Che cos’è il «Rifiuto del Lavoro»? Mario Tronti

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Nel 1962, sul numero 2 dei Quaderni Rossi, Tronti scrive un saggio destinato a fare epoca: La fabbrica e la società. In esso sono generalizzate alcune indicazioni contenute nei capitoli 13 e seguenti del primo libro del Capitale.

Nel capitolo sulle Macchine, Marx dice che la rivoluzione nel modo di produzione di una sfera dell’industria porta con sé la rivoluzione del modo di produzione nelle altre sfere. Questo vale in primo luogo per quelle branche dell’industria che sono sì isolate a causa della divisione sociale del lavoro, cosicché ognuna di esse produce una merce indipendente, ma tuttavia s’intrecciano l’una con l’altra come fasi d’un processo complessivo. Così la filatura meccanica rese necessaria la tessitura meccanica, e l’una e l’altra insieme resero necessaria la rivoluzione chimico-meccanica della candeggiatura, della tintura e della stampatura dei tessuti. Così d’altra parte la rivoluzione nella filatura del cotone rese necessaria l’invenzione del gin per la separazione delle fibre del cotone dal seme, con il che divenne possibile finalmente la produzione su larga scala com’è ora richiesta. La rivoluzione nel modo di produzione dell’industria e dell’agricoltura rese necessaria, in ispecie, anche una rivoluzione nelle condizione generali del processo sociale di produzione, cioè nei mezzi di comunicazione e di trasporto. Come i mezzi di comunicazione e di trasporto di una società il cui pivot erano la piccola agricoltura con la sua industria domestica ausiliaria e l’artigianato urbano, non potevamo più soddisfare affatto le necessità produttive del periodo manifatturiero con la sua divisione allargata del lavoro sociale, la sua concentrazione di mezzi di lavoro e operai, e i suoi mercati coloniali, e quindi vennero di fatto rovesciati; così i mezzi di comunicazione e di trasporto tramandati dal periodo della manifattura si trasformarono presto in impacci insopportabili per la grande industria, con la sua febbrile velocità di produzione, con la sua produzione su vastissima scala, con il costante lancio di grandi masse di capitale e di operai da una sfera all’altra della produzione e con i nuovi nessi da essa creati sul mercato mondiale.

La divisione del lavoro scompone e isola segmenti di produzione. Ogni industria si specializza nella produzione di una parte componente del prodotto finito. Ciò che per una fabbrica è prodotto finito per un’altra è semilavorato, eccetera. Il semilavorato deve essere preformato in modo tale da essere ricevibile e integrabile nel restante processo di produzione. La modifica della tecnica di produzione, che comporta una trasformazione del processo o del prodotto, richiede e suscita una necessaria trasformazione nell’intera filiera. Una fabbrica che assembla automobili detta il ritmo alla sub-fornitura che produce cerchioni, freni, gomme, acciaio, plastica, energia, eccetera. Tutto deve procedere secondo un piano, il piano del capitale. Pertanto, nella produzione completamente capitalista, la fabbrica non può essere ricondotta alla singola officina. La fabbrica si identifica con la società nel suo insieme.

Tronti getta le basi della Città-Fabbrica o Fabbrica diffusa e dell’Operaio sociale. Fa derivare tutto ciò dalla necessità del capitale di incrementare la produttività. L’incremento viene realizzato non solo agendo sulla forza-lavoro direttamente impiegata, ma, soprattutto, impadronendosi di quei rami d’industria i cui prodotti determinano il valore della forza-lavoro: controllando, insomma, tutta la filiera di produzione della merce forza-lavoro. E ciò in quanto, dice Marx, il valore di una merce non è determinato soltanto dalla quantità di lavoro che le dà l’ultima forma, ma anche e altrettanto dalla massa di lavoro contenuta nei suoi mezzi di produzione… Dunque, l’aumento della forza produttiva e la corrispondente riduzione a più buon mercato delle merci nelle industrie che forniscono gli elementi materiali del capitale costante fanno anch’essi calare il valore della forza-lavoro.

