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Il 9 Settembre 1970, su un numero speciale, Il Manifesto pubblica le Tesi con le quali intende aprire una fase costituente tra tutte le forze rivoluzionarie e proporre una piattaforma per l’unità della sinistra rivoluzionaria.
La necessità di un nuovo partito nasce da due spinte: 1) la necessità di staccarsi dall’Unione Sovietica, avviata a formare con gli Usa un unico blocco imperialista; 2) evitare di essere catturati dal riformismo del PCI e del PSIUP pienamente inseriti nel sistema.
Il terreno sul quale il nuovo partito dovrà posizionarsi sarà quello dei Nuovi Bisogni, dei consumi sociali, della casa e della salute, della scuola, del movimento studentesco, della contestazione femminista dei ruoli, senza dimenticare, ovviamente, il terreno dei bisogni più tradizionali della lotta antimperialista, della pressione sul salario, della riduzione dell’orario di lavoro e dello straordinario, dell’estensione degli organismi elettivi.
Le Tesi contengono elementi di riflessione molto interessanti. Raccolgono e riassumono temi prodotti nella sinistra italiana a partire dalla fine della anni Cinquanta: New Deal, Fabbrica diffusa, lavoro produttivo vs lavoro improduttivo, femminismo, eccetera. Assumono pienamente anche le indicazioni che vengono dal nuovo marxismo influenzato dalla lettura dei Grundrisse, dalla Scuola di Francoforte, da Marcuse.
In particolare, nella Tesi 72, viene integrato un tema caro a Marcuse e ripreso da un passo dei Grundrisse destinato a diventare arci-famoso – un pensiero-guida.
Nel 1967 appare la traduzione italiana dell’Uomo a una dimensione. Il 25 maggio del 1968 Einaudi stampa la 7 edizione.
A pagina 55 Marcuse piazza – integralmente – il passo dei Grundrisse: Il fondamento della produzione della ricchezza non è più il lavoro immediato compiuto dell’uomo, né il suo tempo di lavoro, bensì l’appropriazione della sua forza produttiva universale, del suo sviluppo come individuo sociale. Il furto del tempo di lavoro di un uomo, su cui la ricchezza riposa ancora oggi, appare allora come una ben misera base a confronto della base che la grande industria ha creato.
Marcuse legge assiduamente Temps Modernes (e probabilmente anche i Quaderni Rossi, dove queste riflessioni erano molto avanzate), segue Mallet, riversa nell’Uomo a una dimensione gli articoli sull’automazione nelle grandi industrie francesi, nel settore petrolifero e petrolchimico, nella chimica sintetica, nell’energia elettrica, nelle telecomunicazioni, nel settore avanzato dell’auto (Renault), nelle Ferrovie e nelle miniere di carbone.
L’introduzione dell’automazione, scrive Mallet, rende difficile distinguere tra funzioni di produzione e funzioni di controllo, dunque rende sempre più difficile distinguere tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo. Persino la distinzione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale assume caratteri più sfumati. La stessa natura del lavoro cambia. L’automazione, dice Mallet, elimina l’uomo dallo stadio della produzione degli oggetti. Questi vengono prodotti da altri oggetti, che sono di per se stessi capaci di rettificarsi, di correggere le proprie imperfezioni, e cioè di prodursi.
In questo contesto all’uomo rimane solo la funzione di motore immobile, di demiurgo, di elemento creatore, ma esterno al mondo della produzione, al quale partecipa soltanto con il Fiat iniziale.
Le macchine, una volta avviate, funzionano automaticamente, rifanno eternamente la stessa operazione, sostituendo la mano e persino il cervello dell’uomo.
Nella Tesi 72 viene ripreso lo stesso tema. Con l’ingresso massiccio della scienza e della tecnologia nella produzione lo sviluppo economico da estensivo diventa intensivo. La fonte decisiva della produzione allargata non è il lavoro umano diretto ma il patrimonio sociale delle conoscenze, fino a rendere possibile un’espansione costante della produzione attraverso un uso sempre più efficace del capitale costante dato. Trionfo del lavoro morto sul lavoro vivo. Fine della differenza tra lavoro produttivo e improduttivo.
Che cos’è allora il proletariato, se non è più produttore di valore (e plusvalore)?
