LE La vita di Foucault era un’opera d’arte, disse Maurice Blanchot. Anche la tua vita è diventata un’opera d’arte. Anzi, diverse opere d’arte. Se consideriamo i Libri e Dischi ispirati alle tue avventure bolognesi.
Cosa significa diventare opera d’arte?
MC Da un lato possiamo considerare l’arte come Archivio. Non mi riferisco solo all’aspetto, per così dire, museale dell’arte. Il museo non esaurisce tutte le possibilità dell’archivio. Anche se oggi le possibilità di museificazione sono aumentate a dismisura.
LE Ti riferisci alle Gallerie virtuali, alle banche dati museali?
MC Si, certo. Mi riferisco anche al mondo come museo. Non tanto alla Terra – in senso lato. A ciò che si chiama natura o cosmo. Ma proprio al Mondo.
LE Il mondo non coincide con la Terra?
MC Oggi, più che mai – è sotto gli occhi di tutti -, è all’opera un movimento irreversibile di mondializzazione: il divenire mondo del cosmo. Tutto ciò che si chiama globalizzazione, delocalizzazione, sovrapproduzione, finanza, internet e via discorrendo, non è che un aspetto della mondializzazione, del divenire Mondo del Cosmo. La mondializzazione rende accessibile e disponibile la Terra, la rende a portata di mano, fruibile. Il Museo propone l’esperienza di un mondo accessibile, fruibile, consumabile. Le file di turisti in attesa di consumare un pasto etnico nel Bengala o in Mongolia – un pasto che consumeranno pari pari in altri angoli del globo che visiteranno – sono l’evidenza lampante della museificazione – la Mongolia come museo a cielo aperto.
La museificazione ha a che fare con la conoscenza intellettuale. Diciamo che il Museo è il corrispettivo dell’intelligenza artistica, della cognizione estetica (nel senso dell’estasi). Il Museo è l’oggetto di un soggetto artistico, di un interesse artistico puro, il quale, all’occorrenza, esce fuori (ex-stasi) di sé e va incontro all’oggetto artistico precostituito ed esposto nel Museo. L’oggetto museale, essendo il corrispettivo del soggetto artistico, è per definizione disponibile. È l’oggetto posto e già dato, già esposto allo sguardo della ricognizione artistica. Un oggetto che semplicemente ci sta davanti, il positum, l’oggetto della scienza positiva estetica, della Disciplina dell’Arte, della Musica, dello Spettacolo (DAMS). In questa oggettivazione dell’oggetto artistico, che si mantiene nella direzione in cui si volge l’immediato apprendere quotidiano, si costituiscono le scienze positive artistiche.
L’arte, come la consociamo oggi, è l’articolazione del soggetto artistico e dell’oggetto museale.
LE Alludi forse al tema, trito e ritrito, della mercificazione dell’esperienza artistica?
La mondializzazione coincide con la mercificazione e con il capitalismo. E il capitalismo è la macchina che assimila a sé ogni cosa e la restituisce come merce; che ingoia ogni angolo ignoto del pianeta e lo restituisce a sua immagine e somiglianza, che ri-leva il gusto di un’esperienza unica e irripetibile e restituisce il gusto plastificato e identico ai quattro angoli del mondo. I modelli sono McDonald e CocaCola.
MC Il capitalismo non coincide con la mondializzazione, anche se senza capitalismo ciò che noi oggi conosciamo della mondializzazione sarebbe inimmaginabile. Ma ciò attiene al fatto che la mondializzazione non è una ricetta elaborata e applicata al pineta. Il capitalismo è ciò che accade. La stessa cosa può essere detta del cristianesimo, dell’impero romano, eccetera. Senza il cristianesimo, la mondializzazione – ciò che noi oggi chiamiamo mondializzazione – sarebbe impensabile. Dunque, la mondializzazione non coincide esattamente con il capitalismo. E l’esperienza museale non è stata inaugurata dalla mercificazione, non è una forma di mercificazione. Anzi, si potrebbe dire che la mercificazione stessa è una variante della museificazione.
L’esser posti, l’una di fronte all’altro, della merce e del consumatore, richiede una interrogazione preliminare proprio su questa posizione che a noi consumatori ci pare naturale. Non c’è nulla di naturale nella posizione di un consumatore di fronte ad una merce. Consumatore e merce debbono essere posti.
In che modo sono posti, uno di fronte all’altro, consumatore e merce?
In che modo sono posti uno di fronte all’altro il soggetto e l’oggetto della fruizione artistica?
Ecco cosa bisogna chiedersi.
Anche uno sguardo superficiale al conglomerato turistico-artistico, mostra che essere posti in quanto artista e opera d’arte non è un porre che parte da un qualche presupposto naturale. Opera e artista diventano tali a partire da una circostanza che viene data per lo più quasi sempre come scontata. Si comincia con la partizione artista opera. Ci si colloca su un versante, e il gioco è fatto. Siccome ho creato un’opera, dunque sono un artista – o viceversa, non fa differenza.
LE Bisogna partire da una definizione di opera d’arte. Solo a partire da questa, da una valutazione di merito su questa, si può arrivare a stabilire se una persona è un artista oppure no.
MC Purtroppo le cose non sono così semplici. Duchamp, tra gli altri, lo ha dimostrato senza ombra di dubbi. Qualsiasi cosa può diventare opera d’arte. L’oggetto – il referente – non conta. L’oggetto, di per sé, non ha alcun valore. Ciò che crea valore è il complesso artistico-museale-turistico.
LE Se non dall’opera, allora bisogna partire dall’artista.
MC Anche l’artista non conta nulla. Tutte le falsificazioni, o le attribuzioni più o meno autentiche, sono lì a dimostrarlo. L’artista, ai fini della valorizzazione dell’opera, non conta nulla. L’opera apocrifa può funzionare bene tanto quanto un’opera autografa.
Ricordi il caso delle sculture di Modigliani?
