Walter Benjamin appuntava in un quadernino i titoli dei libri e l’anno in cui li aveva letti. Prima del 1933, di Marx aveva letto per intero solo Lotte di classe in Francia. In una lettera del 25 maggio 1925 all’amico Gershom Scholem, nomina due esperienza che doveva ancora fare: occuparsi di politica marxista (la dottrina marxista non la teneva, allora, in alcun conto) e di ebraismo [ Gershom Scholem, Walter Benjamin e il suo angelo].
Negli anni venti il marxismo si era profondamente rinnovato. Nel 1923 erano apparsi, quasi contemporaneamente, Marxismo e filosofia di Karl Korsch e Storia e coscienza di classe di György Lukács. Persino Heidegger (di nascosto) leggicchiava Lukács e Korsch. Dunque, l’avvicinamento di Benjamin al marxismo avvenne in un clima propizio, anche se a imprimere una spinta rilevante fu l’incontro con Brecht.
Dell’influenza di Brecht su Benjamin Scholem ha un’idea negativa. Salvo un’unica eccezione – Brecht, appunto – Benjamin si occupa intensamente soltanto di autori cosiddetti “reazionari”, come Proust, Julien Green, Jouhandeau, Gide, Baudelaire, George. L’eccezione è costituita da Brecht, dice Scholem, il quale per anni ha esercitato su Benjamin un fascino ininterrotto.
L’indole di Brecht era più dura, ed essa ha influito profondamente su quella più delicata di Benjamin. Che in tale rapporto Benjamin si sia trovato bene, dice Scholem, non oso affermare; direi piuttosto che ritengo funesto, talvolta persino catastrofico, l’influsso di Brecht sulla produzione benjaminiana degli anni Trenta.
Benjamin era melanconico, come il suo angelo, che, con le ali spalancate, retrocede irresistibilmente verso il futuro. Una bufera che proviene dal paradiso gli impedisce di sostare e lo spinge innanzi.
L’aspetto melanconico, dice Scholem, è dato dal fatto che esso corre verso il futuro a cui non guarda e non guarderà mai, fino a quando non avrà compiuto come angelo della storia la sua unica e singolarissima missione.
Affinché il messia giunga, la sua venuta deve essere annunciata – forse la sua venuta consiste solo in questo annuncio. Il senso di un piano economico si chiude come vangelo.
L’angelo non è il messia, è solo un suo messaggero. In quanto angelo della storia non può intervenire come farebbe il messia, non può nemmeno volgere lo sguardo verso il futuro. Scrutare il futuro, come fanno la scienza e la statistica, è interdetto all’angelo della storia – nessuna teleologia. L’angelo non può chiudere il cerchio come farebbe Hegel, o come farebbe con superbia un circuitista qualsiasi.
Poiché per Benjamin il tempo si orienta a partire dal futuro, per organizzare ciò che giace ai suoi piedi l’angelo dovrebbe volgere le spalle al passato e guardare in faccia il messia – ma il messia non ha una faccia da guardare.
L’angelo si trova nella stessa condizione di quello scienziato empirista al quale – e per sovrammercato – è impedito di formulare ipotesi, tale che i fatti gli si presentano tutti insieme in un piano disordinato – casuale.
Persino la sua missione angelica è in dubbio, dice Scholem.
Ciò che all’osservatore umano appare come storia e come passato, l’angelo lo vede come un’unica, grande catastrofe, che accumula senza sosta, come in una funesta eruzione, «rovine su rovine», rovesciandogliele davanti ai piedi. L’angelo vorrebbe ricomporre i pezzi. Ma ciò non è compito di un angelo, bensì del Messia. Tutto ciò che è storia, che non è redento, dice Scholem, ha per sua natura carattere frammentario.
Non c’è nessun ordine nella storia. Marxisti di ieri e di oggi non affrettatevi a voler dimostrare la validità della legge del valore partendo dai dati di fatto – o dai dati numerici. L’ordine – la legge – arriva dal futuro. Nemmeno il messaggero è in grado di mettere insieme i cocci. Per trascendere il frammento ci vuole un salto. Questa salto non si può limitare ad una decisione (Schmitt). Anche se una decisione è necessaria, essa non è sufficiente. La decisione entra nella storia solo in quanto eco (ripetizione) di un annuncio.
L’angelo della storia, dice Scholem, come lo vede qui Benjamin, fallisce in tale missione, che può essere assolta solo dal Messia, il quale poteva passare per la «porticina» di ogni secondo realizzato nel tempo storico.
È davvero notevole la vicinanza con Kafka, con il suo modo di impostare il tema nel Castello, per esempio. Anche in Kafka l’angelo K non può passare dalla porta che immette nel castello, porta che era riservata solo a lui. Anche K non può vedere la legge, si aggira tra i frammenti della giustizia.
Questo è l’enigma della storia.
Che cosa impedisce all’angelo il compimento della sua missione? chiede Scholem.
È la bufera che non gli permette di sostare, consegnandolo al cattivo infinito. Ma è anche il passato stesso non redento, che davanti a lui sale al cielo come un cumulo di rovine.
L’illusione di orientarsi in questo caos relativista o semplicemente di poter prendere posizione (con disperazione – Foucault – o con allegria Deleuze), deve sempre ammantarsi di presupposti inconfessabili – errore giovanile che Nicce corregge a Sils Maria.
La soluzione sta nel balzo di tigre nel passato. La rivoluzione è un balzo di tigre nel passato. Il balzo non è nel futuro, come si pensa partendo dall’idea di progresso o di tempo parcellizzato, del tempo-ora che genera l’idea di continuum, quel continuum in cui si muove anche la polemologia e la critica dell’economia politica. Il balzo nel passato trae fuori il passato storico dalla sua immagine eterna, lo trae fuori dal continuum, usando come asta o bilanciere la legge del valore.