Pasolini, Marcuse e Toni Negri

L’Uomo a una dimensione è stato scritto da Herbert Marcuse nel 1964.
Marcuse era affiliato all’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, più noto come Scuola di Francoforte. Nel 1929, a Friburgo, lavorò con Heidegger per l’abilitazione. Nel 1932 fu costretto a trasferirsi a Francoforte, e nel 33 a Ginevra. L’anno successivo scappò negli Usa e trovò lavoro alla Columbia University. Dal 1942 al 1945 collaborò con l’Office of strategic services (precursore della CIA).
L’Uomo a una dimensione, scritto in inglese (Adorno non si abituò mai all’inglese, e ritornò in Germania), fu tradotto in italiano nel 1967.
Il 25 maggio del 1968 Einaudi fece stampare la 7 edizione.
L’influenza di questo libro sulla sinistra italiana è stata notevole. Alcune formule e motti hanno superato persino il rullo compressore del postmoderno anni Ottanta, e solo negli anni Novanta vennero definitivamente abbandonate. Nel decennio della new economy e della terza via più nessuno sa di cosa si parla quando si parla di segretarie e di commesse della Rinascente sessualmente attraenti, di giovani dirigenti e sorveglianti belli e virili, i quali sono merci che vanno benissimo sul mercato, o del fatto che avere un’amante come si conviene – prerogativa un tempo dei re, principi e signori – facilita la carriera persino dei funzionari di quinto livello [93].
Negli anni Novanta, gli anatemi di Marcuse a proposito di sesso e denaro, di corpo e merce, di vestiti e moda, di pubblicità e affari, di comunicazione e rincoglionimento, di televisione e lavaggio del cervello, non solo non sono più compresi, ma là dove sono ancora studiati e capiti, sono derisi. Non c’è nulla di male a godersela, e magari a farci su anche un po’ di quattrini. Non c’è nulla di male nella pubblicità, se è vero che la pubblicità sforna genialate come gli spot Jesus Jeans (Oliviero Toscani), mentre al cinema spopolano Lino Banfi e Lando Buzzanca. E non c’è niente di male nella televisione, se a fare la televisione è David Lynch (Twin Peaks), mentre la letteratura produce opere da 30 milioni di copie come Uccelli di Rovo.
Finiti gli anni Novanta, sempre in Italia, la scorpacciata di sesso, di televisione, di moda, di pubblicità postmoderna (gli spot di Fellini con Anna Falk per Banca di Roma; gli spot di Woody Allen per i supermercati coop, con tanto di costolette post-moderne), eccetera, ha generato un movimento uguale e contrario di ripulsa, e un ritorno all’antica e a Marcuse.
Ferraris dice addio a Derrida e si vota al nuovo realismo. Iofrida lascia la decostruzione e ritorna a Adorno e a Foucault. Oliviero Toscani abbandona la Benetton e si ritira in campagna. Wallace dice che se la porta è aperta non c’è gusto a espugnare la fortezza.
Comunque siano andate le cose, il libro di Marcuse ha avuto un impatto notevole. In particolare su tutti quelli che orbitavano intorno al Partito Comunista Italiano, e che, per un motivo o per un altro, erano insoddisfatti. Per esempio Toni Negri e Pasolini.
Si può dire che i tre-quattro temi che tenevano insieme il gruppo di studenti, professori e borgatari cosiddetti Autonomi dell’Autonomia Operaia, erano già tutti presenti nel testo di Marcuse. E che tutte le filippiche di Pasolini, comprese le sue formule su fascisti e antifascisti, studenti e contadini, televisione e pubblicità, erano – alla lettera – presenti nell’Uomo a una dimensione.
Capire se i temi proposti da Marcuse siano farina del suo sacco o se, invece, siano una volgarizzazione, è molto difficile. Soprattutto perché i riferimenti espliciti – oltre che impliciti – sono davvero tantissimi: Hegel, Marx, Freud, Nietzsche, Heidegger, Weber, Adorno, la sociologia americana, Sartre, Barthes, eccetera.
In più, se non si vuole fraintendere l’impianto delle dimostrazioni di Marcuse, bisogna leggere tutto alla luce di Keynes e del Welfare State e di certi testi di Galbraith (The Affluent Society, 1958, per esempio).
Sia come sia, Marcuse propone una teoria dell’Operaio Sociale – e Negri copia.
