I
«La teoria dei bisogni di Marx», apparso in Italia nel 1974 con una lunga prefazione di Rovatti, raccoglie alcune sottili riflessioni che Ágnes Heller – allieva di Lukács – elabora a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta.
Heller riprende e approfondisce l’umanismo anti-positivista tipico della svolta marxista degli anni 20. Il suo lavoro di distruzione si dirige verso quell’automatismo struttura-sovrastruttura che aveva lasciato all’azione umana (alla libertà) ben poco spazio.
Sono le condizione economiche, le leggi di sviluppo del capitalismo, che determinano le svolte sociali e politiche, che decidono del destino degli uomini.
È proprio contro queste leggi che Heller dirige la sua decostruzione. Una decostruzione storicista che piega il marxismo verso un umanismo vitalista. Il quadro è noto – non mi dilungo. L’uomo entra nella storia lavorando – lavorandosi – estraniandosi nel mezzo – nel medio, il quale gli si rivolta contro e lo domina.
È la storia del lavoro vivo che si oggettivizza in lavoro morto, e in quanto lavoro morto – capitale – comanda il suo produttore, etc. Questo sdoppiamento, che nel capitalismo diviene appunto sdoppiamento tra lavoro vivo e lavoro morto, tra valore-uso e valore (valore-scambio) etc, si struttura in antinomie che nel capitalismo, dice Heller, sono antinomie della produzione sviluppata di merci.
Il capitalismo si esprime in queste antinomie. Di più, il capitalismo è strutturato come un insieme di antinomie. La legge sta dal lato del lavoro estraniato. I rapporti sociali feticizzati in cosalità, dice Heller, stanno di fronte ai singoli uomini come leggi economiche, quasi-leggi di natura.
Non mi interessa la debolezza di questa dimostrazione. Non mi interessa far notare come il piano in cui si collocano queste antinomie è quello della contraddizione determinata e del cattivo infinito, piano dal quale è estenuante e vano trarre qualsiasi conclusione. Mi interessa invece far notare come Heller, in sintonia con Marx, ponga giustamente la legge dalla parte delle macchine (dell’animale) ed esclude dall’uomo il meccanico, il ripetitivo, finendo per riprodurre e rimanere ostaggio di quelle antinomie che credeva di poter superare.
L‘apertura alle antinomie non appartiene a uno dei due poli (all’uomo), e non può appartenergli come una cosa di cui si può disporre, o di una cosa rispetto alla quale retrocedere e porsi dal di fuori (trascendenza).
Anche qui il quadro è noto.
II
Il funzionamento delle potenze sociali, scrive Heller, è mistificato in leggi di natura. Non si tratta di una semplice copertura, di un occultamento, si tratta proprio delle forze sociali (delle forze vitali), dunque dei rapporti tra uomini, delle differenze, che diventano rapporti tra cose. La cosificazione è feticismo. È trasferimento – vero e proprio – di forza dall’uomo alla cosa. Non insisto nemmeno sulla problematicità di questo animismo, o sullo statuto di questa legge (o quasi-legge) di natura che incorpora la forza vitale dell’uomo – di questa Forza di Legge.
Nei rapporti di scambio – Heller cita e commenta un passo importante del Capitale (I-1,3) – nei rapporti di scambio i lavori privati vengono continuamente ridotti alla loro misura socialmente proporzionale, perché nei rapporti di scambio dei loro prodotti, casuali e sempre oscillanti, trionfa con forza, come legge naturale regolatrice, il tempo di lavoro socialmente necessario.
Gli uomini, dice Heller, sono liberi. Produzione e bisogno, dice, si incontrano sul mercato come domanda e offerta, e questo incontro è casuale. È anche possibile che non si incontrino. Non c’è nulla di preordinato. Gli uomini della società capitalistica, scrive Heller, sono individui casuali, non determinati da alcuna divisione naturale del lavoro; il loro destino, dice, non è predisposto dalla nascita. Non c’è nulla nell’uomo (nei suoi bisogni) che possa trarlo fuori dalla propria condizione, non possiede nulla (non domina nulla) nessuno strumento che possa elevarlo sopra la catena indefinita di (possibili) compere e vendite. L’uomo che porta la sua forza-lavoro o il suo prodotto al mercato non trova in se stesso il punto assoluto da cui dominerebbe la totalità della propria condizione, da cui potrebbe considerarsi dal di fuori.
E tuttavia, questo essere limitato (finito), ripreso nella serie di cui è un anello, subisce la legge – legge fatta valere come forza naturale, come regolarità meccanica, come lavoro – lavoro morto – cosificato.
È questo il punto interessante di tutto il discorso di Heller. La legge (non il diritto), la Legge (infinito) come risultato, come prodotto del lavoro, e mai come punto di partenza. Tutto ciò avviene perché l’uomo lavora, si lavora. L’estraneazione e la quantificazione sono il prodotto di uno stesso movimento. Trasformazione della qualità in quantità, del movimento in quiete eterna, in denaro etc.
