Il bidello di Heidegger

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Che cos’è Questo qui? – chiede Heidegger (La fenomenologica dello spirito di Hegel, 193).
Che cos’è per la certezza sensibile il Questo, in cosa sta per essa la Questità (l’esser-questo del Questo)?
Che cos’è, ad esempio, ciò che fa di un albero un albero?
Sono forse le foglie, i rami, le radici, il tronco, eccetera, oppure l’essere piantato in terra e vivere?
Allora un albero senza foglie non è più un albero?
Come si spiega che in un albero abbattuto, o in un tronco, in un ramo, e persino in una foglia riconosciamo ancora l’albero?
Vuol dire che l’alberità dell’albero non si trova né nel ramo, né nella foglia e neppure nel tronco. Non si trova nemmeno nel suo essere vivo e vegeto, perché anche un albero abbattuto e secco è ancora un albero. In più, anche un albero disegnato, un albero immaginario, un albero fantastico, un albero creato con cartone e colla o spilli, un albero possibile, un albero di natale in plastica, un albero fotografato e un albero motore sono ancora alberi. Li riconosciamo come depositari dell’alberità dell’albero.
Cos’è dunque l’alberità dell’albero, ciò che ci fa dire che anche un albero disegnato e un albero motore sono alberi, se non è niente che si possa toccare e reperire nell’albero effettivo?
Vediamo un albero, lo esaminiamo in ogni particolare e da ogni prospettiva, l’unica cosa certa è che è qui. Eppure questo suo essere non sta da nessuna parte. Se c’è qualcosa che appartiene a questo essente, dice Heidegger, è proprio il suo essere, e nondimeno questo essere non lo troviamo nell’essente, nell’albero che ci sta davanti.
L’essere dell’albero non si riduce nemmeno al fatto che noi lo osserviamo. L’alberò è là anche se noi non lo osserviamo. È solo per il fatto che è di già che lo possiamo trovare. Inoltre, l’essere di un albero, di questo pino, ad esempio, non sembra essere lo stesso per tutti. Per me che ci dormo all’ombra non è la stessa cosa che per un falegname. L’essere di un tale albero, dice Heidegger, si può fiutare e spesso, ancora dopo molti anni, se ne conserva l’odore nelle narici. Questo odore ci dà l’essere di questo essente in maniera assai più immediata e veritiera di qualunque vista o descrizione. D’altra parte, però, la consistenza dell’albero non dipende da questo odore fluttuante nell’aria.
Che ne è dell’essere? Lo si può vedere? – chiede Heidegger.
Vediamo qui un essente: il gesso. Ma sorgiamo anche l’essere come vediamo il colore, il chiaro e lo scuro?
L’essere per caso l’udiamo, lo sentiamo, lo gustiamo, lo tocchiamo?
Le foglie, i rami, le radici, il gesso, tutto ciò è, dice Heidegger, ma quando si tratta di afferrare l’essere è come stringere il vuoto. L’essere di cui ci occupiamo è pressoché simile al nulla, nondimeno sentiamo di doverci difendere e protestare contro la pretesa di farci ammettere che l’intero essente non è.
L’essere permane tuttavia introvabile, quasi come il nulla o, in definitiva, esattamente allo stesso modo. La parola Essere finisce per diventare una parola vuota. Non designa nulla di effettivo, di afferrabile, di reale.
Se così fosse, dice Heidegger, non resterebbe, come unica conseguenza, che rinunciare alla domanda: «Perché vi è, in generale, l’essente come tale nella sua totalità, e non il nulla?».
Cosa dice la certezza sensibile quando la si interroga realmente su un caso reale su che cosa sia il Questo per essa? Che cos’è per essa la questità di questo albero?
Che l’albero sia qui. O la questità di questa pulsazione? Che essa è questo Ora? Il qui e ora costituiscono la questità di un Questo? L’ora – che cos’è quest’ora? Ora – cosa deve dire la certezza sensibile? Che cos’altro potrebbe dire sull’ora di diverso da ciò che già disse, che ora è immediato – tramite il rimando all’ente che costituisce ora appunto l’Ora? L’Ora, che è questo pomeriggio, ora è pomeriggio. Oppure in conformità con l’Ora che fu Ora quando Hegel, nella Fenomenologia, interrogò la certezza sensibile sull’Ora quando scrisse il testo: l’Ora è la notte.
Ora è pomeriggio – dice Heidegger. Questa è una verità indiscutibile. La conserviamo fissandola alla lavagna con il gesso. Quando domattina alle otto il bidello verrà nell’aula per controllare che tutto sia in ordine, che la lavagna sia pulita, e leggerà la frase: Ora è pomeriggio – a nessun costo, dice Heidegger, acconsentirà che la frase sia vera. La frase è diventata falsa durante la notte. L’ente che fu l’Ora, che visto domani dal bidello è il pomeriggio di ieri, è da tempo non più un ente. Non ha alcun permanere. Ma ora, quando il bidello legge la frase, è anche un «ora», ma ora è l’Ora della mattina. E poiché accade che anche i professori sbaglino e d’altra parte anche il bidello fa parte dell’università, egli in questo caso accorrerà in aiuto e s’affretterà a correggere la frase. Scrive ora la verità. Cui ora a nessun prezzo rinuncerebbe: Ora è mattina. Un’ora dopo entra nell’aula e vede starsene lì la sua verità. Verità? Ora è mezzogiorno.
Che cos’è ora propriamente il vero, l’ente? – chiede Heidegger.
Ogni volta è ora, e ogni Ora ogni volta ora già altro, non più il precedente. L’Ora resta costante. Ogni volta, in qualsiasi momento è ora. Ma come, e in che veste resta l’Ora? L’Ora resta soltanto per il fatto che ciò che ogni volta è Ora – mattina, mezzogiorno, pomeriggio, sera, notte – ogni volta non è. L’ora è sempre non-Questo. Questo Non elimina sempre il Questo immediato – notte, giorno -, ciò che è appunto Ora. L’immediato viene tolto, viene mediato – dice Heidegger. Appartiene all’Ora – perché esso possa essere costantemente l’Ora che è – questo costante negare. Ma stranamente – questo costante togliere, questo continuo cambiamento non disturba affatto l’Ora, esso resta semplicemente Ora e in ciò resta appunto semplicemente indifferente di fronte a ciò che esso ogni volta ora è – giorno o notte. Ciò che così può, in quanto semplice, esser tanto questo che quello, eppure non è mai né soltanto questo né soltanto quello, questo semplice è, nella mediazione, e permanendo attraverso di essa, l’«universale».
 
La certezza sensibile è immediatamente l’oggetto, in un rapporto immediato più vicino possibile all’unità. L’anima senziente non si distingue ancora dal suo oggetto. Sente in sé tutto l’universo di cui è il riflesso senza averne coscienza, cioè senza contrapporlo a sé. Il momento della coscienza compare come quello della separazione, della distinzione fra soggetto e oggetto, fra la certezza e la verità. Non si sviluppa in quanto coscienza che si rappresenti le cose diversamente o le confronti tra loro: ciò significherebbe fare intervenire una riflessione, e quindi sostituire al sapere immediato un sapere mediato.
La certezza sensibile, o certezza dell’immediato, non può dire il proprio oggetto se non con l’introdurvi una mediazione: si limita a sentirlo nella sua unicità ineffabile. E infatti sia l’oggetto sia l’io che lo coglie sono puramente singoli.
Questa singolarità è la singolarità immediata o positiva che si oppone all’universale, ma in realtà gli è identica. Se di una cosa nient’altro viene detto, tranne che essa è una cosa effettuale, un oggetto esteriore, allora essa è soltanto un alcunché di molto comune. Si enuncia allora la sua eguaglianza con tutto, e non la sua differenza. Quando io dico una singola cosa, io la esprimo come un del tutto universale, giacché ogni cosa è una singola cosa.

In via generale, quell’essere che è l’immediato – la verità essenziale della certezza sensibile – è esso stesso ogni essere e nessuno.

 

Così la certezza sensibile nel porre l’immediato, l’essere, lo scopre identico al nulla.
Il singolo opinato dalla certezza sensibile – a sua volta singola – in effetti è il proprio contrario, l’universale più astratto. La coscienza opina qualcos’altro, ma non lo può dire, e dunque non raggiunge quanto essa opina. Il linguaggio gli si rifiuta.
Il sentimento dell’ineffabile può apparire a se stesso infinitamente profondo e infinitamente ricco ma non se ne può dare alcuna prova, non può nemmeno provare se stesso se non a patto di rinunciare alla propria immediatezza. È sempre quell’intenzione in cui tutte la vacche sono nere, o quella profondità che è quanto vi è di più superficiale.
 