Parla della connivenza del mondo degli affari e dei sindacati (p.10) –  e Negri copia (e ancora oggi gli iscritti ai sindacati di classe ripetono a pappagallo).
Marcuse scrive che il lavoratore di fabbrica, quello che nell’Ottocento si opponeva criticamente al capitalista, oggi non è più agente di trasformazione storica. Dice che un interesse prepotente per la conservazione e il miglioramento dello status quo istituzionale unisce padroni e operai – e Negri parafrasa.
Dice che nella società del capitalismo avanzato l’apparato produttivo tende a diventare totalizzante, e che la fabbrica esce dalle sue mura e si estende a tutta la città, e con ciò determina non soltanto i comportamenti delle persone direttamente impiegate ma anche quelli dei consumatori, dissolvendo l’opposizione tra vita privata e vita pubblica, tra lavoro e non lavoro, eccetera – e Negri ripete papale papale.
Come dicevo, non si capisce nulla del libro di Marcuse se non lo si inquadra in quella che nel 1958, in un testo altrettanto fortunato, Galbraith chiamava la società del benessere.
Cosa significa società del benessere?
Significa libertà dal bisogno.
Questa libertà è garantita dalla produzione in serie, dalla produzione di massa. Ma la produzione in serie ha un risvolto negativo, essendo alla base della nascita del moderno totalitarismo.
Che cos’è il totalitarismo?
Il Totalitarismo non corrisponde ad un’organizzazione politica che mantiene la coesione sociale con il terrore della punizione. Totalitaria è anche quella società democratica che opera mediante la manipolazione dei bisogni [23], creando cioè falsi bisogni.
Cosa sono i falsi bisogni?
Non sono bisogni propriamente imposti. Sono bisogni suscitati, generati al fine di garantire il perpetuarsi del sistema che li suscita. Può darsi che l’individuo trovi estremo piacere nel soddisfarli (qui si intravvede la formula di Foucault: Il potere seduce; o la formula di Wallace: mi avete viziato a morte).
Il risultato dei Falsi Bisogni è un’euforia nel mezzo dell’infelicità [25].
Rilassarsi, divertirsi, viaggiare, vestirsi bene, amare, odiare, appartengono alla classe dei falsi bisogni.
Nei falsi bisogni rientra anche il bisogno ossessivo di produrre e consumare e sprecare (produci, consuma, crepa): 1) il bisogno di lavorare sino all’istupidimento, anche quando è evidente che la produttività del lavoro è alle stelle e lavorare non è più una necessità reale; 2) il bisogno di modi di rilassarsi.
Un falso bisogno è anche il Prezzo Amministrato: il bisogno di mantenere la finzione di prezzi concorrenziali quando è sotto gli occhi di tutti che i prezzi sono convenzionali. Oppure il bisogno di una stampa libera che si auto-censura; o la scelta libera di marche e aggeggi vari.
Il totalitarismo, per mezzo dei falsi bisogni e del potere di seduzione, produce un livellamento e una omogeneizzazione senza pari nella storia [28].
Se il lavoratore e il suo capo, scrive Marcuse, assistono al medesimo programma televisivo e visitano gli stessi luoghi di vacanza, se la dattilografa si trucca e si veste in modo altrettanto attraente della figlia del padrone, se il negro possiede una Cadillac, se tutti leggono lo stesso giornale, ne deriva che questa assimilazione indica la misura in cui i bisogni e le soddisfazioni che servono a conservare gli interessi costituiti sono fatti propri dalla maggioranza della popolazione.
Nella società del benessere, insomma, il capitalismo avanzato non viene soppresso. Nell’omologazione generalizzata, e grazie all’omologazione, il capitalismo avanzato si conserva, avanza verso il socialismo, conservandosi.
In questa analisi Marcuse non tematizza minimamente il suo giudizio di valore, la sua presa di posizione ingiustificata (e ingiustificabile) sul trucco e sulla commessa, sul suo modo di vestirsi attraente, sulle Cadillac e tutto il resto. L’analisi funziona solo se si dà per scontano che il trucco e la moda sono un disvalore. Nel testo di Marcuse non c’è traccia di uno straccio di dimostrazione che provi la non-verità o il disvalore o il male che deriverebbe dal trucco e dalla moda, per non parlare della Cadillac e della ricchezza. Marcuse eredità queste prese di posizione da un mondo tradizionale che sta per essere spazzato via dal capitalismo avanzato. E lascia con ciò campo aperto alla Pop-Art – ad Andy Warhol – di ribaltare lo schema e affermare il potenziale democratico e liberatorio del capitalismo avanzato.
