle mani del suo funzionario, si pietrifica e fa ammattire il funzionario, e lo fa ammattire perché, come (si crede avvenga) nella pazzia, perde senso, perde il valore. L’anticipo cade persino fuori dal progetto, cade a terra, si pietrifica, si stacca dalla serie o dalla catena significante – oggetto assoluto. Non valore d’uso, come erroneamente si pensa, e nemmeno non-valore. Si tratta, come spiega Blanchot in appendice a questo libro di Bataille, di una negazione affermativa, di una negazione che non nega niente, di una negazione che non è una negazione dialettica – una negazione che non nega, ma che afferma.
Ci si sottrae alla vertigine della tesaurizzazione e alla pazzia che ne deriva, soltanto proiettando un bene verso il suo futuro. Possiamo dunque raggiungere le vette situate aldilà della febbre della tesaurizzazione, dice Bataille, unicamente a patto di introdurre un fine successivo. Oppure, se si vuole, dice Bataille, e questo è più chiaro, raggiungiamo il culmine della non tesaurizzazione soltanto a patto di mirare a una finalità necessariamente superiore. Mirando appunto al plus di valore. E non soltanto questo fine, dice, è posto al si sopra della tesaurizzazione – che esso boccia – ma deve essere posto anche al di sopra del culmine anticipato. Aldilà della tesaurizzazione, della risposta al desiderio di fissare a terra il D(io), siamo effettivamente nel campo del bene, cioè della priorità del futuro rispetto al presente, della conservazione del capitale rispetto alla sua perdita gloriosa.
Se mando al diavolo il pensiero dell’avvenire, pensiero che si affaccia nell’Anticipo – nella Potentia, dice Marx, e che da questa Potenza o Possibilità, passa all’Actu, all’Azione, si lavora -; se mando al diavolo il pensiero dell’avvenire, dice Bataille, mando al diavolo persino la ragione. Ciò che dovrebbe protendersi verso il suo fine mi rimane tra le mani, inaccessibile. Inaccessibile, dice Bataille, come il Castello di Kafka.
Questa esperienza-limite – in cui non si rilancia, non si anticipa, in cui non si pensa nell’anticipo il destino del D(io) – la salvezza, la parusia -, come qualcosa che inizia già a lavorarsi, è l’esperienza del vuoto – dice Blanchot.
L’esperienza-limite, di cui parla Bataille, è l’esperienza del vuoto, l’esperienza di quello che c’è al di fuori di tutto (quando il tutto esclude tutto quanto c’è all’esterno).
Si cominciano a misurare qui le contorsioni di Blanchot per descrivere ciò che è al limite della descrizione. Frenando l’Anticipo, il capitale ancora in Potenza, il Capitale Possibile, che diventerà capitale Effettivo, Capitale in Azione solo quando verrà lavorato, e quando il lavoro, la merce lavoro, merce contro cui il capitale si scambia, in uno scambio strano, in cui è il lavoratore ad anticipare al capitalista il Capitale per comprarlo, e di questo contrattempo bisognerà parlare a lungo; bloccando l’anticipo il D(io) non si attualizza, e non attualizzandosi non è percepibile, non è misurabile, è qualità senza quantità. È un tutto, che può tutto, ma un tutto vuoto, un tutto che non si contrappone a niente, fuori dalla catena della valorizzazione: D-. Un nome che non nomina niente, che nomina tutto, ma nessuna cosa in particolare. D(io), aldilà della catena D-M-D è l’inaccessibile, l’ignoto stesso. Ma vediamo perché, a proposito di questa esperienza-limite, dice Blanchot, si può attribuire all’uomo ciò che chiameremo ancora (erroneamente) questa «possibilità».
Blanchot pone tra virgolette la parola «possibilità» per distinguere la possibilità dell’esperienza-limite, dall’altra possibilità, dalla Potentia di cui parla Marx, Potentia che si esprime nell’anticipo, nel D(io) in quanto capitale anticipato. Ci sono due possibilità, completamente eterogenee.
Tutte e due queste possibilità hanno a che fare con la Potentia – con il potere, o con la volontà di potenza. Ma nel caso dell’esperienza-limite, dice Blanchot, non si tratta di quel potere di dire no attraverso il quale tutto nel mondo si fa, poiché ogni valore, ogni autorità sono rovesciate da un’altra, ogni volta più estesa.