La risposta è nella tesi 90. Nel capitalismo avanzato (CA), il proletariato non è identificabile con precisione. Non può essere identificato con i tradizionali operai di fabbrica, per il fatto che i confini della forza lavoro salariata si sono enormemente allargati; né definito come produttore di plusvalore, per il fatto che i confini tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo appaiono meno rigidi. Ma il concetto di proletariato rischia così di stemperarsi fino a significare tutto e nulla. In una società capitalistica avanzata il proletariato si costituisce come classe soprattutto attraverso la sua lotta, il suo rapporto con il rovesciamento del sistema. È quella parte della forza lavoro salariata che si erge contro i rapporti capitalistici di produzione. In verità, come si precisa nella Tesi 91, nella CA sono presenti due zone sociali che non si possono compiutamente definire come proletarie ma che sono decisive per la rivoluzione: gli intellettuali e i tecnici con funzioni di direzione e di ricerca, e le minoranze oppresse ai margini della società (le donne, gli emigranti, le minoranze razziali, i disoccupati). Il rapporto del proletariato con questi strati sociali non può essere quello tradizionale dell’alleanza. Questi strati non rappresentano un residuo del passato feudale e borghese [non sono lumpen], ma un prodotto specifico dello sviluppo capitalistico.
Il tema economico dell’operaista classico è subordinato al tema del conflitto, della lotta, della guerra, dello sconto. Prima viene lo scontro, il ribellismo, il rifiuto, il no – il resto si vede (strada facendo). Si trova qui quel ribaltamento ribellista che caratterizzerà le frazioni con più appeal della sinistra extraparlamentare italiana – Lotta Continua, Potere Operaio, Autonomia organizzata.
Sarebbe troppo lungo riprendere il discorso di Marcuse sui nuovi bisogni e sui falsi bisogni e mostrare, attraverso queste analisi, il legame delle figure marginali (disoccupati, borgataari, tifosi, femminismo, etc) – e del marginale in generale – con il CA.
Nelle Tesi 19, 20 e 21 si marca la differenza con i vecchi partiti comunisti e con il comunismo in generale (orientale e occidentale). Le cause della sconfitta della rivoluzione occidentale negli anni 20 vanno cercate, più che nel fascismo, nel successo del New Deal negli Stati Uniti. Il New Deal – il Welfare State (e il Warfare State) – ha sconfitto il comunismo storico attraverso il Neo-Capitalismo.
Il New Deal si è affermato in tutto l’Occidente, ignorato a lungo dai partiti comunisti, ma col quale alla fine essi dovranno fare i conti.
Il modello del Neo-Capitalismo (o capitalismo avanzato) fu caratterizzato da un impetuoso e continuo sviluppo delle forze produttive con estesa applicazione della scienza, crescente pianificazione degli investimenti, forte concentrazione del potere economico, sistematico utilizzo dello Stato come strumento di regolazione del ciclo e mediazione delle tensioni sociali, grande sviluppo dei consumi standardizzati di massa, crescente terziarizzazione dell’economia. Tutto ciò ha trasformato il terreno su cui ancora si trovavano i partiti comunisti tradizionali, i quali, o si attendevano una crisi catastrofica, sul modello del millenarismo, o una stagnazione e un declino graduale, ma sempre nello schema di un determinismo (scientifico) ineluttabile, inarrestabile.
Il mutamento introdotto dall’automazione cambia l’atteggiamento dei lavoratori, produce quella che Marcuse chiama integrazione sociale e culturale.
L’operaio viene integrato nel sistema.
Questa integrazione, dice Marcuse, si nota nei lavoratori quando questi manifestano il vivo desiderio di partecipare alla soluzione dei problemi produttivi della fabbrica; quando mostrano il desiderio di impegnarsi attivamente per applicare il proprio cervello in problemi tecnici e produttivi; quando si impegnano a trovare e suggerire soluzione per aumentare gli investimenti e la produttività.
La classe lavoratrice, dice Marcuse [50], non appare più come la contraddizione vivente della società costituita.
In tutto ciò i sindacati (tutti i sindacati) sperimentano una nuova impotenza. Negli anni Cinquanta un dirigente della United Automobile Workers si lamenta del fatto che l’azienda offre ai lavoratori tutte le cose per cui, dice, noi sindacalisti abbiamo combattuto. Quel che ci occorre, dice, è di trovare altre cose che il lavoratore vuole ma che il padrone non ha voglia di dargli. Stiamo cercando.
L’omologazione attira a sé ogni cosa. È totalizzante.
L’antagonismo sociale e culturale viene risucchiato. I nuclei di opposizione vengono distrutti. La letteratura, la musica, la pittura, non sono negati, sono ridotti ad un denominatore comune – la forma merce.
La parola chiave è mercificazione.
Tutto viene mercificato. Ogni istanza negativa viene monetizzata. Tutto viene comprato.
Sindacati venduti è uno slogan ripetuto a pappagallo e ripreso dall’Uomo a una dimensione.