Il produttore è un uomo libero, dice Heller. Un uomo che si è distaccato dal cordone ombelicale della comunità naturale. Dopo questo distacco – e in virtù di questo distacco – l’uomo si situa nella partizione valore-uso/valore.
Il valore-uso è altrettanto storico quanto il valore-scambio. L’interpretazione naturalistica dei bisogni, dice Heller, presuppone l’interpretazione naturalistica del valore-uso. Non ci sono valori-uso naturali. Tutto è storia. Dopo il distacco, tutto è storico, divenuto, condizionato, limitato, finito, situato.
La prima azione storica – qui Heller commenta il Marx dei Manoscritti – è la creazione dei mezzi. Questa produzione è la prima azione storica. Il bisogno degli strumenti – commenta Heller – è già un bisogno nuovo che si differenzia da quello animale. Marx, dice Heller, descrive la creazione di bisogni nuovi, non dati nella costituzione biologica.
Impostazione tradizionale: la storia inizia sempre come differenza dall’animale, dal biologico. L’uomo abbandona la sua animalità non solo perché lavora, ma, soprattutto, perché si lavora, si pone (si auto-pone, diventa oggetto della propria azione) si consegna a nuovi bisogni – viceversa, l’animale ripete il programma cablato nel suo DNA. Come lo strumento, ripete l’algoritmo. L’uomo, invece, innova, inventa, si diversifica.
Chiamo bisogno, dice Heller, solamente quello umano riferito a oggettivazioni e diretto a esse; nell’animale, dice, si tratta di necessità, istinto, “drive”, etc. Non c’è spazio per il caso. Nell’animale c’è solo la dura legge della necessità naturale iscritta in profondità nella biologia. Nell’animale, dice, non è possibile distinguere tra atteggiamento verso gli oggetti e il singolo oggetto del suo drive. L’uomo, invece, conquista la storia, si stacca dall’algoritmo, che continua a ripetersi in lui, ma contro la sua volontà, o, per un processo di inversione e perversione dialettica, come sua volontà estraniata, come suo potere cosificato, come apparato strumentale o fabbrica automatica che lo assoggetta a regolarità matematiche.
Riassumo. L’uomo stacca la spina dell’automatismo biologico, si emancipa alla storia e alla differenza, al movimento, entra nel regno umano vero e proprio– si emancipa dall’eterno ripetersi, da quell’algebra metafisica iscritta nel DNA.
III
Quella stessa storia – quella stessa strada, percorsa con gli strumenti che lo hanno tratto fuori dalla fissità preistorica – consegna l’uomo a un destino crudele, regolato dalle leggi quasi-naturali dei feticci che gli erano serviti per uscire dalla preistoria umana.
Ma la storia non è finita, dice Heller. Perché – terzo capitombolo – nella società futura – nel comunismo – il qualitativo potrà essere scambiato solo con il qualitativo. L’essenza non si presenterà come feticcio, dunque non potrà assumere una natura quantitativa. I bisogni saranno in rapporto diretto con gli oggetti corrispondenti.
La quantificazione di tutte le qualità, scrive Heller, era un momento necessario perché si realizzasse, almeno come possibilità, il puro bisogno qualitativo – vale a dire non il bisogno assegnato dalla divisione naturale del lavoro, bensì il bisogno realmente individuale.
L’estraniazione giunta al massimo grado, dice Heller, deve produrre il bisogno di trascenderla, il bisogno della ricchezza e della realizzazione dell’essenza del genere. Il possibile deve tornare a dominare il fattuale, il materiale, il meccanico.
È in base alla possibilità che si determina ciò che è conseguibile. Il «che cosa» – il possibile, l’essenza – è ciò che deve essere conosciuto e compreso prima di tutto, posto prima di tutto, poiché è in base alla conoscenza dell’essenza che la produzione acquista la sua perspicacia.
Ciò che differenzia l’uomo dall’animale sono le possibilità del genere. L’uomo pensa il possibile, è il possibile – di fronte al quale il reale (l’effettivo) è nulla. L’uomo sa pensarsi libero. L’animale – come l’operaio di fabbrica – non ha altre possibilità se non quelle iscritte nell’algoritmo – è mera necessità, avanza con la catena di montaggio.
Apro una parentesi che subito chiudo. Questo tipo di discorso – iper-tradizionalista – sull’uomo e sull’animale – sulla ripetizione e sulla metafisica – in cui la ripetizione e la metafisica (l’algoritmo) stanno interamente dalla parte dell’animale (e dell’operaio) e non anche, come dice Blanchot (e Nietzsche), dalla parte di Dio e dell’uomo – questo tipo di discorso non solo porta a un disprezzo del lavoro e del cosiddetto lavoro manuale, che è soprattutto (ma non solo) fatica e ripetizione (ovvero algoritmo), ma porta anche ad opere continue di evangelizzazione con annessi e connessi esorcismi per liberare l’uomo dall’algoritmo (dalla matematica) restituendolo alla sua (presunta) umanità propria, originaria, originale.