Non si percepisce immediatamente, ma Blanchot sta parlando del Capitale. Il potere del capitale è il potere di dire no, di negare, e ciò che il capitale nega è il valore d’uso della merce in cui investe. Nel momento in cui è investita, la merce – la forza-lavoro – diventa forza-lavoro generica. Prima dell’investimento era forza di quel contadino, forza di quel fabbro o falegname, forza muta, potere senza alcun potere di scambio. Non mi servi come contadino e fabbro. Non so che farmene del lavoro del contadino e del fabbro, o degli eventuali prodotti di questo lavoro. Non sono interessato al lavoro e al prodotto del lavoro di voi in particolare. In voi vedo muscoli e braccia, dispendio generico di forza motrice umana. Questa forza generica, portata innanzi da persone in carne e ossa, e che ora ha il potere nel mondo di tutto fare, perché ha rovesciato la mera negatività astratta, in negatività determinata, la quale si rovescia (nega) una seconda e una terza e una quarta volta, eccetera, ritornando ogni volta più estesa.
Questa è la possibilità, o il potere del Capitale. Ma l’uomo, dice Blanchot, non esaurisce la sua negatività nell’azione: in modo che, quando tutto è compiuto, quando il «fare» (attraverso il quale anche l’uomo si fa) è realizzato, quando dunque l’uomo non ha più nulla da fare, egli pur deve esistere (come dichiara Georges Bataille con la più semplice profondità) allo stato di «negatività senza uso»: e l’esperienza-limite è la maniera stessa con cui si afferma questa negazione radicale che non ha più nulla da negare.
Qual è l’origine di questo moto dell’eccedere la cui misura non è data dal potere che può tutto? – chiede ancora Blanchot. Qual è questa «possibilità» che dovrebbe offrirsi dopo la realizzazione di tutte le possibilità come il momento capace di rovesciarle, di ritirarle silenziosamente? Quando, dice Blanchot, a tali domande Georges Bataille risponde parlando dell’impossibile – una delle ultime parole che ha reso pubbliche – bisogna intenderlo rigorosamente; bisogna intendere che la possibilità non è la sola dimensione della nostra esistenza e che ci è forse concesso di vivere ogni nostra vicenda in un duplice rapporto: una volta come ciò che comprendiamo, afferriamo, sopportiamo e dominiamo (anche con difficoltà e dolore), riferendolo a un qualche bene, a un valore, cioè in ultima analisi all’Unità; un’altra volta come ciò che si sottrae a qualsiasi uso e fine, e ancor più come ciò che sfugge allo stesso nostro potere di farne esperienza, ma alla cui esperienza non possiamo sottrarci. Sì, dice Blanchot, è come se l’impossibilità, ciò su cui «non possiamo più potere», ci attendesse dietro tutto quello che viviamo, pensiamo e diciamo, solo che una volta ci siamo trovati al limite di questa attesa, senza mai venir meno a ciò che esigeva da noi questo sovrappiù, questo eccesso: eccesso di vuoto, sovrabbondanza di negatività che è in noi il cuore infinito della passione del pensiero.
Blanchot parla ancora di queste due possibilità. È sempre possibile che D(io) si investa, e effettivamente si investe, con difficoltà e dolore, ovvero accettando il rischio dell’impresa – una volta gettato nella circolazione non è detto che D ritorni aumentato dell’esperienza terrestre, sviluppato nel travaglio. Ma è anche possibile che D(io) non veda possibilità di investimento, soprattutto non veda possibilità di ritorno economico. Allora soprassiede all’investimento e ritira l’anticipo che si pietrifica in tesoro. L’anticipo possibile non è un nulla. È la possibilità – la Potentia – che si attualizza rimanendo ferma, che si pietrifica. Questa pietra non è un nulla, è un dispendio della possibilità dell’investimento e del ritorno economico, ma non è un nulla. È pur sempre una pietra, un ché di positivo, di stante per sé, ma che non produce niente, non si investe in niente, non muove alcun lavoro, non si scambio con nessuna merce, e che, proprio per ciò, perde la sua misura, se la misura è ciò che si costituisce in una serie. Esce fuori dalla serie – piomba come cosa assoluta, libera, staccata da ogni connessione.