Tematizzare questi valori tradizionali non conta. Quello che conta è mostrare che le persone si riconoscono nelle loro merci; che trovano la loro anima nella loro automobile, nel giradischi ad alta fedeltà, nella casa a due livelli, nell’attrezzatura da cucina.
L’importante, adesso, è mostrare che il flusso irresistibile dell’industria del divertimento e dell’informazione, reca con sé atteggiamenti e abiti prescritti, determinate reazioni intellettuali ed emotive che legano i consumatori, più o meno piacevolmente, ai produttori, e, tramite questi, all’insieme.
Un buon modo di vivere, scrive Marcuse, come tale milita contro il mutamento.
Anche in questo caso viene contrabbandato un po’ di teleologismo, ovvero l’idea preconcetta e totalmente infondata che il domani sarà migliore dell’oggi, che il progresso si muove dal bene al meglio, che arrestarsi e godere è un disvalore.
Certo, c’è della teleologia, ma ciò che conta adesso, per chi proviene da una nazione che, rispetto agli Stati Uniti d’America, avviati sulla via del benessere, è ancora una nazione arretrata (Adorno si stupiva della smania degli americani per i denti bianche e il dentifricio – Dialettica dell’illuminismo), ciò che adesso conta è mostrare che il capitalismo avanzato intercetta e ingloba anche la protesta.
Non c’è differenza tra un giovane che si ribella e il figlio del padrone – scrive Marcuse. Non c’è differenza tra un anarchico e un secondino. Le posizioni cosiddette anti-sistema, nel capitalismo avanzato, non sono svanite, al contrario. Vi è una profusione di Zen, di esistenzialismo, di giovani arrabbiati ecc. Ma tali forme di protesta e di trascendenza non contraddicono più lo status quo e non hanno più carattere negativo. Esse sono piuttosto la parte cerimoniale del comportamentismo pratico, la sua negazione innocua, e sono prontamente assimilate dallo status quo come parte della sua dieta igienica [34].
Anche la lingua e la letteratura hanno perso il loro potere di trascendenza. Il linguaggio tende a esprimere e a promuovere l’identificazione della ragione col fatto. La lingua diventa strumento, veicolo, mezzo di comunicazione di massa e di pubblicità. La parola rispecchia, riporta, rappresenta. Non evoca, diventa cliché, e con un continuo martellamento viene conficcata nel cervello dell’ascoltatore.
Il capitolo centrale del libro è il secondo, in esso viene presentata e dimostrata la tesi dell’omologazione.
La tesi è la seguente: il capitalismo avanzato ha messo in moto una graduale elisione delle differenze tra la popolazione in tuta e quella col colletto bianco, tra la direzione e la proprietà aziendale e i sindacati, tra il domicilio privato e l’opinione pubblica, tra la camera da letto e i mezzi di comunicazione, tra la destra e la sinistra.
Omologazione vuol dire abolizione delle differenze.
La dimostrazione della tesi è semplice ed elegante, ed è ripresa da una pagina dei Grundrisse di Marx.
In questa pagina Marx scrive che via via che la grande industria si sviluppa [Marx scrive tra il 1857-58!], la creazione di ricchezza reale dipende meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro erogata che dalla potenza delle macchine messe in moto durante il tempo di lavoro. Il lavoro umano allora non appare più racchiuso nel processo di produzione; l’uomo si collega al processo di produzione come sorvegliante e regolatore. Il fondamento della produzione e della ricchezza non è più il lavoro compiuto dall’uomo, né il suo tempo di lavoro. Da questo momento il lavoro apparirà come una misera base a confronto della nuova base che la grande industria ha creato. Non appena il lavoro dell’uomo cessa di essere la fonte della ricchezza, il tempo di lavoro casserà di essere la sua misura.
Si tratta dell’automazione.
L’automazione, commenta Marcuse, rivoluziona la società intera. L’immensa ricchezza accumulata nelle macchine permette di spezzare le catene che legano il lavoratore alla macchina. L’automazione integrale della produzione permette la trascendenza verso una nuova e più giusta società.
Questa trascendenza è già in atto. L’omologazione è la negazione delle differenza. Gli operai vengono espulsi dalle fabbriche, vengono negati dal capitalismo avanzato, vengono gettati per strada e assimilati a tutto il resto dell’umanità. Vengono a trovarsi in quella posizione ideale tale che i loro interessi particolari rappresentano gli interessi di tutti.