Sotto questa ottica, l’aumento della produttività investe l’intera società. La produttività del lavoro non può essere avvicinata dalla prospettiva del singolo capitalista. Così come la produzione del prodotto finito non può essere considerata come il frutto di una singola impresa. Quanto più avanza lo sviluppo capitalista, dice Tronti, cioè quanto più penetra la produzione del plusvalore relativo, tanto più si fa organico il rapporto tra produzione capitalista e società borghese, tra fabbrica e società, tra società e Stato. Il rapporto sociale, dice, diventa un momento del rapporto di produzione, la società intera diventa un’articolazione della produzione, cioè tutta la società vive in funzione della fabbrica e la fabbrica estende il suo dominio esclusivo su tutta la società. È su questa base, dice, che la macchina dello Stato politico tende sempre più a identificarsi con la figura del capitalista collettivo, sempre più diventa proprietà del modo capitalistico di produzione e quindi funzione del capitalista.

Sul numero 3 del 1963, sempre di QR, Tronti pubblica un altro importantissimo saggio – Il piano del capitale -, dove le idee dell’anno prima sono approfondite.

La società-fabbrica ha bisogno di un piano – il piano del capitale. Il capitale sociale non deve essere considerato come la somma dei singoli capitalisti. Il capitale si specializza e de-localizza, e frammenta la produzione. Il piano la riterritorializza, l’accentra, l’assembla, la ricodifica. Il capitale si scopre come potenza sociale. La forza-lavoro, dice Tronti, deve ricomparire ora in quella reale forma che è la sua natura sociale; il capitale variabile deve rientrare nel processo della produzione capitalistica direttamente come classe operaia. C’è un lungo momento storico in cui, dice, la produzione del capitale si trova stretta dentro questa necessità. Il capitale complessivo ha bisogno di vedere ora davanti a sé il lavoro complessivo. C’è un momento in cui, dice, il capitale moderno non può più fare a meno del sindacato moderno, nella fabbrica, nella società e direttamente nello Stato. Si giunge alla organica integrazione del sindacato operaio dentro lo sviluppo programmato della società capitalista.

È la ricerca di una maggiore produttività – è il piano del capitale – che spinge verso la classe dell’operaio, verso l’operaio sociale. Il capitale pone la classe in quanto pone il lavoro in generale, in quanto segna la raggiunta indifferenza verso un genere di lavoro determinato. La forza-lavoro non solo può, ma deve essere gettata il più rapidamente possibile da una sfera di produzione in un’altra, da una località produttiva in un’altra. Non c’è sviluppo capitalistico senza un alto grado di mobilità sociale della forza-lavoro. Non c’è pianificazione dello sviluppo senza programmazione della mobilità.

Da un lato si ha una specializzazione e una dispersione territoriale della fabbrica, alla quale corrisponde un lavoro semplice, dequalificato e intercambiabile – mobile. Dall’altra si ha l’assunzione interna al capitale del momento di ricomposizione della classe.

La dequalificazione, l’appiattimento, l’uniformità del lavoro semplice non sono in sé, dice Tronti, forme di subordinazione operaia, sono forme dello sfruttamento capitalistico. Tutti sanno, dice, perché è un fatto di per sé ovvio, che dentro il modo capitalistico di produzione gli operai sono certo sempre sfruttati, ma non sono mai sottomessi.

Dequalificazione, produttività, mobilità sono il trittico del piano del neocapitalismo che si estende a ciò che i sociologi studiano come società: nascita, formazione, morte. Questa filiera è investita dallo stesso processo di frammentazione e delocalizzazione che ha investito la fabbrica. Non c’è aumento di produttività sociale senza dequalificazione e mobilità, dunque senza delocalizzazione della maternità e della formazione, e senza ricomposizione – riterritorializzazione – di queste funzioni, alle quali si presta la Previdenza Sociale (l’INPS). La migrazione da sud a nord è la delocalizzazione della maternità, la cassa integrazione e il sussidio di disoccupazione sono la riterritorializzazione della famiglia. L’asilo nido e il tempo pieno sono la deterritorializzazione della parentela. La casa di riposo è la deterritorializzazione del patriarcato, la pensione la sua riterritorializzazione.