Questo punto è importante. L’anticipo che ristagna nella tesaurizzazione – questo stato di pazzia del D(io), come dice Marx – non è uno stadio di irrazionalità, e nemmeno, ma questo lo si è capito, una teologia negativa. D(io) non si incarna nel lavoro vivo. Non genera plusvalore. Non ritorna arricchito dell’esperienza mondana. Si piega su se stesso. Il possibile – la Potentia – non si dispiega, si ripiega, si affaccia sull’inconscio, che non è inconscio della Potentia, ma Potentia dell’inconscio, anzi, potentia inconscia.
A questo punto, ribadisce Blanchot, bisogna guardarsi dal concludere con leggerezza, imputando questa esperienza, l’esperienza-limite, l’esperienza che rimane in punta di Potentia, imputandola a qualche irrazionalismo o avvicinandola a una filosofia assurda. Il non-valore – la pazzia della tesaurizzazione – non elimina affatto la validità del Denaro, come il non-senso, incarnato momentaneamente nell’esperienza, non svia dal moto agente attraverso il quale l’uomo instancabilmente lavora a darsi un senso. Al contrario (insisto ancora), dice, soltanto in rapporto al sapere compiuto, quello affermato da Lenin quando annunciava che un giorno «tutto» sarebbe stato capito, il non-sapere si pone come esigenza fondamentale a cui bisogna rispondere; e non si tratta del non-sapere che è ancora soltanto una maniera di capire (la conoscenza messa tra parentesi dalla conoscenza stessa), ma il modo di esistere dell’uomo in quanto esistere è «possibile».
Anche qui, non si percepisce immediatamente, ma Blanchot sta parlando del Capitale. E sta dicendo di fare attenzione a non assoggettare la struttura del capitale – D-M-D’ – alla morale, ad una lettura, per così dire, moralista, umanizzante. Non bisogna assoggettare D(io) a M(e). Non bisogna dire, per esempio, ma gli esempi di questo tipo sono infiniti, che D(io) non investe perché, come si dice nell’ecologismo della domenica, D(io) ha ribrezzo dell’enorme produzione di merci e del consumismo, preferisce trattenersi, vivere il sottoconsumo, l’austerità, eccetera. Oppure, variante dello stesso discorso umanista, che D(io) non accetta di depredare la natura, mettere a rischio la propria vita mettendo a rischio la vita di altri esseri viventi; oppure, ma la musica è la stessa, che D(io) non investe perché ogni investimento è mercificazione e alienazione, riduzione delle differenze, appiattimento, sussunzione, eccetera; tutto ciò, tutte queste possibilità, sono possibilità ordinate da un fine, e questo fine, – è sotto gli occhi di tutti – è sempre e ancora ripreso nelle spire degli investimenti capitalistici. Anche quando nasce con buone intenzioni, anzi, proprio quando nasce con buone intenzione e il bene è il suo fine, la sua parusia, il suo avvenire, proprio in questo caso è facile che diventi preda del capitale, perché il capitale si innesta bene in una struttura che è già predisposta, preparata a ruotarne in sincro con la teleologia, con la morale del bene e del male, con una struttura di valore e di valorizzazione.
Blanchot dice che bisogna che il Capitale abbia risolto tutte – tutte – le possibilità di valorizzazione, soprattutto le possibilità che fanno capo al Bene, a un qualche bene: il bene del pianeta, il bene degli animali, il bene dell’ecosistema, il bene di noi stessi vittime del consumismo, di noi alienati, eccetera. Risolte tutte le possibilità di investimento il Capitale si rifiuta di entrare in circolazione, perché nella circolazione, non potendosi riprodurre con profitto, si distruggerebbe, e poiché non ama distruggersi nel travaglio, allora si distrugge nella tesaurizzazione. La distruzione del Capitale, come scrive Marx, segue la strada capitalista. Non muore per una legge naturale – no. Non c’è nessuna legge di natura. Muore ucciso dalle proprie manie, con le proprie mani. Quando l’auto-valorizzazione del capitale è ormai impossibile, si apre un altro ordine di possibilità. Quando non c’è più nulla da negare, quando per D(io) non ha più alcun valore investire in una ulteriore unità di M(e) – di forza lavoro – perché ogni ulteriore investimento è un investimento in perdita; quando l’investimento non nega – una negazione recuperante, che non toglie o elimina, ma annichilisce per spremitura – si apre la spazio per una negazione radicale, una negazione, dice Blanchot, che non ha più nulla da negare. Dunque, è una negazione che afferma. Che senso possiamo pretendere essa affermi? – chiede Blanchot. Non afferma nulla, non rivela nulla, non comunica nulla, tanto che si potrebbe accontentare di dire che è il «nulla» comunicato, oppure l’incompiutezza del tutto afferrata in un sentimento di pienezza: ma, in questo caso, rischiamo di sostanzializzare il «nulla», cioè di sostituire all’assoluto quale tutto, il suo momento più astratto, il momento in cui il nulla passa immediatamente nel tutto e a sua volta si totalizza immediatamente. Oppure dovremmo vedervi un ultimo capovolgimento dialettico, l’ultimo scalino – al di fuori della scala – a partire dal quale l’uomo, questa testa compiuta a misura dell’universo, rigetti tutto l’edificio nella notte e, sopprimendo questa testa universale, riceve dalla negazione finale ancora una luce, un’affermazione supplementare, che potrebbe aggiungere al tutto la verità del sacrificio del tutto? Direi che l’esperienza-limite è ancora più estrema.

