Polemologia GneGne – spiegata semplice

guerrieri

 

Un quadro semplice della polemologia GneGne lo ha elaborato Valentina Antoniol, Filosofa formata all’Unibo.

Negli anni che vanno dal 1971 al 1976, dice Antoniol, ovvero dalla pubblicazione di «Nicce, la genealogia, la storia (Omaggio a Jean Hyppolite)», al 1976, anno del corso «Difendere la società», Foucault elabora il metodo polemo-critico. Non si tratta, dice, di un metodo storico. Foucault non è uno storico, non è stato propriamente uno storico. Si è servito della storia. È entrato nella storia. Ha utilizzato la storia come strumento (di lotta – precisa Antoniol). Foucault ha fatto della storia un campo di battaglia.

Insomma, vuol dire Antoniol, Foucault non è stato uno di quei professori che, seduti nello studio, elaborano un programma o un metodo. Chi ha anche solo sfogliato l’Introduzione alla Fenomenologia dello spirito, sa che non ha più alcun senso, nemmeno didattico, considerare la conoscenza come uno strumento o un metodo, in quanto l’applicazione dello strumento alla cosa, anziché lasciarla come è, imprime su di essa una marca che la altera.

Dunque, a partire da Hegel è stato reso noto che il sapere non è mai uno strumento (per comprendere), ma è un modo per fare cose. Ed è pleonastico dire o scrivere che il sapere non è fatto per comprendere, o che il sapere è un campo di battaglia, eccetera.

Questo tema hegeliano è entrato nelle zucche popolane talmente in profondità che anche mio padre, che ha frequentato solo la seconda elementare, è venuto a sapere che comprendere non è sufficiente. Per capire la vita bisogna viverla, bisogna fare le proprie esperienze, eccetera. La conoscenza, insomma, implica una trasformazione del mondo.

Se precisiamo che questa trasformazione si realizza in un campo di battaglia o di lotta, e carichiamo l’atmosfera con le tinte scure della guerra, giusto per mostrare al pavido spettatore che là dove grande è il pericolo grande è il coraggio, non abbiamo aggiunto nulla in più al tema trattato – se non un pizzico di guapperia.

Nel 1674, in una lettera scritta all’amico Jarig Jelles, Spinoza dice la stessa cosa in modo meno spaccone, ovvero che «determinatio negatio est» – senza far polemica. Dire che (la butto giù alla buona) la vita è spinta, dovrebbe bastare. Se si aggiunge la polemica, si vuol sottolineare qualcos’altro.

In effetti, spiega Antoniol, la polemica, anzi, il polemico, in Foucault è anche polemo-critico. Quando si parla di storia come strumento di lotta e di storia come campo di battaglia, dice, a emergere in maniera prepotente è anche un altro elemento della conflittualità e della guerra. Qui non bisogna contare le ricorrenze di termini polemo-eccetera, bisogna invece badare a come tutto si organizzi in una sorta di polemo-crazia.

Foucault, dice Antoniol, traccia quello che potrebbe essere definito un modello polemo-critico, un modello che fa la storia criticando; un modello che usa la guerra come critica. Dal 1971 fino al 1976 Foucault impiega la guerra come griglia di intelligibilità politica e sociale. Nicce, dice, entra prepotentemente nella vita di Foucault, ed è usato per contrastare una corrente di pensiero francese di matrice hegeliana, legata alla filosofia della storia.