Tutte queste formule potrebbero essere rubricate sotto il capitolo dell’alienazione. A esse andrebbe aggiunta la spoliazione professionale, la fissazione nel meccanismo o nell’automa del know-how dell’operaio specializzato. Cosificazione alla quale corrisponde l’individuo qualunque, la persona intercambiabile, il padre-amico, il giovane a 60 anni, il divorziato, il gourmet, il compagno di vita, eccetera, forme intercambiabili, abiti sociali dentro i quali calare corpi quali mera materia riempitiva. Tutte queste formule potrebbero essere forme di alienazione, ammesso che si riuscisse a valorizzare in questa parola corrotta, dice Tronti, il contenuto positivo. Se si riuscisse a mostrare come queste formule esprimono una forma specificamente determinata di sfruttamento diretto del lavoro da parte del capitale. Allora si riuscirebbe a comprendere come il capitale ha integrato la socialità operaia nel processo di produzione, e come di fronte a questo processo rimanga davvero il soggetto alienato, il nullatenente, il nullafacente, il perdigiorno, l’«alienato». La socialità al capitale, l’a-socialità all’operaio: questa è la formula del neo-capitalismo.

Il singolo operaio, dice Tronti, deve diventare indifferente al proprio lavoro, perché la classe operaia possa arrivare a odiarlo. Estraneazione totale del lavoro rispetto al lavoratore; il lavoro utile, concreto, che si fa oggettivamente esterno, estraneo, indifferente all’operaio. Il processo di una totale estraneazione del lavoro, dice Tronti, coincide con la sua più completa oggettivazione dentro il processo di produzione del capitale. Non solo il prodotto del lavoro, non solo gli strumenti di produzione, ma tutte intere le condizioni di lavoro devono farsi oggettive nella persona del capitale, devono essere strappate alla soggettività dell’operaio singolo. Il singolo operaio, dice, deve diventare indifferente al proprio lavoro.

Allo stesso modo nella vita sociale il padre diventa indifferente alla famiglia, della quale si occupa il nido, la scuola, l’assistente sociale, lo psicologo, i sevizi sociali del comune, le case popolari, etc – il padre (e la madre) si separa dalla famiglia. I rapporti diventano labili, intercambiabili – nonbinary.

Nel 1979 Christopher Lasch si lamenta della labilità di rapporti, e comincia a darne la colpa al femminismo, al permissivismo eccetera, perdendo di vista il capitalismo, la sua necessità di muovere il lavoro da un ramo all’altro, secondo quanto comanda la concorrenza.

C’è un momento in cui, dice Tronti, chi prende a difendere la «personalità» dell’operaio è direttamente il capitalista. Solo nella sua figura genericamente umana, la forza-lavoro può volontariamente sottomettersi al capitale. Solo come bisogni umani le richieste operaie vengono liberamente accettate dal capitalista.

La sussunzione reale produce l’operaio semplice, mobile, intercambiabile. Le sue qualità sono passate al capitale Quando il lavoro è completamente oggettivato dentro la produzione capitalista, dice Tronti, non solo il prodotto del lavoro, non solo gli strumenti di produzione, ma tutte intere le condizioni di lavoro devono farsi oggettive nella persona del capitale, devono essere strappate quindi alla soggettività dell’operaio singolo. Il singolo operaio deve diventare indifferente al proprio lavoro, perché la classe operaia possa arrivare a odiarlo. Dentro la classe, solo l’operaio «alienato» è veramente rivoluzionario.

Il capitale gli porta via gli strumenti di lavoro, le condizioni di lavoro e le condizioni sociali della sua riproduzione, rimane fuori l’operaio alienato. Fuori dal capitale rimane una scatola vuota che il capitale di volta in volta cerca di riempire con i bisogni umani.

