Comunisti contro Kafka. Bataille

scarafaggio

I
 
Gregorio (Kafka, Le metamorfosi) era abituato a dormire sulla destra, ma non poteva, nelle sue attuali condizioni, mettersi in quella posizione. Cominciò a sentire nel fianco un dolore sottile e sordo.
O Dio, pensava, che professione faticosa ho scelto. L’affanno per il lavoro è molto più intenso che in un vero e proprio ufficio, e vi sono per giunta questa piaga del viaggiare, le preoccupazioni per le coincidenze dei treni, la nutrizione irregolare e cattiva. Le relazioni con gli uomini poi cambiano ad ogni momento e non possono mai diventare durature e cordiali.
Se fossimo semplice pensiero (un Io penso), se fossimo così come ci percepiamo, puramente semplici, tutto filerebbe liscio, ogni cosa si congiungerebbe all’altra, senza resto, e senza crisi. E invece, i treni fanno ritardo, le coincidenze saltano, una piccola alterazione, una metamorfosi qualsiasi, ci impedisce persino di dormine sul lato destro. A cambiare (ma è solo una finzione) non siamo noi, non è quell’Io penso che ci accompagna identico in ogni esperienza, e che perciò ci permette di sentire il tempo che passa, di identificare come gli stessi i treni che arrivano in ritardo, e di riconoscere i minuti mutamenti nel comportamento delle persone.
Per sentire servono le orecchie e gli occhi, per camminare le gambe, per mangiare la bocca e lo stomaco e tutte le schifose viscere che, insieme a tutto il resto, formano la carcassa animale che ci fa esistere. Un corpo animale, se esiste, esiste collegato a tutto il resto, non c’è un vero dentro e un vero fuori. L’aria che respiriamo è dentro o è fuori? La gravità che ci impedisce di essere dispersi nello spazio infinito è dentro o fuori? Il treno che vediamo passare, passa dentro o passa solo fuori? Sia come sia, per agire, per sentire, per vedere e toccare, per esistere, persino per pensare, bisogna diventare un individuo che esclude da sé tutti gli altri individui, bisogna diventare animale. Niente può garantire [Hyppolite, Il significato della rivoluzione francese in Hegel] che esso (l’animale) incarni la volontà dell’io penso: la differenza nei suoi confronti è dunque una regola. Esso non può agire giustamente, cioè universalmente, poiché ogni azione positiva, essendo la sua opera, esclude da sé tutto il resto: il fatto di essere un animale lo rende immediatamente colpevole.
Il problema dell’incarnazione affliggeva anche Rousseau. Come può la volontà di tutti (oppure il governo) incarnare la volontà generale? Come agire (entrare nella storia) senza fare torto a nessuno?
Questa è la ragione per cui, dice Hyppolite, durante la Convezione, il governo esiste come Fazione al potere. Ciò che si chiama governo è dunque solo la fazione vittoriosa e, nel fatto stesso di essere fazione, si trova immediatamente la necessità della sua caduta.
Dopo la fazione girondina, Robespierre prende il potere con una forza terribile e conserva lo Stato fino a quando la necessità lo abbandona a sua volta. Con questi mezzi, la Libertà assoluta (la giustizia) si è attualizzata, si è avverata, e la sua attualizzazione è il contrario di ciò che essa pretendeva di essere. Essa, dice Hyppolite, si concepiva come positiva, di fatto non è che la potenza negativa e la sua opera è solo la distruzione dell’individualità che è stata ridotta a se stessa. L’unica opera e operazione della libertà universale è perciò la morte e, più propriamente, una morte che non ha alcun interno ambito né riempimento [Negatività astratta].
Come il governo è sospetto per il solo fatto di essere al potere, così gli individui sono, per il governo, sospetti, non tanto per le loro azioni, quando per le loro intenzioni supposte (legge dei sospetti), per la loro diffidenza e le loro riserve nei confronti del potere che pretende di incarnare la volontà generale.
Poiché l’individuo si confonde con il cittadino, non esiste più un comportamento personale che possa sfuggire al controllo di una polizia incaricata di far regnare la virtù sulla terra.
La grande esperienza metafisica che si compie nel corso del 1794, dice Hyppolite, è l’esperienza della realizzazione completa della Libertà assoluta che stabilisce una nuova relazione tra la vita e la morte. Compare la democrazia integrale e dimostra di essere l’antitesi di ciò che pretendeva di essere: è il regime totalitario, nel senso letterale del termine, la democrazia anti-liberale, e lo è perché ha completamente assorbito l’uomo privato nel cittadino.
Il complemento diretto di ogni sistema operativo Rousseau è la colpevolezza apriori: l’esser colpevole per il fatto di essere diverso, cioè di esistere: là dove esser-diverso ed esistere sono la medesima cosa. L’annullamento di ogni differenza, il pareggiamento dei conti, l’arrivo dei treni in orario, la giustizia di Dio sulla terra, si avverano nelle teste mozzate – a cominciare dalla testa del sovrano (la morte di Craxi e mani pulite sono l’inizio di un tentativo di instaurare la democrazia assoluta). Quando questo avviene, nella rivoluzione francese, la coscienza fa esperienza ancora una volta di quanto sia devastante per essa la pretesa di valere, nella sua singolarità, immediatamente come universale, di saltare l’articolata mediazione degli stati particolari (corpi intermedi – aristocrazia), in cui si concreta l’operare di ciascuno al servizio della comunità, per procedere all’identificazione immediata della volontà del singolo con la volontà generale.
 