Da qui gli Autonomi traggono l’idea di Operaio Sociale.
Gli operai di fabbrica, negati dal capitalismo avanzato, espulsi dalla fabbrica, sono nella posizione giusta per negare, a loro volta, il capitalismo avanzato. Negazione della negazione.
La negazione, spiega Marcuse, esiste prima del mutamento, e la nozione che le forze storiche liberatrici si sviluppano entro la società costituita è una pietra angolare della teoria marxista [43]. Gli schiavi devono essere liberi per la loro liberazione prima di poter diventare liberi, e che il fine deve già operare nei mezzi disposti per raggiungerlo [60]. Inutile notare qui una dose massiccia di teleologia.
Nonostante la trascendenza resa possibile dall’automazione, Marcuse ritiene che lo spazio interno della negazione (della negazione) – il solo in cui possa attuarsi la pratica storica della trascendenza – è escluso (è inglobato) da una società in cui i soggetti come gli oggetti costituiscono strumenti in un tutto.
Si abbandona Hegel, per teorie più suggestive (Adorno, Heidegger).
Se la trascendenza è già in atto, non si può non notare come il capitalismo avanzato faccia di tutto per inglobarla. Prendiamo i prezzi. La pubblicità, le relazioni pubbliche, l’obsolescenza pianificata, il marketing, il pakaging, eccetera, sono tutte mosse per controllare la perdita incontrollata di valore delle merci. Tutte queste manovre di recupero della svalorizzazione del capitale mettono in discussione la trascendenza. Riescono a recuperare e integrare il momento negativo di svalutazione del capitalismo.
Fintando che si procede con questo recupero, scrive Marcuse, non vi è alcuna ragione di insistere sull’autodeterminazione e sul superamento della società amministrata del capitalismo avanzato. Quando la vita amministrata è così confortevole, è anzi la buona vita, non ci sono troppe ragioni per desiderare che finisca.
Se questo è il terreno sul quale bisogna misurarsi, se il capitalismo riesce a omogeneizzare le forze che cercano di trascenderlo, allora bisogna rinunciare alla dialettica e al suo metodo, e immaginare una trascendenza che venga dall’esterno.
Su questo terreno, scrive Marcuse, le forze trascendenti che esistono entro la società sono bloccate, e un mutamento appare possibile soltanto come mutamento proveniente dall’esterno.
Se gli individui sono soddisfatti, al punto d’esser felici, dei beni e dei servizi loro offerti dall’amministrazione, perché mai dovrebbero insistere per avere istituzioni differenti capaci di produrre in modo differente beni e servizi differenti?
Il mutamento introdotto dall’automazione (mutamento nella composizione organica del capitale) cambia l’atteggiamento dei lavoratori, produce quella che Marcuse chiama integrazione sociale e culturale.
L’operaio viene integrato nel sistema.
Questa integrazione, dice Marcuse, si nota nei lavoratori quando questi manifestano il vivo desiderio di partecipare alla soluzione dei problemi produttivi della fabbrica; quando mostrano il desiderio di impegnarsi attivamente per applicare il proprio cervello in problemi tecnici e produttivi; quando si impegnano a trovare e suggerire soluzione per aumentare gli investimenti e la produttività.
La classe lavoratrice, dice Marcuse [50], non appare più come la contraddizione vivente della società costituita.
In tutto ciò i sindacati (tutti i sindacati) sperimentano una nuova impotenza. Negli anni Cinquanta un dirigente della United Automobile Workers si lamenta del fatto che l’azienda offre ai lavoratori tutte le cose per cui, dice, noi sindacalisti abbiamo combattuto. Quel che ci occorre, dice, è di trovare altre cose che il lavoratore vuole ma che il padrone non ha voglia di dargli. Stiamo cercando.
L’omologazione attira a sé ogni cosa. È totalizzante.
L’antagonismo sociale e culturale viene risucchiato. I nuclei di opposizione vengono distrutti. La letteratura, la musica, la pittura, non sono negati, sono ridotti ad un denominatore comune – la forma merce.
La parola chiave è mercificazione.
Tutto viene mercificato. Ogni istanza negativa viene monetizzata. Tutto viene comprato.
Sindacati venduti è uno slogan ripetuto a pappagallo e ripreso dall’Uomo a una dimensione.