Non c’è più socialità fuori del capitale. Non ci sono diritti fuori del capitale – dice Tronti. Gli operai non hanno più neppure da difendere i diritti del lavoro. I diritti del lavoro, dice, a questo livello, sono quelli stessi del capitale. Il sindacato, dice, la lotta sindacale, non può da sola uscire fuori dal sistema, è destinata a essere inevitabilmente parte del suo sviluppo.

Se il capitale rappresenta ora l’interesse generale, la classe operaia, dice Tronti, non può che cominciare a organizzare il proprio interesse parziale, a gestire direttamente il proprio potere particolare. Quando il capitale si scopre come forza sociale, dice, e su questa base dà forma a una società capitalistica, non lascia altra alternativa alla classe operaia che quella di opporsi a tutta intera questa socialità del capitale. Gli operai non hanno più da contrapporre l’ideale di una vera società a quella falsa del capitale, non hanno più da sciogliere e diluire se stessi dentro il rapporto sociale generale: possono ormai ritrovare e riscoprire la propria classe come una forza rivoluzionaria antisociale.

Il rapporto, dice Tronti, si è rovesciato: l’unica cosa che l’interesse generale non riesce a mediare, nel suo interno, è l’irriducibile parzialità dell’interesse operaio. Di qui il richiamo borghese alla ragione sociale di contro alle richieste settoriali degli operai. Tra capitale e lavoro si vorrebbe stabilire lo stesso rapporto che esiste, a un certo livello, tra capitale sociale e capitalisti singoli: un rapporto come dicono i funzionari, sempre «dialettico». Infatti, dice Tronti, quando il lavoro complessivo accetta ragionevolmente di partecipare allo sviluppo generale, finisce per funzionare come una qualsiasi parte aliquota del capitale complessivo sociale. Per questa via non si arriva ad altro che a uno sviluppo quanto più possibile razionalmente equilibrato di tutto il capitale. È a questo punto che la classe operaia deve invece coscientemente organizzarsi come elemento irrazionale dentro la specifica razionalità della produzione capitalista. La crescente razionalizzazione del capitalismo moderno deve trovare un limite insormontabile nella crescente irragionevolezza degli operai organizzati, cioè nel rifiuto operaio all’integrazione politica dentro lo sviluppo economico del sistema. Così, la classe operaia diventa l’unica anarchia che il capitalismo non riesce socialmente a organizzare.

Nel 1965, in Marx, forza-lavoro, classe operaia, un lungo saggio apparso in Operai e capitale, Tronti riprende il filo di questa discussione.

La forza-lavoro, dice, non ha possibilità di autonoma socializzazione, indipendentemente dai bisogni del capitale. Il capitale e la forza-lavoro stanno l’uno di fronte all’altra, come antagonisti, già prima della produzione – nella circolazione. Il rapporto di classe – la differenza – precede, provoca, produce il rapporto capitalistico. Anzi, dice, è l’esistenza del rapporto di classe che rende possibile la trasformazione del denaro in capitale. È un punto abbastanza importante – dice Tronti.

La differenza precede la valorizzazione. Per «rapporto di classe» bisogna intendere proprio questa differenza – la differenza – che precede, e precede ogni processo di valorizzazione.

In genere, dice Tronti, si fa dire a Marx esattamente il contrario. È proprio nell’uso marxista dire il contrario: e cioè che dal rapporto capitalistico di produzione viene fuori la contrapposizione, l’antagonismo delle classi. È il capitale che fa le classi, dice il marxismo. Per esso non si può assolutamente sostenere che prima viene il rapporto di classe, e poi il rapporto capitalistico. E invece, dice Tronti, si può vedere, ed è sotto gli occhi di tutti, che, nell’atto di vendita, vendita forzosa della forza-lavoro, è già compiuta la natura di classe di un rapporto sociale che permette la produzione di capitale. È in quanto venditori di forza-lavoro che gli operai salariati si costituiscono per la prima volta in classe.

La classe deriva dell’antagonismo, e l’antagonismo è differenza – anzi, differenziale. La classe si fa strada facendo – effetto senza causa.