Che cos’è dunque il Questo, ciò che costituisce la questità? – chiede Heidegger.
Risposta: l’Ora.
E qual è l’essenza dell’Ora?
Essere l’universale acquisito. Questo universale è la verità del Questo, dunque la verità dell’oggetto della certezza sensibile.
Lo stesso vale per l’altra forma del Questo, per il Qui.
Alla domanda: Che cos’è il Qui?
Risponde la certezza sensibile: Qui – la cattedra. Mi volto, e la verità è sparita. Il Qui non è più la cattedra, ma la lavagna. E così via: dovunque mi volgo e dovunque mi trovo, dice Heidegger, io vedo un Qui. Porto sempre il Qui con me. Dovunque mi trovo il Dove è già sempre diventato un Qui. O meglio: il Qui soltanto rende possibile il Dove come il Là che si evince a partire dal Qui. Il Qui continua a sussistere, ma ciò che è qui davanti a me è ogni volta un altro. Il Qui che sussiste esige tuttavia ogni volta un determinato essente, lo esige eppure è allo stesso tempo del tutto indifferente su quale esso sia. Il Qui non si dà pensiero se l’essente-qui sia un albero o un ponte o una cattedra o un gessetto. Soltanto questo esige il Qui, che esso sia ogni volta un essente-qui. Il Qui esige l’essente-qui eppure lo respinge da sé come il questo d’ogni volta. Resta il qui vuoto e indifferente, la semplicità mediata, cioè l’universalità – come Ora.
La certezza sensibile non ha diritto di innalzarsi al di sopra di nozioni come il questo, il qui, l’ora. Dicendo: L’ora è il giorno, o Il questo è un albero, essa introduce nel proprio sapere determinazioni qualitative opposte all’immediatezza che esige per il suo oggetto.
La classificazione richiede una comparazione, un elevarsi alla coscienza su quanto le era dato immediatamente, e dunque insieme con la particolarità specifica introduce nell’oggetto la mediazione.
Se non vuole vedere sparire quanto costituisce la sua essenza, la certezza sensibile deve rifiutare proprio questa mediazione.
L’ora è: l’ora deve mantenere il proprio essere.
Ma che cos’è se rivedendo per esempio a mezzogiorno tale verità scritta devo enunciare il giudizio L’ora è mezzogiorno? L’ora è dunque diverso da sé: cosa si conserva quando la certezza prova l’inconsistenza dell’ora? Tale perpetuo alterarsi dell’ora è quanto gli scettici greci hanno chiamato apparenza: ciò che non è. L’ora non si mostra come un essente, cambia senza posa, o meglio è sempre altro. E tuttavia si dice ancora sempre ora, questo ora. Ma l’ora che si conserva e il cui permanere è la verità di questa coscienza, non è un termine immediato come pretendeva di essere, ma è qualcosa di mediato. L’ora è perché il giorno e la notte vi trascorrono dentro senza alterarlo minimamente, è la loro negazione – il che caratterizza per Hegel l’astrazione stessa: ogni astrazione è negazione. L’ora non è né la notte né il giorno e tuttavia può essere sia notte che giorno. Ecco la prima definizione dell’universale «un alcunché di così semplice che è per via di negazione, e che non è né questo né quello, un non-questo, e che è anche altrettanto indifferente ad essere sia questo che quello, noi – dice Hegel – lo chiamiamo un universale».
Il qui è un albero, ma se mi volto, è una casa. Il qui non è né albero né casa, e può essere sia l’uno che l’altro. Non è affetto dal suo essere-altro. È il qui universale. Parimenti il questo è indifferente a tutto quanto esso possa essere, è il questo universale. La verità della certezza sensibile è l’essere, lo spazio universale, il tempo universale. Essi sono soltanto attraverso la negazione del loro essere-altro.
Ciò che permane, indifferente a ciò che è altro da esso, è un questo universale, base di ogni questo, un ora universale che è il tempo in cui l’ora si ripete indefinitamente conservando la propria eguaglianza con sé malgrado il suo alterarsi, uno spazio nel quale si collocano tutti i punti particolari.
Con questa esperienza abbiamo guadagnato la prima nozione dell’universale contrapposto al singolare e da esso mediato; ma la particolarità della determinazione, quella particolarità che esprime la mediazione e apparirà nella percezione, non si è ancora fissata. La qualità indubbiamente presente nell’ineffabile del questo sensibile è stata piuttosto negata; ciò che resta all’orizzonte non è la notte o il giorno e l’universale, ma il qui astratto come singolarità e universalità.
 
Che cos’è il questo, che cos’è che costituisce l’oggetto per la certezza sensibile, cioè il vero e l’ente? – chiede Heidegger.
Il Questo è un universale.
Ma la reale certezza sensibile non opina il Questo universale. Essa opina l’essente-questo ogni volta, appunto ciò che essa mette in gioco – quest’albero, questa casa, questa notte. Ma questo che entra in gioco è costantemente e ovunque un altro, ogni volta e in ogni luogo non lo stesso, dunque un nulla. Ciò che la certezza sensibile opina nel mettere in gioco, ciò che opinando essa prende come l’ente, questo è il non-ente, ciò che non sussiste. L’ente è, nel mutare e svanire, ciò-che-continua-a-sussistere, cioè il non divorato dal nulla.
L’ente è il vero.
Ciò che noi diciamo qui è il Questo universale, noi opiniamo l’essente-questo, l’albero. Ciò che noi propriamente opiniamo nel Questo universale non possiamo affatto dirlo con il Questo. Noi diciamo «questo», e ne viene fuori il Questo universale. Noi opiniamo il singolo, esso dice l’universale. Ma esso non dice ostinatamente il contrario dell’opinione, ma dice in tal modo il vero, perché dice già sempre l’universale.
Il linguaggio confuta il nostro opinare. Diciamo questo albero qui davanti a noi, che possiamo toccare con mano e afferrare, ma appena lo diciamo, non diciamo più quest’albero qui che tocchiamo e afferriamo, diciamo l’albero in generale, facciamo segno al genere. Dell’albero effettivo non ne è più nulla.
Ma il linguaggio non confuta soltanto la nostra opinione (quando siamo convinti di riferirci proprio all’albero che tocchiamo), volge nel suo contrario anche l’opinato inizialmente, il presunto vero (l’opinione in sé, la quale afferma quest’albero qui, è falsa, è un’illusione, ciò che quest’opinione crede di affermare – questo albero qui – si converte nel suo contrario). Esso ci fa fare l’esperienza che l’opinare è nulla, e ci fa fare l’esperienza di che cosa sia propriamente il vero della certezza sensibile. Il linguaggio volge nel contrario, toglie, solleva cioè al di sopra, alla verità autentica. Il linguaggio è in sé ciò che media, ciò che non ci lascia sprofondare nell’essente-questo, nel totalmente unilaterale, relativo, astratto. Con il volgere esso produce il distacco dal relativo. Perciò Hegel dice, proprio nella decisiva chiusa della discussione sulla certezza sensibile, che il linguaggio ha la divina natura di invertire immediatamente l’opinare. Il linguaggio è di essenza divina, cioè assoluta. Esso ha qualcosa dell’essenza divina, cioè assoluta, non relativa. Il linguaggio è divino perché è assolvente, ci scioglie dall’unilateralità e ci fa dire l’universale, il vero.
La certezza sensibile – dice Heidegger – in quanto intero di un sapere non permette in sé nessuna contrapposizione tra oggetto e modalità del sapere. La certezza sensibile è tutta sprofondata nell’immediatezza e la assorbe totalmente in sé e si lascia assorbire da essa. In quanto intera, la certezza sensibile si attiene a se stessa in quanto immediatezza. Per la certezza sensibile questa distinzione (tra sapere e saputo) semplicemente non esiste. La certezza sensibile si afferma in se stessa come la relazione senza distinzione e che rimane eguale tra io e oggetto, una relazione in cui i membri della relazione così come la relazione stessa sono indistinti e indifferenti. Tutto è ancora non separato.
Nell’opinare della certezza sensibile non vi è alcuno spunto per staccarsi da esso. La certezza sensibile non ha alcuna ragione per rinunciare a se stessa quale essa è, essa si dispone soltanto all’uno – dice Heidegger. Io, questi, per il quale la cattedra è il Qui, io, questi che opina, non mi volto in modo tale che il Qui diventi per me una non-cattedra. Io non voglio saperne niente, che il Qui potrebbe essere una locomotiva. Io non confronto affatto i diversi Qui e Ora.
Come nell’esempio precedente, il bidello che legge alla lavagna di mattina: «adesso è pomeriggio», se realmente opina, persiste semplicemente nell’asserzione che adesso è mattina, e persiste in essa proprio quando gli viene chiesto che momento del giorno sia adesso.
Se noi dunque prima, al presentarsi di una certezza sensibile, diciamo che Ora non è giorno, ma notte, la certezza sensibile, se realmente l’assumiamo come l’immediato che essa ha ormai mostrato di essere, non si presta a ciò. La nostra considerazione non la ha dunque lasciata valere nella sua immediatezza, ma l’ha costretta a qualcosa che essa non è. Per il fatto d’averla costretta a ciò che essa è per noi, l’abbiamo capovolta.
 