LE Era il 1984. Un gruppo di studenti universitari burloni realizzò delle sculture in pietra che, gettate nei fossi livornesi, furono rinvenute e unanimemente attribuite dalla critica a Modigliani.
Ma allora chi stabilisce il valore di un artista o di un’opera d’arte?
MC Se parti dall’opera riproduci le stesse assurdità della teoria economica liberale neoclassica. Piazzi la merce, ottieni un prezzo, e rifili a qualche sfigato Merda d’Artista. Se invece parti dall’artista riproduci le stesse assurdità della teoria economica classica.
LE ?
MC Prendiamo il caso del Don Chisciotte di Menard. Borges dice che Pierre Menard, a un certo punto, iniziò a riscrivere parte del Don Chisciotte. Menard non voleva copiare l’opera di Cervantes, non voleva trascriverla in modo meccanico, voleva produrre una sezione, tale che le pagine da lui scritte coincidessero, parola per parola, con l’opera originale. Assolutamente non un altro Chisciotte, spiega Borges. Menard voleva comporre il Chisciotte.
Borges, dice Blanchot, ci propone d’immaginare uno scrittore francese contemporaneo che scriva, partendo da pensieri propri, delle pagine che riproducano testualmente due capitoli del Don Chisciotte: assurdità memorabile – dice Blanchot. Abbiamo due opere nell’identità dello stesso linguaggio e, in questa identità che non è tale, il vertiginoso miraggio della duplicità dei possibili. Ora, di fronte a una replica perfetta, l’originale è cancellato e perfino l’origine. Così il mondo, se si potesse esattamente tradurlo e raddoppiarlo in un libro, perderebbe ogni principio e ogni fine per diventare quel volume sferico, finito e senza limiti, che tutti gli uomini scrivono e in cui sono scritti: non sarebbe più il mondo, ma sarebbe, sarà, il mondo pervertito nella somma infinita dei suoi possibili.
Per non andare troppo lontano si può dire che la copia, la possibilità della riproduzione tecnica di copie su scala allargata – come scriveva Marx in un passo arci-famoso dei Grundrisse – rende miserabile l’autore come principio del valore dell’opera. La copia – come evidenzia il caso delle teste di Modigliani – mette in crisi il sistema di attribuzione di valore artistico – quando questo sistema ha al centro – o al principio – l’artista.
LE Se è come dici tu, se né l’artista né l’opera sono in grado di spiegare il complesso artistico-museale, come mai, quando ci troviamo di fronte ad un’opera o a un artista sappiamo riconoscere ciò che abbiamo davanti?
MC Tutto ciò che consociamo come arte è questa esperienza inautentica, l’esperienza da turista dell’arte, da consumatore dell’arte, da fruitore dell’arte. Ciò che consociamo sono i pullman di FlixBus che sbarcano bande di pensionati al Louvre o agli Uffizi; ciò che consociamo sono i passeggeri degli airbus di Ryanair scaricati a Bergamo. Per queste persone le cose sono chiare: da una parte ci sono le arti plastiche, ci sono i dipinti e gli affreschi, le statue e i palazzi, e dall’altra ci sono le guide turistiche che collegano queste opere agli autori.
LE Possiamo dire che a posizionare l’opera e l’artista sono elementi esterni, contestuali. È il museo che fa l’artista.
MC Non è così. Nemmeno il contesto è in grado di fornire una spiegazione esauriente. Ci sono i casi di tutti quei vincitori di San Remo – i Jalisse, per esempio, ma ce ne sono altri – che pur inseriti nel contesto giusto non sono riusciti ad emergere.
LE Non rimane che il pubblico.
MC Non è possibile tirare in ballo il pubblico. Il pubblico non spiega niente. Se la posizione di un’opera o di un artista si giustificano con il gradimento del pubblico – con i cosiddetti contatti, come si dice oggi – come mai la Nutella, o la bustina di tè Ati, non sono ancora diventate opere d’arte a tutti gli effetti?
L’artista, l’opera, il pubblico e il baraccone imprenditoriale museale, sono posti, stanno in piedi a partire da un presupposto che bisogna ancora chiarire.
LE Ma allora come stanno le cose?
Abbiamo detto che non è la persona, che non è l’opera, che non è il contesto, che non è il pubblico e che non è nient’altro a fare l’artista o l’opera d’arte. Non abbiamo fatto altro che che porre obiezione, che dire dei No.
MC Nel nostro caso il No ha un valore positivo. Il no è un no al limite, è un No a tutto ciò che limita l’arte e l’artista. Pensare l’arte (l’opera e l’artista) come il senza-limite è tipicamente romantico. Se pensiamo il pubblico, il contesto, l’opera stessa in quanto opera completa (finita), l’artista, eccetera, come tutto ciò a partire da cui l’arte viene posta, allora l’arte viene pensata come subordinata a queste istanze, e dunque non libera. Ciò che è in gioco nell’arte romantica è in primo luogo la libertà dell’arte, la sua sovranità. L’arte – la vera arte romantica – deve essere un’arte che non ha fuori di sé alcunché che la limiti. L’arte romantica o è infinita oppure non è arte. Qui infinito va inteso in senso letterale – il senza limite. Se l’azione artistica è limitata (condizionata) dal pubblico; oppure se è condizionata dalle circostanze (se è arte di circostanza, arte decorativa), se è condizionata dall’artista stesso, che subordina l’arte ai suoi capricci o ai suoi desideri, alla smania di successo, di arricchimento, di notorietà, eccetera; se l’azione è limitata dall’opera stessa, la quale si irrigidisce, ad esempio, nei limiti del genere, dello stile, eccetera, ebbene, l’azione artistica non è romantica, non è infinita. E non lo è proprio perché trova fuori di sé la propria ragione, il proprio fondamento, la spinta. Non è azione artistica che si auto-pone, ma è azione eterodiretta. Posta da altre istanze. È un’azione che deve rispondere del proprio operato ad un’istanza superiore. E tutto ciò che risponde ad un’istanza superiore, va da sé, non è libero, non è assoluto, non è sovrano, dunque, non è romantico.