La classe non è una società. Il passaggio storico, dice Tronti, vede prima il venditore di forza-lavoro, poi la forza produttiva singola, poi la forza produttiva sociale. Nella singola forza-lavoro, nel suo carattere di merce particolare, c’è già la capacità di produrre capitale. Ma solo nel capitale, nella sua necessità di essere rapporto sociale di produzione, c’è la capacità di socializzare la forza-lavoro. Finché negozia con il capitalista, l’operaio lo fa in quanto proprietario della propria forza-lavoro. Nella circolazione il lavoratore è isolato. Ognuno vende, da solo. Il capitalista non paga la forza-combinata degli operai. La loro cooperazione comincia solo nel processo lavorativo, ma nel processo lavorativo hanno già cessato di appartenere a se stessi. Entrandovi, sono incorporati nel capitale. Dunque, (qui Tronti cita direttamente Marx), la forza produttiva sviluppata dall’operaio come operaio sociale (Arbeiter als gesellschaftlicher Arbeiter) è forza produttiva del capitale.

La forza produttiva sociale del lavoro, chiosa Tronti, non esiste al di fuori del capitale: perché non viene sviluppata dall’operaio prima che il lavoro stesso dell’operaio appartenga al capitalista. Come produttore l’operaio non ha autonomia dalle condizioni della produzione capitalistica. È solo la produzione di capitale che, dice Tronti, rende possibile il processo di socializzazione produttiva della forza-lavoro, la nascita della figura storica dell’operaio sociale, come forza produttiva sociale del lavoro, incorporata nel capitale.

Dunque, la forza-lavoro esiste prima e indipendentemente dalla produzione. Il capitale compra la forza-lavoro e la sua possibilità di produrre plusvalore. Quando la forza-lavoro viene messa all’opera, al lavoro non pagato del singolo operaio si aggiunge la forza produttiva non pagata dell’operaio sociale.

Ora, dice Tronti, è in atto una vera e propria socializzazione dello sfruttamento capitalistico, sfruttamento non più dell’operaio, ma della classe operaia. Vera nascita di una società capitalista, dice, un salto nella storia del capitale. Questo salto implica la nascita della classe dei capitalisti. Solo incorporando la classe operaia nel capitale, dice Tronti, solo facendo della classe operaia una parte del capitale, solo così era possibile fare non dell’altra parte del capitale, ma di tutto il capitale una classe contrapposta a quella degli operai.

L’operaio come strumento di produzione può funzionare solo associato con altri operai. L’operaio produttivo è una forza-lavoro sociale. L’operaio singolo non esiste.

In quanto l’operaio è forza-lavoro vivente acquistata con denaro per essere spesa nella produzione, e siccome la produzione è produzione sociale, la società sta dalla produzione, cioè dalla parte dello sfruttamento. Se la forza-lavoro vuole dire no allo sfruttamento deve dire no alla produzione, no al lavoro. Dunque, la forza-lavoro si presenta due volte. Una volta come forza che produce capitale, un’altra volta come forza che si rifiuta di produrlo; una volta dentro, una volta contro il capitale.

Anche il carattere di questa forza è duplice. Nella circolazione la forza è virtuale – in potenza. Nella produzione la forza è in atto. Il passaggio all’azione è anche ingresso nella società del capitale. Tronti lo ribadisce bene. L’unità della cooperazione, la combinazione nella divisione del lavoro, l’impiego delle forze naturali e della scienza, l’organizzazione delle macchine per la produzione, tutte queste sono le condizioni ormai pienamente sociali del lavoro. L’interesse alla socializzazione è un interesse del capitale. Gli operai, dice, in quanto sussunti sotto il capitale, divengono elementi di queste costruzioni sociali, ma queste costruzioni non appartengono ad essi. Nello sviluppo storico interno al capitalismo, non più solo le condizioni oggettive del lavoro, ma gli stessi, più complessi, caratteri sociali del lavoro si ergono di fronte agli operai, contro di loro, capitalizzati. Mezzi di sfruttamento, mezzi di appropriazione di plusvalore.