Si abbandona Hegel per teorie più suggestive (Fenomenologia, Esistenzialismo, Teoria Critica).
Se la trascendenza è già in atto, non si può non notare come il capitalismo avanzato faccia di tutto per inglobarla. Prendiamo i prezzi. La pubblicità, le relazioni pubbliche, l’obsolescenza pianificata, il marketing, il pakaging, eccetera, sono tutte mosse per controllare la perdita incontrollata di valore delle merci. Tutte queste manovre di recupero della svalorizzazione del capitale mettono in discussione la trascendenza. Riescono a recuperare e integrare il momento negativo di svalutazione del capitalismo.
Fintando che si procede con questo recupero, scrive Marcuse, non vi è alcuna ragione di insistere sull’autodeterminazione e sul superamento della società amministrata del capitalismo avanzato. Quando la vita amministrata è così confortevole, è anzi la buona vita, non ci sono troppe ragioni per desiderare che finisca.
Se questo è il terreno sul quale bisogna misurarsi, se il capitalismo riesce a omogeneizzare le forze che cercano di trascenderlo, allora bisogna rinunciare alla dialettica e al suo metodo, e immaginare la trascendenza come esterna al sistema, come evento, come decisione, come performance, come salto.
Su questo terreno, scrive Marcuse, le forze trascendenti che esistono entro la società sono bloccate, e un mutamento appare possibile soltanto come mutamento proveniente dall’esterno.
Se gli individui sono soddisfatti, al punto d’esser felici, dei beni e dei servizi loro offerti dall’amministrazione, perché mai dovrebbero insistere per avere istituzioni differenti capaci di produrre in modo differente beni e servizi differenti?
Poi ci sono i falsi bisogni.
Non sono bisogni propriamente imposti. Sono bisogni suscitati, generati al fine di garantire il perpetuarsi del sistema che li suscita. Può darsi che l’individuo trovi estremo piacere nel soddisfarli (qui appare la funesta formula secondo cui Si produce anche quando si consuma).
Il risultato dei Falsi Bisogni è un’euforia nel mezzo dell’infelicità [25].
Rilassarsi, divertirsi, viaggiare, vestirsi bene, amare, odiare, appartengono alla classe dei falsi bisogni.
Nei falsi bisogni rientra anche il bisogno ossessivo di produrre, consumare e sprecare (produci, consuma, crepa): 1) il bisogno di lavorare sino all’istupidimento, anche quando è evidente che la produttività del lavoro è alle stelle e lavorare non è più una necessità reale; 2) il bisogno di modi di rilassarsi.
Un falso bisogno è anche il Prezzo Amministrato: il bisogno di mantenere la finzione di prezzi concorrenziali quando è sotto gli occhi di tutti che i prezzi sono convenzionali. Oppure il bisogno di una stampa libera che si auto-censura; o la scelta libera di marche e aggeggi vari.
Il totalitarismo, per mezzo dei falsi bisogni e del potere di seduzione, produce un livellamento e una omogeneizzazione senza pari nella storia [28].
Se il lavoratore e il suo capo, scrive Marcuse, assistono al medesimo programma televisivo e visitano gli stessi luoghi di vacanza, se la dattilografa si trucca e si veste in modo altrettanto attraente della figlia del padrone, se il negro possiede una Cadillac, se tutti leggono lo stesso giornale, ne deriva che questa assimilazione indica la misura in cui i bisogni e le soddisfazioni che servono a conservare gli interessi costituiti sono fatti propri dalla maggioranza della popolazione.
Nella società del benessere, insomma, il capitalismo avanzato non viene soppresso. Nell’omologazione generalizzata, e grazie all’omologazione, il capitalismo avanzato si conserva, avanza verso il socialismo, conservandosi, si nega per andare avanti. E i partiti comunisti storici – il PCI italiano e il PCF francese – sono presi nella macina, sono parte del sistema. Sono arruolati dalla dialettica di crisi e investimenti, ristrutturazione e produttività, formazione e licenziamenti.
Solo un’azione estranea a questa ciclo può ribaltare il palazzo. Non il sindacato, con le sue premure lavoriste e le sue piattaforme, non i partiti di sinistra, assunti nella burocrazia, non l’operaio di fabbrica sedotto dal cnsumo. Solo chi è dentro il sistema, ma come un reietto, come un marginale, come una nullità, ha in sé il codice per far saltare il sistema, solo chi dice NO – un no senza contenuto – senza referenza – un no masochista – legge senza interesse – vuoto – può far saltare il sistema.
Poi le cose sono andate come sono andate – e il Manifesto è ancora lì a raccontare la rava e la fava.

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