II
 
Gregorio si spaventò quando sentì la propria risposta: era indiscutibilmente la sua voce di prima, ma vi si mischiava, quasi salisse dal basso, un pigolio incontenibile, doloroso, che lasciava comprendere le parole soltanto in un primo momento, ma le confondeva poi talmente nell’eco da far dubitare di averle intese. Si affannò a togliere alla sua voce ogni anormalità, con la più accurata dizione e con l’intercalare lunghe pause fra le singole parole.
Quella mattina non era andato al lavoro. Il procuratore era dietro la porta della sua stanza in attesa di una giustificazione. Gregorio provò a immaginare se anche al procuratore non potesse succedere una volta qualcosa di simile a quello che capitava a lui oggi: una tale possibilità veramente bisognava pure ammetterla.
«Questa era la voce di un animale» disse il procuratore.
Dunque non si comprendevano più le parole di Gregorio, benché a lui fossero sembrate abbastanza chiare. Per procurarsi una voce possibilmente chiara per le prossime decisive conversazioni, tossì poco, sempre affannandosi a far ciò quasi sottovoce perché forse anche questo rumore suonava diversamente dal tossire degli uomini: egli stesso non si arrischiava più a giudicarlo.
A nascondere il suo stato, il fatto di esistere come quella cosa mostruosa e esteriore che era diventato, non era più sufficiente una dizione perfetta. Anche l’Io penso, che pensa se stesso nell’intimità della testa, vacillava, ogni certezza era revocata. L’animale aveva alterato anche l’istantaneità dell’Io = Io, della logica stessa. Almeno questo era il dubbio. Ma a levare il dubbio aveva provveduto il procuratore. Gregorio era davvero diventato un animale schifoso. Anche la sorella, entrava nella sua stanza senza preoccuparsi di chiudere la porta, correva dritta alla finestra e la spalancava di colpo, con mani frettolose, come se stesse per soffocare; anche quando era molto freddo ci rimaneva poco, respirando affannata.
«Se almeno ci comprendesse» disse il padre di Gregorio.
«Via, deve andare via» gridò la sorella «questo è l’unico mezzo, papà. Tu devi soltanto cercare di liberarti dal pensiero che sia umano. La nostra vera disgrazia è che noi l’abbiamo creduto così a lungo. Ma come può essere Gregorio? Se lo fosse, egli avrebbe da tempo ben compreso che non è possibile una vita comune di esseri umani con una simile bestia, e se ne sarebbe andato via spontaneamente. Noi non avremmo più un fratello, ma potremmo continuare a vivere e onorare la sua memoria. Così invece questa bestia ci perseguita, scaccia i turisti, vuole evidentemente occupare tutta la casa e mandarci a dormire per strada.
Gregorio ripensava alla sua famiglia con commozione e amore. La sua convinzione sul fatto che doveva scomparire, era forse ancora più decisa di quella della sorella. Rimase in questo stato di meditazione vuota e tranquilla sinché l’orologio della torre non scoccò le tre di notte. Visse ancora tutto il tempo che il cielo mise a rischiararsi fuori dalla finestra, poi il suo capo senza volere si chinò, e debolmente gli sfuggì dalle narici il suo ultimo respiro.
 
III
 
Come si giustifica l’ostilità dei comunisti per Kafka? chiede Bataille.
Si può scorgere nel Processo l’epopea dell’accusato nell’era burocratica o nel Castello l’epoca dell’uomo inattivo, o dell’ebreo perseguitato – come fa Michel Carrouges*. Si possono accostare questi racconti ossessionanti a L’universo concentrazionario di Rousset**, e non è proprio del tutto ingiustificato, dice Bataille.
Una volta fatti questi accostamenti, canonici nella lettura di Kafka, Carrouges passa a esaminare l’ostilità Comunista.
Sarebbe stato facile, dice Carrouges, liberare Kafka da ogni accusa di essere un controrivoluzionario. Bastava ammettere che egli, come altri, si è limitato a rappresentare l’inferno capitalista.
L’atteggiamento di Kafka, aggiunge Carrouges, è odioso a tanti rivoluzionari, non perché esso non mette in causa esplicitamente il burocrate e la giustizia borghese (tale aggiunta l’avrebbero fatta volentieri i rivoluzionari stessi): questo atteggiamento mette in causa ogni burocrazia ed ogni pseudo giustizia.
Forse, dice Bataille, Kafka voleva porre in questione talune istituzioni, alle quali dovremmo sostituire altre meno inumane?
Kafka sconsiglia forse la rivolta? chiede Carrouges. Di certo né la sconsiglia né la esalta. Constata solo che l’uomo è schiacciato: al lettore trarne le conseguenze.
E tuttavia, come non rivoltarsi contro l’odioso potere che impedisce all’agrimensore di mettersi al lavoro?
Kafka accetta tutto. Il colpevole è lui stesso. La sua colpa d’esistere, d’essere lo schifose che è, l’ebreo, lo stolto, il balbuziente, non può essere tolta (non c’è Aufhebung) se non con la morte.
Allora hanno ragione i Comunisti. Hanno ragione nel dire di Kafka che sconsiglia la rivolta, che accolla al servo le colpe del padrone. E quando anche la sua fosse considerata come una fotografia esatta del terrore burocratico, l’immagine che restituisce è quella della rassegnazione: chinare la testa è la soluzione giusta.
Per il Comunista, invece, passare all’azione è un dovere.
Ma l’azione, obietta Bataille, è anticipazione e calcolo, è attività efficace. E il calcolo è sempre subordinato, l’azione è sempre azione subordinata, avendo un significato servile inerente alla ricerca dei risultati. Dunque, se non ci si vuole sottomettere ad un altro padrone, non rimane che chinare la testa.
 