Se negli anni Settanta Pasolini viene sbeffeggiato da Dedalus (Umberto Eco) e da Calvino, accade proprio perché ripeteva a pappagallo.*
La dimostrazione che Marcuse fornisce di questo slogan è al quanto discutibile.
Eccola.
Ai giorni nostri l’aspetto nuovo è l’appiattirsi dell’antagonismo tra cultura e realtà sociale. La cultura viene assorbita dalla realtà quotidiana. I nuclei di opposizione (la cultura) vengono depotenziati, gli elementi di estraneità e trascendenza contenuti nell’alta cultura, in virtù dei quali essa costituisce un’altra dimensione della realtà, sono liquidati dal capitalismo avanzato. Sono monetizzati, sono comprati, riprodotti in serie e venduti sul mercato.
Nel momenti in cui le parole ispirate dell’alta cultura sono pronunciate sugli schermi televisivi, sui palcoscenici e alla radio, esse si trasformano in suoni insignificanti che traggono significato solamente dal contesto in cui si mescolano propaganda, affari, disciplina e rilassamento.
Mentre un tempo questa parola auratica risiedeva incontaminata e non-riprodotta nell’intimità dell’anima, adesso, il capitalismo avanzato, la costringe a sloggiare dal luogo ameno e la perverte reificandola. Mentre un tempo personaggi della letteratura come l’artista, la prostituta, l’adultera, il gran criminale senza patria, il brigante, il poeta ribelle, il diavolo, l’idiota – tutti coloro che non lavoravano per vivere, almeno non in modo ordinato e normale – mantenevano la loro carica sovversiva. Oggi, scrive Marcuse, queste figure hanno perso tutta la loro carica negativa. La donna fatale, l’eroe nazionale, il beatnik, la casalinga nevrotica, il gangster, svolgono una funzione assai differente da quella dei loro predecessori, e anzi contraria. Non sono più immagini di un altro modo di vita, e servono a affermare piuttosto che a negare l’ordine costituito.
Il mondo dei loro predecessori, continua Marcuse, era certo un mondo arretrato, pretecnologico, un mondo pienamente consapevole della disuguaglianza e della fatica, dove il lavoro era ancora una funesta sfortuna, ma dove l’uomo e la natura non erano ancora organizzati come cose e strumenti. Questa cultura del passato esprimeva il ritmo ed il contenuto di un universo in cui valli e foreste, villaggi e locande, nobili e contadini, saloni e corti facevano parte della realtà conosciuta. Nel verso e nella prosa di questa cultura pretecnologica vi è il ritmo di coloro che vanno a zonzo o viaggiano in carrozza, che hanno il tempo ed il piacere di pensare, di contemplare, sentire e narrare.
È una cultura invecchiata e superata, che può riprender vita solamente in sogni e regressioni infantili. In alcuni dei suoi elementi decisivi, tuttavia, essa è pure una cultura post-tecnologica. Le immagini tradizionali dell’alienazione artistica sono in effetti romantiche nella misura in cui sono esteticamente incompatibili con la società che si va sviluppando. L’essere incompatibili con questa è il segno della loro verità [79].
Qui c’è tutto Pasolini.
Il capitalismo avanzato, dice Marcuse, ha eliminato nell’arte contemporanea la forza sovversiva, il contenuto distruttivo – la verità. Le opere d’arte diventano beni e servizi a tutti familiari. I contenuti antagonistici sono assorbiti. Un tempo la narrativa rovesciava l’esperienza quotidiana e mostrava come questa era falsa e mutilata. Possedeva il potere negativo di confutare l’ordine costituito. Rappresentava il Grande Rifiuto. Il Salone, il Concerto, l’Opera, il Teatro erano progettati per creare ed invocare un’altra dimensione della realtà.
Il capitalismo avanzato assorbe il Grande Rifiuto. Le opere nate della contestazione sono incorporate in questa società e circolano come parte integrante dell’attrezzatura che adorna lo stato di cose prevalente e ne illustra la psicologia. Diventano strumenti pubblicitari – servono a vendere, a confortare o a eccitare.
Tutti oggi, scrive Marcuse [84], possono accedere alle belle arti. Basta girare la manopola, o mettere piede nel supermercato. Nel corso di tale diffusione, tuttavia, le opere diventano ingranaggi di una macchina. La tecnologia – la riproduzione in grande scala – assorbe il nucleo che resisteva all’integrazione.