LE Il romantico non allude per nulla al pittoresco, al pazzesco, al chimerico, al favoloso e all’emozione vissuta da chi contempla le scene. Non fa riferimento al sentimento, a quel Non so che (Je ne sais quoi), a quella sensazione incognita e indistinta che perturba l’animo, a quel moto tutto interiore, soggettivo, che descrive non tanto la proprietà di una scena esteriore, quanto uno stato intimo.
MC Il romanticismo è anche tutto ciò. Se volgiamo attenerci al romanticismo che si è espresso nell’Atheneum…
LE Ti riferisci alla rivista dei fratelli Schlegel pubblicata tra il 1798 e il 1800 a Jena. La stessa Jena dove hanno studiato o insegnato Schelling, Hegel e Marx?
MC Mi riferisco proprio a questa rivista.
LE Il romanticismo di Jena ha avuto un’influenza notevole su Hegel, sui suoi diretti allievi e su tutti quelli che si sono opposti all’hegelismo, compreso Nietzsche.
MC Per il romanticismo di Jena non c’è separazione tra arte e vita. L’arte non è una tecnica o un metodo per riprodurre o rappresentare o interpretare il mondo. Il mondo non è un oggetto colto da uno speciale punto di vista – il punto di vista artistico. Per i romantici di Jena l’arte non ha un oggetto, non sta di fronte all’oggetto come vi sta, ad esempio, la scienza naturale, la scienza fisica, la biologia, l’antropologia, eccetera. L’arte non è una scienza positiva, e non lo è proprio in quanto non ha davanti a sé, posto (positum), il suo oggetto. Tutto ciò che è, tutto ciò che posiamo definire in modo sommario, il cosmo, la natura, non si dà come un ente nel quale introdursi. Il Cosmo non è disponibile. Non è posto. Il romantico non è l’artista che si introduce in un mondo, un mondo oscuro, impenetrabile, misterioso, eccetera, ma pur sempre un mondo posto davanti ai suoi occhi, disponibile in quanto conoscibile. Il romantico non ha difronte a sé nessun mondo da esplorare. Il romantico è già presso le cose. Di più. Le cose, e lui stesso presso le cose, sono poste dall’azione. L’arte è la decisione, che decide la posizione dell’arte e della cosa dell’arte. La decisione non è una decisione umana, una decisione psicologica, una scelta del soggetto. Anche quando passa attraverso il soggetto, o l’uomo, la decisione precede l’uomo, lo chiama, lo sollecita.
LE Insomma, vuoi dire che non c’è differenza tra arte e vita, tra natura e cultura. Che a decidere è l’azione, che l’azione pone sia l’arte, sia l’artista, sia il pubblico dell’arte, sia il loro contesto?
MC Si, una cosa del genere. Basta leggere qualche frammento di Friedrich Schlegel. Nei frammenti critici (70) dice che la gente scrive libri e s’illude poi che i propri lettori siano il pubblico, e di doverlo educare, finendo per disprezzare e odiare il pubblico.
LE E ci credo! Tutti quei predicozzi, i Negrita che cantano Resta speciale, non ti buttare via, Resta ribelle – un bel double bind! Sii ribelle! Manco Maurizio Costanzo ha osato tanto. Comunisti col Rolex – Cosa ci vogliono dire questi qua? Che loro sono meglio, che loro sono peggio? Cosa ci vogliano insegnare? E quell’altro che cantava Servo di partito, Nietzsche e Marx si davano la mano, Ti sei salvato o sei entrato in banca pure tu? E l’altro che cantava: Eravamo quattro amici al bar che volevano cambiare il mondo, destinati a qualche cosa in più che a una donna ed un impiego in banca – la banca, bersaglio facile. E io che non ho fatto mai domanda, per colpa di sti stronzi. La lista è lunga. Pochi si solno astenuto dal predicozzi: Baglioni, Pausini, Ramazzotti, De André.
MC Il pubblico non è un oggetto da ammaestrare. Il pubblico sorge insieme all’opera. Ogni opera ha il suo pubblico. Non c’è differenza tra l’opera e il pubblico. L’opera e il pubblico sono contemporanei. L’opera e il pubblico diventano, s’inverano insieme, contemporaneamente. Sono l’una il riflesso dell’altro – e viceversa. Questo va da sé. Perché l’arte romantica mira all’Assoluto, alla libertà, alla sovranità, e non ammette niente fuori di sé, nemmeno il pubblico, tanto più un pubblico inerte e da ammaestrare – un oggetto-pubblico, un target pubblicitario. Se il pubblico precedesse l’arte, l’arte non sarebbe arte romantica, sarebbe tuttalpiù arte per per aiutare le galline a deporre l’uovo.
LE Vuoi dire che se l’arte avesse un pubblico che la precede quest’arte non potrebbe diventare vera arte?
MC Come dicevo prima, l’arte romantica non può sopportare niente prima di sé e al di fuori di sé. Se ponesse un pubblico fuori di sé – un target –, sarebbe determinata da questo fuori. Questo fuori sarebbe il suo limite, il luogo dove il suo potere di far venire la verità si arresterebbe – sarebbe arte non-vera.
Il romantico non tollera niente fuori di sé. La sua intolleranza totale verso l’uomo, che può risultare indigesta a qualcuno, deriva proprio da ciò, che l’uomo, e l’antropologia, sono intesi come ciò a partire da cui l’arte e il mondo dell’arte si originano. Quando il romantico sputa dal palco sul pubblico, non sputa solo sul pubblico, sputa prima di tutto sull’uomo. Sempre nei Frammenti critici (70) Schlegel dice che tutta l’arte deve diventare scienza, e tutta la scienza deve diventare arte; poesia e filosofia devono essere unificate. L’arte e la scienza, la scienza e la vita, non sono l’una fuori dall’altra. Non sono generi diversi, o stili diversi di un supposto sapere umano che li porrebbe come forme nelle quali racchiudere il suo contenuto umano. Non c’è nessuna forma, nessun genere, nessun metodo che preceda l’umano, e non c’è alcun umano al di fuori di una forma. Forma e contenuto sono l’uno il riflesso dell’altro, sono l’uno nell’altro.