IV
La società “puramente sociale”, scrive Heller, la società emendata dalla ripetitività (legalità?) biologica e animale ha il fine, dice, di alleggerire il lavoro dell’operaio (liberarlo dalle forme di lavoro brutali e inumane). La brutalità è il risultato della reificazione dei rapporti sociali, della reificazione del lavoro. Lavori qualitativamente differenti sono appiattiti con la forza dalle leggi economiche. Leggi, ribadisce Heller, che appartengono solo alla produzione di merci e solo ad essa, come espressione del feticismo. Pertanto, dice, il superamento positivo di questo feticismo non può in alcun modo procedere a partire da “necessità naturali”, da leggi di sviluppo, etc. Le leggi di sviluppo – e una certa passività – sono confinate al capitalismo. Il superamento del capitalismo è positivo, è interamente umano.
Nel capitalismo il bisogno umano, l’offerta umana – la singola e differente offerta umana che si affaccia liberamente sul mercato, e desidera veder riconosciuta la sua differenza, desidera essere apprezzata per quel che effettivamente vale ed è costata in termini di lavoro vivo personale, o magari tornarsene a casa con il proprio fagotto quando il caso non vuole che l’incontro si realizzi; questa offerta umana è brutalizzata dalle leggi economiche, è appiattita al valore medio.
La legge del valore, dice Heller, non permette nemmeno di riportare intatto il valore-uso a casa. Non c’è valore-uso che sia fuori dalla storicizzazione forzata – ne sanno qualcosa i disoccupati, per i quali la propria forza-lavoro inoperosa non trattiene alcun valore, alcuna presunta utilità naturale, quando è espulsa dal mercato. La legge economica, dice Heller, si conferma come crisi e distruzione di risorse, si conferma con la forza di una legge naturale.
V
Questa storicità, anche se con una piega tutt’altro che umanista, viene confermata da Marx.
A determinare il valore, dice Marx nei Grundrisse, non è il tempo in cui la cosa è stata prodotta, non è ciò che in essa vorrebbe funzionare come essenza. Non c’è niente di presente nel prodotto portato al mercato. Il valore è atteso, scritto a partire dal futuro, dall’altro lato della compravendita. Non è il tempo in cui la cosa è stata prodotta a dare il valore, bensì, dice Marx, il minimo di tempo in cui essa è suscettibile di essere prodotta, minimo che viene rivelato dalla concorrenza. Quando aumenta la produttività, tutti i valori vengono riscritti. È il futuro che scrive e riscrive il passato. Supponete per un istante, dice Marx, che non esista più concorrenza, e che quindi non esista più alcun mezzo per constatare il minimo di lavoro necessario alla produzione di una merce; che accadrà? Sarà sufficiente impiegare nella produzione di un oggetto sei ore di lavoro per essere in diritto, secondo Proudhon (Miseria della filosofia), di esigere in cambio il sestuplo di colui che per la produzione del medesimo oggetto abbia impiegato solo un’ora. Il che cozza contro il buon senso, oltre che con la ragionevolezza economica. La formula per così dire «egualitaria» è un’esclusiva di Proudhon? chiede Marx. È stato lui per primo ad immaginare di riformare la società, trasformando tutti gli uomini in lavoratori immediati, che scambiano quantità di lavoro eguali?
Certamente no.
È stato il comunista Bray a inventare la formula: «Il costo di produzione determinerebbe in ogni circostanza il valore del prodotto, e valori eguali verrebbero scambiati sempre con valori eguali».
Un’ora di lavoro di Pietro si scambia con un’ora di lavoro di Paolo – dice Marx. Ecco l’assioma fondamentale di Bray.
Dunque, dice Marx, se si suppone che tutti i membri della società siano lavoratori immediati, lo scambio di quantità eguali di ore di lavoro è possibile solo alla condizione che sia stato convenuto in anticipo il numero delle ore che sarà necessario impiegare nella produzione materiale. Ma una simile convenzione esclude lo scambio individuale.
Bisogna tenere a mente quest’ultimo passaggio di Marx (lo scambio di quantità eguali è possibile solo alla condizione che sia stato convenuto in anticipo), perché è su questo tipo di programmazione che Heller appunterà le sue speranze di una società futura.
Senonché, Marx aggiunge quanto segue. Col fatto stesso di porre la questione in questi termini Proudhon presuppone la moneta. Presuppone quella reificazione che agisce come supplente metafisico.