Quando città e autostrade e parchi nazionali prendono il posto di villaggi, valli e foreste, quando i motoscafi sfrecciano sui laghi e gli aeroplani tagliano i cieli, allora questi luoghi perdono il loro carattere di luoghi di contraddizione, diventano familiari, diventano oggetti di consumo, non suscitano alcuno stupore, alcuna trascendenza, alcuna contraddizione e negazione. Da oggetti erotici diventano oggetti di piacere. Da oggetti oscuri che suscitano il Negativo si trasformano in oggetti positivi, che soddisfano, divertano e saziano.
L’assorbimento del Negativo viene operato dalla società dei consumi. La conquista e l’unificazione degli opposti, che trova il suo coronamento nella trasformazione dell’alta cultura in cultura popolare, ha luogo su una base materiale di accresciuta soddisfazione. Questa è pure la base che permette di realizzare una travolgente desublimazione.
Se l’arte è sublimazione, la pop-arte è de-sublimazione.
L’arte erotizza il mondo, ma non ne può godere. La pop-art de-erotizza il mondo e gode.
Procurarsi piacere, divertirsi, gioire, de-sublima, non va bene – non suscita il Negativo.
Il mondo romantico pre-borghese era intriso di miseria, fatica e sudiciume, scrive Marcuse, ma questa miseria e sudiciume costituivano lo sfondo di ogni gioia. Esso consentiva il dischiudersi di un mondo libidinale che oggi non esiste più. L’inaccessibilità dei luoghi e dei piaceri erotizzava l’esperienza. Oggi che questi luoghi sono accessibili e offerti a prezzi stracciati l’esperienza erotica lascia il posto ad un piacevole consumo, che disseta anche in assenza della voglia di bere.
È questo, dice Marcuse, il nocciolo di verità contenuto nel contrasto romantico tra il viaggiatore moderno e il poeta o l’artigiano ambulante, tra linea di montaggio e artigianato, cittadina e metropoli, pane fatto a macchina e pane fatto in casa, barca a vela e fuoribordo, ecc.
Vuoi mettere, scrive Marcuse, scopare in un prato anziché in un’automobile, durante una passeggiata fuori le mura piuttosto che in una strada di Manhattan! Nel primo caso, dice sempre Marcuse, l’ambiente partecipa all’investimento erotico, tutto si erotizza, persino l’erba. In un ambiente meccanizzato e totalmente artificiale l’esperienza diventa meno polimorfa, meno capace di assumere forme erotiche che vadano al di là di un erotismo genitale.
Il capitalismo avanzato suscita un grado più elevato di libertà sessuale. Il corpo, senza che cessi di essere uno strumento di lavoro, può esibire i propri aspetti sessuali, anzi, li deve esibire, come forma di promozione e di marketing. Il sesso è integrato nelle relazioni di lavoro come nelle relazioni pubbliche.
Mentre nell’esperienza romantica – si pensi a Cime tempestose – l’erotismo era mediato, assoluto, alieno da ogni compromesso, addirittura impossibile, e in quanto impossibile, votato a una negatività che metteva in gioco persino la vita. In contrasto, scrive Marcuse, il coito della società dei consumi, la sessualità de-sublimata che imperversa in Lolita, in Un tram che si chiama desiderio, in tutte le orge Hollywoodiane e newyorchesi, come nelle avventure di massa suburbane,   è infinitamente più realistico, audace, privo di inibizioni. Fa parte integrante della società e si confonde con l’ambiente, ma non è mai la sua negazione. Ha perso ogni potere di trascendenza. Quel che succede, scrive Marcuse, è certo folle e osceno, virile e piccante, affatto immorale – e appunto per questo è perfettamente innocuo [96].
Questo desiderio smisurato di Marcuse di sputare su Hegel, di sbarazzarsi del Negativo (Negativo che non funziona più come Negazione della Negazione), ha sicuramente a che fare con Heidegger e Adorno, ma deriva la sua forza dalla sociologia americana, anche perché sia in Heidegger, sia in Adorno, il negativo rimane un punto centrale della riflessione. Si può dire che Marcuse condisca il suo sociologismo americano con dosi di Adorno e Heidegger, tratte dalla Dialettica negativa, da Sentieri interrotti, e da altre riflessioni di Heidegger sulla Metafisica. Qui non è il caso di mostrare i legami – per altro espliciti – trai i testi di Heidegger e l’Uomo a una dimensione, e nemmeno notare la forte torsione applicata a questi testi per farli aderire ad un umanismo che non si trova in Heidegger. Basti notare come le prime e ultime parole del libro delineano un quadro molto comune nel dibattito tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta del Novecento. Basti confrontare queste parole con qualche testo di di Carl Smith.