Nei Frammenti dell’Athenaeum (98) Schlegel dice che la poesia romantica è una poesia universale progressiva. Il suo scopo non è solo quello di unificare nuovamente tutti i generi separati della poesia e di porre in contatto la poesia con la filosofia e la retorica. Esse vuole, e deve anche, ora mescolare ora fondere, poesia e prosa, genialità e critica, poesia d’arte e poesia della natura, rendere la poesia vivente e sociale e la vita e la società poetiche, poetizzare l’arguzia e riempire e saturare le forme d’arte con la più pura materia culturale d’ogni specie e animarle con gli slanci dello humor. Altri generi poetici sono finiti e possono adesso venire analizzati completamente. Il genere poetico romantico è ancora in divenire; anzi questa è la sua essenza peculiare, che può soltanto eternamente divenire e mai essere compiuto. Esso non può essere esaurito da alcuna teoria, e solo una critica divinatoria potrà osare di voler caratterizzare il suo ideale. Esso solo è infinito, così come esso solo è libero e riconosce come sua prima legge che l’arbitrio del poeta non tollera alcuna legge. Il genere poetico romantico è l’unico a essere più di un genere e, per così dire, a essere la poesia stessa: poiché in un certo senso tutta la poesia è o deve essere romantica.
Fine.
LE !
MC In questo frammento c’è tutto il romanticismo. Innanzitutto la necessità stessa della scrittura frammentaria. La scrittura frammentaria, al contrario di quello che pensa l’ingenuo, il quale crede che il frammentario sia poetico, lapidario, esteticamente ricercato e adatto per i baci perugina; il frammento non è frammentario; il frammento è sistematico. In genere si pensa la frammentarietà del frammento in base all’opera completa. Per esempio, al romanzo con un inizio e una fine. Ma qual è l’inizio del romanzo? Il titolo, per esempio, fa parte del romanzo, oppure è una parte esterna? Un film è un’opera completa o un frammento che deborda i titoli di tesa e di coda? Se nei titoli di coda di un film leggiamo la formula “Ogni riferimento a persone esistenti…”, di cosa si tratta, se non del tentativo di contenere il film all’interno del suo presunto inizio e della sua presunta fine? Cosa dice questa formula, se non che il film può debordare, e che per costringerlo entro i margini, per non far continuare la storia in un tribunale, bisogna prendere delle precauzioni. Si tratta di una formula paraculo, una formula introdotta dopo una causa di risarcimento intentata da Irina Jusupov contro la Metro-Goldwin-Mayer, per il film Rasputin e l’imperatrice, film nel quale si racconta la storia dell’omicidio di Rapsutin.
Nel film l’assassino di Rasputin porta un nome di fantasia, ma la trama è più o meno fedele alle vicende reali, tanto che la moglie reale dell’assassino realmente esistito, pensò di fare causa alla MGM, ovvero di continuare il film nel tribunale, trascinando la storia nella realtà effettiva. Ogni film può aver un sequel – e oggi, sempre più – anche un prequel – con ricadute fuori dagli schermi – si pensi solo al mega business dei gadget.
LE L’idea di frammento è entrata nelle ossa, tanto che oggi non si riesce più a farne a meno, manco fosse diventata una droga. Il frammento richiama alla mente l’idea di infinito romantico. Il frammento non è finito. Si allarga, continua, prima e dopo. Deborda nel mondo. Non ammette distinzione tra opera della fantasia e realtà effettiva. La fantasia si travasa nella realtà e la realtà nella fantasia. La televisione entra nei salotti e i salotti entrano nella televisione. Mi pare Deleuze alle prese con il neo-realismo italiano.
Il frammento funziona così, vero?
MC È così. Però, per quanto riguarda questa precisa idea di frammento, che attiene allo sfruttamento del frammentario nelle serie televisive, nella politica, e nella televisione, o in internet, parliamo di un frammentario che non ha nulla a che vedere con il frammento romantico. Nel caso delle serie TV si tratta di un falso frammentario, un frammentario che si appoggia ad un falso infinito, che non è l’infinito romantico. Nella Grande Logica, Hegel parla di cattivo infinito a proposito, per esempio, dell’infinito numerabile. I numeri contano fino all’infinito. Ma raggiunto l’infinito, all’infinito si può aggiungere sempre un altro numero e superarlo con un nuovo infinito. Ma così, anche a questo nuovo infinito, può essere aggiunto un altro numero e superarlo a sua volta. In questo senso, dice Hegel, l’infinito posto è cattivo, non è genuino, non è vero, perché appena posto, si presenta, al suo posto, un nuovo e più vero infinito, che a sua volta si dimostra un cattivo infinito. All’infinito resta di contro il finito quale un esserci. Sono quindi due determinatezze, si danno due mondi, un mondo finito e un mondo infinito. Questa cattiva infinità, dice Hegel, è la negazione del finito ma non riesce a liberarsi di questo. Il finito si ripresenta come suo [dell’infinito] altro. Il progresso – il progressismo in politica, ad esempio – è un medesimo e noioso avvicendamento di questo finito e infinito. Una presa per i fondelli.
LE Vuoi dire che l’infinito non può andare avanti all’infinito, come avviene nel progressismo. Anche l’infinito, se vuole essere vero infinito, deve avere una fine.
Come si spiega questa contraddizione?
MC Alla fine del suo periodo giovanile, negli anni di Francoforte, Hegel, dice Hyppolite (Logica ed Esistenza), considerava il passaggio dal finito all’infinito come un mistero.