Un valore, dice Marx con spiccato senso strutturale, non può mai costituirsi isolatamente. Esso infatti non viene costituito dal tempo necessario a produrlo isolatamente, bensì in rapporto alla quantità di tutti gli altri prodotti che possono essere creati nel medesimo tempo. Anche la costituzione del valore dell’oro e dell’argento – dunque della moneta – presuppone già avvenuta la costituzione di una moltitudine di altri prodotti. Non c’è bisogno, dice Marx, di tirare fuori dal cilindro la forza sovrana, e dire, come dice Proudhon, che la moneta nasce dalla consacrazione sovrana, che i sovrani si impadroniscono dell’oro e dell’argento e vi appongono il loro sigillo.
Non è affatto la vendita di un prodotto qualsiasi al prezzo del costo di produzione che costituisce «il rapporto di proporzionalità» tra l’offerta e la domanda, cioè la quota proporzionale di questo prodotto in relazione all’insieme della produzione; sono le variazioni della domanda e dell’offerta a indicare al produttore la quantità in cui bisogna produrre una data merce per ricevere in cambio almeno le spese di produzione. E come tali variazioni sono continue, vi è anche un continuo movimento di flusso e riflusso di capitali nei diversi rami dell’industria.
Non «esiste un rapporto di proporzionalità» del tutto costituito – dice Marx; esiste solo un movimento costituente.
Secondo Proudhon il movimento da A a B non è un problema, per levarsi dall’impaccio è sufficiente eliminare B, ovvero, eliminare il movimento. I prodotti, dice Proudhon, saranno d’ora in poi scambiati in ragione esatta del tempo di lavoro che sono costati. In qualunque proporzione stiano fra loro l’offerta e la domanda, lo scambio delle merci si effettuerà sempre come se fossero state prodotte proporzionalmente alla domanda. Si assuma Proudhon l’incarico di formulare e di far approvare una simile legge – commenta Marx; noi gli risparmieremo allora di fornirci le prove. Se egli tiene invece a giustificare la sua teoria, non in quanto legislatore, ma in quanto economista, dovrà dimostrare che il tempo necessario a produrre una merce indica esattamente il suo grado di utilità e indica il suo rapporto di proporzionalità con la domanda, e, di conseguenza, con l’insieme della ricchezza sociale. In questo caso, se un prodotto si vende a un prezzo eguale alle spese di produzione, l’offerta e la domanda si equilibreranno sempre, poiché si suppone che le spese di produzione esprimano il vero rapporto in cui l’offerta si trova con la domanda. Si torna sempre al punto di partenza, in cui lavoratori immediati ricevono per salario il proprio prodotto, in cui un valore d’uso si scambia con se stesso, oppure un lavoro determinato si scambia con se stesso – come dire che non si scambia affatto.
Uno scambio di valori d’uso – depurato da ogni idealizzazione – non è uno scambio. L’immediatezza che cerca Proudhon deve fare i conti con il denaro. Anche perché non c’è modo di fare i conti senza il denaro, ovvero senza pensare la qualità come quantità. Smettere di contare significa smettere di pensare.
Vendere al costo di produzione (Grundrisse), istituire una equivalenza tra valore nominale e valore reale, equiparerebbe dunque il valore reale (realen Wert – Tauschwert) delle merci e il loro valore nominale (nominellen Wert), equiparerebbe il valore reale al loro prezzo o valore monetario (Geldwert). Si avrebbe un’equiparazione del valore reale e del valore nominale (realen Werts und des nominellen Werts), del valore e del prezzo. Ma a ciò si giungerebbe solo nel presupposto che valore e prezzo siano diversi solo nominalmente. Ma non è affatto così, dice Marx.
Non è affatto la vendita di un prodotto qualsiasi al prezzo del costo di produzione che costituisce «il rapporto di proporzionalità» tra l’offerta e la domanda, cioè la quota proporzionale di questo prodotto in relazione all’insieme della produzione; sono le variazioni della domanda e dell’offerta a indicare al produttore la quantità in cui bisogna produrre una data merce per ricevere in cambio almeno le spese di produzione. E come tali variazioni sono continue, vi è anche un continuo movimento di flusso e riflusso di capitali nei diversi rami dell’industria.
Non «esiste un rapporto di proporzionalità» del tutto costituito – dice Marx; esiste solo un movimento costituente.
Come nota giustamente Ricardo, dice Marx, «aumentando costantemente la produttività, diminuiamo costantemente il valore di alcune cose già prima prodotte». Il significato (il valore) – la storia – viene continuamente riscritto. Niente è fissato nella pietra. La Legge è un risultato, un prodotto.
VI
Bisogna intendere queste antinomie – uso/valore; vivo/morto; caso/necessità; etc; – non come antinomie del pensiero, scrive Heller, ma come antinomie dell’essere. Entro questo quadro anche la dialettica deve essere considerata espressione del capitalismo.
Il capitalismo è il regno della produzione, il regno della necessità. È solo in questo scorcio storico che il regno umano – il regno della libertà – si trova subordinato alla necessità economica.