Il primo bersaglio della polemo-critica – quindi, non semplicemente della critica, e qui per critica bisogna ancora una volta intendere la contestazione, la sobillazione, il rovesciamento, tale che la polemo-critica diventa a tutti gli effetti una polemo-polemica o polemica – il primo bersaglio è la filosofia della storia. Anche qui – la sparo in modo non tecnico e senza citare Aristotele Fisica II, 8 – – il filosofo della storia è come quell’architetto che crede che una cosa diviene ciò che era già in lei o nella mente del genio sin dal principio. Una mucca, per esempio, ritorna sempre identica nelle generazioni. Se una mucca si rigenera in quanto mucca, ciò vuol dire che la sua fine – ciò che essa diventa in quanto mucca – è guidata dal suo inizio. Ciò in cui c’è uno scopo (télos), è fatto in conformità a questo stesso scopo, sia in ciò che precede, sia in ciò che segue. Dunque, in tutto quello che è o che si genera nel mondo della natura è presente una finalità: ogni cosa è fatta secondo la sua natura, ogni cosa ritorna secondo un suo esser-stato, ovvero secondo una essenza. L’origine, nel nostro esempio il seme, separato e seminato, ritorna alla base di partenza, diventa pianta e ritorna seme: il due diventa uno. Nella polemologia, al contrario, il due deve rimanere tale. Non ci sarebbe uno senza due (senza altro, come ama dire il polemologo). Il gioco funziona con due giocatori – sennò con chi si ingaggia la polemica? È evidente che per il filosofo della storia ogni discostamento dal piano originario è un’azione contro-natura, come il volere depositare il seme in un terreno non fecondo.

Se nella storia non c’è un ordine, vuol dire che tutto succede per caso.

Per quanto riguarda la cosiddetta storia naturale si tratta di un dato acquisito. A partire da Darwin sappiamo che la vita cosiddetta naturale è venuta fuori per caso, e che chiedere, come chiede Nicce: A cosa serve la mano? merita la risposta secca: la mano non serve a niente. Se applico questo stesso metro – caso o gioco – alla cosiddetta storia dello spirito, devo concludere dicendo che l’avvenire è innocente, ovvero che il futuro non è prevedibile, che la storia avanza a casaccio. E che ciò che vedo ai miei piedi deve apparirmi, come è apparso all’angelo di Benjamin, come un cumulo di macerie. L’angelo – il messaggero – vede la storia come un’unica, grande catastrofe, che accumula senza sosta, come in una funesta eruzione, «rovine su rovine», rovesciandogliele davanti ai piedi. L’angelo vorrebbe ricomporre i pezzi. Ma ciò non è compito di un angelo, bensì del Messia. Tutto ciò che è storia, che non è redento, ha per sua natura carattere frammentario [Gershom Scholem, Walter Benjamin e il suo angelo].

Solo il Messia, sentendo l’appello, può riportare le cose nel loro ordine (originario). Il messaggero – l’angelo – tratta verità contingenti, e le verità contingenti [Leibniz, Caratteristica], richiedono nel loro sviluppo un’analisi infinita, che solo Dio può percorrere. E perciò possono essere conosciute a priori e con certezza soltanto da lui. Anche se infatti si può sempre rendere ragione di uno stato posteriore con quello anteriore, tuttavia di questo si può a sua volta rendere ragione, e pertanto non si arriva mai all’ultima ragione nella serie. Ma lo stesso progresso all’infinito, dice Leibniz, ha una ragione, che a suo modo potrà sempre essere intesa, fuori della serie, immediatamente dall’inizio, in Dio autore delle cose, dal quale più che da se stessi dipendono gli antecedenti come i conseguenti. Ma mettersi al posto di Dio non è possibile. Per quanto si tenti e si calcoli, la risoluzione procede all’infinito. Certo, dice Leibniz, nel calcolo si giunge comunque a una misura comune e si ottiene una serie, però si tratta di una serie approssimata.

Rimpallandosi le proprie mezze verità i polemologi rimango prigionieri del loro empirismo. A meno che, e questa è la seduzione alla quale non resiste nemmeno Antoniol, non potendo più dire che l’avversario ha torto, perché in una campo polemico la ragione migliore è sempre quella del più forte, si dice che l’avversario finge di dire la verità mentre sta cercando di imporre la sua volontà.

Lo storico – qui dobbiamo leggere «storico tradizionale», «storico mainstream», scienziato, matematico, il tapino asservito al sistema, eccetera, anche se oggi un tale tapino non si vede da nessuna parte, perché in ogni dove domina l’idea pragmatista di un sapere che fa cose con le parole – lo storico, dice Antoniol – e qui comincia la seduzione – assume un punto esterno al campo di studi, un punto privilegiato.