Che cos’è l’Ora? – chiede ancora Heidegger.
Ora, mentre io lo dico, è già stato. A esso appartiene di non essere già più mentre è. Dunque l’ora è qualcosa di stato. In quanto è stato però non ha la verità dell’essere, ciò che è già stato, non è di fatto nessuna essenza, cioè nulla di costantemente presente. Non è, mentre, per l’essere dell’Ora, avrebbe dovuto essere. Ciò che dunque la certezza sensibile in quanto intero è, che permane in lei stessa quando viene mostrata, è il movimento, la storia di questo movimento. In questa storia la stessa certezza sensibile si sviluppa fino ad assumere il vero (in essa); essa diventa la percezione.
L’individualità sensibile si rovescia nell’universalità vuota. Cerca il questo e trova il nulla (l’essere).
Delusa dall’oggetto la conoscenza si ripiega su se stessa e cerca di cogliere l’individualità che l’oggetto gli rifiuta.
Anche l’individualità dell’io si conserva come sempre la stessa, sia che in essa passino impressioni sensibili di oggetti diversi o dello stesso oggetto in tempi differenti, sia che si rapporti e confrontino diversi Io tra di loro. Ciò che rimane dal confronto è sempre lo stesso Io.
Anche l’Io deve riconoscere che la sua individualità può essere riempita da qualsiasi contenuto.
Ciò che non scompare è proprio l’io in quanto qualcosa di universale che accompagna indifferentemente tutte le mie rappresentazioni.
Sia dal lato dell’oggetto, si dal lato del soggetto, si ritrova l’universalità vuota.
La singolarità immediata si è rovesciata nel suo contrario, cioè nell’universalità indeterminata.
Il questo sensibile è inattingibile al linguaggio che appartiene alla coscienza, a ciò che è in sé un universale.
Quando il linguaggio afferma di qualcosa che è individuale, dice qualcosa di talmente comune che esso enuncia piuttosto la sua uguaglianza con tutto, e non la sua differenza, giacché ogni cosa è una singola cosa [Fen., I, 88-92].
Nella certezza sensibile, la coscienza fa prova della propria prima relazione con l’essere; è certezza immediata, e pretende di essere certezza dell’immediato. Ciò cui dirige lo sguardo è dunque l’essere singolare unico e ineffabile, tanto l’essere fuori di lei, questa notte qui, questa luce irripetibile, quanto essa stessa, questa coscienza individua; ma ciò cui dirige lo sguardo, ciò cui ha opinione (nel senso della δόξα greca), è incapace di dirlo: «Quando si esige dalla scienza, come prova cruciale, prova che essa non potrebbe sostenere, di dedurre, di costruire, di trovare apriori una cosiddetta questa cosa qui, o un questo uomo qui, è giusto che questa richiesta dica a quale cosa qui o a quale uomo qui essa diriga lo sguardo; ma dire ciò è appunto impossibile». «La parola (il parlare) – afferma Hegel – possiede la divina natura di invertire immediatamente l’opinione per trasformarla in qualcosa d’altro». «In altri termini, non parliamo affatto allo stesso modo in cui nella certezza sensibile dirigiamo lo sguardo a qualcosa. Ma, come si vede, è il linguaggio a essere vero». [PhG I, 86,92]
Pensiamo di cogliere l’essere singolare immediatamente come singolare, ma ciò che diciamo è quanto di più universale, un questo, un costui; e ogni ente è un questo, ogni io un costui. Crediamo di cogliere la ricchezza stessa del reale, ma di questa esperienza non ci resta che la coscienza della nostra povertà. Vediamo il singolare mutarsi in universale, e l’essere individuale trapassare nel nulla come nulla di tutte le determinazioni; possiamo certo riprendere tali determinazioni nella loro connessione e ritrovare allora l’essere determinato, ma siamo passati all’interno del discorso innescato dal gesto con cui designiamo le cose; e se l’universale si fa particolare, o si determina progressivamente, rimaniamo tuttavia sempre nell’universale senza mai poter dire altro che l’universale. Le categorie reggono già tutto ciò che chiamiamo percezione sensibile, in quanto questa percezione è vissuta da una coscienza. «Questi elementi {le determinazioni del pensiero} sono le connessioni e la potenza dominante dell’intelletto stesso. Essi soli sono ciò che costituisce per la coscienza il sensibile come essenza, ciò che determina le relazioni della coscienza con il sensibile e ciò in cui ha il proprio corso il movimento della percezione sensibile e del suo vero». Ma l’intelletto che si limita a percepire o la certezza sensibile immediata ignorano questo carattere della percezione o della certezza; ritengono che la filosofia abbia a che fare solo con oggetti pensati. La certezza immediata e la percezione sono già in un senso che non si riflette ancora su se stesso, un discorso che non si conosce ancora come tale, come sé, e come discorso sulle cose.
La coscienza sensibile neanche è in grado di guadagnare se stessa come anima singolare e unica. Il solipsismo è rigettato sin da queste prime pagine della Fenomenologia. E tuttavia, io, soggetto della certezza, non sono forse per me stesso un’evidenza immediata, anteriore a ogni riflessione? Io sono, esisto, ed esisto come unico e irripetibile; sono io che sento, e solo in me il sentire è immediato. Ma quando dico io, un costui, dico in realtà tutti gli io. «Quando dico io, questo singolo io qui, dico in generale tutti gli io, ciascuno dei quali è appunto ciò che dico: un io, questo io singolare qui» [PhG I 86]. Eppure l’illusione persiste, il soggetto della certezza sembra possedere un privilegio, crede di serbare al di sotto del linguaggio una intuizione indivisa del proprio essere; ma tutti gli altri io pretendono alla medesima intuizione, e il confronto tra loro lascia dileguare la presunta immediatezza del punto di vista di ciascuno.
Questo io, originario e originale, non è, nel proprio fondamento, che un universale, così come enunciato dal linguaggio. Non è unico in quanto dice io, crede solo di esserlo. Questa unicità è un’opinione. L’io che si considera unico è molto più prossimo a un Si, che costituisce l’elemento astratto dell’esperienza, così come l’essere astratto costituiva l’elemento del sentito. Il vissuto oltrepassa in proposito il linguaggio solo nella pretesa, e non di fatto. «L’io è solo universale, come l’ora, il qui e il questo in generale». E questo universale, enunciato dal linguaggio, è la forma più povera del pensiero, è l’astrazione suprema, il nulla implicito delle determinazioni, l’essere che è come astrazione, ma come astrazione di sé, non come astrazione psicologica. Io sono unico e irripetibile, e ciò significa insieme che sono nulla, che posso essere qualsiasi cosa. Io sono, come questo singolo qui, l’universale astratto, che, cioè, ha già in sé, implicitamente, il momento della mediazione come negazione: «Un tale momento semplice che, non è né questo né quello, ma solo un non-questo, e che è altrettanto indifferente a essere questo o quello, lo chiamiamo universale: l’universale è dunque in effetti il vero della certezza sensibile» [PhG I, 84]. Così la singolarità sensibile si esprime effettivamente attraverso il proprio annientamento. Trascorre, diviene, si nega, e se la si vuole trattenere non resta che questo universale astratto, l’essere identico al nulla, questo elemento di tutte le determinazioni. Lo stesso io singolare trascorre; ciò che resta è il nome universale, ‘io’, che il linguaggio enuncia esattamente in quanto tale, trasformando in banalità quella pretesa unicità.
Questo universale, inclusivo della mediazione sotto la forma della negazione universale, o del nulla, è l’essere che è divenire, ma che, considerato fuori dal movimento della mediazione, trattiene del divenire solo i due poli identici: l’essere che, appena posto nella sua rigida immediatezza, si nega (e infatti diviene), e il nulla, che appena posto in quella stessa immediatezza egualmente si nega, cioè a dire è, dal momento che l’essere è sempre presente, anche nel divenire. Il vero Io, l’autentica singolarità, cioè l’autocoscienza, lungi dall’escludere la mediazione, si confonde piuttosto con essa; l’autocoscienza è il vero divenire, cioè il divenire di sé: «L’Io – afferma Hegel – o il divenire in generale, l’atto di effettuare la mediazione è appunto, in virtù della propria semplicità, l’immediatezza che diviene e l’immediato stesso».
La singolarità immediata, la supposta intuizione immediata, ciò che non verrà mai visto per due volte, è dunque la più grande banalità. Appena posta, la si vede dileguare; non è, al fondo, che dissolversi. Questo dissolversi, in quanto compreso, in quanto è senso e discorso, è tanto genesi quanto annientamento, è mediazione; la morte è perciò inizio della vita dello spirito, dal momento che l’Assoluto (la sostanza) appare, al livello della natura, sia come vita sia come morte, in un ciclo senza fine: la singolarità delle cose sensibili e dei viventi mortali, che sono modi dell’Assoluto, manifesta l’Assoluto stesso nel suo annientarsi.
La singolarità, come essere immediato, che vuole cioè astrarsi dalla mediazione, è dunque immediatamente il proprio dissolversi. Ciò vale per la natura come per la coscienza che pretenda di sfuggire al divenire del senso, al discorso e alla mediazione. Rifiutando di pensare se stessa, abbandonandosi a ciò che crede essere il puro vissuto, tale coscienza regredisce sino alla vita non cosciente, ciò che trova è di necessità la morte, morte di tutti gli istanti, una morte che – di principio – essa non comprende e che dunque è per lei necessità ed enigma a un tempo, perché la necessità sentita come tale e non pensata è il puro enigma.
Aspirando all’immediato la coscienza aspira, senza neanche saperlo, a dileguare.
Dando al temine Logico il suo senso hegeliano, si potrebbe dire che l’esperienza umana, secondo Hegel, non può che essere logica (e d’altra parte lo è anche quando non ne è consapevole). Il puro vissuto, il ritorno alla natura, non significa propriamente niente, e la coscienza è sempre senso, discorso, là dove l’ineffabile è, come limite assoluto, il nulla.
È stato detto che lo scetticismo era il frutto sempre rinascente dell’empirismo: è perlomeno il risultato di questo ritorno all’indietro.
Le Anime belle rifuggono la mediazione – i corpi intermedi. Nella mediazione ci vedono il male, la corruzione eccetera, perché le persone che si occupano dei nostri interessi, dicono, tentano sempre di fare prevalere i loro di interessi. Non ci può essere vita senza intermediazione – i gesti quotidiani più stupidi sono delegati ad altri – ci alziamo e cachiamo, deleghiamo ad altri la produzione della carta igienica, del gas per l’acqua calda, dell’acqua per lo sciacquone, del sapone per lavarci le mani, dell’asciugamano per asciugarci, del pavimento su cui camminiamo, della porta che apriamo, eccetera – è fatto tutto da altre persone, le quali intermediano tra i nostri bisogni e la loro soddisfazione. Nelle società complesse, all’altro capo di ogni nostro bisogno, c’è un intermediario, una persona in carne e ossa, che fa al posto nostro quello che noi non possiamo o non volgiamo fare da soli. Se a ogni capo del filo togliamo l’intermediario ci troviamo con le mani nella merda.
 