IV
 
I modi di affidarsi alla morte non sono tutti uguali: perdere la particolarità, smettere di puzzare, perdere l’accento, sfigurarsi, accedere all’universale; varcare la soglia, entrare nella legge, sottrarsi all’esistenza, sottrarsi al tempo.
Come ci si sottrae al tempo che scorre?
Morendo.
Se il tempo è inteso in quanto tempo empirico, se è inteso come il mio tempo, se è inteso come un fiume che mi trascina, ma sono io il fiume, una tigre che mi sbrana, ma sono io la tigre, un fuoco che mi divora, ma sono io il fuoco (Borges); se il tempo lo si intende a partire dall’io-sono-di volta-in-volta-diverso, allora, dice Heidegger (Il concetto di tempo), come si fa a conoscere (a sottrarsi) questo essere (questo essere che è tempo) prima che sia giunto alla sua fine?
Nel mio esistere, dice Heidegger, io sono sempre «ancora in cammino». Rimane sempre qualcosa che non è arrivato ancora alla fine. Rimane sempre ancora una possibilità, una possibilità che concluderà e cambierà definitivamente questo stesso essere. Finché non si pone la parola fine a questo cammino, non si può mai arrivare ad alcun dunque. Si rimane nell’indeterminazione, nel relativismo, nell’incertezza, nel dubbio.
In più, dice Heidegger, alla fine, quando vi si è giunti, esso (questo esistere) non è più. Prima di questa fine, esso non è mai propriamente ciò che può essere; e se lo è, allora non è più.
L’esistenza (che è nel tempo ed è tempo) la si può conoscere, e dunque giudicare, solo alla fine del suo tempo (post-mortem), cioè quando ormai non ha più tempo per conoscersi.
Come uscire da questa aporia?
La mia morte non è qualcosa per cui a un certo momento un decorso continuo (io-sono-di volta-in-volta-diverso) di colpo si arresta, bensì, dice Heidegger, una possibilità di cui in ogni caso il Dasein sa: è l’estrema possibilità di se stesso, che egli può cogliere e fare propria come imminente.
La morte è l’estrema possibilità, è l’ultima possibilità, la possibilità che pone fine ad ogni altra possibilità. In più, questa possibilità (in quanto possibilità) è certa, e questa certezza è imminente, ed è caratterizzata da una completa indeterminatezza.
Io so che morirò, ne sono certo, potrei morire anche in questo istante, perché ogni istante è buono per morire.
Che significa tutto ciò per la questione del tempo e per la questione dell’esistenza come tempo? chiede Heidegger.
Il Dasein sa, anche quando non vuole saperne niente, della sua morte.
Che cos’è, chiede Heidegger, avere ad ogni istante la propria morte?
È un precorrimento, una precognizione del Dasein (esistenza) che va al suo non esser più, alla certezza della possibilità di non essere più.
Ma cosa distingue tutto ciò dall’agire secondo un fine del Comunista?
Il Dasein, dice Heidegger, è primariamente un essere possibile.
La possibilità della morte è l’impossibilità di ogni altra possibilità. In più, è una possibilità autentica, in quanto non diventa mai una presenza per il Dasein. È una possibilità che non diventerà mai realtà (presente) per il Dasein.
In quest’essere non più (possibilità della morte) il Dasein scopre il suo non essere qui. D’un tratto non è più qui, tra queste altre cose, con queste e queste altre persone, in queste vanità, in questi pretesti, eccetera. Il non più scaccia ogni brigare e ogni affaccendarsi, trascina tutto con sé nel nulla. Il non più (la possibilità della morte) non è un evento o una vicenda che capiti nella mia esistenza. Non è un «che cosa» che accada in essa, che le capiti e la modifichi.
Il non-più come possibilità rimane sempre nella sua possibilità, non diventa mai un evento. Non è una cosa che sta di fronte al Dasein.
Il non-più è il «come» del Dasein, il «come» autentico del mio Dasein.
Precorrendo questo non-più il Dasein si mantiene fermo nell’essere di volta in volta, il Dasein stesso diventa visibile in questo non-più.
Il Dasein, sempre «ancora in cammino», diventa visibile (fermo) in questo non-più – la possibilità della propria morte.
L’essere non-più (il futuro) – la possibilità più autentica del Dasein – diventa presente nel precorrimento. Il presente e il passato – il tempo – diventano possibili a partire dal futuro. Non si tratta di un futuro che è un presente posticipato.
Attenendomi nel precorrere, dice Heidegger, al mio non-più, io ho il tempo. Questo tempo non è un tempo eterno e non è un tempo misurabile. Non è un tempo che dà adito al non avere tempo, o all’avere tempo che non si sa come impiegare.
 