Lo storico, vuole dire Antoniol, finge di assumere un punto esterno, e può solo fingerlo, perché nei fatti nessun può sottrarsi al campo di battaglia. Dunque, la sua finzione oggettivista, tale per cui lui – lo storico – sarebbe il soggetto rispetto al quale la storia sarebbe l’oggetto di studio, è un’arma. Ora, o questa arma è imbracciata in modo consapevole, e qui il polemista comincia a costruire la sua carriera di smascheratore di ideologie, oppure questa arma – ovvero la struttura epocale in cui soggetto e oggetto si dischiudono – appartiene a ciò in cui lo storico è gettato mani e piedi. Per uscirne dovrebbe compiere quel salto che il polemista, grazia sua, sa che deve essere compiuto, ma si astiene dal dire da dove bisogna staccare i piedi, perché ogni dire è macchiato di quella stessa palta che si vorrebbe dilavare.

A questo punto, dice Antoniol, al genealogista non rimane che collocarsi all’interno della storia, ed esprimere una posizione che è assolutamente parziale e che non può essere oggettiva (qui dobbiamo leggere post-moderna). Nella genealogia il metodo diventa posizione (Da), e la posizione diventa metodo, tale per cui la genealogia, eretta per contrastare la storia degli storici, non si distinguerebbe in nulla da quest’ultima, se non per una mera opposizione, a meno che non si inchiodino gli storici (mainstream) ad un sito, surrogando un esser-stato – il che non è possibile, visto che in una polemologia seria, anche la quiete è movimento.

E tuttavia, senza la surroga di questo esser-stato, che dunque anticipa la battaglia e il due, non c’è verso di avviare la polemica.

È questa la strada che imbocca Antoniol quando dice che la storia degli storici è quella storia basata sulla ricerca dell’origine. Ciò che differenzia la storia polemologica dalla storia mainstream è che mentre la seconda cerca un’origine che non c’è, cerca un’essenza che non c’è, una perfezione che non c’è, un’identità, una purezza, un qualcosa che c’era (che essa crede ci sia stata) e che adesso (crede) non ci sia più, la polemologia dice che questa credenza è solo una credenza, e lo dice a partire da una credenza antecedente, ovvero dalla differenza che differenzia le due storie in quanto storia polemologica e storia mainstream. Quest’altra differenza è essa stessa una credenza, in quanto, data la posizione dalla quale la si enuncia, non può assumere quel carattere di necessità e universalità che la toglierebbe dall’imbarazzo di dover far passare per legge una sentenza.

Date queste premesse, ovvero la differenza tra polemologia e storia, la quale si innesta su una differenza di primo livello, la differenza polemologica stessa, premesse che surrogano una dimostrazione, perché come ho mostrato, la prima differenza, la differenza polemologica stessa, a meno che non si introduca in essa un telos, avanza a casaccio, e in essa l’altro è sempre sul punto di diventare tutt’altro, scontate queste premesse si può anche dire che mentre lo storico va alla ricerca dell’origine, al contrario, il genealogista ha il compito di svelare che non esiste alcuna essenza, che non c’è origine e non c’è alcun esser-stato. C’è invece una provenienza che è marcata da contrasti, da discordie, da dissidi. L’inizio storico è basso – dice Antoniol. Il genealogista, dice, non va a cercare un inizio extra-storico, non va a cercare una linearità progressiva e continua della storia, ma si concentra piuttosto sulle rotture, sui silenzi, sulle pause. Si basa sulla figura della dispersione.

Anche in questo caso bisogna precisare che questa idea di extra-storico è una surroga del fuori – una specie di cinematografo. Mentre questo fuori originario, sul quale lo storico costruisce il suo sistema, viene negato dal genealogista, mentre ci viene detto che esso non è altro che finzione, messa in scena, cinematografo, anche se non sappiamo che cosa sia questa finzione e che cosa ci sia veramente nelle parole dello storico, di una cosa siamo certi, che c’è un limite che delimita questo extra – questo fuori – limite che il genealogista non varca: non va oltre in questo fuori.

Come è del tutto evidente questo limite segnato dal genealogista, agisce nella genealogia come l’idea di origine agisce nello storico di professione. Il genealogista si pone aldiqua del limite, pur sapendo che questo limite non delimita nulla, perché aldilà del limite non c’è un’origine, non c’è un inizio adamitico, non c’è un aldilà del tempo storico, dunque non c’è niente, se non un prolungarsi indefinito dell’aldiqua, il quale, non essendoci un aldilà, perde la propria consistenza di aldiqua, e che tutta questa delimitazione e recinzione è una stratagemma per porre surrettiziamente il nemico nel quadretto polemologico.