 
Percepire non è più fermarsi all’ineffabile della certezza sensibile, ma oltrepassare tale sensibile per raggiungere quello che Hegel chiama l’universale. Il principio della percezione è questo universale visto sorgere nella dialettica della certezza sensibile ed è ormai il nuovo oggetto della coscienza fenomenica. Tutto è una cosa, la cosa estesa e la cosa pensante, lo spirito, Dio stesso. Tuttavia, l’universale, la cosalità (Dingheit) come tale, non è senza la mediazione, l’astrazione o la negazione. L’universale è perché qualcos’altro non è.
Il risultato della certezza sensibile è l’universale, universale che è pur sempre il prodotto di un processo di mediazione. L’universale non è l’immediato. È risultato della mediazione. Dunque porta la traccia del mondo della certezza sensibile.
La coscienza percipiente vuole cogliere la cosa che esiste indipendentemente e per sé, vuole coglierla nella sua verità, cioè priva di contraddizioni.
Essere fenomeno vuol dire per Hegel scindersi, diventare altro da sé nella uguaglianza a sé.
La Fenomenologia inizia assolutamente, ed esige la costante costruzione assolvente.
La storia dell’esperienza del manifestarsi dello spirito comincia nella più estrema distanza dal più immediato ed unilaterale esser riferito del sapere al Questo. E la storia prende il corso che lo spirito da questo esser perduto ritrova la via del ritorno a se stesso [Adorno associa questa storia a quella di Ulisse: Ulisse è a casa, si separa dalla casa per mantenere la casa – va in guerra contro il nemico che vuole sopprimerlo – compie un lungo viaggio, che è anche perdizione, infine fa ritorno a casa e si ricongiunge con la famiglia]. L’assolvenza dello spirito dal relativo è un oltrepassamento della scissione e lacerazione della coscienza nelle sue proprie unilateralità. In quanto è tale oltrepassamento, l’assolvenza è per così dire redenzione dalla lacerazione. L’assoluto diviene in quanto assolvenza assoluzione.
La coscienza consapevole della propria scissione Hegel la chiama coscienza infelice.
L’infinità non significa un susseguirsi progressivo di determinazioni, in una prosecuzione senza fine dall’una all’altra, ma al contrario. Il ritorno di qualcosa in se stesso, il ri-volgimento di un determinato in se stesso, così che il determinato in quanto l’altro torna nell’uno, e che l’altro, allo stesso tempo, in quanto suo differenziato, assume questo in sé; che esso nell’unità con esso diventa non-differenziato; che resta con esso conservato nella medesimezza.
 
La cosa sensibile, dalla quale la coscienza percipiente parte, è una cosa dalle molteplici proprietà. Il sale è bianco, ma anche sapido, ma anche cubico, anche di un certo peso. La cosa, nelle sue molte proprietà, non è altro che questo vuoto nodo rappresentato dall’anche. È la cosalità che raccoglie insieme quelle proprietà [fen. 95].
Dal lato dell’oggetto la cosa deve rimanere unica e semplice. Il sale è il sale – identità della cosa con se stessa. Non può essere scomposto in elementi più semplici, altrimenti bisognerebbe guardare a questi elementi semplici come alla cosa stessa. E tuttavia il sale, in quanto cosa singola, si distingue da altre cose singole, se non si distinguesse non potrebbe avere una sua identità. Ma per distinguersi deve essere questo e non essere quello. La contraddizione si fa avanti. Il sale deve essere bianco e non essere nero. Deve essere salato e non esser dolce. In più, già il fatto stesso di avere più proprietà – bianco, salato, cubico, eccetera – lo priva di quell’unità necessaria all’identità con se stesso.
Allora è la coscienza che si accolla la non-verità. Se vi è ineguaglianza, questa ineguaglianza è nella coscienza. Se la cosa appare sotto diversi aspetti, ciò non toglie che la cosa sia una. È diversa solo per la coscienza che la percepisce. È la coscienza – sono io – che sento la cosa come salata, come bianca, come cubica, sono i miei sensi.
Attribuire alla coscienza la contraddizione non risolve il problema. In quando l’essere-uno della cosa la eguaglia a tutte le altre perdendo ancora la sua determinazione. Se la cosa è determinata lo è grazie alle sue proprietà, proprietà grazie alle quali si distingue delle altre cose.
 
Al cospetto della molteplicità delle proprietà della cosa (che in sé deve rimanere Uno), la coscienza si accolla la contraddizione, e ritiene che vi sono molteplici proprietà, ciò avviene perché è essa coscienza a percepire la cosa sotto diversi a spetti. L’Unità della cosa è salva. La coscienza si accolla l’illusione.
Con questa trovata il problema dell’unita della cosa non è risolto. In quanto essere-uno la cosa è uguale a tutte le altre. Tuttavia, se essa è determinata è appunto perché è diversa da tutte le altre. E la diversità deriva proprio da quelle qualità che la coscienza voleva togliere alla cosa e prendere su di sé.
Inoltre, in quanto Uno, la cosa è in relazione solo a se stessa, e tuttavia questa indipendenza è guadagnata attraverso l’esclusione di ogni rapporto ad altro. Ma questo escludere è un rapportarsi, e rapportandosi la cosa non è più indipendente e va a fondo.
La cosa è assoluta se rimane in relazione solo con se stessa. Ma per rimanere solo con se stessa, per essere Assoluta, non può essere Relativa ad altro, ma solo a se stessa. L’esser-per-se sussiste solo in quanto e “negazione assoluta di ogni essere altro”. Ma questa negazione (negazione di ogni essere altro) se vuole veramente essere assoluta, non può essere relativa ad altro, ma solo a se. Ma in tale rapporto o toglie se stessa (si torna alla certezza sensibile dove tutto è niente) o rimane nella sua determinatezza, cioè a sussistere, ma a questo punto deve eliminare la sua assolutezza, e riconoscere di avere la propria essenza entro un altro, il contrario, appunto, di quanto veniva asserito inizialmente.
La percezione è l’universale sensibile che si spezza ogni volta in se stesso, perché è incapace di tenere insieme l’unità della cosa e la molteplicità delle sue proprietà.
Si separa perciò negli estremi della singolarità e dell’universalità e il risultato della logica della percezione è che la verità mostra di avere come propria essenza, come già nella certezza sensibile, l’universalità priva di distinzioni e di determinazione.
 
