Le radici della crisi del Socialismo reale

poznan

In un articolo di qualche anno fa, nell’esporre il passaggio dalla Rivoluzione politica alla Rivoluzione sociale del 1917, con J Reed e la sua opera Dieci giorni che sconvolsero il mondo, nel nostro cammino, c’ eravamo lasciati alla presa del Palazzo d’Inverno. (1)
Ecco la sagace penna di Reed, che somiglia a una potente macchina da presa moderna:
Petrograd, giovedì 8 novembre 1917
«Il giorno si levò su una città al colmo dell’eccitazione e dello smarrimento, su una nazione tutta sollevata in una formidabile tempesta» (2).
Nonostante l’audacia intellettuale di Lenin e la sua capacità di spiegare le cose complesse in modo semplice, sebbene la sua voce calma e ferma fosse in grado di persuadere i delegati durante il Congresso di muoversi nella direzione dell’ordine socialista, nei visi di questi ultimi, non appena furono nel tram, Reed lesse una vena di preoccupazione. Dopo la “presa del potere”, un dubbio li assalì: «Come faremo a far eseguire le nostre decisioni?».
Fin dai primi giorni di questo grande rivolgimento sociale, dal cui epicentro le onde si propagarono in tutto il mondo ed influenzarono le strategie e le tattiche politiche di Governi contrapposti, non mancarono gli ostacoli, le insidie, le diatribe che ne frenarono gli entusiasmi e le passioni che disseminava lungo il suo percorso.
La spirale di questa fermentazione tumultuosa coinvolse l’intero corpo sociale e spazzò via le vecchie e decrepite istituzioni feudali, mettendo a tacere, nel contempo, le aspirazioni dell’inconsistente classe borghese.
Sul piano culturale, per esempio, grandi erano le ambizioni e gli ideali del Proletkult, un’organizzazione nata a cavallo della Rivoluzione d’Ottobre, che non mirava solo ad istruire ed elogiare il proletariato come creatore del mondo, ma stimolava la sperimentazione e la ricerca di nuove forme espressive in tutti i campi: il teatro, la musica, la pittura, eccetera.
In generale, molti studiosi e critici della Rivoluzione russa, convengono sul punto che il processo evolutivo innescato subì un brusco rallentamento con la scomparsa di Lenin. La sua immagine venne imbalsamata nel Mausoleo, per vegliare sull’Unità dei protagonisti della Rivoluzione, ma nel concreto si aprì una lotta fratricida, la quale si aggiunse alla sanguinosa guerra civile in corso.
Lenin a fine dicembre del 1922, non appena si riprese dal secondo attacco di ictus, scrisse una lettera indirizzata al XII Congresso (lettera che non è stata presa in considerazione) nella quale espresse vive preoccupazioni per le rivalità e le ambizioni dei suoi successori, mettendo in evidenza, in particolare, la personalità grossolana di Stalin, che nel frattempo era diventato Segretario Generale del Partito, e sostenendo che egli aveva concentrato nelle sue mani “un immenso potere”, ma non era in grado di saperlo usare.
Ma ormai era troppo tardi! Nel 1926, in una lettera spedita al Comitato Centrale del Partito, Gramsci, che aveva intravvisto lo scempio, come fa notare Guido Liguori in un suo recente post, scrive: «State distruggendo l’opera vostra».
Nei primi anni Trenta del secolo scorso, Bataille, uno dei più autorevoli esponenti della rivista antifascista La critique sociale, prendeva atto delle brutte notizie che arrivavano dall’Unione Sovietica, a proposito delle profonde delusioni che viveva la classe operaia: la Rivoluzione non gli aveva permesso di emanciparsi dalle dure condizioni di lavoro e dallo sfruttamento.