La classe operaia, dice Tronti, non appena comincia ad essere tale, diventa funzione del capitale: tutte le condizioni della produzione – e in primo luogo le forze produttive sociali del lavoro, ovvero la forza sociale del lavoro produttivo – sono passate in proprietà del capitale e fuori rimane – in proprietà ineliminabile dell’operaio singolo – la sola forza-lavoro presa isolatamente. Gli operai, dice – come classe – contrattano ormai con i capitalisti – come classe – valore e prezzo della forza-lavoro singola. Il rapporto di compravendita di questa merce particolare è adesso gestito dalle classi sociali, o meglio dalle istituzioni che rispettivamente le rappresentano, l’ordine razionale del conflitto istituzionalizzato sostituisce l’irrazionale disordine della lotta di classe. Il momento del contratto diventa l’unica occasione di lotta; il sindacato il massimo stadio di organizzazione.

La sociologia – con i suoi funzionari «intellettuali» – guarda questo processo dal punto di vista del capitale. Con le sue analisi del consumo, della feticizzazione e della cosificazione, con la sua predilezione per l’alienazione e lo psicodramma, svia dalla questione del plusvalore, fan apparire la disumanizzazione dal lato del capitale, quando invece il capitale cerca con ogni mezzo di umanizzare lo sfruttamento – il disumano sta fuori e contro il capitale. Anche la ragionevole lotta per la riduzione dell’orario di lavoro è un’articolazione positiva dello sviluppo capitalistico, come sua molla propulsiva. Le lotte operaie per ridurre l’orario di lavoro e impedire il logoramento della forza-lavoro, sono lotte interne alla dinamica del capitale. Ne sostengono lo sviluppo. Come lo sciopero, che spinge verso l’automazione. Ogni richiesta ragionevole è ripresa dal capitale. Solo le azioni irragionevoli – dire NO – sono irrecuperabili dalla dialettica del capitale. Allungando la giornata lavorativa il capitalista otteneva più plusvalore assoluto, ma contemporaneamente rincarava i costi di riproduzione della forza-lavoro, abbreviando il tempo della sua durata vitale. Così come li accorcia importando forza-lavoro svezzata e pronta all’uso.

Il rapporto operai-tecnologia deve comprendere questo inseguimento tra capitale e lavoro, evitando di cadere nella trappola dei processi di reificazione, prima dei quali c’è sempre il lamento per la vita viva del macchinario di fronte alla riduzione a morta cosa dell’operaio, e dopo i quali c’è sempre la cura mistica per la coscienza di classe di questo operaio, come fosse la ricerca dell’anima perduta dell’uomo moderno.

La dialettica tra capitale e lavoro, la ripresa – il rilevamento (Aufhebung) – delle lotte all’interno della produzione descrive la storia stessa del capitalismo. La lotta per la giornata lavorativa normale (Tronti insiste su questo punto) precede, impone, provoca un mutamento nella struttura del plusvalore e una rivoluzione nel modo di produzione. Data per legge una durata normale della giornata lavorativa, dice, il prolungamento del pluslavoro deve derivare dall’accorciamento del tempo di lavoro necessario. Il valore della forza-lavoro, dice, va diminuito mediante l’aumento della forza produttiva del lavoro. Comincia la storia specificamente capitalista della produzione di plusvalore relativo. La lotta operaia ha dunque imposto al capitale il suo stesso interesse. Ecco come va inteso il rapporto dell’uomo con la macchina. Non si tratta di alienazione psicologia o di riduzionismo totalitario, di ripetitività e di trasformazione dei rapporti sociali in rapporti tra cose. Si tratta di una modifica nel modo di estrazione del plusvalore. Si tratta di sfruttamento.

Tutto viene dalla lotta. Tutto viene dalla differenza. Le leggi di movimento della società capitalista, scrive Tronti, non permettono che una classe elimini l’altra. Finché esiste il capitale, al suo interno devono esistere tutte e due le classi e devono lottare. E devono lottare perché il capitale, la classe, il lavoro e tutto il resto, vengono dalla lotta – e non viceversa. Prima viene la differenza.