Non è il caso di riprendere qui tutto l’argomento di Hegel con il quale illustra il passaggio dal finito all’infinito. Ci basti una metafora. Il seme dell’albero è una parte della pianta, in quanto parte è, contemporaneamente, se stessa – cioè parte – e tutta la pianta. IL seme contiene in sé l’essenza, l’estratto, l’immagine, il DNA, di tutta la pianta genitrice. E’ una parte (finito) del tutto (infinito) che contiene in sé, virtualizzato, il tutto – una parte (un frammento) che vale come se stessa e come il tutto. Non c’è altro modo di far rivivere (di rendere presente) il tutto, altrimenti che ammortizzandolo nel frammento. E il frammento rimane lettera morta, se da esso non riaffiora tutto l’albero.
Questa idea romantica di frammento spiega il No future dei Punk.
LE Il cantante dei CCCP, Ferretti, dice, a proposito del No Future – il motto dei Punk – che la loro vita vissuta, la sua e quella del suo tempo, porta alla morte, non ha futuro.
Non avevamo, dice, nessuna voglia di diventare punk anarchici e guardare a Londra, o fare “hard-core” e guardare a San Francisco. Tirate le somme tra quello che Reggio Emilia non ci dava e quello che c’era, non avevamo altra possibilità che il filosovietismo. Ci riappropriavamo in parte di una nostra storia. Perciò Reggio diventava per noi il centro del mondo. Non ce ne fregava niente dei centri sociali, delle discoteche alla moda, dell’ARCI, della RAI… Perciò potevamo andare ovunque: stavamo correndo dietro la storia dei nostri sentimenti, della nostra vita, figurarsi quanto ci poteva interessare il resto.
MC Ferretti arriva a Bologna nel 1971, era già un militante di Lotta Continua, e lo rimase fino a 1975, fino al Festival di Licola (Luglio 1975), in Campania. A quel punto, dice (Fedeli alla linea, Giunti), non mi importava più un cazzo di Lotta Continua, del proletariato giovanile e di tutte quelle menate. Il mio distacco dalla politica è avvenuto per overdose. Negli ultimi due anni di liceo e soprattutto durante i tre anni di università era diventata la cosa più importante della mia vita, al punto da determinare la scelta delle amicizie. Alla fine, però, mi sono dovuto arrendere all’evidenza: in quella storia non trovavo soddisfazione profonda. È stato il periodo più brutto della mia vita, perché si era creato uno scollamento profondo tra le mie tensioni profonde e ciò che facevo. Continuando su quella strada potevo solo farla finita. L’unica cosa che sono stato in grado di decide, quando si è trattato di cominciare il quarto anno di università, è stato di fare la valigia e tornearmene in montagna: era il 1975. Ero scappato dal ghetto, il collegio delle suore prima e la politica poi. L’atto conclusivo fu quando tornai a Bologna nel ‘77, per il convegno degli autonomi. La cosa più triste e inverosimile che abbia mai visto, dalla militarizzazione della città da parte della polizia alla violenza esercitata sul convegno dal collettivo di autonomi di via dei Volsci. Quella è stata proprio la pietra tombale: non volevo essere lì, non volevo essere come loro. Poi per caso sono diventato operatore psichiatrico e ho fatto quel mestiere per 5 anni, fino al 1982 – disintossicandomi inconsapevolmente della politica. Era un altro mondo. Altre vite, altre storie. Cose come entrare in una stanza e trovare uno che con metodo picchia la testa contro il muro, con tutto il sangue intorno, e quando lo blocchi e gli dici: “Ma sei scemo? Che cazzo stai facendo?, ti risponde: “Mi sto togliendo il male dalla testa”. Mi ritrovavo con 10 pazienti da accudire, con la testa e con il cuore ero a loro completa disposizione. Volevo molto bene ai miei matti e per cinque anni ho cercato in ogni modo di farli stare meglio, mentre contemporaneamente io stavo sempre peggio.
LE Poi smise anche con quel lavoro. I matti lo fecero ammalare. Somatizzava un po’ troppo. Gli venne un’infezione, un’ulcera, qualcosa del genere.
Non era un bel momento, dice Ferretti, ero di nuovo a un punto in cui non sapevo bene che fare della mia vita. Andai a Berlino, ero malato, se andava male, la mattina dopo avrei preso un aereo per il Nord Africa. Tunisi era la mia ultima chance. Mi ero detto: “Stasera vado a ballare, se trovo un motivo per restare ancora a Berlino, bene, altrimenti domani a mezzogiorno sono in Africa”. E invece rimase.
MC Rimase a Berlino. Frequentò i locali e la scena punk berlinese, ma ciò che segnò la differenza fu Berlino Est. Un luogo pieno di contrasti eccessivi, dice Ferretti, al punto da sembrare insieme ridicolo e affascinante.
LE La prima volta che visitò Berlino Est tornò indietro ancora più carico e radicato nella sua identità punk anglo-americana. Ma le seconda volta le cose cambiarono.
La seconda volta, dice Ferretti, Berlino Est mi è entrata negli occhi in modo diverso. Mentre la prima volta mi era sembrata una messa in scena anticomunista della CIA, la seconda volta sono stato assorbito dal fascino retrò del posto: le divise, i militari e tutta la simbologia filosovietica. Quell’attrazione non derivava da una scelta politica – la politica era ormai un capitolo chiuso – ma dal fascino puro e semplice di Berlino Est. Se la prima volta eravamo tornati a casa conciati da punk, la seconda sembravamo dei Vopos: le patacchine, i colbacchi, le brache da militare, gli stivali… Per i tre anni seguenti ci siamo sentiti soldati della DDR, mentre le donne a Berlino ovest portavano il chador. In realtà avevamo trovato una nostra strada all’interno di quel mondo, di quella musicalità, di quelle storie, e non eravamo più assimilabili al punk.
La prima volta ci eravamo svegliati da punk, la seconda volta ci siamo svegliati noi.