Il regno della produzione, tutto ciò che ha a che fare col (cosiddetto) ricambio organico con la natura, scrive Heller, rimane il regno della necessità, però la necessità sarà subordinata alla libertà. L’umanità nuova, socializzata alla libertà, dice Heller, dominerà il regno della necessità naturale e lo regolerà, lo controllerà – lo pianificherà.
La legge del valore, che si manifesta nelle oscillazione tra valore di scambio e prezzo, non si applicherà più. L’eliminazione di questa legge (quasi-naturale), dice Heller, porterà via con sé anche il momento della casualità. Eliminando questa legge, dice Heller, si elimina anche ciò su cui essa si misura.
Nella società futura – che Heller si guarda dal chiamare comunista – gli uomini non saranno più in rapporto casuale con la socialità.
Il capitalismo emancipa l’individuo dalla socialità patriarcale. Sul mercato il lavoro è – e non può non essere – lavoro libero. Ma il capitalismo libera il lavoro per assoggettarlo a un padrone più terribile. La composizione degli interessi non sarà più opera di un patriarca, ma sarà opera della legge del valore, la quale piega, omologa, appiana le differenze, nega la qualità, trasforma tutto in quantità e numero e, quando non riesce a livellare e far passare da una mano all’altra, distrugge – annichilisce. La distruzione si presenta come sovrapproduzione, come sovrabbondanza di capitale e forza-lavoro, come eccedenza di capacità produttiva, etc. La distruzione non è un momento di caos, ma è un momento di ricomposizione dell’ordine. Quando domanda e offerta non si compongono casualmente, a ciò provvede la ferrea legge del valore.
Nella società futura la teleologia, scrive Heller, ha il predominio sulla casualità. L’«intelligenza associata» dei produttori associati incarna la teleologia sociale. Nella società del futuro nessuna forza pseudo-sociale, scrive Heller, si fa valere “dietro le spalle” degli uomini: dalle posizioni della teleologia collettiva “emerge” ciò che gli uomini vogliono per davvero. Mentre nella società capitalista, nella società della divisione del lavoro, è la macchina a ricomporre gli interessi e produrre l’universale, e questa ricomposizione, inciampando nel caso, genera ciclicamente crisi e distruzioni, nella società futura l’economia di tempo e la ripartizione pianificata del tempo di lavoro nei diversi rami di produzione si afferma come motore della produzione sociale. La ripartizione pianificata del tempo nei diversi rami di produzione, diventa la prima legge economica sulla base della produzione sociale (Grundrisse).
La teleologia di cui parla Heller, teleologia presente in Marx (ape e architetto), deriva da Aristotele – attraverso Hegel –, e non fa sconti alla supplenza metafisica messa all’opera – reificata – nel capitalismo.
Si prenda un ciocco (Heidegger, I concetti fondamentali della filosofia antica). Questo legno reca in sé la possibilità di diventare un tavolo. Per produrre, per mettere in moto la macchina dei finanziamenti e degli investimenti (in questa sequenza), è dunque necessario qualcosa di già dato, un dynamei on (δυνάμει ὄν), cioè, dice Heidegger, qualcosa che abbia in sé la disponibilità a diventare tavolo: il legno.
Il legno è a portata di mano dell’artigiano. Quando è messo in lavorazione, quando passa per le mani dell’artigiano, allora è in movimento, il tavolo diviene, nasce. Il legno, nella sua disponibilità e in riferimento alla sua disponibilità a diventare tavolo, ora è presente. Non si limita a starsene lì fortuitamente come un pezzo di legno qualsiasi. Ora esiste come questo determinato ente disponibile per il tavolo. La disponibilità diventa ora attuale, realizzandosi nella produzione. Questa presenza peculiare della disponibilità del legno a diventare tavolo è ciò che Aristotele chiama movimento, nel senso del mutamento che fa passare dal mero legno al tavolo.
Finché c’è questa disponibilità, avviene il movimento. Quando però il legno, riguardo a tale disponibilità, è finito, allora il tavole è, è divenuto, è un ἔργον (ergon – opera) finito, e il movimento non è più. Fino al momento in cui il legno, in quanto ἔργον, non è finito, esso è per così dire in cammino verso ciò che deve saltare fuori dalla produzione. L’«essere in cammino» del δυνάμει ὄν, del legno, verso l’ἔργον, il tavolo, attribuisce al movimento il carattere dell’ατελής {incompleto}. Ciò che si muove è necessariamente in cammino verso qualcosa, verso ciò in cui esso giunge «a fine». Il legno è in lavorazione fintanto che il tavolo non è finito; ma non appena il tavolo è finito, il movimento cessa, e il tavolo è divenuto. Il ciclo si chiude. La posta finale deve bilanciare la posta iniziale. L’inizio deve essere uguale alla fine. La fine coincidere con il fine. L’artigiano fa credito al legno, il quale lo ripaga con un tavolo – chiudendo in pareggio il bilancio (distruggendo il token di fiducia) e dunque il circolo di questa economia del credito.