Il capitale deve includere questa differenza. Il capitale morto può essere rianimato solo dal capitale vivo. Non ci sono alternative. Se l’attività del lavoro cessa, dice Tronti, cessa la vita del capitale. Una fabbrica ferma è già lavoro morto, capitale in riposo che non produce e non si riproduce. Lo sciopero è forma permanente di lotta operaia. Come crollo della differenza tra lavoro e capitale è la più terribile minaccia che possa essere portata alla vita stessa della società capitalista. Rifiuto dell’attività da parte del lavoro vivo, dice Tronti, è il recupero della sua autonomia che il processo di produzione deve appunto spezzare. E questa, dice, è l’altra cosa che il capitale non può sopportare. Il capitale deve contrapporsi la forza-lavoro senza lasciare autonomia alla classe operaia. Deve concepire la forza-lavoro stessa come classe operaia, dentro però il rapporto di produzione capitalista; deve dunque conservare, riprodurre, allargare il rapporto di classe, solo controllandolo.

Una separata autonomia politica dei movimenti di classe delle due parti è, dice Tronti, il punto di partenza da imporre alla lotta. Lo sforzo del capitale, al contrario, è di chiudere entro la relazione economica il momento dell’antagonismo, incorporando il rapporto di classe nel rapporto capitalistico, come suo oggetto sociale. Le leggi economiche vanno svelate come leggi di sviluppo capitalistico della classe operaia, come organizzazione degli operai da parte del capitalista.

Il capitalismo non può resistere all’autonomia operaia. Perché quello capitalistico, dice Tronti, è il dominio sulla società in generale. Il capitale è così fatto che ha bisogno di una società per la produzione. Anche quando fabbrica e società avranno raggiunto un perfetto grado di reciproca integrazione a livello economico, dice, continueranno sempre politicamente a contraddirsi. Uno dei punti più alti e maturi della lotta di classe sarà dato proprio dallo scontro frontale tra la fabbrica come classe operaia e la società come capitale. Non far passare in fabbrica l’interesse capitalistico significa bloccare la società. E bloccare la società bloccando la fabbrica significa bloccare ciò su cui è fondata la classe dei capitalisti, ovvero il lavoro produttivo. Allora lottare contro il padrone significa non permettere di trasformare la forza-lavoro in lavoro, astenersi dal lavoro, dire no prima di tutto alla trasformazione in lavoro della forza lavoro. Astensione dal lavoro, dice Tronti, non è rifiuto di dare al capitale l’uso della forza-lavoro, perché questo gli è stato già dato con il contratto legale di compravendita. E non è nemmeno rifiuto di consegnare al capitale il prodotto del lavoro. Astensione dal lavoro – lo sciopero come forma classica di lotta operaia – è rifiuto del comando del capitale come organizzazione della produzione, è dire no in un punto determinato alla proposta del lavoro concreto, è blocco momentaneo del processo lavorativo come minaccia ricorrente che toglie contenuto al processo di valorizzazione. Lo sciopero generale anarco-sindacalista, dice Tronti, che doveva provocare il crollo della società capitalista, è senz’altro una romantica ingenuità degli inizi.

Cos’è dunque il rifiuto del lavoro?

È rifiuto all’uso della forra-lavoro. Rifiuto del valore-uso della forza-lavoro. È sciopero, astensione, assenteismo. La lotta contro il lavoro è l’unico mezzo per colpire il capitale, in quanto l’unica cosa che lascia passare all’atto una potenza virtualizzata in denaro è proprio il valore-uso della forza-lavoro. Lavoro = Sfruttamento. Rifiuto del lavoro = rifiuto dello sfruttamento. L’operaio, dice Tronti, non sa che farsene della dignità del lavoratore. E l’orgoglio del produttore lo lascia tutto quanto al padrone. Negarsi come forza produttiva per riconoscersi come forza politica.

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