MC Semplice opposizione. Una cosa tipica dei gruppettini musicali e politici. Siccome la musica e il punk sono Anglo-americani, allora noi siamo filosovietici. Anche se poi rimani occidentale sino all’osso.
LE Non credo sia il caso di Ferretti. Ferretti viene dalla campagna. Anzi dalla montagna. Un povero cristo orfano allevato dalla madre, dalla nonna e dallo zio. Cresciuto in mezzo alle vacche e ai cavalli, alle elementari era il cantante del collegio delle suore di Maria Ausiliatrice.
Anni dopo, Ignazio Orlando, durante la preparazione di Canzoni, preghiere e danze, gli disse “Guarda Ferretti che tu non hai proprio idea di che cosa significhi cantante di musica moderna, le cose che ti riescono bene sono le canzoni di chiesa e quelle degli alpini”.
Avevamo la pretesa di mettere in gioco, oltre al nostro equilibrio, quello del mondo – dice Ferretti. Eravamo l’armonia che faceva da contraltare alla disarmonia che ci circondava. Anche il filosovietismo ha a che fare con questo: si era imposto di colpo grazie alla sua violenza estetica. Avevamo visto a Berlino Est ciò che potevamo vedere anche a casa nostra, ma non avevamo mai considerato. Ciò che per altri aveva valore in termini politici, per noi lo aveva in termini paesaggistici. Io non so cosa vuol dire “Ortodossia” per tutti, so però che cosa significa per me. Come “Fedeli alla linea”: noi dicevamo infatti “fedeli alla linea anche quando non c’è”, non cambiamo, rimaniamo quello che siamo. Per noi il messaggio era chiaro, anche se ci rendevamo conto che era possibile fraintenderlo. Ecco perché siamo diventati filosovietici, non comunisti: “comunista” è un vocabolo che non abbiamo usato mai parlando di noi. L’idea era che il mondo fosse diviso in due: l’Impero del Bene, rappresentato in quegli anni da Reagan, e l’Impero del Male. Noi facevamo parte dell’Impero del Male per un semplice problema di equilibrio e il nostro scopo era di fare propaganda a quel pezzo di mondo.
Filosovietismo ce lo siamo spiegati con il passare del tempo, via via che la fascinazione estetica si è trasformata in visione del mondo. Anche se tutto questo non aveva niente a che fare con la politica: l’unico slogan politico era no future del punk, ossia la conclusione che questo stile di vita porta alla morte, non ha futuro, siamo stati costretti a diventare filosovietici: non avevamo nessuna voglia di diventare punk anarchici e guardare a Londra, o fare “hard-core” e guardare a San Francisco.
MC La politica non c’entra niente con il filosovietismo?
LE La politica è un capitolo chiuso nel 1975, e poi nel 1977.
Il fatto che siano stati adorati dalla sinistra antagonista, il fatto che abbiano suonato nei centri sociali, eccetera, non cambia niente.
Non ce ne fregava niente dei centri sociali, delle discoteche alla moda, dell’ARCI, della RAI – dice Ferretti. Perciò potevamo andare ovunque: stavamo correndo dietro la storia dei nostri sentimenti, della nostra vita, figurarsi quanto ci poteva interessare il resto.
Gli antagonisti pensavano ancora che fossimo dei “loro”, mentre noi sapevamo benissimo che loro non erano dei “nostri”.
MC Quando, nel 1985, suonarono al Leoncavallo, distribuirono un volantino molto duro.
Non intendiamo abituarci alle frasi fatte – vi si legge – alle spiegazioni che non spiegano, ai ripieghi dell’ideologia di turno sempre più misera, sempre più nebulosa. “Autogestito” è la parola magica che ogni ragazzino o tardone usa per avere gratis e con disprezzo quello che altri faticano a produrre. “Autogestito”: – basta la parola! – palle! Tutti i bottegai autogestiscono le loro botteghe, tutti i politici e i manager autogestiscono le loro carriere, tutte le casalinghe autogestiscono le loro cucine. Le parole non parlano più.
Il Leoncavallo era un locale, i gestori erano impresari, e i CCCP un gruppo che incassava i soldi dell’ingaggio. Tutto qua. I CCCP avrebbero suonato al Leoncavallo e il giorno dopo al Vaticano, non gli importava una sega. Niente faceva differenza. A parte Reggio Emilia.
Sul disco Compagni cittadini Fratelli partigiani, dice Ferretti, c’è stampata la cartina della provincia di Reggio. A noi interessava andare a suonare alle Feste dell’Unità, rivolgerci al PCI e alle istituzioni di Reggio Emilia. La nostra idea era fare dischi con le Coop, non ce ne fregava niente di andare in giro per case discografiche a elemosinare un contratto. Siccome però le Coop non facevano dischi e i nostri interlocutori ideali non capivano un cazzo, li abbiamo fatti con Gianpi e gli anarchici, correndo il rischio che gli anarchici e i centri sociali pensassero che fossimo lì per dare una mano a loro, mentre in realtà, nei nostri intenti, Ortodossia avrebbe dovuto togliere di mezzo tutti gli alternativi del mondo. E invece tutti gli alternativi venivano da noi a chiedere la loro parte. Si comportavano come se avessimo fatto un 45 giri con su scritto: Eresia. Calamitavamo tutti gli eretici, che poi ovviamente si sono sentiti fregati. Non voglio essere un estremista in questo mondo: voglio essere ortodosso.
LE Sono stati fraintesi. Hanno avuto un pubblico di eretici antagonisti. Tifavano rivolta, ma rivolta non era una rivolta con barricate, era una rivolta interiore, una rivolta del cuore.