V
 
In Hegel c’è la morte dell’animale – in verità l’animale non muore veramente, si spegne, si esaurisce. Non c’è Aufhebung naturale. L’animale non ha altre possibilità in serbo, oltre quelle che consuma, e consuma senza riserva – non capitalizza. Quello che può essere, coincide perfettamente con quello che è. Non ha delle aspirazioni, delle voglie insoddisfatte, delle brame inconfessabili. Non cade in tentazione, non pecca. Per l’animale non si dà il possibile.
Poi c’è la morte del Padrone. Per il Padrone, invece, si dà sempre la possibilità di non essere, di morire. Pur se esistente, non ha ancora esaurito tutte le possibilità, ha, tra le altre, la possibilità di non essere o di essere qualcosa di diverso da quello che è. Conosce l’Intero della vita, come negazione di tutte le sue forme particolari – assoluta negatività: sapere della vita vera, ma, nello stesso tempo, sapere che questa vita vera è niente.
Infine, c’è la morte del servo. L’uomo è diventato Servo perché ha avuto paura della morte. Questa paura giustifica la sua dipendenza dalla Natura e dunque anche dal Padrone.
Rinunciando alla vita per provare che è un puro essere-per-sé, il Padrone sparisce semplicemente dalla scena, come l’animale.
Il Servo non può rinunciare completamente al suo essere-nel-mondo, a questa alterità senza di che non avrebbe nemmeno la potenza di negare o di negarsi. Deve trovare, nello stesso tempo, un modo per conservare la vita e la sua alterità, e negare questa alterità. Trovare una morte che non sia una morte biologica. Questa morte che non è una morte la trova nel lavoro. Nel lavoro, dice Hyppolite, il lavoratore imprime all’esser-altro, al mondo oggettivo, la forma dell’autocoscienza, ne fa un mondo umano, il suo mondo, e, al contrario, dà al proprio essere-per-sé, sempre negato, la consistenza e la stabilità dell’essere-in-sé. L’opposizione che talora esiste fra l’essere-in-sé e l’essere-per-sé è risolta dall’individualità che assume il proprio essere-altro e lo rifà secondo la forma dell’essere-per-sé. Il Servo si sforza di riguadagnare o di assumere le determinazioni. Le nega, come la morte nega il vivente determinato, ma le conserva anche, conferendo loro un senso nuovo. Così l’esistenza umana genera la storia, in cui i momenti parziali sono sempre negati, ma anche sempre ripresi, per essere superati.
 
 
VI
 
K non muore né come un Servo né come un Padrone.
Muore forse come un animale? Certo.
Ma l’animale di Kafka non è né l’animale di Hegel, né l’animale di Heidegger.
K, dice Bataille, muore da sovrano.
Chi è sovrano?
 