“La minaccia di una bomba atomica” – queste sono le prime parole di Uomo a una dimensione.
Si suscita l’atomica e il suo potere di annichilimento totalizzante mentre, allo stesso tempo, si richiamano le riflessioni di Heidegger sulla calcolabilità, sul principio di ragione, sull’atomica, sul grande e potente principio del fondamento che va fornito e che sottrae all’uomo odierno il radicamento nella sua terra [Heidegger, Il principio di ragione].
Nell’ultima pagina dell’Uomo a una dimensione si legge quanto segue: “Le tendenze totalitarie della società unidimensionale rendono inefficaci le vie e i mezzi tradizionali di protesta; forse persino pericolosi, perché mantengono l’illusione della sovranità popolare. Questa illusione contiene qualche verità: il popolo, un tempo lievito del mutamento sociale, è salito, sino a diventare il lievito della coesione sociale. Tuttavia, al di sotto della base popolare conservatrice vi è il sostrato dei reietti e degli stranieri, degli sfruttati e dei perseguitati di altre razze e di altri colori, dei disoccupati e degli inabili. Essi permangono al di fuori del processo democratico; la loro presenza prova come non mai quanto sia immediato e reale il bisogno di porre fine a condizioni ed istituzioni intollerabili. Perciò la loro opposizione è rivoluzionaria anche se non lo è la loro coscienza. La loro opposizione colpisce il sistema dal di fuori e quindi non è sviata dal sistema; è una forza elementare che viola le regole del gioco, e cosi facendo mostra che è un gioco truccato. Quando si riuniscono e scendono nelle strade, senza armi, senza protezione, per chiedere i più elementari diritti civili, essi sanno di affrontare cani, pietre, e bombe, galera, campi di concentramento, persino la morte. La loro forza si avverte dietro ogni dimostrazione politica per le vittime della legge e dell’ordine. Il fatto che essi incomincino a rifiutare di prendere parte al gioco può essere il fatto che segna l’inizio della fine di un periodo”.
Pasolini + Toni Negri.
Più Heidegger, più Carl Schmitt.
Non bisogna aspettare di salire sulla torre per notare che non c’è più differenza tra poliziotti e manifestanti, tra sindacati e padroni, tra operai e disoccupati, tra marioli e benpensanti, ci aveva già pensato Heidegger, ci aveva pensato Schmitt nel Nomos della terra, dove scrive [418] che l’industrializzazione della guerra – l’aereo – annulla la distinzione tra le superfici, annulla la chiara contrapposizione tra i nemici. La nostalgia per un mondo che non c’è più e la strafottenza del mondo nuovo si legge nell’esilio del vecchio Kaiser Guglielmo II, umiliato a Versailles dagli americani.

————-
* In un Corsivo sul Corriere della Sera del 21 gennaio 1975 – Le ceneri di Malthus – Eco si beffa di Pasolini e della sua posizione anti-abortista. Intanto, dice Eco, nella posizione anti-abortista di Pasolini non è dell’aborto che bisogna discutere ma del Coito, il quale, a causa dell’oppressione e della repressione fascistico-consumistica, è sempre imposto come coito tra uomo e donna: e allora è naturale che nascano i bambini. Ma, continua la lettura dissacrante di Eco, se si ammettesse e si propagandasse il coito tra uomo e uomo o tra donna e donna il problema dell’aborto non esiterebbe.
Nel suo intervento Pasolini (Scritti corsari) non parla mai di omosessualità, parla di pratiche sessuali altre, e sicuramente, in modo del tutto approssimativo, fa riferimento all’erotismo polimorfo di Marcuse, alla desublimazione dell’eros e al sesso al tempo del consumismo. Ma proprio perché il riferimento a Marcuse è al quanto criptico (certo non per Eco, che conosceva sicuramente il libro di Marcuse Eros e Civiltà) Eco può beffarsi della sparata di Pasolini sul modo di praticare il sesso in un altro modo. In più, Eco approfitta dell’equivoco (equivoco creato da Eco stesso, anche se Pasolini ci ha messo del suo) tra pratiche diverse e omosessualità per deride l’altro tema proposto da Pasolini (e ripreso pari pari da l’Uomo a una dimensione), ovvero il controllo delle nascite per motivi ecologici (da qui il titolo – anch’esso una parodia – Le ceneri di Malthus – il riferimento è al teorema di Malthus sulla crescita in progressione geometrica della popolazione, rispetto alla crescita, meno sostenuta, delle risorse alimentari).