VI

Parlando di questa negazione radicale Blanchot parla ancora del Capitale, e in Das Kapital, quando parla di Capitale, Marx tiene sulle ginocchia la Logica di Hegel. E qui Hegel, proprio nel primo capitalo, parla dell’essere senza nessun’altra determinazione, parla di M, quando questo M non si scambia ancora con niente, non è valore d’uso, non è inanellato nella serie M-D-M-D-M, ed è simile soltanto a se stesso – un’immensa e immediata distesa di M -, e anche non dissimile di fronte ad altro. Non ha, dice Hegel, nessuna diversità né dentro di sé, né all’esterno. Con qualche determinazione o contenuto, che fosse diverso da lui, o per cui esso fosse posto come diverso da un altro – come per esempio nella compera M-D -, M non sarebbe fissato in quanto oggetto assoluto. Nella sua immediatezza, dunque tolto dalla serie M-D-M-D-M, esso è la pura indeterminatezza e il puro vuoto. M, indeterminato che non si media con D, è un nulla, né più né meno che nulla. Anche D, sciolto dalla serie, è puro nulla. È semplice somiglianza con sé. Completa vuotezza. Assenza di determinazione e contenuto. Indistinzione in se stesso.
Il puro essere e il puro nulla, dice Hegel, sono dunque lo stesso – M e D sono la stessa cosa. Il vero, ciò con cui abbiamo affettivamente a che fare, dice Hegel, non è né M né D, ma che M – non passa, – ma è passata, in D, e D in M. In pari tempo, dice, il vero non è la loro indifferenza, la loro Indistinzione, ma è anzi che essi non sono lo stesso, che essi sono assolutamente differenti, ma insieme anche inseparati e inseparabili, e che immediatamente sparisce nel suo opposto. La verità di M e di D è pertanto questo movimento consistente nell’immediato sparire dell’uno di essi nell’altro: il divenire; movimento in cui M e D sono differenti, ma di una differenza che si è in pari tempo immediatamente risolta.
Questo nulla di cui parla Hegel, che, nel suo gioco con la terra, è il nulla che dà avvio all’economia, non è il nulla o il «non» di cui parla Bataille. Precede o segue questa differenza un inconscio, un’unità che non è unità di differenti, un’unità che differisce, che si muove. L’inconscio è fermo – è inconscio panico, non c’è riflessione.