Nella percezione non c’è quiete. In essa deve venire alla luce l’altro in cui essa trapassa. In quanto medio essa è passaggio a…; il movimento dell’assolvenza ha in essa la vera e propria inquietudine reale. Essa è ciò che è soltanto nel suo esser-stato e nel suo addivenire.
Nella misura in cui la percezione, in quanto coscienza – a differenza dell’autocoscienza – appartiene ancora al sapere immediato, essa non ha più l’immediato nel singolo, ma nell’universale. Essa è nella sua totalità «immediatezza universale». Ma una cosa come una «immediatezza universale», immediatezza dell’universale, è già in se stessa rosa dalla contraddizione, nella misura in cui l’universale è per essenza soltanto nella e in quanto negazione del singolo, dunque come mediazione. Questa essenza contraddittoria della mediazione non può perciò tenersi in se stessa, essa si distrugge da sé.
Il medio è roso dalla contraddizione, non può tenersi, di distrugge da sé.
La percezione non dice soltanto, come la certezza sensibile: questo sale – nel che, persino ciò che viene detto non dice già più che cosa sia opinato, poiché il sale è qualcosa di universale -, ma la percezione dice: questo sale è bianco e sapido e cubico di forma e di un peso determinato ecc. Ciò che la certezza sensibile dice in certa misura contro la propria intenzione – sale, qualcosa di universale -, la percezione lo asserisce nel dire che cosa sia qui il sale.
Bisogna sviluppare ciò che nella percezione è il vero, l’oggetto, tenendo conto che esso è scaturito dalla certezza sensibile. In quanto scaturito da questa, esso è e resta in ogni caso sensibile. Ma la sua verità è l’universale. Noi però concepiamo l’universale come semplicità mediata. Il che lo porta ad espressione la percezione stessa: l’oggetto è la cosa dalla molte proprietà.
Bisogna ancora portare a termine una costruzione assolvente dell’oggetto della percezione.
L’oggetto del percezione non è quello della certezza sensibile – il Questo, questo sale che sta sulla tavola.
Il sale è bianco, sapido, cubico di forma, di peso determinato ecc. Questo sale è questo e quest’altro. In quanto questo e quest’altro, esso non è semplicemente questo.

 