VII
 
Poco dopo la guerra, dice Bataille, un settimanale Comunista, Action, aprì un’inchiesta su un argomento inatteso: Dobbiamo bruciare Kafka?
La domanda è certamente provocatoria – dice Bataille. Volutamente ambigua. Chi si dovrebbe bruciare, Kafka o i suoi libri?
Inoltre, la domanda non tiene conto del fatto che a decidere di voler bruciare i suoi libri fu lo stesso Kafka.
Comunque, dice Bataille, l’idea di bruciare Kafka era logica nello spirito dei comunisti.
E poi, queste fiamme immaginarie aiutano meglio a capire i libri di Kafka, libri che esistono per scomparire.
Kafka, continua Bataille, capì che la letteratura gli rifiutava la soddisfazione attesa, essa fu per lui ciò che la Terra Promessa fu per Mosè.
Il fatto che Mosè giunse a vedere la terra Promessa solo alla fine della sua vita, scrive Kafka, non è credibile [Diari]. Mosè non raggiunse Canaan non perché la sua vita fu troppo breve, ma perché era la vita di un uomo – scrive ancora Kafka.
Si crede che l’uomo non possa accedere alla Legge perché la Legge è Universale.
Raggiungere la Terra Promessa era lo scopo di Mosè. Kafka denuncia la vacuità di tutti gli scopi, ugualmente vuoti di significato.
Uno scopo, dice Bataille, è sempre, senza speranza, nel tempo – come un pesce è nell’acqua – un punto qualunque nel moto dell’universo: poiché si tratta di una vita umana.
Vi è qualcosa di più contrario alla posizione dei comunisti? chiede Bataille.
Noi possiamo dire che il comunismo è l’azione per eccellenza, è l’azione che modifica il mondo. In esso la finalità (teleologia), cioè il mutamento del mondo situato nel tempo, nel tempo futuro, subordina l’esistenza, l’attività presente che non ha senso, se non appunto in uno scopo prefissato: questo mondo che bisogna cambiare.
Tutta l’umanità, dice Bataille, è disposta a subordinare il tempo presente al potere imperativo di un fine. E nessuno dubita del valore dell’azione, nessuno toglierebbe all’azione l’autorità decisiva.
Soltanto una testa balzana, e quasi folle, perde di vista un fine se non sia in favore di un altro più valido.
Se Mosè fu deriso è perché doveva, secondo la profezia, morire nell’istante in cui avrebbe conseguito lo scopo. E invece morì un attimo prima, fallì perché, dice Kafka, aveva una vita umana. Lo scopo è rinviato nel tempo, e il tempo è limitato: ciò basta a condurre Kafka a considerare lo scopo in se stesso come un’illusione. Ciò è paradossale – ed è così perfettamente agli antipodi dell’atteggiamento comunista, dice Bataille.
Eppure, prima della fine, il viaggio verso la terra promessa non è mai propriamente ciò che può essere; e diviene ciò che può essere solo quando è troppo tardi (un attimo dopo la la fine).
Può sembrare che decidersi per il presente, a danno del futuro, e contestare lo scopo della rivoluzione sia un modo di chinare la testa allo stato di cose presenti, accettare persino la morte.
I Comunisti, al contrario, votandosi all’azione, in vista di una Terra Promessa, attraverserebbero il deserto del presente, superandolo.
Kafka rimarrebbe attaccato al presente, si lascerebbe mettere a morte per paura della morte.
Senonché, Kafka lamentava di essere escluso dalla vita presente, di essere espulso dalla società degli adulti. Il padre, i cui interessi erano legati ai valori dell’azione efficace, rappresentava la priorità di uno scopo cui veniva subordinata la vita presente, scopo al quale si attiene la maggior parte degli uomini adulti.
Possiamo riconoscere nel padre (e nel comunista) le aspirazioni del Servo hegeliano. Il Servo rinuncia al presente, ha una meta da raggiungere, subordina la sua vita al raggiungimento di un obiettivo. Rinvia il consumo, toglie il presente sublimandolo. Non consuma, dunque pensa. Rinvia in vista di uno scopo, e lo scopo diventa il suo Padrone. Il suo Padrone è l’ideale. Se la Terra Promessa (Comunismo) è un ideale, è impossibile, per un uomo effettivamente esistente, entrare fisicamente nell’ideale, dovrà arrestarsi sulla porta, e non perché il suo tempo finisca prima del tempo: non potrebbe varcare la soglia anche se avesse un tempo illimitato (cattivo infinito – progressismo).
Da ciò non si deve concludere contro l’ideale (la grande narrazione), a favore di un presente di gioia infinita (edonismo e postmodernismo).
Non dobbiamo ingannarci su questo punto.
Kafka, dice Bataille, non volle mai evadere veramente. Voleva piuttosto vivere nella sfera, come un escluso. Non si può dire che fosse estromesso dagli altri, non si può dire che si estromettesse da sé. Si comportava semplicemente in modo da rendersi insopportabile all’ambiente dell’attività utilitaria, industriale e commerciale.
Anche qui non bisogna farsi illusioni. Non si tratta di evadere dentro il presente, di ritagliarsi un angolo di felicità e benessere, di fuggire su qualche isola deserta (Salvatores). Ciò che manca alla comune evasione, che così si limita a una forma di compromesso, di smargiassata, dice Bataille, è un sentimento di colpa profondo, di violazione di una Legge indistruttibile, è la lucidità di una coscienza impietosa di sé. Chi evade dal mondo presente, e con ciò crede di essersi liberato dalla bieca vita dell’industria e del commercio, dice Bataille, in realtà subordina questa libertà a quella società laboriosa e servile dalla quale pretende di separarsi. Si riconosce qui il Padrone hegeliano, che per una dose diventa servo del servo.
Kafka non si subordina né alla logica del servo, né alla logica del padrone.
Non si oppose al padre e al suo mondo. Non ebbe mai l’intenzione di abbattere questa autorità. Non volle opporsi ad un padre che gli toglieva la possibilità di vivere. Non volle essere, a sua volta, adulto e padre.
L’unica soluzione, dice Bataille, era di rientrare con la morte. Opporsi al padre (qui sta il senso di ogni opposizione e lotta di opposizione) avrebbe significato diventare come il padre. L’oppositore si subordina allo scopo, e lo scopo è ritrovare alla fine ciò che era all’inizio – è sostituirsi al padre, prendere il comando, diventare padre.
Il mondo, dice Bataille, è necessariamente il bene di coloro ai quali è stata attribuita una terra promessa e che, se occorre, lavorano insieme e lottano per arrivarci. La forza silenziosa e disperata di Kafka fu questo non voler contrastare l’autorità che gli negava la possibilità di vivere, fu l’allontanarsi dall’errore comune che, di fronte all’autorità, implica il gioco della rivalità. Se colui che rifiuta la costrizione, alla fine è vincitore, diviene a sua volta, per se stesso e per gli altri, simile a coloro che ha combattuto, a coloro che si incaricano di esercitare la costrizione. La vita puerile, il capriccio sovrano, non possono sopravvivere al proprio trionfo. Non vi è sovranità – vera libertà – che a una condizione: non avere l’efficacia del potere, che è azione, supremazia dell’avvenire sul momento presente, supremazia della terra promessa.
Che cos’è la supremazia dell’avvenire sul presente?
È la supremazia della teleologia e del calcolo. È la supremazia della politica, perché la politica è calcolo.
Ancora una volta bisogna stare attenti a non concludere a favore della sragione (è la lettura di Foucault), in cui la sola possibilità di conservare una purezza delirante significa non sottomettersi né al Servo né al Padrone. Una purezza mai connessa all’intenzione logica, una purezza che fa sprofondare i suoi eroi nel silenzio.
Colui che introduce il disordine sarà egli stesso la prima vittima – dice Bataille.
In più, non bisogna ridurre l’atteggiamento sovrano di Kafka in valori irrazionali, in cui il momento presente si scioglie da quelli che seguiranno, facendo il gioco dei Comunisti, i quali nei valori irrazionali e nella vita lussuosa e inutile vedono nascondersi (giustamente) l’interesse particolare. Nel quadro del Comunismo, dice Bataille, l’unico atteggiamento sovrano ammesso è quello minore, quello del bambino. Viene concesso ai bambini che non possono sollevarsi alla serietà dell’adulto. L’adulto, quando attribuisce un valore maggiore all’infantilità, quando esercita la letteratura con la convinzione di attingere il valore sovrano, non trova posto nella società comunista. L’infantilismo va bene per i minori, i maggiorenni devono attenersi al piano. Il comunismo è, nei suoi principi, la negazioni perfetta, il contrario del significato di Kafka.
Kafka, dice Bataille, è soltanto il rifiuto dell’attività efficace. Per questo si inchina profondamente davanti a un’autorità che lo nega, anche se il suo modo di inchinarsi è più violento di un’affermazione altamente proclamata. Si inchina amando, morendo e opponendo il silenzio dell’amore e della morte a quell’autorità che non potrebbe farlo cedere, poiché quel nulla che, malgrado l’amore e la morte, non potrebbe cedere, è sovranamente ciò che egli è.
 