Ora, dice Hegel, in nessun luogo, né in cielo né in terra c’è qualcosa che non contenga in sé tanto l’essere quanto il nulla. Non c’è niente, nessun valore d’uso, che non contenga in sé valore. Rendere espresso ciò che è – rendere l’immediato e indistinto un valore d’uso – significa, per questo immediato rendere manifesto ciò che è intimo e in sé [già qui si sostanzializza, direbbe Blanchot]. L’in sé – la cosa immediata che non ha ancora un valore (un valore d’uso o un valore di scambio) passa attraverso la variazione, ma rimane tuttavia una e la stessa perché è essa che regola l’intero processo. Così la pianta, dice Hegel, non si perde puramente in una variazione infinita (cattivo infinito). Ciò si vede fin dal suo germe: in esso non si discerne ancora nulla, ma è presente in esso l’impulso a svilupparsi, giacché esso non può tollerare di essere soltanto sé. Questo impulso contiene una contraddizione, poiché è soltanto in sé e non deve esserlo. Così l’impulso si estrinseca nell’esistenza. La pianta in potenza che è nel seme forza per diventare una pianta effettivamente esistente. E dove forza, forza su se stessa. La pianta in potenza forza per determinarsi come pianta in azione, in atto. Il nulla che la pianta è in potenza e il singolare che rischia di perdersi in variazioni infinite, di decomporsi e sciogliersi nel tutto, questo nulla e questo tutto che non sono l’uno al di fuori dell’altro, spingono, si fan forza, per affiorare alla particolarità esistente di quel tipo di pianta. In tal modo viene fuori una molteplicità, che però era già interamente contenuta nel germe, se non in modo sviluppato, tuttavia implicitamente e idealmente. Mentre si compie questo estrinsecarsi, esso si pone uno scopo. La sua più alta perfezione e il fine preordinato è infatti il frutto, cioè la produzione del seme, il ritorno allo stato primitivo. Il seme vuole soltanto estrinsecare se stesso e tornare a sé. Esso esplica ciò che è in lui e poi ritorna nuovamente in se stesso e si raccoglie di nuovo in quell’unità, da cui è sorto.
Lo spirito, dice Hegel, è coscienza, libertà, perché in lui coincidono il principio e la fine. È bensì vero, dice, che anche lo spirito, come il germe nella natura, dopo essersi fatto un altro, si raccoglie nuovamente ad unità; ciò che è in sé – la terra – diventa per lo spirito ed egli diventa così per sé. Seminandosi, il seme sfanga la decomposizione, e può ritornare seme. Spinto al travaglio e alla semina per non perdere di valore, per non perdersi nel tutto senza valore del sottobosco.
Lo svolgimento dello spirito, dice Hegel, risiede dunque nel fatto che egli, mentre si estrinseca e si scinde, contemporaneamente torna a se stesso. Questa conciliazione con sé dello spirito, questo suo tornare a se stesso può essere considerato come il suo scopo supremo e assoluto: ciò soltanto egli vuole e null’altro. Tutto ciò che avviene, che avviene eternamente in cielo e in terra, la vita di Dio e tutto ciò che si svolge nel tempo, tende soltanto allo scopo che lo spirito conosca se stesso, che faccia di sé il proprio oggetto, che diventi per se stesso, che faccia di sé il proprio oggetto, che diventi per se stesso, che si concili con sé. Egli è sdoppiamento, alienazione, ma solo al fine di poter trovare se stesso e di poter ritornare a sé.
C’è l’uno opposto e c’è l’altro, ma entrambi sono una cosa sola. L’uno e l’altro restano sempre in sé, non fuori di sé. Questa unità dei due momenti differenti, dice Hegel, costituisce il concreto. Proprio in questo la conoscenza razionale differisce dalla pura conoscenza intellettualistica: ed è appunto compito della filosofia il dimostrare, contro l’intelletto, che il vero e l’Idea non consistono in vuote generalità, bensì in un universale, che è in se stesso il particolare, il determinato. Se il vero è astratto, esso non è vero.
La verità deve avverarsi. Non è una semplice generalità – una classe. La possibilità deve diventare effettiva attraverso l’azione. Il capitale è mera possibilità, si invera nel processo di valorizzazione, nell’azione che gli imprime la forza-lavoro. Diventa vero quando è lavorato. Il concreto, dice Hegel, è dunque semplice e insieme diverso. Questa sua contraddizione interiore è proprio ciò che stimola allo svolgimento. Attraverso essa la differenza giunge all’esistenza. Ma anche alla differenza viene riconosciuto il suo diritto. Esso consiste nell’essere riassorbita e quindi superata: poiché la sua verità è solo di essere nell’unità. Questa è la vitalità – dice Hegel. Tanto quella naturale quanto quella dell’Idea, dello spirito in sé. Se l’idea fosse astratta (come invece non è), essa sarebbe soltanto l’essenza suprema, della quale non si può dire null’altro; ma questo Dio è un prodotto dell’intellettualismo del mondo moderno. Il vero Dio è invece movimento, processo, ma contemporaneamente quiete.