La verità della ragioneria di Graziani e del circuitismo è tutta qui, in queste parole di Hegel di commento ad Aristotele. Lo scopo è il λόγος – il fondamento autentico. Il lógos è ciò che muove. Entrambi sono principi, ma il λόγος, rispetto alla materia, è più elevato. Il fine, l’attività libera possono essere rappresentati come un circolo, come un’azione che torna in se stessa. La necessità esteriore è invece come una linea, essa può estendersi sia in avanti sia indietro, dal momento che il suo operare non è razionale, è solo esteriore ed incapace di determinare se stesso. La finalità, il circolo, è invece in grado di farlo e rientra in se stesso, muta la necessità, l’assimila e si mantiene come un circolo che ritorna su se stesso.
Moneta segno, pareggio di bilancio, classe dei capitalisti, acquisto di forza-lavoro, eccetera, e tutta la ragioneria che li riguarda, sono incardinati in questa teleologia Aristotelica. Considerati nel loro insieme i bilanci della classe dei capitalisti si pareggiano. Gli scambi interni alla classe, anche quando utilizzano una moneta (e questa moneta non può che essere una moneta merce), sono in pareggio, sono fermi, sono in attesa che, dall’esterno, un motore (moneta-segno) gli indichi uno scopo, li metta in movimento. Sono, per così dire, materia – materia non lavorata, momento passivo della produzione. Per avviare la produzione ci vuole un motore – un motore che non sia, a sua volta, mosso da qualcos’altro, come è il caso della moneta-merce – occorre, come in Aristotele, un motore che sia libero da ogni condizione, l’assolutamente incondizionato, un mero contenuto, un mero comando, un mero volere, un mero fiat, una decisione che non sia soggetta ad alcun algoritmo – libera per definizione – un’idea. Perché se questa moneta non fosse libera (fiat), questo è l’argomento forte – di una stringenza ragionieristica incontestabile; se fosse una moneta-merce sarebbe il corrispettivo esatto di un’altra moneta-merce in una catena di determinazioni o scambio di baratto e di cattivo infinito, o, per dirla in termini ragionieristici, di pareggio di bilancio, di situazione pre-storica, di grado zero dell’economia, di fissità animale, di circolo algoritmico, di cablaggio e DNA. Per uscire dalla preistoria, per sbilanciare il bilancio, per uscire dalla identità di essere e nulla, bisogna che un fiat, un’intenzione, una decisione, una performance introduca una moneta-segno con la quale pagare quel lavoro che, lavorandosi, si rispecchia e produce la sua verità. E poi terminare con un ritiro – un rimozione – di moneta, che ora, raggiunto lo scopo, ritorno alla banca di emissione per essere distrutta – chiusura del circuito teleologico.
VII
Lo slancio teleologico – la decisione, il piano – il comando teleologico richiede un motore e un mosso (Adorno, Metafisica). Secondo Aristotele ciò vale persino per ciò che muove se stesso. Persino là dove si può parlare di qualcosa che muove se stesso, si trovano in esso due diversi elementi o principi: il motore e il mosso.
In Aristotele, dice Adorno, questa dottrina è rivolta all’uomo. E a questo punto – dice Adorno – al fatto che l’uomo si divide in due principi: cioè nel principio motore, che è quello superiore, immateriale e spirituale, e nel principio mosso, cioè materiale – in fondo (per mostrare di nuovo anche qui, dice Adorno, che tutti parliamo l’aristotelico senza saperlo) a questo risale l’intera figura del dualismo di corpo e anima, il cosiddetto problema corpo-anima che domina il pensiero occidentale e che è poi divenuto esplicitamente tematico nel razionalismo del XVII secolo a partire da Descartes. Tutto il successivo dualismo tra corpo e anima, nonché tutta la questione del rapporto reciproco tra questi momenti dualistici di corpo e anima, in fondo è stato formulato come problema per la prima volta e con ogni precisione in questa antropologia ontologica che scompone l’uomo stesso in un principio motore e in uno mosso o materiale. Il principio motore è anche quello in atto o la forma, e il mosso è anche quello in potenza o la materia. La forma, quindi la ἐνέργεια, dice Adorno, non fa che indurre la materia a muoversi verso di essa.
L’oggetto prodotto (attuale) è preceduto dalla sua possibilità: la possibilità è antecedente. Il possibile di ciascun prodotto effettivamente in atto è la sua essenza, il suo τί – il «che cosa». Il «che cosa» è ciò che deve essere conosciuto e compreso prima di tutto, poiché è in base alla conoscenza dell’essenza che la produzione, come comportamento, acquista la sua perspicacia.