VIII
 
Qui si può leggere il tema del finito e dell’infinito. Il finito che manca di un quid per completarsi. In virtù di questa mancanza è, apriori, colpevole, manchevole – limitato.
Per gli ebrei l’infinito è Legge.
La Legge – l’infinito – non può essere rappresentata. Non può esistere in una figura. La figura particolare è in se stessa la negazione dell’infinito.
L’infinito ebraico, dice Derrida commentando Hegel (Glas), non può essere rappresentato. L’infinito, ciò che è più proprio dell’Ebreo [la scoperta di un Dio unico] non può essere proprio che nel modo dell’ex-proprio.
Proprio che non è proprio, che non può diventare proprio.
L’espropriazione assoluta rende il segreto (la Legge) inaccessibile proprio a chi ne detiene il privilegio. In questa alienazione assoluta, dice Derrida, il detentore dell’inaccessibile può tranquillamente gestire gli effetti e i fenomeni, diffonderli, manipolarli. Mendelssohn ha ragione a non chiamare ciò verità [Mendelsoohn dice che la religione ebraica non è una religione della verità, ma una religione della Legge]. Dal momento che Dio non si manifesta, per gli Ebrei non c’è verità, presenza totale o parusia [Dio si rivela, velandosi, ma il velamento non vela niente, vela il niente – la negatività – il nulla, Heidegger]. Egli dà ordini senza apparire.
Gli ebrei fondano la Legge attraverso il passaggio a questo infinito astratto. Abramo (essere storico, finito, determinato) si sottomette alla dominazione infinita. Ne diviene schiavo. Può assoggettare la natura solo contrattando un rapporto con il potere infinito di un signore onnipotente, geloso, violento, trascendente. Abramo non è il signore che è, ne possiede uno anche lui. Come soggetto finito subisce la forza infinita che gli viene prestata, confidata. Costituito, allevato su tale rapporto di schiavitù, non può amare niente, ma solo temere e far temere.
Per accedere all’infinito (Dio) l’ebreo ha avuto bisogno di negare tutto il particolare. Negato tutto il particolare non è rimasto niente che potesse essere amato, visto che l’amore si indirizza verso il particolare.
Kafka, l’escluso dal mondo, si lamenta col padre (la legge), gli rinfaccia di non gli permettergli di amare e sposarsi.
La radice della divinità ebraica è disprezzo per tutto il mondo (Hegel). Negazione di tutto, cui fa da corrispettivo l’idea assoluta di un Dio unico, infinito.
 
IX
 
Vi si può leggere anche un altro tema.
La legge, dice Derrida (Pre-giudicati davanti alla legge), non è né la molteplicità né, come si crede, la generalità universale. È sempre un idioma, ecco la sofisticazione del kantismo.
Nel racconto Davanti alla Legge, l’uomo di campagna desidera superare la porta e entrare nella Legge.
Se tutti si sforzano di arrivare alla Legge – dice l’umo di campagna – com’è che in tanti anni che sono qui in attesa, oltre a me, nessuno ha chiesto di entrare?
Il custode della porta si accorge che l’uomo è alla fine, per farsi intendere si china e gli dice all’orecchio: Qui nessuno altro poteva entrare perché questo passaggio era stato disposto solo per te. Ora vado e lo chiudo.
La Legge è sempre un idioma.
Cosa vuol dire?
 
X
 
Nella Colonia penale una macchina dotata di erpice scrive il comandamento violato (la legge) sul corpo del condannato.
Il condannato conosce la sentenza? chiede un visitatore.
No – risponde un ufficiale.
Non conosce neanche la propria sentenza? chiede ancora il visitatore.
No – ripete l’ufficiale. Comunicargliela sarebbe inutile. La sperimenterà sulla propria carne.
Ma che è stato condannato, questo lo sa o no?
Neppure questo – risponde l’ufficiale.
Le cose stanno così – dice l’ufficiale. Qui, nella colonia penale, sono comandato con funzioni di giudice. E nonostante la giovane età. Perché in tutte le questioni penali affiancavo il vecchio comandante; e, per di più, conosco perfettamente questa macchina. A fondamento di ogni decisione c’è che la colpa è sempre indubitabile. Altre corti di giustizia possono non seguire questo principio perché hanno sopra di loro altre istanze, corti di grado più elevato. Qui non è così. Eseguire la condanna è molto semplice. Se prima avessi fatto chiamare l’imputato per interrogarlo ne sarebbe venuta fuori una gran confusione; avrebbe mentito e se mi fosse riuscito di confutare le sue menzogne, le avrebbe sostituite con altre e così via. Ora invece lo tengo e non lo lascio più andare. Tutto chiaro dunque?
La decisione è una follia.
La discussione può andare avanti all’infinito. Una istanza superiore può sempre revocare il giudizio di un’istanza inferiore. Se così stanno le cose, in linea di principio, non si arriverà mai ad un giudizio. Ad un certo punto, in modo del tutto arbitrario (e ingiusto), ci si deve decidere, e stabilire un’ultima istanza. Che i gradi di giustizia siano n-1 è completamente arbitrario. Idem per l’interrogatorio. L’interrogatorio, di principio, non ha mai fine. Sempre nuovi pareri possono aggiungersi, impedendo la venuta del giudizio finale.
Ponendo il negativo fuori di sé questa dialettica immette nel cattivo infinito.
Come ci si libera dalla presa del cattivo infinito?
Con una decisione sovrana.
 