Questo cristallo di sale è bianco, ma la sua bianchezza è una determinazione sensibile universale: nel percepirlo bianco andiamo al di là di questo cristallo di sale.
Se è universale, la proprietà è anche però determinata. Quando la prendiamo come determinata, e non più solo come universale, la vediamo escludere da sé altre proprietà. Questo cristallo di sale è bianco, dunque non è nero. Siamo condotti da capo alla cosa come Uno, ma questa volta non si tratta di un’unità astratta, ma di un’unità concreta.
Nell’Uno separato ritroviamo un medium di proprietà le quali sono ciascuna per sé ed escludono le altre solo in quanto determinate. Le escludono da questo cristallo di sale o si escludono a vicenda? Per salvare la cosa dalla contraddizione l’intelletto comune prova a scacciare l’opposizione al di fuori del medium particolare che è questo cristallo di sale. Prova ma non vi riesce. Come possono coesistere in un’unità singola le proprietà della bianchezza, alcalinità, pesantezza, eccetera? O la cosa è una e le proprietà in essa si confondono – quindi non sono ciascuna per sé nella loro universalità indifferente, ma penetrano l’una nell’altra e si negano a vicenda – oppure la cosa è molteplice: bianca e anche sapida e anche cubica, ma allora abbiamo a che fare solo con un composto. Un certo numero di “materie” – caloriche, chimiche, elettriche – si raggruppano in questa cerchia particolare e vi si trovano giustapposte. Ma come possono stare l’una accanto all’altra? Occorre che l’una occupi gli interstizi dell’altra, e viceversa. Un siffatto tessuto è finzione dell’intelletto che rinunzia a immaginare e dissimula la contraddizione nella nube dell’infinitamente piccolo. Se tali materie si compenetrano, scompare la loro indipendenza e resta solo una cosa singola senza determinazioni; se si giustappongono, la loro indipendenza è salva, ma è perduta la cosa singola e ritorniamo all’essenza oggettiva come polvere di parti le quali non sono parti di nulla e hanno in sé delle parti all’infinito. Evitare tali contraddizioni è impossibile, perché la proprietà sensibile da cui partiamo, per esempio l’alcalinità di questo sale, è universale e insieme determinata. In quanto universale, è saldamente ancorata nella cosalità, è indipendente e sostanza; in quanto determinata, è singolare, esclude “altro”; perciò a partire da essa si sviluppano i due momenti contraddittori della cosa: da un lato la sua universalità, la sostanzialità che la rende indifferente a tutte le sue parti (l’universale è quanto può essere questo o quello ed è indifferente ad essere questo piuttosto che quello), dall’altro la singolarità che la rende esclusiva, l’uno negativo. In realtà, presi nella loro purezza questi due momenti, dell’universalità e della singolarità, entro i quali oscilla il particolare – l’universale determinato – sono assolutamente congiunti. La pura singolarità, l’unità esclusiva, in quanto priva di determinazioni è l’universale stesso. Ogni cosa è una singola cosa individuale, e in ciò è una cosa uguale a ogni altra. Ma questa dialettica è logica e la percezione non la conosce: essa ritorna quindi alla proprietà sensibile e considera le proprietà nel medium dell’Uno senza risolversi né a confonderle né a distinguerle assolutamente. Che cosa le resta? Delle proprietà prese ciascuna per sé, la bianchezza, l’alcalinità, la forma cubica di questo sale; ma prese così senza il loro medium di coralità e senza l’unità della cosa, tali proprietà non sono più né proprietà, perché non ineriscono più a un soggetto, né determinate, perché non si escludono.
Sto forse per ricominciare lo steso movimento dell’opinione del Questo della percezione senza poterne mai uscire? No, perché tale soggettivismo nella conoscenza che acquisto di questa cosa, mi permetterà di prendere coscienza della mia riflessione in me stesso; esso mi sta conducendo ad una questione critica – che è già quella di Locke, continuata a volte da Kant sotto il nome di idealismo trascendentale, quando egli distingue la cosa in sé dalla cosa in noi. – La cosa sarà sempre il vero e l’eguale a sé, ma la coscienza che io ne acquisto sarà disturbata dalla mia riflessione in me stesso. La mia percezione non sarà più considerata una apprensione pura e semplice, ma un’apprensione commista a una riflessione che altera la cosa e la rende per me altra da ciò che essa è in sé. In tal modo la cosa resterà il vero, e l’illusione sarà soltanto nella coscienza. Ma se così la coscienza immagina che la verità cada semplicemente fuori di lei, s’inganna. Perché è proprio lei a separare la parte dovuta alla propria riflessione e quella dovuta all’oggettività: senza saperlo, lei diviene la misura stessa del vero. Il punto di partenza per cui l’oggetto percepito era l’essenza e la coscienza percipiente l’inessenziale, ormai è superata.
A questo punto la coscienza fa una duplice esperienza: ora si dà come il medium indifferente, l’universale passivo, in cui le proprietà coesistono senza confondersi; ora si dà come l’Uno. Nel primo caso la cosa in sé è l’Uno, e la pura diversità è soltanto per la coscienza. Tale diversità, di cui parla Kant, non appartiene alla cosa ma alla sensibilità multiforme che così rifrange in sé l’unità della cosa. Questo cristallo è bianco ai miei occhi, cubico al mio tatto, sapido sulla mia lingua; ne nasce una sorta di idealismo psicologico. Il verde di questa foglia e la sua umidità sono soltanto miei; ma la cosa in sé stessa è una; produce in me tale diversità, perché io dispongo di sensi diversi per apprenderla. Così la coscienza della cosa è salva; e si conserva la sua verità di essere Uno. Ma fermarsi qui è impossibile, perché in tal caso come distinguere una cosa da un’altra? Se la cosa è una, è discernibile da ogni altra, ed è discernibile non perché sia una in sé (lo sono tutte), ma perché ha proprietà particolari che la determinano in modo completo.
Nel secondo caso, al quale ci rinvia il primo, dobbiamo prendere su di noi l’unità della cosa e attribuire necessariamente la diversità a lei. Se infatti la cosa è determinata, lo è in se stessa, e tale determinazione completa non è possibile senza una diversità intrinseca. La cosa non potrebbe avere una proprietà sola, perché in tal caso non sarebbe più differente.
Solo che, se così la diversità è nella cosa, vi è nella forma di una molteplicità indifferente e siamo noi a introdurvi l’unità – ipotesi inversa alla precedente. La cosa in sé è bianca, cubica, sapida, eccetera; la sua unità è soltanto opera nostra. Unire le proprietà in una cosa è atto dello spirito uniformante presente in tutte le percezioni.
È la cosa a riflettersi in sé e a essere per se stessa diversa da quello che è per un altro (per la nostra coscienza). È una quando si mostra molteplice, è molteplice quando si mostra una: include in sé una verità opposta a sé, è una contraddizione, quella appunto di essere contemporaneamente per sé e per un altro. Questa nuova opposizione secondo la forma (essere per sé, essere per un altro) si sostituisce all’opposizione secondo il contenuto (essere Uno, essere molteplice). Ma resta ancora inevitabile: non è possibile ancora tenere la Verità esente da ogni contraddizione salvando la coerenza della cosa; la cosa, abbiamo detto, è contemporaneamente per sé e per un altro – due modi diversi di essere – ed è per sé altro da quello che è per un altro. Ciò equivale a dire che la cosa diviene pensabile come una molteplicità di cose o di monadi le quali escludono da sé la contraddizione col rinviarla sul loro rapporto reciproco. Così il monismo diviene un pluralismo. Ma tale pluralismo è a sua volta solo apparenza.
Prendiamo in considerazione la cosa o la monade diversa da tutte le altre: essa è per sé, come unità con sé stessa. In lei vi è senza dubbio anche una diversità, poiché in qual modo sarebbe mai determinata senza questa diversità che è il suo essere per l’altro? Ma tale diversità le è essenziale, è la sua esteriorità. E con questa distinzione dell’essenziale e dell’inessenziale la contraddizione sembrerebbe evitata – quantunque a ben guardare si tratti di un inessenziale sempre necessario, il che è una nuova contraddizione nascosta. E invece ricompare nella sua forma definitiva, perché questa cosa, uguale a sé stessa e per sé una, è tale soltanto nella sua differenza assoluta da tutte le altre, e questa differenza implica una relazione con le altre cose che è la cessazione del suo essere per sé: Proprio mediante il suo carattere assoluto e mediante la sua opposizione, la cosa è in relazione verso altre, ed è essenzialmente soltanto questa relazione; ma la relazione è la negazione dell’indipendenza della cosa; e la cosa va anzi a fondo per via della sua proprietà essenziale.
Con questa dialettica andiamo dalla cosa alla relazione, dal cosalismo della percezione alla relatività dell’intelletto; nella storia delle scienze e della filosofia questo passaggio è ben noto. Gli artifici con cui la coscienza comune cercava di salvare la cosa indipendente e una – la distinzione di un essenziale e di un inessenziale, la separazione dell’esser-per-sé e dell’essere-per-altro scompaiono.
La filosofia kantiana, dice Hegel, ha colto lo spirito soprattutto nello stadio della percezione. “La cosa in sé – e sotto la parola ‘cosa’ è compreso anche io, dio – esprime l’oggetto in quanto si astrae da tutto ciò che esso è per la coscienza, da ogni determinazione del sentimento come da ogni pensiero determinato. È facile vedere che cosa resti – il pienamente astratto, l’interamente vuoto, determinato solo come un al di là; il negativo della rappresentazione, del sentimento, del pensiero determinato”. Siffatta cosa in sé si presenta anche come la pura materia del materialismo. È chiara la critica dell’atteggiamento percettivo, il quale crede di sentire e in effetti prende per realtà delle astrazioni, è vittima della metafisica inconscia.
Nella filosofia kantiana, l’intelletto e la sensibilità costituiscono due fonti differenti della conoscenza. La molteplicità sensibile sembra provenire da un aldilà del sapere o da una cosa in sé, mentre l’intelletto si eleva attraverso i propri concetti al di sopra del sensibile per determinarlo in modo universale e renderlo pensabile.
Hegel descrive il passaggio dal sensibile all’intelletto, disvela l’immanenza dell’universale alla natura. In questa dialettica, il sensibile diventa Logos, linguaggio significante, e il pensiero del sensibile non resta interiore e muto, è presente nel linguaggio. Il linguaggio non è solo un sistema di segni estraneo al significato, è l’universo esistente del senso, e questo universo è tanto l’interiorizzazione del mondo quanto l’esteriorizzazione dell’io. Duplice movimento che occorre comprendere nella sua unità. La natura si rivela come Logos nel linguaggio dell’uomo, e lo spirito, che appare solo in modo contingente nel volto e nella forma umana, trova la propria espressione perfetta esclusivamente nel linguaggio. La mediazione che congiunge natura e Logos è il solo Assoluto, poiché i due termini non potrebbero esistere indipendentemente da questa mediazione.
SENSO. «Senso è una strana parola che è impiegata in due sensi opposti. Da una parte designa gli organi che presiedono all’apprensione immediata, dall’altra chiamiamo senso il significato di una cosa, la sua idea {il pensiero}, ciò che essa possiede di universale. È così che il senso si rapporta per un verso al lato immediatamente esteriore dell’esistenza e per altro verso alla sua essenza interiore. La considerazione riflessa {dotata di senso sinnvolle}, invece che separare i due aspetti, fa in modo che ciascuno di questi si presenti insieme al suo contrario; essa cioè, proprio mentre riceve di una cosa un’intuizione sensibile, ne afferra il senso e il concetto» [Enciclopedia §446-465].
Non si dà senso prima del linguaggio, così come non si dà un Assoluto ineffabile, o così come non sarebbe possibile alcun sogno per colui che non ci si svegliasse mai.
Il linguaggio appare come l’esistenza dell’essenza.
È il sensibile stesso che si interiorizza nel pensiero, e il pensiero che si esteriorizza nel linguaggio.
KANT cercava soltanto di rendere accessibile alla conoscenza un essere che, al fondo, le sfuggiva. Hegel ignora questo limite assoluto. La molteplicità sensibile rinvia all’universalità dell’intelligere che le è immanente, e si fa essa stessa significato in un esserci, l’uomo, che non contempla soltanto le cose e ne è affetto, ma che insieme le determina nella negatività dell’azione.
Colui che parla è implicato {engagé} in ciò di cui parla, è determinato e determina, è egli stesso questo passaggio e questa mediazione pura che è effettualmente l’unità del senso e dell’essere, il concetto come tempo. Nel passaggio della poesia epica alla tragedia si manifesta questo coinvolgimento di colui che parla in ciò di cui parla; egli, da narratore, diventa attore: la negatività dell’essere è anche la sua negatività, egli la mette in gioco in seno alla necessità o al destino, che diventa allora il suo destino universale. Ora, il sapere assoluto è questo destino universale che dice se stesso come sé identico all’essere, e avviluppa in sé colui che parla e ciò di cui parla, la loro unità e la loro opposizione, l’unità della loro unità e della loro differenza. Non essendo solo significato dato, necessità, ma significato generato, significazione di sé, il sapere assoluto presuppone quindi l’uomo che agisce, come mostra la Fenomenologia: «L’Assoluto è soggetto».
L’esserci immediato, il sensibile trovato, è negato, e questa prima negazione consente all’immaginazione di disporre del dato in sua assenza, di evocarlo come assenza: «Non è più la cosa stessa a essere presente, ma io che mi ricordo della cosa e la interiorizzo. Io non vedo più, non sento più la cosa, ma l’ho vista, l’ho sentita».
L’immaginazione si è dunque elevata dall’intuizione alla rappresentazione effettuale, attraverso il simbolo e il segno, in cui il sensibile trascende se stesso. Nel simbolo, l’intuizione attuale e il contenuto simbolizzato assente hanno ancora qualcosa in comune, si assomigliano, così come le onomatopee suggeriscono ciò che designano, o come la scrittura simbolica o geroglifica conserva elementi rappresentativi.
 
 
Il qui opinato era il punto. Ma il punto non è. Quanto è, è un qui affetto dal suo essere-altro. Siamo di fronte a quello che Hegel chiama universale, ed è il sensibile tolto (aufgehoben) quest’universale è a sua volta condizionato dal sensibile.
Universalità astratta e singolarità astratta. Le cose non sono solo universali ma anche cose singole, e questi due caratteri – l’anche delle materie libere e l’uno negativo – costituiscono la cosa che la coscienza percipiente ha per oggetto. Queste due determinazioni di pensiero – l’anche e l’uno, l’universalità astratta e la singolarità astratta – sono già date nella proprietà sensibile ma universale che sembra presentarsi immediatamente alla coscienza.
Pensiero comune e dogmatico. Criterio della verità per la coscienza percipiente sarà la ricerca dell’uguaglianza dell’oggetto con se stesso e l’esclusione da esso di ogni alterità. Se c’è una contraddizione, questa non può essere che nella coscienza, e l’oggetto, il vero, è l’incontraddittorio. Così procedono il pensiero comune e quello dogmatico che lo continua. Nella contraddizione essi vedono il segno della nostra riflessione in noi stessi fuori dal vero.
Lo scacco subito dalla percezione dipendeva dall’impossibilità di pensare insieme il momento della cosalità indifferente e il momento della singola cosa individuale escludente da sé ogni molteplicità.