C’è un punto chiave in questa dinamica – in questo vitalismo, in questo organicismo – che Hegel mette bene in evidenza. Per poter conoscere il processo di svolgimento della Potentia – del possibile -, il suo avverarsi attraverso l’azione, per poterlo riconoscere come svolgimento dell’Idea, come svolgimento di un tutto organico, di un tutto vitale, e non come mera rappresentazione intellettualista, astratta; per poterlo riconoscere nell’apparenza empirica, in cui si manifesta storicamente, bisogna possedere già la conoscenza dell’Idea. Bisogna sapere in anticipo dove si va a parare. Il futuro deve essere anticipato – nell’anticipo si misura il destino del mondo. Allo stesso modo, dice, per giudicare le azioni umane, occorre possedere i concetti di ciò che è giusto e conveniente. Altrimenti, all’occhio privo della luce dell’Idea, si offre solo un accumulo disordinato di cose, un caos, una confusione totale. L’idea di Bene – di valore -, di ciò che è valore e di ciò che è disvalore, di ciò che utile e di ciò che è dannoso, questa idea deve precedere e guidare la storia. L’osservatore, dice Hegel, deve già possedere il concetto della cosa, per poterlo riconoscere nelle sue manifestazioni, per intenderlo veramente. Non il caso governa le cose umane – l’Idea governa.

VII

100 talleri reali, dice Kant, non contengono nulla più di 100 talleri possibili. I primi non contengono più contenuto dei secondi. Per un contenuto, considerato isolatamente, è infatti indifferente essere o non essere. Questa differenza non tocca in nulla i 100 talleri. I 100 talleri non diventano 99, quando non esistono, e non diventato 101, quando esistono.
Nonostante questa distinzione, dice Kant, nel mio patrimonio vi è di più con 100 talleri esistenti, che col loro semplice concetto, o con la loro possibilità. Se aggiungo a questi talleri possibili i talleri reali, questi talleri per ciò stesso non si vedono aumentati. Rimangono sempre 100 talleri.
Il concetto dei 100 talleri, dice Kant, non viene accresciuto per il fatto che siano percepiti, ovvero per il fatto che siano determinati, che esistano nella serie dei talleri contabilizzatili in uno stato patrimoniale. 100 talleri contabilizzati e 100 talleri contabilizzabili denominano lo stesso contenuto.
Concetto qui, in Kant, dice Hegel, significa che i 100 talleri sono intesi come oggetto di rappresentazione isolata. Ora, dice, isolati a questo modo, i 100 talleri sono certo un contenuto empirico, ma tagliato fuori, senza connessione e senza determinazione con altro; la forma dell’identità con sé toglie loro la relazione ad altro, e li rende indifferenti a essere percepiti, o no. Senonché, dice Hegel, questo cosiddetto concetto dei 100 talleri è un falso concetto. La forma della semplice relazione a sé non appartiene essa stessa a tal contenuto limitato, finito, ma è una forma di cui esso è rivestito e che gli viene prestata dall’intelletto soggettivo. 100 talleri non sono nulla che si riferisca a sé, ma sono un mutevole e un transitorio.
La prova di Kant è diventata plausibile, dice Hegel, a cagione del suo esempio popolare. Chi non sa che 100 talleri reali sono diversi da 100 talleri semplicemente possibili? che essi costituiscono una differenza nel mio patrimonio? Poiché questa diversità si mostra così facilmente nei 100 talleri, il concetto (cioè la determinatezza del contenuto come vuota possibilità) e l’esistenza sono diversi uno dall’altro.
100 talleri, considerati separatamente, tolti dallo stato patrimoniale, sono il modo di esprimersi del concetto stesso, l’identità astratta. Ma questa identità – 100=100 – non significa nulla.
100 talleri, invece, hanno valore, soltanto per un altro, soltanto nella serie. Fuori serie non significano più nulla. Fuori dalla serie non sono altro che dischi metallici. Il loro valore precipita a terra.

VIII

Nel 1943 Bataille scrive: Se la storia è finita, se si arriva alla resa dei conti, se le contraddizioni interne al processo di valorizzazione D-M(e)-D’ arrivano al culmine; se M(e) che è sia un costo sia una risorsa, sia ciò che valorizza, sia ciò che può e deve essere risparmiato, per aumentare il surplus; se sul risparmio pende questa condanna di trasformai e di trasformare D(io) in tesoro; se arriva al culmine, e quando arriva al culmine, scrive Bataille nel 1943 – mezzo secolo prima di Fukuyama – il capitale deve provare un nuovo genere di salto, un salto fuori dal tempo? Esclamando per sempre: Time is out of joint.