XI
 
La Legge è universale e necessaria – è uguale per tutti. Non sarebbe la Legge se non fosse universale e necessaria.
La Legge deve applicarsi al caso specifico. Il singolo caso non esiste al di fuori della Legge. È la Legge che lo istituisce disciplinandolo. La disciplina è un momento della formula della Legge.
Nella condanna si va dall’Assoluto della Legge e dalla disciplina del caso, verso il singolare concreto della realtà effettiva. Siccome la realtà effettiva è infinitamente determinata, e il singolo è sempre un sintomo, la legge non può essere applicata secondo giustizia (Prova Ontologica dell’esistenza di Dio). Oppure (i passaggi sono i medesimi), siccome la Legge non può entrare nel mondo (non può diventare effettiva) se non diventando infinitamente determinata, iscrivendosi direttamente su un corpo (la relazione tra il corpo e il comandamento è del tutto arbitraria – arbitrarietà del segno – il condannato non sa né di essere condannato, né per quale violazione è condannato), la Legge diventa un sintomo, diversa (eppure uguale) in ogni sua occorrenza, e in quanto diversa in ogni occorrenza, profondamente ingiusta.
Perché l’uomo di Campagna non può entrare nella Legge, nonostante la porta sia lì solo per lui?
 
XII

 
La decisione è sovrana se decide per cose inutili, di nessun valore – se è una decisione fanciullesca. È sovrana se il valore non è il movente dell’azione. E qui valore va inteso in senso ambio, sia come valore di scambio, sia come valore semiologico, sia come valore morale, sia come valore ideale, eccetera.
Ogni concreta decisione (Carl Schmitt) contiene un momento di indifferenza contenutistica.
La vera azione sovrana, la stessa che istituisce l’ordine giuridico, non si giustifica mai. Non si giustifica con il ricorso alla psicologia, alla fisiologia, alla sociologia, all’economia, non si giustifica con il ricorso a qualsiasi fatto empirico, né tanto meno si giustifica con la bontà dei fini o dei mezzi, eccetera.
La circostanza che una decisione è necessaria – scrive Schmitt – resta un momento determinante di per sé. Non si tratta della nascita causale e psicologica della decisione.
Una decisione deve sottrarsi all’ordine del programmabile, del calcolabile, deve essere incosciente, irrazionale, oserei dire bestiale.
Una decisione si sottrae anche alla storia. Se così non fosse, e deriverebbe la sua forza (o la sua debolezza, è lo stesso) da una causa che la precede, o da un movente che l’aspetta nel futuro, non sarebbe sovrana.
La decisione ha la stessa forza creatrice di un performativo.
Il rappresentante classico della decisione sovrana, del performativo che istituisce l’ordine sovrano statale è, secondo Schmitt, Hobbes. È lui che ha formulato il principio secondo cui «Auctoritas, non veritas facit legem».
Il performativo che decide della istituzione di un ordine giuridico sovrano non ha il suo referente fuori di sé o, in ogni caso, prima di sé o davanti a sé. Ma qui la parola referente non va bene. Perché il performativo, così come lo intende Austin, non descrive qualcosa che esiste fuori o prima dell’atto che si decide per l’azione. Non ha un valore di svelamento di quello che è nel suo essere o di adeguazione tra un enunciato e la cosa stessa. Il performativo produce una situazione.
La decisione performativa, in quanto decisione sovrana, è sottratta all’opposizione vero/falso.
Non c’è nulla di vero o di falso in una decisione.
Una decisione è efficace anche se è falsa.
Come nota correttamente Schmitt, anche la decisione non giusta e difettosa ha una sua validità giuridica.
E qui il circolo della zoo-politica si chiude. Gli estremi si toccano. La bestia e il sovrano sono tutti e due fuori legge, sono tutte e due, a modo loro, Davanti alla Legge. La legge passa attraverso la decisione sovrana – il decreto – ma il decreto legifera prima che la legge lo permetta. Il presidente della repubblica firma (promulga) la costituzione, in none di un popolo che solo la Costituzione renderà effettivo.
Il divenire sovrano di Gregorio passa per il divenire bestia. Senza bestialità, senza l’imbestialirsi dell’uomo, non si accede alla sovranità. Bisogna diventare disumani per accedere alla legge, bisogna far morire l’uomo, e con esso lo scopo e i buoni propositi, compreso il matrimonio – la via verso l’aufhebung del padre.
Per accedere alla sovranità bisogna che vi sia un attimo di non-coscienza.
Il gesto sovrano è sempre un gesto fuori-legge.
L’accesso alla decisione sovrana che istituisce la legge, il porsi fuori e prima della legge, passano per un diventare animale, passano per un accecamento della ragione.
Bisogna diventare scarafaggio, talpa, bisogna ignora le gerarchie, ignorare persino dove ci si trova, e agire per l’impulso di una forza bruta.