 

Questo passaggio era il movimento stesso della coscienza percipiente, la quale ora attribuiva alla cosa l’unità esclusiva per riservare a sé la diversità dei suoi aspetti coesistenti, ora attribuiva questa diversità al proprio oggetto riservando a se stessa l’unità esclusiva.

 

Dapprima, dice Heidegger, l’oggetto si offre come puramente uno. Ma non posso prenderlo così, lo vieta la proprietà, che è universale [Il sale – questo sale qui adesso, il singolare – è bianco – proprietà universale]. Io l’ho dunque preso in modo non vero, la non-verità cade nel prendere [nel coscienza], dato che l’oggetto è ben vero. Ma se non lo prendo come il puramente uno, ma come l’Anche [come dotato di proprietà universali], il che richiede ogni volta l’universalità delle proprietà, si mostra allora subito che anche così io non lo prendo nel modo corretto, perché le proprietà sono determinate, tali da escludersi l’una l’altra [se è bianco non è nero]. Lo prendo dunque come un uno che esclude. Ma se lo prendo così nell’universalità dell’Anche e dell’Uno, allora non prendo l’oggetto, ma il suo [Medium], nel quale molte singole proprietà determinate sono per sé.

 

La conoscenza naturale percepisce o osserva ciò che è, l’osservazione supera la percezione in quanto raccoglie il sensibile e ne cerca le determinazioni permanenti; ma non rifletterebbe mai su se stessa se non si imbattesse nello scandalo dell’illusione e dell’errore. Essa coglie gli oggetti del mondo, facendo astrazione, nel suo coglimento dell’essere, dal porre (Tesi) come tale. Questo porre è tuttavia la forma della verità che si distinguerà dal contenuto posto. Dal momento che il contenuto è l’essere multiforme, determinato e vario, mentre il porre o l’affermazione è universale; la conoscenza naturale o empirica,descrivendo le cose, analizzandole, enunciandone i diversi rapporti, deve sempre serbare l’eguaglianza del proprio oggetto a se stesso. Ma la diversità, che esige un confronto per stabilire dei rapporti, è fonte di illusione e di errore; include infatti in sé, in quanto diversità, l’essere-altro o la negazione. La conoscenza empirica vuole però conoscere solo la positività del proprio oggetto; attribuirà allora l’illusione e l’errore a se stessa, a una soggettività empirica cui non saprà che posto assegnare nell’economia del proprio mondo. L’essere del mondo è già presente prima che io lo ponga, e questo essere-già-presente è la sua immediatezza.
Se appare l’errore, se cioè si presenta un’ineguaglianza, una contraddizione nei rapporti tra i diversi elementi dell’esperienza, questa contraddizione può riguardare solo me, e devo rigettarla in una soggettività inessenziale, in una faccenda che non concerne l’oggetto stesso. La conoscenza empirica è così portata a riflettersi e a scoprire che si rifletteva già, senza saperlo, nel suo coglimento degli oggetti; già si rifletteva, infatti, perché si ingannava, cioè mescolava la propria riflessione al coglimento dell’essere. Il bastone non può essere insieme dritto e spezzato. È dritto in sé, spezzato per me. L’errore deriva dal mio punto di vista, dalla mia particolare situazione, che dipende dal mio peculiare coinvolgimento nel mondo: si tratta di una soggettività empirica che bisogna poter sottrarre e spiegare a sua volta oggettivamente.

 

Questa riflessione consapevole è propriamente la riflessione formale, contraddice la contraddizione e mette così in evidenza la posizione di una verità, di un essere che deve restare eguale a se stesso quando la soggettività che percepisce e osserva assume su di sé la contraddizione. Appare in tal modo la legge di non contraddizione che, alla stregua di una assoluta interdizione, regge ogni conoscenza empirica. Il falso è il contraddittorio, e il luogo dell’errore è l’Io soggettivo insieme empirico e formale, empirico per la sua particolare situazionalità che gli fa riflettere ingannevolmente l’essere, formale per quella riflessione seconda che esclude la contraddizione e innalza a chiara coscienza la tesi dogmatica dell’eguaglianza a sé dell’essere già presente nel coglimento immediato.

 

La scoperta dell’errore, dell’illusione, i disinganni dell’empirismo, che fa affidamento sul contenuto offerto immediatamente, conducono certo la coscienza a una sorta di critica, ma di critica formale, in margine al suo coglimento del reale. La coscienza è giudice di ciò che è, è misura, ma non si vede come tale, si vede piuttosto come la non-verità.
Rettifica, corregge in modo da conservare l’oggetto e la totalità degli oggetti del mondo nell’eguaglianza con loro stessi e attribuendo a sé l’ineguaglianza; ma questa eguaglianza con sé è, per lei, forma senza contenuto.
Nell’empirismo, come nel dogmatismo dell’essere, il contenuto o l’essere sono essenzialmente positivi; il giudizio negativo è un giudizio soggettivo che respinge un errore; non dice ciò che la cosa stessa è, si limita a evitare anticipatamente ciò che potrebbe venire detto di essa. Solo il giudizio affermativo è la forma della verità, dice della cosa ciò che essa è. La contraddizione e la negazione appartengono a una soggettività «che è nulla», che è ai margini dell’essere. La contraddizione attribuita all’oggetto sarebbe un’ineguaglianza, una negazione posta in esso. Se l’acqua è calda, enunciare che essa è anche fredda significherebbe attribuire all’oggetto, che può essere solo ciò che è, una ineguaglianza a sé, una differenza di sé rispetto a se stesso, che è esclusa dalla sua posizione assoluta.
La regola di questa conoscenza empirica è di non contraddirsi nel proprio oggetto, e, essendo questa regola solo negativa, di cercare la verità esclusivamente nel contenuto considerato come positivo.

 