IX

Questo testo di Bataille andrebbe letto contemporaneamente alla Fortezza vuota di Bettelheim – testi molto affini, profondamente diversi, ma molto simili. Ed è un errore metterli contro – un errore. Nelle note conclusive Bataille scrive: Come è doloroso parlare. Ogni volta che parlo e agisco, o, perlomeno, tento di farlo, sento sempre il rumore delle catene. Voglio solo la chance. Quanto intrisa di trascendenza è questa parola «voglio»!
Il mio supplizio, dice, è di non essere intuito, di dover pronunciare parole – ancora invischiate nella feccia del tempo.
Il Nietzsche di Bataille – libro superbo – è scritto durante la guerra, durante i bombardamenti. È pensato a partire dal grande internamento, come d’altronde il testo di Bettelheim.
Domando agli altri di indovinarmi – scrive. Soltanto l’amicizia indovina il disagio che provoca l’enunciare una verità stabile o uno scopo. Se prego un tassista di portarmi alla stazione, do le indicazioni necessarie senza disagio. Se evoco un lontano possibile, un amore segreto, le parole che scrivo mi danno la nausea e mi sembrano vuote, soprattutto quando si sforzano di istituire o rendere vero quello che «non» «c’è» – il segreto.
Poi riporta questo brano della Gaia Scienza che spiega meglio: Quei professori che raccomandano allo scolaro, in primo luogo e soprattutto, di avere il dominio di se stesso, lo gratificano con una malattia: un’irritabilità costante di fronte a ogni impulso. Qualunque cosa gli capita, dal di fuori o dal di dentro – un pensiero, un’attrazione, un incitamento – questo scolaro irritabile immagina sempre che in quel momento il dominio su se stesso potrebbe essere in pericolo: senza poter affidarsi ad alcun istinto, ad alcun libero colpo d’ala, compie incessantemente un gesto di difesa, armato contro se stesso, con l’occhio pungente e diffidente, lui che si è istruito come guardiano della sua fortezza. Sì, in questo modo può diventare grande! Ma come è diventato intollerabile per gli altri, come si è tagliato fuori da tutte le esperienze future! Infatti bisogna saper perdersi un po’, se si vuole imparare qualcosa.
Rimane la doppia domanda: Come si può evitare la trascendenza nell’educazione? Se non esiste un grande meccanismo [magari esiste un piccolo meccanismo] in nome del quale si possa parlare: come tendere l’azione, come domandare di agire, che fare?
Per millenni, scrive Bataille, l’uomo è cresciuto nella trascendenza (i tabù). Chi potrebbe, senza la trascendenza arrivare al punto in cui siamo (in cui è l’uomo)? Cominciamo con l’aspetto più semplice: i piccoli e i grandi bisogni. Facciamo scoprire ai bambini il nulla (il nulla che è trascendenza. Il nulla che è uguale a tutto. Che cosa è questo? È un questo qualsiasi. Nulla di particolare). E così costruiamo la loro vita su un orrore – su un errore, su una menzogna. Così definiamo in essi questa potenza (il trascendente – Dio) che si innalza, separata dalla sozzura (dal particolare, dal terrestre), senza immaginabile mescolanza.
L’immanenza – non è l’opposto della trascendenza. L’immanenza si riceve. Non si vuole. Non si sceglie. Salo a partire da una trascendenza si sceglie. E se si vuole e si sceglie l’immanenza questa diventa serva della trascendenza. L’immanenza, scrive Bataille, non è il risultato di una ricerca; è interamente dalla parte della chance. Dove c’è immanenza la volontà di Potenza si è fatta da parte – domina l’inconscio. Non il principio di realtà, non l’essere e il nulla, ma, da ogni parte, la rovina dell’essere. Ecco perché qui Bataille parla di chance – o di gioco. Il gioco non mette l’azione al servizio dell’agente né di alcun essere già esistente, e in questo supera «i limiti dell’essere». Si produce – anzi, no, non si produce, perché il produrre rimanda sempre a un produttore, l’effetto rimanda a una causa – si scatena un’azione che manda in rovina l’ordine delle cause e degli effetti, che manda in rovina il tempo stesso, l’ordine in cui il futuro e il presente sono incardinati nel passato. Lo scatenarsi dell’azione dalla catena del quotidiano è uno scardinarsi, un diventare illeggibile, incomprensibile, è comunque annunciata come impulso che procede verso questo scardinarsi del tempo, tale da poterlo assecondare e condurre la mia vita verso la lunga deviazione del possibile.