Posto questo limite polemologico – limite fittizio, tragicomico – la polemologia può giocare la sua posta politica e mostrare, dato il margine, che vi è un racconto ufficiale che esclude, che pone aldilà del limite una serie di fatti e di persone, che per questa storia sono appunto i suoi reietti. Il mainstream (questo pupazzo creato dal polemologo per avviare il suo discorso) esclude dal suo racconto ufficiale, pone aldilà del limite, dice Antoniol, e dunque dal palcoscenico della storia, gli esclusi. E qui, dice, interviene il legame fortissimo tra storia e guerra. La storia è una storia costellata di battaglie, è una storia analizzata attraverso il prisma della guerra, è una guerra in cui alcuni combattono per escludere e porre aldilà del limite altri. Questi altri sono ciò a partire da cui noi parliamo, e siccome parlare è combattere, questi altri sono il limite dal quale combattiamo – ma è tutto un cinema per mettere in scena la polemologia GneGne.

Dunque, dice Antoniol, la guerra, partendo dal due, non è l’origine, la guerra è una provenienza. È un principio operativo che sta alla base di tutte le cose. Una matrice che ci consente di decifrare la storia, che ci consente di dire che la storia è costellata di battaglie che producono un’interminabile successione di vincitori e vinti, di dominatori e dominati. Momento della nascita che è determinato da uno scontro di forze – teatro di guerra. La storia è intesa come guerra generale.

Questa definizione, dice Antoniol, ha per Foucault delle conseguenze molto importanti. Dire che la storia è attraversata da una guerra generale significa dire che non esistono responsabili che hanno determinato questa storia [Non esistono responsabili, la ragione del più forte è sempre la migliore, e ogni racconto ha la sua (relativa) legittimità]. Non esiste un potere che dall’alto fa valere la sua forza e la sua autorità per determinare una certa condizione permanente. Non esistono posizioni neutrali. Non può essere neutrale neanche il genealogista. La genealogia, dice, vale come critica, il genealogista entra nella storia con una sua specifica prospettiva. E siccome non è il portavoce di una istanza generale, fa della storia un uso specifico, uso politico, di parte, mostrando così il risvolto politico – storico politico – della sua operazione.

Si tratta, dice Antoniol, di un Niccianesimo radicale, di un presupposto storico strategico che guida le indagini polemocritiche. Comprendere le relazioni di potere in termini di rapporti di forza e i rapporti di forza in termini di guerra, significa dispiegare pienamente l’ipotesi di Nicce, invertendo Clausewitz. Nella società c’è uno scontro continuo e mai definitivo tra vincitori e vinti, dominatori e dominati che implica due parti in gioco e in perpetuo fronteggiarsi. Non si può che riconoscere l’esistenza di soggetti partigiani: dove c’è potere c’è resistenza. Il partigiano non fa valere un discorso universale, fa valere una propria storia, che si contrappone alla storia di altri e alla fittizia universalità di una storia predominante: la storia dello stato, la storia degli stati, la storia dell’assoggettamento.

Perché Antoniol non sceglie di dire queste stesse cose nel modo pacato in cui le dice Leibniz? Perché non dice che la ragione della serie può essere intesa solo fuori della serie, e che un membro della serie giunge soltanto a una misura comune ma approssimata? Perché non dice, come Hegel, che, poste l’una di fronte all’altra, due determinatezze (due mondi, il cui andazzo, contesa, confitto, differenza, eccetera, si barcamena in un relativismo, in un avvicendamento senza capo né coda), conducono e uno scetticismo e a un mutismo che Foucault ha più volte paventato come soluzione? Perché non dice, senza tanta caciara, come Husserl, che l’induzione a partire da dati di fatto dell’esperienza non può fondare la validità di una legge, fonda soltanto la più o meno alta probabilità di questa validità, solo la probabilità e non la legge ha una giustificazione apoditticamente evidente, eccetera?

Non lo dice, perché il lessico guerrafondaio è più figo, è più chic, più GneGne, fa effetto sui poveri cristi.

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