Ma dire A è B significa già contraddirsi, perché significa uscire da A per affermare qualcosa d’altro; significa dire che A è non-A e non più soltanto A; oppure vuol dire che rispetto a noi si dà un progredire della conoscenza.
L’empirismo ingenuo, che si riflette in seguito alla scoperta dell’errore e dell’illusione, cade nel formalismo; non conosce infatti altra riflessione se non la riflessione formale, altro criterio positivo se non il contenuto che gli si offre. Questo formalismo potrebbe spingere l’empirismo sino alla posizione di una vuota identità: l’empirismo si contenta, in generale, di sfuggire la contraddizione, e di cercare la propria verità nel contenuto. L’incontro con la contraddizione gli è stigma dell’errore e della soggettività, e non potrebbe essere diversamente, poiché esso non conosce se stesso in quel contenuto; non si riflette nel contenuto né il contenuto si riflette in esso. La conoscenza empirica, così come il dogmatismo dell’essere, o degli esseri incomunicabili, oppone la posizione del contenuto alla soggettività dell’Io; oscilla perciò sempre tra un contenuto informe e una riflessione formale.
La critica kantiana – la filosofia trascendentale – oltrepassa tale riflessione soltanto formale. La riflessione trascendentale è una riflessione nel contenuto; si oppone alla riflessione formale «che fa astrazione da ogni contenuto della conoscenza». La riflessione trascendentale determina il contenuto secondo le categorie dell’intelletto; nell’esperienza, coglie l’identità relativa della forma e del contenuto, dell’apriori e dell’aposteriori. L’immediatezza determinabile della sensibilità si mostra determinata dai concetti puri dell’intelletto. L’oggetto ci sembra già conosciuto, la conoscenza empirica crede di trovarlo come tale, ma la riflessione trascendentale risale fino alla fonte di questa costituzione (e non può trattarsi, per Kant, di una fonte psicologica). La riflessione sul contenuto dell’esperienza presuppone dunque se stessa in ciò che Kant chiama Fenomeno. Il Fenomeno non è l’apparenza, ma si colloca di diritto in una totalità coerente, e acquisisce perciò un valore oggettivo.
Questo contenuto è la natura che, alla fine dell’Analitica dei principi, viene definita «il concatenamento dei fenomeni, legati, per la loro esistenza, da regole necessarie, cioè da leggi. Sono dunque certe leggi apriori, che rendono innanzitutto possibile una natura; le leggi empiriche non possono avere luogo e venire trovate che per mezzo dell’esperienza, ma conformemente a quelle leggi originarie, senza di cui l’esperienza stessa sarebbe impossibile».
Il trascendentale esprime, come possibilità o fondamento dell’esperienza, la logica dell’essere; è aldilà delle nozioni di soggetto o oggetto, enuncia la loro identità originaria che appare nel giudizio di esperienza. «Come sono possibili giudizi sintetici apriori? Questo problema non esprime altro che l’idea secondo cui, nel giudizio sintetico, soggetto e predicato – quello particolare , questo universale, il primo sotto la forma dell’essere, il secondo sotto la forma del pensiero -, questi termini eterogenei sono nello stesso tempo apriori, assolutamente identici». Questa identità, dispiegata compiutamente solo dall’immaginazione trascendentale, è per Hegel, interprete di Kant, l’unità originariamente sintetica, ben differente dall’Io astratto.
La filosofia kantiana finisce con il ridurre il trascendentale all’antropologico per non avere avuto il coraggio di innalzarlo allo speculativo.
L’idealismo di Kant ricade nell’idealismo formale e psicologico.
Il pensiero speculativo coglie il contenuto stesso come riflessione; è l’essere a conoscersi attraverso l’uomo, non l’uomo a riflettere sull’essere. La riflessione speculativa – o riflessione assoluta – si sostituisce alla vecchia metafisica dogmatica. L’antropologia è trascesa, e tuttavia l’essenza non è istituita come un secondo mondo che spieghi e fondi il primo. È l’immediato stesso a riflettersi, e questa identità della riflessione e dell’immediato costituisce per l’appunto la conoscenza filosofica.
Nella Logica, infine, Hegel considera la riflessione come riflettersi proprio dell’essere {realtà effettiva}: L’essere {realtà effettiva} appare perché si nega da sé come immediato; l’apparenza è l’esser-negato {realtà effettiva negata}, l’essenza. Il riflettersi dell’essere {realtà effettiva} nell’essenza corrisponde alla riflessione nel senso psicologico del temine.
La vita è lo stesso dell’autocoscienza, ma è in sé ciò che l’autocoscienza è per sé. La vita appare come l’immediato che presuppone la propria Essenza.
In Kant l’immediato, benché divenga un autentico Fenomeno, benché sia fondato sull’essenzialità delle categorie, mantiene nondimeno un’irriducibilità rispetto a queste, reca in sé una posizione ancora irrisolta dell’essere, qualcosa di estraneo alla riflessione, la quale deve partire da questo qualcosa per fondarlo. Kant non comprende l’apparenza come tale, come struttura stessa della riflessione. Nella Logica dell’essenza, Hegel mostra che è l’essere stesso ad apparire, a riflettersi e fondarsi, come se l’apparenza rinviasse ad un altro da sé. Ma questo altro è il movimento altro dell’apparire, dello sdoppiarsi. «Il movimento della riflessione è dunque l’urto e il contro-urto assoluto in se stesso, perché la presupposizione del ritorno a sé (ciò che funge da punto di partenza all’essenza ed è soltanto come il ritornare stesso) è unicamente in questo ritorno. Il superamento dall’immediato da cui comincia la riflessione è insieme un superamento e un ritorno a questo immediato, è anzi solo attraverso questo sorpassare, e il sorpassare l’immediato è un giungere a se stesso. Ma mano che progredisce, il movimento ritorna al proprio punto di partenza, si volge immediatamente in se stesso, e solo così è movimento assoluto, auto-movimento, che comincia e finisce da se stesso, in quanto la riflessione che pone è riflessione che presuppone, e la riflessione che presuppone è, nello stesso tempo, ponente» [Logica, II, 447]
Ma la riflessione kantiana resta estranea a questo movimento dell’essere: «La riflessione, cui Kant assegna come compito la ricerca dell’universale e al quale deve essere subordinato un particolare dato, è chiaramente la riflessione esteriore che si rapporta solo a un immediato e a un dato; ma essa implica anche il concetto di riflessione assoluta, poiché l’universale, la regola, il principio o la legge, cui quella riflessione si approssima via via che diviene più determinata, vale come essenza dell’immediato che serve da cominciamento e che è perciò un non-ente; mentre, in virtù del ritorno a partire da quell’essenza {o: da quell’immediato}, ritorno grazie a cui la riflessione si determina, l’immediato si trova posto secondo il suo vero essere, e di conseguenza ciò che gli è conferito dalla riflessione e le determinazioni da essa emananti, lungi dall’essere esteriori a quell’immediato, costituiscono il suo essere propriamente detto» [Logica, II, 450]
Il pensiero speculativo concepisce la riflessione come riflessione assoluta dell’essere; e spiega l’illusione di cui è vittima la riflessione esteriore: questa, partendo dal contenuto immediato, non si avvede di presupporre se stessa e di come il contenuto si rifletta in ciò che lo fonda.
«Il pensiero che resta nella riflessione esteriore e che non conosce altro pensiero se non la riflessione esteriore, non giunge a concepire l’identità così come l’abbiamo definita, o, che è lo stesso, l’essenza. Simile pensiero opera solo sull’identità astratta, e, al di fuori e a latere di essa, sulla differenza. Crede che la ragione sia null’altro che un telaio su cui combinare esteriormente e intrecciare l’ordito (l’identità) e la trama (la differenza)»

La conoscenza assolvente [rilevante], dice Heidegger, si muove secondo una sequenza triadica. [si tratta della triade Padre, Figlio, Spirito santo – oppure Dio-Incarnazione-Resurrezione. Dio si sdoppia in Padre e figlio: coscienza infelice, incarnazione, contraddizione: l’assoluto-spirito si fa carne-particolare; la carne muore, lo spirito risorge: assolto, torna assoluto e felice; non c’è più tentazione, male – tutto questo viaggio teologico è descritto da Hegel come un viaggio logico: si parte dalla certezza sensibile che pone le basi della separazione, si trapassa nella percezione dove si vive la contraddizione particolare/universale, contraddizione che viene tolta nell’autocoscienza. Questo viaggio logico non è un viaggio teorico, è un viaggio effettivo, è un’esperienza, il concetto non è teoria opposta alla pratica, il concetto è vita, si produce se si vive. A questo proposito Heidegger parla della filosofia hegeliana come di una onto-teo-logia].
Il primo oggetto della Fenomenologia, dice Heidegger, è la coscienza, il sapere che si riferisce all’inizio immediatamente al suo oggetto come all’altro da se stesso, cioè senza che con ciò si sappia che l’oggetto è l’altro del se stessa della coscienza. La coscienza immediata, la certezza sensibile, diviene così tema in quanto sapere del suo oggetto e viene corrispondentemente designata con la denominazione: il Questo e l’opinare. Il contrario di se stessa che si sviluppa a partire dalla certezza sensibile è la percezione, ed essa è egualmente e corrispettivamente caratterizzata in modo duplice: la cosa e l’illusione. Per la designazione della sapere percipiente si dice illusione per indicare proprio il carattere riflessivo della percezione. La mediazione qualitativa della certezza sensibile e della percezione produce la prima verità speculativa della fenomenologia, cioè la conoscenza assolvente del sapere in quanto coscienza. Questo sapere è l’intelletto. Il suo oggetto viene definito da Hegel con l’espressione sorprendente di forza.
La verità del Questo è la cosa, e la verità, l’essenza della cosa è la forza.
Il Questo della certezza sensibile è il singolo.
La cosa della percezione è l’universale, e cioè l’universale che è determinato in ciò che è tramite un altro da se stesso, il singolo. Tutto ciò condiziona l’universale della cosa. La sua universalità è condizionata [è legata al singolo, è incorporata dal singolo – incarnata] – e dunque, perché riferita ad altro al di fuori di sé, finita, non assoluta [il copro è finito, ed è relativo perché vi è negazione determinata, non può assolversi rimanendo determinato – progressismo – può solo sfociare nel cattivo infinito. Per salire al Padre bisogna morire, resuscitare]. Ma l’universale è dunque il vero dell’oggetto del sapere immediato. Questo vero è tuttavia soltanto e propriamente vero quando esso non è l’universale finito [l’incarnato], condizionato [relativo, negazione determinata], ma l’incondizionatamente universale o l’assolutamente universale. Questo universale in sé, che non ha il singolo accanto né sotto di sé, ma in sé, e dispiega necessariamente se stesso nei singoli, questo universale incondizionatamente tale, Hegel lo designa come forza.
La forza: l’essenza della cosa. La sostanza.
 
Ora è pomeriggio – dice Heidegger. Questa è una verità indiscutibile. La conserviamo fissandola alla lavagna con il gesso. Quando domattina alle otto il bidello verrà nell’aula per controllare che tutto sia in ordine, che la lavagna sia pulita, e leggerà la frase: Ora è pomeriggio – a nessun costo, lascerà la lavagna sporca. Prenderà la pezza bagnata dal suo carrello e cancellerà la frase – non ci sarà possibilità di recupero, tutto sarà perduto.

 

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