Agire, dice Bataille, è speculare su un risultato successivo – seminare sperando in raccolti futuri. L’azione è «messa in gioco», e la posta è nello stesso tempo il lavoro e i beni impiegati – come l’aratura, il campo, il seme, tutta una parte delle risorse dell’essere. La «speculazione» è diversa dalla «messa in gioco» in quanto è fatta, per essenza, in vista di un guadagno. A rigore, una «messa in gioco» può essere folle, indipendente dalla preoccupazione del futuro.
La differenza tra speculazione e messa in gioco, scrive Bataille, spartisce atteggiamenti umani diversi. La speculazione sul futuro, dice, subordina il presente al passato. Riferisco la mia attività a un essere futuro, ma il limite di quest’essere è tutto determinato nel passato. Si tratta di un essere chiuso, che si vuole immutabile e che limita il suo interesse.
Bataille sta parlando del buono e del cattivo possibile. La speculazione – la produzione, l’arte, la semina in vista della raccolta – è cattiva possibilità. Il ciclo torna su se stesso – l’inizio si specchia nella fine, il seme ritorna nel frutto, non si esce dal seminato. Il passato sussume il futuro. Nel caso della buona possibilità, dice, lo scopo indefinito è apertura, superamento dei limiti dell’essere, la semina si dissemina, non ritorna, si perde nella terra, si allarga, si disperde, si ripete disperdendosi. L’attività presente ha come fine ciò che del tempo futuro è incognito. I dadi sono gettati in relazione a un aldilà dell’essere: a ciò che ancora non è – che non è in vista. L’azione supera i limiti dell’essere – anche dell’essere come possibilità.
La dottrina di Nietzsche, dice, si riassume nella sua fondamentale assenza di fini, in quell’innata ostilità verso i fini. Se rifiuto di definire gli scopi, agisco senza riferire i miei atti al bene, alla conservazione o all’arricchimento di dati esseri. Mirare oltre, non all’essere dato, significa non chiudere, lasciare aperto il possibile. Nietzsche, dice, espresse attraverso l’idea di fanciullo il principio del gioco aperto, in cui l’evento supera il dato. «Perché» diceva Zarathustra «bisogna che il leone diventi bambino?». Il bambino è innocenza e oblio, un nuovo inizio e un gioco, una ruota che gira su se stessa, un primo movimento, un «sì» sacro. La Volontà di potenza è il leone, ma il bambino non è forse la Volontà di chance?
Lo stato di immanenza, di consegna alla Terra, implica, dice Bataille, una completa esposizione di sé al gioco, tale che soltanto un evento indipendente dalla volontà possa disporre di un essere così a fondo. Il gioco, dice, è la ricerca, di sorte in sorte, degli infiniti possibili. Ad ogni modo – dice – lo stato di immanenza significa: al di là del bene e del male. Arrivando all’immanenza, la nostra vita esce infine dalla fase dei padroni. I padroni sono gli scopi – la teleologia, la volontà, e la volontà di potenza.
Della Volontà di potenza Bataille dice ancora quanto segue. Scrive dell’equivoco introdotto da Nietzsche col parlare continuamente di potenza, mentre pensa (Nietzsche pensa) alla capacità di dare. Volontà di potenza dovrebbe essere letto come Volontà di dare, in cui il «dare» è il dare del caso, il dare a caso, e non il dare di qualcuno. «Volontà» allude a una sostanza. Lo stato estremo, lo stato sovrano – l’inconscio – il dare – si sottrae alla volontà (dell’uomo) (in quanto l’uomo sia progetto, azione), tanto che, dice Bataille, non si può neppure parlarne se non alterando la sua natura. Ma il valore decisivo di questa interdizione, continua Bataille, può soltanto straziare colui che vuole, che parla: infatti, nel momento in cui non può, bisogna che voglia e parli. E, comunque, anche quando parla e teorizza, e mette in fila i pensieri o sillogizza; anche colui che è più rigoroso – io, adesso – è sottomesso alla casualità. Si corre questo rischio. E i critici fanno bene ad avvertire il lettore del pericolo.

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