È a questo punto che, dice Heidegger, l’essere viene differenziato dall’ente. L’idea è anch’essa un ente, però di genere affatto diverso: per così dire qualcosa come il senso dell’essere. Ora, dato che l’idea si differenzia da tutto l’ente, fra essa e l’ente sussiste una «separazione», un korismos. Fra i due c’è un’assoluta differenza di luogo, che ovviamente va intesa nel senso che tutto l’ente, in quanto ente, «partecipa» per sempre dell’idea. Fra i separati, di cui l’uno partecipa dell’altro, sussiste appunto il fra, il Μεταξν.
La totalità dell’ente è suddivisa in due mondi, che vengono quindi designati sempre mediante antitesi: mutamento/stabilità; singolare/universale; casuale/legale; temporale/eterno; coglibile nella percezione sensibile/coglibile nella conoscenza intellettuale. In queste antitesi il mondo – cioè l’intero dell’ente – è suddiviso in modo tale che ne risultino due mondi, dei quali quello autenticamente positivo è sempre il secondo, in base al quale l’altro è, ovvero diventa conoscibile.
Questo dualismo tra il motore e il mosso si gerarchizza. La teleologia è l’indice di questa archia, di questo comando dell’anima – dell’idea – sul corpo, sulla materia. La pianificazione, in quanto teleologia, è sottomissione della materia – della natura – all’anima, del sensibile all’intelligibile, del lavoro manuale al lavoro intellettuale, della mano alla mente, etc. Quando si vuole determinare quello che l’ente è autenticamente si risale alla quidditas (all’essenza), a ciò che è già stato. Una cosa qualunque, dice Heidegger (I problemi), una finestra, un tavolo, prima di essere effettiva era già ciò che è, deve esserlo già stato per potersi attuare. Essa doveva esser già stata quanto alla sua cosalità: infatti solo perché era possibile pensarla come passibile di attuazione, essa poteva essere attuata. Quello che un ente effettivamente esistente è già stato si chiama essenza. È tutta qui la struttura che gerarchizza sovraterreno – positivo, perfetto, infinito, intelligibile, intellettuale, etc – e terreno – manuale, animale, finito, materiale, naturale, etc.
Ciò che Graziani chiama autentica economia monetaria, un’economia in cui la moneta si è emancipata dalla merce e si presenta come moneta-segno, ripropone questa partizione aristotelica di mente/corpo, motore/mosso, in cui il motore diventa fiat money, zecca, banca di emissione, piano, investimento, comando politico, lotta di classe in salsa decisionista, razionalismo con veste macroeconomica, il catto-marxismo emendato dell’elemento religioso.
VIII
Questo tratto aristotelico, ereditato da Hegel, si trova anche in Marx. Il metabolismo (ricambio organico) di cui si parla nel Capitale è un processo che si svolge tra l’uomo e la natura, nel quale l’uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e controlla il metabolismo fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Marx distingue tra un lavoro istintivo e animale e un lavoro umano. Il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin dal principio distingue il peggior architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera. Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente al suo inizio nella idea del lavoratore, che quindi era già presente idealmente. Non che egli effettui soltanto un cambiamento di forma dell’elemento naturale; egli realizza nell’elemento naturale, allo stesso tempo, il proprio scopo, da lui ben conosciuto, che determina come legge il modo del suo operare, e al quale deve subordinare la sua volontà. E questa subordinazione non è un atto isolato. Oltre lo sforzo degli organi che lavorano, è necessaria, per tutta la durata del lavoro, la volontà conforme allo scopo, ossia il lavoro stesso, l’oggetto del lavoro e i mezzi del lavoro.
Ciò che distingue l’uomo dall’animale è l’idea. L’animale è un tutt’uno con la cosa. Non distingue un sé che agisce da una natura sulla quale agire. Non pensa la distinzione tra sé e il mondo al di fuori di sé. L’animale non ha un mondo, è privo di mondo, non ha un oggetto, un suo oggetto. Non pensa, dunque non idealizza. Non forma le cose secondo un’idea, le cose fluiscono, e lui con esse, nel fluire generale dell’universo. La materia non si fissa, rimane dinamica, non si attualizza, non si presenta, non si forma. La forma è forma per noi, che sappiamo distinguere tra forma e contenuto, ma non è forma per l’animale. L’animale non sa di tessere la sua tela. La tela non è sua, perché nemmeno lui si appartiene.
Solo sullo sfondo della divisione tra uomo e animale, appare la divisione tra uomo a natura. È su questa divisione primordiale che può elevarsi l’idea, visto che l’idea è il porre la materia come scopo della propria azione. L’animale non ha proprietà, non gli appartiene un contesto naturale. Non ha una casa sua propria. L’animale agisce, si muove, non muore, perisce, si decompone, termina, ma propriamente non muore, se la morte è la prefigurazione della propria fine. Non avendo se stesso come fine, essendo solo ingranaggio e mezzo nell’infinità dell’universo, non muore. Non c’è una dignità animale. Gli animali sono confinati ad una fissità dell’innato, del cablaggio o del programma innato. Essi si muovono, si agitano, reagiscono agli stimoli, provano anche dei sentimenti, ma non rispondono, non decidono, non dicono né si, né no. Mentre l’uomo, invece, sarebbe libero di agire, deciderebbe aldilà del macchinario, libero dall’istinto, dal cablaggio, dal ripetitivo, dall’automatico, dal biologico.