La bestia che è fuori legge, e che da questo fuori pone la legge, non parla. Soprattutto non risponde. Non ha accesso alla lingua e al linguaggio.
Come nota Hobbes nel Leviatano, “fare patti o contratti con le bestie brute è impossibile, perché non comprendono il nostro linguaggio, non intendono né accettano alcuna traslazione di diritto, né possono trasferire alcun diritto ad altri e, senza una accettazione reciproca, non c’è patto.”
La considerazione di Hobbes a proposito della non-risposta della bestia fornisce una definizione profonda della sovranità assoluta.
Il sovrano non risponde, ha sempre il diritto di non rispondere delle sue azioni. È al di sopra della legge. Non deve rispondere ad una camera di rappresentanti, non deve rispondere di fronte ad un giudice. Concede la grazia dopo che la legge ha fatto il suo corso. Ha il diritto ad una certa irresponsabilità. Sopratutto, se decide di giustiziare qualcuno, non ha bisogno di fornire ragioni, di giustificarsi. Il giudice non deve (in realtà non può) giustificare la sua decisione.
Se la bestia non risponde, come fa la decisione sovrana a diventare sentenza, a diventare diritto, a diventare nomos?
La Legge deve iscriversi su un corpo – non c’è altro modo per avverarsi. Scrivere è già ripetersi – la Legge deve essere almeno una volta già stata scritta***.
Il ripetuto si ripete allo stesso modo, ma su corpi diversi. In ogni corpo il medesimo segno (la legge) si ripete identico al precedente, eppure ogni segno è diverso dall’altro – il valore è posizionale – idioma (la scacchiera di Saussure).
La moneta, ad esempio, porta iscritto sul corpo (banconota, oro, elettrone) il valore nominale (la Legge). In ogni moneta il medesimo segno di valore (il corso legale) si ripete identico al precedente, eppure ogni banconota è diversa dall’altra. Questa alterità corrompe la legge, sofistica il valore ideale (valore facciale). Non ha alcun senso parlare di valore legale della moneta, ma piuttosto di potere di acquisto di ogni singola banconota. Ogni singola banconota, in tempi e circostanze diverse (Nietzsche), avrà potere di acquisto diverso. Eppure, senza valore facciale (Legale) il potere d’acquisto non potrebbe essere contabilizzato, essendo il potere d’acquisto espresso negli stessi identici termini del valore facciale (legale) – una moneta da un euro può essere scambiata con un’altra moneta da un euro – senza resto (senza interessi – positivi o negativi). Ma solo nell’idea. Nella realtà effettiva lo scambio di una moneta con un’altra del medesimo valore facciale, solo accidentalmente (casualmente) non lascia sul terreno un resto (interesse negativo o positivo). La legge del valore non è né la molteplicità dei valori (il valore di mercato) né, come si crede, la generalità universale (il valore lavoro). È sempre un idioma, ecco la sofisticazione del kantismo. È sempre potere d’acquisto – potere che sottosta alla Legge. Legge che non è senza potere, e potere che non è senza Legge. Legge che è davanti al potere, e potere che è davanti alla legge.
Bisogna sempre ricordare che il potere (sovrano) fa la Legge presupponendola. Che il sovrano è il primo a piegare la testa, e la piega ad una Legge che è, senza ancora essere.
 
 
 
 
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* Michel Carrouges, Franz Kafka. Negli anni Trenta Carrouges lavora a Parigi in una compagnia assicuratrici – è un giurista. Conosce Jacques Maritain, scrive poesie, si avvicina al surrealismo, entra in contatto con André Breton. Dopo la guerra diventa direttore capo di una rivista dei Domenicani e viene allontanato dal gruppo surrealista, stringe rapporto con Duchamo, rimane sempre viva l’amicizia con Breton.
 
** Nell’edizione italiana, SE 1987, per un refuso Rousset diventa Tousset – una riedizione Feltrinelli del 1991, riporta pari pari il refuso.
 
*** «Se il Messia è alle porte di Roma tra i mendicanti e i lebbrosi, si potrebbe supporre che il suo incognito lo protegga o ne impedisca la venuta, ma viene invece riconosciuto; qualcuno, sospinto dall’ossessione interrogante, gli chiede. “Quando verrai?”. Il fatto di essere-lì non è quindi la venuta. Vicino al Messia che è lì, deve dunque risuonare sempre l’appello: “Vieni, Vieni”. La sua presenza non è una garanzia. Futura o passata la sua venuta non corrisponde a una presenza. E se accade che alla domanda: “per quando la tua venuta”, il Messia risponda: “per oggi”, la risposta, certo, è impressionante: è dunque oggi. È ora e sempre ora. Non si deve attendere, sebbene il fatto di attendere sia come un obbligo. E quand’è quest’ora? Un’ora che non appartiene a un tempo comune, che lo capovolge necessariamente, non lo mantiene [maintenir, maintenant (adesso, ora), lo destabilizza», Maurice Blanchot, La scrittura del disastro.
 

fonte immagine wikipedia

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