MC Non è proprio così. La grande novità del romanticismo è contenuta nell’idea che non c’è differenza tra arte e mondo. L’arte è immediatamente mondo. Non è un discorso sul mondo, un metodo per cambiare il mondo, o una rappresentazione di ciò che nel mondo non funzione e va cambiato. L’arte dice quello che fa e fa quello che dice. Poi il romanticismo prese due strade diverse. Da una parte ci sono stati quelli che hanno pensato e creduto che il mondo capitalistico, il mondo della scienza e della tecnica, contenesse la possibilità di una liberazione. Pensiamo al tecno entusiasmo e alle promesse di libertà riaffermate dall’introduzione di internet. O all’idea che la meccanizzazione possa levare il fardello del lavoro salariato e renderci liberi per attività ludiche e creative. Dall’altra parte c’è stata una linea che credeva che il capitalismo non fosse progressivo, che la scienza e la tecnica, il sapere in generale, sono le sbarre della prigione che la modernità ha costruito intorno all’anima, e che la libertà significasse un ritorno ad una interiorità in cui queste sbarre, questi limiti fossero tolti. In questa seconda linea possiamo iscrivere, a titolo di esempio, Mishima, Baudelaire, Proust, Pasolini, Battiato, e Ferretti. Ortodossia non significa soltanto no al neocapitalismo del Leoncavallo e degli Autonomi, significa anche No future. Ma no futuro ha un senso molto preciso.
Vivevamo in un mondo frantumato, dice Ferretti, senza che vi fosse la possibilità di mantenersi integri: nulla era più integro, né la nostra terra né l’ideologia. Non eravamo altro che lo specchio di quella frantumazione e non potevamo che essere frantumati a nostra volta. Quello che il nostro pubblico cercava era una dritta per uscire dalla frantumazione, mentre noi non potevamo fare altro che dare maggiore risalto possibile alla frantumazione di cui eravamo parte. E non avevamo niente di più da dire. Ecco da dove nascevano equivoci tipo quello della seconda volta al Leoncavallo: loro avevano bisogno di noi e noi non avevamo bisogno di loro, che consideravamo impresari come chiunque altro.
Ho giocato duro con la mia psiche allora, dice Ferretti, e a tratti avevo la percezione di essere sulla soglia del delirio, in una situazione nella quale era difficile salvarsi. Avevo l’arroganza di pensare che essendo stato cinque anni operatore psichiatrico, prendendomi cura di dieci persone, una più fuori dell’altra, potevo permettermi di lasciarmi andare. Solo l’arrivo di Annarella mi ha dato la possibilità di fingere che il mondo non esistesse. Eravamo sullo zero, sulla carta bianca. Quando è uscita la fatwah degli iraniani contro Salman Rushdie, noi eravamo convinti che avessero ragione, perché era ora di smetterla di scherzare con la sacralità della vita.
LE Insomma, mentre si svelava il segreto del DNA, e la vita si riproduceva in provetta, si ricombinavano i geni per produrre pomodori Transgender (il discografico dei CCCP, Gianpi, imboccherà questa strada diventando uno dei primi trans attivisti italiani: Helena Velena), Ferretti pensa al mondo che fu, all’Ortodossia?
MC Anche Michel Foucault rimase affascinato dalla rivolta iraniana. Scrisse degli articoli per il Corriere della sera. No future non è solo la contestazione assoluta del neocapitalismo, della frantumazione che ha portato con sé. No future è una sentenza contro la scienza e la tecnica moderne. Se la scienza e la tecnica moderne nascono con l’intenzione di porre il mondo ai propri piedi come oggetto misurabile e prevedibile, no future significa dire no alla previsione, alla misurazione, all’oscuramento dell’avvenire. Se oggi l’avvenire dura molto a venire è anche per colpa della scienza e delle misurazioni statistiche, dei sondaggi di opinioni e delle serie storiche, dei grafici e dei computer che raccolgono a analizzano i dati. E se è vero che la raccolta di dati – la politica – è un modo per controllare e prevenire il disastro, c’è da dire che è anche un modo per restringe la porticina dalla quale l’avvenire entra nelle nostre vite. Ortodossia è un no al futuro e un si all’avvenire: se per futuro intendiamo il tempo misurato e misurabile della scienza e della politica, e per avvenire il tempo imprevedibile dell’attesa del tutt’altro. Il futuro prevedibile, un futuro che si poteva perfettamente misurare e prevedere già nel 1985, il futuro che ci tocca vivere oggi, e che era il neocapitalismo attivo al tempo dei libertari degli anni Sessanta e Settanta (vedi Marcuse), e che ci avrebbe dovuto liberare dalle fatiche, era già allora, e oggi sempre di più: Produci, Consuma, Crepa, Sbattiti, Fatti, Crepa.
LE Nel frammento 142 dell’Athenaeum Schlegel dice che la perfetta repubblica dovrebbe essere non solo democratica, ma nel contempo anche aristocratica e monarchica; nel limite della legislazione della libertà e dell’uguaglianza il colto dovrebbe prevalere e guidare l’incolto, e tutto dovrebbe organizzarsi in una totalità assoluta. Non ti pare un’idea un tantino reazionaria? Non credi che il romanticismo, quello di Ferretti, di Pasolini, di Battiato, sia un tantino reazionario?
Mettiamoci pure Nietzsche e Heidegger.
MC Certo. Poi nel frammento 310 dice che liberale è colui che è libero da tutti i lati e in tutte le direzioni come da se stesso; colui che considera sacro tutto ciò che fa, è e diviene, secondo la misura della sua forza, e che partecipa a tutto ciò che è vita senza lasciarsi traviare dall’odio e dal disprezzo di vedute ristrette.
Libero da tutti i lati e anche da se stesso = morto. La canzone dedicata a Mishima si intitola Morte, e la morte libera da tutti i lati e da se stesso – è l’arte romantica: la vita che passa nell’arte, la vita che divine, e nel divenire svanisce.
Nell’Avvenire e la questione dell’arte, Blanchot dice che tutta l’epoca moderna è contrassegnata da un duplice movimento che è chiaro già in Descartes, da un gioco perpetuo di scambio fra 1) un’esistenza che diviene sempre più pura intimità soggettiva e 2) la conquista, sempre più attiva e più oggettiva, del mondo in nome dello spirito che realizza e della volontà che produce.