Su questa opposizione tra uomo e animale, tra uomo e macchina, tra uomo e natura, tra cultura e natura si costruisce un sistema di validazione, di verifica, di verità.
Come elementi accessori di questo sistema di verità emergono una estetica e una condotta igienica che associano ad ogni comportamento meccanico o animale l’etero-direzione e ad ogni comportamento umano l’autonomia e la libertà; e che vedono nell’uomo che lavora – nel proletario – , assoggettato contemporaneamente alla macchina e al bisogno organico (fame), l’abominio.
Insomma, per riprendere ciò che dice Adorno in Metafisica, la distinzione tra Morphè e Hyle, tra Forma e Materia, tra Atto e Potenza, tra Architetto e Muratore, tra Musicista e Falegname, Pittore e Imbianchino, Scrittore e Cancelliere, Programmatore e Data Entry, tra Startupper e Tabaccaio; tutta questa struttura, che si nutre delle differenze tra un mondo del nous, del logos, dell’idea, del genio, dell’intelletto, della cultura, dei diritti umani, del teatro e della poesia, delle lettere e della moneta-segno, e il resto dell’universo corporeo; questo mondo di finzione, fattizio, decisionista, che performa in chi scrive un libro spasmi di rapimento mistico; tutta questa struttura differenziale che fa funzionare le partizioni valore/uso, consumo/riserva, finanza/industria, etc, tutta questa struttura differenziale riproduce (produce) la divisione del lavoro, i cui punti sono momenti senza i quali la divisione del lavoro non funzionerebbe, non produrrebbe il frutto – il plusvalore.
Quando si vuole determinare quello che l’ente è autenticamente si risale all’idea. Idea come origine, come inizio. La ragione della creatura va cercata nel Creatore. Questa determinazione, dice Heidegger, viene meglio definita come forma μορφή (morphḗ). Forma è ciò che costituisce la figura di un ente. Essa corrisponde a come un ente appare, in greco εἶδος (eîdos), ciò che si vede di una cosa. La forma, in greco, si collega all’εἶδος. Ciò che costituisce la determinazione autentica dell’ente, ciò che sta alla radice e traccia in anticipo ogni proprietà e ogni azione di una cosa, la sua essenza, è chiamata perciò natura, conformemente all’uso che Aristotele fa del termine physis (in greco φύσις). Ancora oggi, dice Heidegger, noi parliamo di natura delle cose. A decidere della natura, e della natura delle cose, è l’idea, e nell’antropologia ontologica di Heller, è l’uomo, la classe, in un umanismo che piega il marxismo a un vago esistenzialismo che già nella Lettera Heidegger decostruiva.
IX
Di questa economia del segno, di tutta questa impalcatura teleologica, in cui il potere sta (o deve tornare a stare) dalla parte dell’intelligibile e il positivo sta dalla parte dell’intelletto eccetera, o della finanza, o della politica, del performativo, o della decisione; in cui il positivo sta dalla parte del contenuto e non del mezzo, o dello strumento, della macchina, del biologico eccetera; in questa economia del segno che si trova a combattere contro uno stato in cui sono le cose o gli animali o i bruti – in ogni caso il cablato o il biologico – a incarnare l’universale, l’ideale, lo scopo, e dunque a detenere il potere, a scandire il ritmo eccetera; di questa economia del contenuto o dei contenuti, che vorrebbe ritornare a comandare sulle cose; di questa economia politica semiologica, strutturata sulla partizione sensibile/intelligibile, Heidegger mostra il punto di non chiusura del ciclo, ciò che non permette la totalizzazione, la perfetta decisione, il piano ben congegnato; Heidegger mostra il punto di rottura di questo giocattolo idealista, il suo momento di disseminazione, il suo ritmo meccanico, il ritorno algoritmico che spiazza, scombina, non fa tornare i conti.
In Aristotele, dice Heidegger, l’aspetto e l’installarsi – l’attualizzarsi – nell’aspetto non vanno presi, in modo platonico, come qualcosa di per sé separato, ma come l’essere in cui in ogni istante ogni singolo ente, per esempio questo tavolo qui, sta. La forma è un carattere della fisica, e non un qualcosa di trascendente (o trascendentale – umano e in potere dell’uomo). L’argilla prende la forma del vaso. La forma non può essere staccata da questo vaso qui. Esiste insieme ad esso. L’idea che l’architetto ha in testa si imprime nell’argilla. Ciò che il vaso era all’inizio nella testa dell’architetto, ora è davanti agli occhi e tra le mani, l’intelligibile è sensibile, è una cosa, è nella cosa, è reificato. L’argilla-vaso supplisce il metafisico.