A livello politico, invece, è molto probabile che l’azione più indegna (ma questo è il mio pensiero) che abbia compiuto il Governo di Stalin sia il Patto Molotov-Ribbentrop del 1939.
Nel 1952, anno in cui venne promulgata la Costituzione della RPP, il Governo dei Soviet, per esprimere l’amicizia verso il popolo polacco, che a maggioranza aveva aderito al Socialismo reale, elargì come dono la costruzione del Pałac Kultury i Nauki (Il Palazzo della Cultura e della Scienza). Tale gesto potrebbe essere interpretato come il tentativo di neutralizzare le tensioni ataviche tra i due paesi, che hanno costellato i loro rapporti conflittuali, per dispute territoriali, durante i numerosi decenni che precedettero la seconda guerra mondiale.
In realtà, Baffone non vedeva di buon occhio gli alleati polacchi, era sospettoso e nonostante i buoni propositi, egli non si fidava dei comunisti polacchi. A tal proposito, c’è un suo aneddoto che recita: «È più facile mettere una sella a una mucca che un polacco diventi comunista». Non credeva ai suoi occhi e non poteva immaginare che la maggioranza del popolo polacco avesse scelto la strada del socialismo e non fu solamente, com’è stato più volte ribadito da più fronti, un’imposizione del potere di Stalin e della sua cricca. In Polonia, non appena fu liberata dall’occupazione nazista, il potere passò principalmente al Partito dei Lavoratori Polacchi, che era strettamente legato all’Unione Sovietica.
Le forze politiche favorevoli all’URSS includevano principalmente il Partito dei Lavoratori Polacchi (Polska Partia Robotnicza, PPR), che in seguito si fuse con il Partito Socialista Polacco (Polska Partia Socjalistyczna, PPS) per formare il Partito Operaio Unificato Polacco (Polska Zjednoczona Partia Robotnicza, PZPR) nel 1948.
Da questo punto di vista J. Reed, elogia la capacità persuasiva dei bolscevichi nelle assemblee: discussioni interminabili, alle quali la partecipazione attiva è molto elevata. Dunque, non solo armi, non solo la “presa del potere”, ma è lo stesso Lenin che riesce a coinvolgere tutti i delegati internazionali e in particolare i socialdemocratici ucraini e i socialisti polacchi, nella direzione di costruire le fondamenta di un paradigma sociale, che prevedeva la concentrazione dei mezzi di produzione nelle mani dello Stato, seguendo i principi dell’economia pianificata.
È su queste note che dev’essere inquadrato il libro Capire Danzica, di Piero Bernocchi, pubblicato nel 1980 e che con gran tempismo coglie le crepe del terreno sul quale è stato edificato il Socialismo reale, anticipando la caduta della cosiddetta Cortina di ferro.
Altrimenti c’è il pericolo di vedere solo i “mostri” del Socialismo reale, buttando alle ortiche tutto lo slancio del pensiero rivoluzionario. Pensiero ed azione che hanno messo in moto le masse dei proletari, non solo nelle aree che gravitavano intorno all’Unione Sovietica, ma in tutto il mondo, nonostante le notizie, che continuavano a trapelare, sulla repressione della classe operaia, da parte della cosiddetta “neo-borghesia rossa”, guidata da Stalin.
La lettura del libro di Bernocchi è tutta in salita, non solo per il tema spinoso del riconoscimento del fallimento del Socialismo reale, ma anche per i tentativi di riproporre l’analisi marxista in questo difficile contesto.
Sullo sfondo ci sono tre grandi rivolte, che si propagano in tre decenni diversi:

a) la rivolta di Poznań del 1956;
b) le rivolte che s’inseriscono nel ciclo di lotte dal 1968 al 1970, che vedono come protagonisti gli studenti e gli operai del Baltico;
c) le rivolte di Ursus (Varsavia) e Radom del 1976.

Bernocchi sostiene che c’è un filo conduttore comune che lega questi avvenimenti, un filo che mette in evidenza le contraddizioni insanabili, prodotte dal “regime politico” che si viene a formare all’indomani della seconda guerra mondiale.
Sin dalla prima pagina di Capire Danzica, l’autore mette al centro le distorsioni del potere politico e la sua prevalenza indiscussa sulla struttura economica. Il morbo dell’esercizio del potere politico riguarderebbe tutti i paesi dell’Est e forgerebbe «tutto il funzionamento della vita sociale ed economica». (3)
Ci troviamo di fronte a un ribaltamento dell’interpretazione meccanica che vede la struttura economica determinare la sovrastruttura, ponendo l’ideale al di sopra di tutti gli oggetti materiali che innervano i rapporti sociali di produzione. Una visione monca che fa a pugni con il metodo dialettico e il materialismo storico.
Del resto, non è un caso che nella stesura della Costituzione del 1952, un documento che si è dissolto come la neve al sole, il capitolo del regime politico precede quello del regime sociale ed economico. In questa Carta fondamentale c’era scritto che la RPP era custode delle conquiste del popolo lavoratore delle città e delle campagne. Quando al comma 2 dell’art. 2 dice che i rappresentanti del popolo alla Dieta e ai Consigli popolari sono responsabili di fronte ai propri elettori e possono essere revocati da essi, sicché si fa riferimento a forme di partecipazione attive alla vita politica, prendendo spunto dalla Comune di Parigi del 1871, si può affermare che non siamo di fronte ad un sistema democratico?
In essa, parimenti, c’è una dura condanna delle classi sociali che vivono dello sfruttamento degli operai e dei contadini.
Pertanto, nel capitolo 2, nel quale si esplicano le peculiarità economico-sociali della RPP, si ribadisce che la pianificazione della politica economica mira allo sviluppo delle forze produttive e al miglioramento costante delle condizioni di vita delle masse popolari.
Nel leggere gli articoli dei primi due capitoli, è possibile rendersi conto che l’intelaiatura non è meccanica, né tanto meno si percepisce l’asfissia totalitaria dell’apparato burocratico del Partito, che tiene le redini della macchina statale.
Eppure, nei primi anni 50, la crisi economica e sociale serpeggia all’interno dei satelliti dell’Unione sovietica. Il malcontento e gli stenti della classe operaia aumentano, nonostante si continui a viaggiare sulle ali di cera dello stacanovismo. A. Wajda, nell’Uomo di marmo, riassume in modo magistrale gli entusiasmi e le sofferenze del popolo lavoratore, così com’è definito dalla Costituzione del 1952.
Nella primavera del ’56, come rileva Bernocchi, «alcuni sindacati di settore, sotto la pressione crescente degli operai, decisero di disconoscere i vecchi contratti collettivi, fissati d’autorità dal POUP e dalla Commissione pianificatrice statale». (4)
Agli occhi dei lavoratori e delle lavoratrici, il Sindacato era un prolungamento del Partito, pertanto non difendeva i loro diritti, anzi i membri dell’apparato organizzativo ed esecutivo, che godevano di una serie di privilegi, premevano per accelerare i ritmi produttivi ed allungare l’orario di lavoro.
Il lato attivo della politica pianificatrice iniziava a mostrare la sua impotenza, mentre la frustrazione dei lavoratori aumentò notevolmente, quando realizzarono che nonostante lavorassero di più, il potere d’acquisto dei salari veniva eroso dall’aumento dei prezzi.
Il sistema produttivo funzionava a singhiozzo: le difficoltà di approvvigionamento di alcune materie prime facevano sì che tante fabbriche fermavano la produzione e di conseguenza gli operai non percepivano il salario durante i blocchi. La produzione s’inceppava, quindi i prezzi lievitavano. Si viveva uno strano paradosso: gli operai non avevano diritto di sciopero, ma erano le “imprese statali” a chiudere i battenti, contro la volontà dei loro stessi dirigenti.
Fu in questo generale clima di sfiducia nelle istituzioni che a Poznań scoppiò l’insurrezione del 28 giugno del 1956.
Quando a Poznań si diffuse la notizia che la delegazione composta da membri del Partito locale e dal Comitato della fabbrica Zispo – dove producevano materiale ferroviario e militare – che era stata invitata a Varsavia, per trovare una mediazione alle minacce di sciopero, era stata arrestata, i lavoratori della città si radunarono nella zona della Fiera internazionale ed iniziarono a protestare.
L’intervento della polizia fu infruttuoso, poiché scaldò di più gli animi. Nella prima parte della giornata del 28 giugno vi furono scontri e sparatorie con la polizia, in seguito intervennero i carri armati e le truppe speciali, il conflitto divenne più cruento: sul terreno caddero una cinquantina di persone, la maggior parte di loro erano operai. Non ci fu l’intervento dell’Unione Sovietica, come accadde invece a Budapest, nel novembre dello stesso anno, proprio in seguito a una manifestazione di solidarietà nei confronti degli operai trucidati in Polonia, pochi mesi prima.

(1) www.coku.it, 10 giorni che sconvolsero il Mondo
(2) J. Reed, Dieci giorni che sconvolsero il mondo, p. 81, traduzione italiana del 1961, www.larici.it
(3) ) P. Bernocchi, Capire Danzica. L’autorganizzazione operaia attraverso le rivolte (1956-1980), Cooperativa Editoriale, Roma 1980, p. 8.
(4) Ibidem, p. 10.