Anche la Polemica con Calvino – l’altro postmodernista italiano – è forte. In un articolo del Corriere – Sade è dentro di noi (Pasolini, Salò) – del 30 novembre 1975, Calvino rimprovera, giustamente, a Pasolini di criticare duramente la società – ma dalla Luna. Pasolini, dice Calvino, non prende mai in considerazione la corruzione che c’è nel mondo del cinema. Non prende mai in considerazione che lui stesso, quando si aggira per le borgate romane, non è più un povero tra i poveri. Oggi, dice Calvino, che i film gli hanno reso una fama indiscussa in patria e all’estero (soprattutto all’estero) Pasolini non può girare per le borgate romane senza che i sottoproletari che amava frequentare lo riconoscano subito come il famoso e ricco regista, e senza che tra lui e gli altri si profili l’ombra del denaro, della prostituzione, del ricatto [Su Pasolini: una risposta a Moravia, Corriere della sera, 10 dicembre 1975].
Tutte queste implicazioni, scrive Calvino, compresa la capacità della società attuale di deformare e guastare quella genuinità che Paolini cercava, non vengono minimamente tematizzate da Pasolini.
Pasolini parla di un Potere, un potere che più cerca di determinare storicamente più si fa astratto e generico, e accusa il mondo intero di lasciarsi corrompere e di corrompere, tranne se stesso.
Il Film su Sade è totalmente sbagliato – dice Calvino. Sade pone al centro del suo libro la corruzione e il denaro. Mentre Pasolini, del tutto fuori tema, associa il sadismo al fascismo. Se non ha toccato il tema del denaro e del potere, dice Calvino, è per via della sua ambigua situazione personale. Per la parte che il denaro aveva preso nella sua vita, da quando era diventato un cineasta di successo. Se ha dovuto virare verso la denuncia della violenza politica oggi, e ha fatto di Sade un impiego ai fini d’una prevedibile polemica sociale, ha sbagliato, ha fatto poca cosa. Certo, dice Calvino, è sempre d’attualità il sadismo degli apparati di repressione, in un mondo in cui molti paesi praticano ancora la tortura. Ma, nonostante ciò, Pasolini ha mancato di far notare le connessioni tra il potere, il denaro e il sadismo. Sarebbe bastato riconoscersi per un momento nel mondo che egli accusa, per far trovare al film una misura e una linea.
La lettura di Sade da parte di Calvino è del tutto fuori luogo, e l’accostamento di Sade al fascismo è più che giustificato dalle nuove letture del Sadismo che si affermarono nel dopoguerra, a partire da quella proposta da Adorno in Dialettica dell’illuminismo (Lautréamont e Sade, Blanchot, 1949; Madame de Sade, Mishima 1965).
I vizi privati, scrive Adorno, in Sade, sono la storiografia anticipata delle virtù pubbliche dell’era totalitaria. Il fatto di non aver mascherato, ma proclamato ad alta voce l’impossibilità di produrre, in base alla ragione, un argomento di principio contro l’assassinio, ha alimentato l’odio di cui proprio i progressisti perseguitano ancora oggi Sade e Nietzsche. Diversamente dal positivismo logico, l’uno e l’altro hanno preso in parola la scienza. La loro insistenza sulla ratio, ancora più decisa di quella del positivismo, ha il senso segreto di liberare dal bozzolo l’utopia che è racchiusa, come nel concetto kantiano di ragione, in ogni grande filosofia: quella di un’umanità che, non essendo più deformata essa stessa, non ha più bisogno di deformazioni. Proclamando l’identità di ragione e dominio, le dottrine spietate sono più pietose di quelle dei lacchè della borghesia.
Come si vede, l’idea molto tradizionale del sadismo come tecnica di repressione, come crudeltà praticata da persone o apparati cattivi o perversi è poca cosa, di fronte alle lettura di Adorno che associa Sade a Kant e all’illuminismo, e l’illuminismo e Kant al totalitarismo della società neo-borghese (o alle letture di Blanchot e Mishmia che associano Sade a Bodin e alla Sovranità).
 

Articoli consigliati