L’arte, dice Blanchot, partecipa di questo destino e talvolta diviene 1) l’attività artistica, ma attività sempre riservata, e, per questa ragione, chiamata finalmente a sparire davanti alla verità dell’azione immediata e senza riserve. 2) Talvolta essa si chiude nell’affermazione di una sovranità interiore: quella che non accetta alcuna legge e ripudia ogni potere. La genialità romantica dà slancio a questo magnifico tema, che non solo è aldilà delle regole comuni, ma estraneo anche alla legge del compimento e della riuscita, sul suo piano stesso. L’arte, inutile al mondo per chi valuta solo ciò che è efficace, è pur anche inutile a se stessa. Se si compie, è fuori delle opere misurate e dei compiti limitati, nel movimento senza misura della vita, o, meglio, essa si ritira nel più invisibile e nel più interiore, nel punto vuoto dell’esistenza in cui difende la sua sovranità col rifiuto e con la sovrabbondanza del rifiuto. Questa esigenza dell’arte non è certo una fuga vana che non sia degna di essere presa sul serio.
LE Non stiamo mica parlando dell’anima bella, o dell’anima infelice? Di chi resta integro, di chi scopre la libertà nell’isolamento? Isolamento che sfocia nel puro nulla della morte, e ha come risultato il suicidio (Kirillov in Dostoevskij)? Di chi si isola dalla società e non nega un contenuto, una teoria, una morale, ma ogni contenuto, ogni teoria, ogni morale? Che nega tutto, e alla fine deve per forza negare anche se stesso? Oppure di chi si chiude in se stesso, come il religioso, come l’asceta, di chi si isola perché vive in un mondo ostile, in cui non è riconosciuto?
MC Qui parliamo di rifiuto, e in effetti una certa prossimità con l’anima bella o con l’anima infelice c’è. Tuttavia, dice Blanchot, niente è più importante di questo rifiuto totale, di questa sovranità che è rifiuto, e di un tale rifiuto che, per una sorta di cambiamento di segno, è anche l’affermazione più prodiga, è il dono, il dono creato, è ciò a partire dal quale può essere fondata una giustizia.
LE Schlegel diceva, lo abbiamo ricordato prima, che l’artista romantico riconosce come sua prima legge che l’arbitrio del poeta non tollera alcuna legge. Qui arbitrio non vuol dire che l’artista fa quel cazzo che gli pare, ma che l’azione artistica o è Assoluta oppure non è vera azione artistica. E qui Assoluto significa proprio senza interruzione, senza qualcosa al di fuori, o la di sopra di sé, e che dica ciò che siamo, che ci detti una legge. Il rifiuto della legge, di ogni istanza suprema, il No, è, in questo caso, un si, il si alla possibilità dell’avvento di una nuova legge. Dal momento che la legge deve provenire dal sovrano, il sovrano deve apparire come tabula rasa. Questa tabula rasa, dice Blanchot, è un dono, il dono della giustizia, ovvero della legge suprema, della Costituzione.
Ho tradotto bene?
MC Esatto. È a questa esigenza – esigenza della giustizia – dice Blanchot – che l’arte, relegata in noi, deve il fatto di non essersi appagata nella piccola felicità del piacere estetico.
È vero che a questo punto, dice Blanchot, l’arte sfora il perimetro romantico. L’arte non si vuole più completamente nell’opera, non è ciò che fa. Non è più dalla parte del reale, non cerca la sua dimostrazione nella presenza di una cosa prodotta, ma si afferma senza prova nella profondità dell’esistenza sovrana. Diviene quella passione che non vuole più avere parte al mondo. Qui, nel mondo, regna la subordinazione ai fini, la misura, la serietà, l’ordine; qui la scienza, la tecnica, lo Stato; qui la significazione, la certezza dei valori, l’Ideale del Bene e del Vero. L’arte è il mondo rovesciato: l’insubordinazione, l’eccesso, la frivolezza, l’ignoranza, il male, la mancanza di senso, tutto ciò le appartiene, vasto dominio. Dominio che essa rivendica: a quale titolo? Non ha titolo, non potrebbe averne, non potendo rifarsi a niente. Essa parla del cuore, dell’esistenza irriducibile, designa la sovranità.
LE Mi viene in mente la scena muta di Pasolini alla domanda di un giornalista (Enzo Biagi) in una trasmissione televisiva: “Allora – disse il giornalista – adesso è in televisione, ci dica cosa non può dire in televisione”.
Cosa non poteva dire Pasolini?
Che in televisione (siamo nei primi anni Settanta) non si può dire cazzo, figa, culo, sborra, faccia di culo del presidente, eccetera eccetera?
Niente affatto.
Tant’è che queste cose in televisioni si possono dire, e già si dicevano al cinema.
Ciò che Pasolini non poteva dire era il suo silenzio, poteva dirlo solo restando in silenzio. Il silenzio era all’opera, trafiggeva la sua vita, mentre discorsi belli tondi e ragionevoli, facevano mostra di democrazia. Tifava rivolta, e la rivolta si faceva largo e lo trafiggeva, deponendolo.
MC Io non sono un’opera d’arte. Diciamo che sono diventato un alibi per due tre amici sfigati che hanno visto in me il prototipo del… come dice Blanchot? del maledetto che non si subordina ai fini, alla misura, alla serietà, all’ordine, alla scienza, alla tecnica, allo Stato, alla significazione, alla certezza dei valori, all’Ideale del Bene e del Vero; un disgraziato che viveva (e vive) in un mondo rovesciato, a base di insubordinazione, di eccesso, di frivolezza, di ignoranza, di male, di mancanza di senso, eccetera, eccetera. Tutto ciò mi appartiene, non c’è dubbio. Come non c’è dubbio che chi si bea di sto fatto è uno sfigato che porta sfiga.
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