Crtica dell’economia politica del segno. Baudrillard e Marx

Cézanne

I

L’obiettivo dichiarato di Per una critica dell’economia politica del segno di Jean Baudrillard è la decostruzione della distinzione tra valore-uso e valore-scambio che apre il Capitale. L’opera di Marx ha come sottotitolo Critica dell’economia politica. Dunque, il libro di Baudrillard, sin dal titolo, si inscrive nella storia del marxismo, nonostante ne contesti un argomento considerato da Marx elementare, dunque basilare: la distinzione, appunto, tra valore-uso e valore-scambio.
La merce è in primo luogo una cosa – dice Marx (Capitale I, 1.1). Una cosa che soddisfa bisogni umani. Il modo d’uso delle cose non è definito una volta per tutte. La proprietà della calamita di attrarre il ferro, dice Marx, divenne utile solo quando fu scoperta per suo mezzo la polarità magnetica. È compito della storia scoprire i molteplici modi d’uso delle cose. Come è compito della storia definire i termini e i modi di quantificazione di questi oggetti.
L’utilità della cosa è ciò che fa di essa un valore-uso.
Ma che cos’è l’utilità?
Marx ha già chiarito che l’utilità è legata alla proprietà della cosa.
Mentre la proprietà è data (o fabbricata), l’utilità, in ogni caso, è prodotta dalla storia. Ma la storia la produce a partire dalla proprietà della cosa, dalla sua attitudine naturale (qui Marx cita a sostegno Locke) ad appagare un qualche bisogno umano.
L’utilità, dice Marx, non aleggia nell’aria. È legata alle proprietà del corpo dell’oggetto, e non esiste senza di esso. La calamita diventa utile con l’invenzione della bussola. Prima di questa invenzione, la proprietà del magnete di indicare il nord non aveva alcuna utilità. Pertanto, l’utilità non è un carattere permanente e fisso della cosa, non è un carattere naturale. Si potrebbe dire, forzando un po’ la mano, che solo nel suo utilizzo in quanto bussola, la calamita manifesta la sua proprietà.
Quando si scopre che la calamita può essere impiegata nel VHS, essa diviene utile per registrare su nastro film e spettacoli; oppure, quando si scopre che il magnetismo può essere usato per gli hard disk dei computer, gli altoparlanti delle casse acustiche, i motori elettrici, i treni a levitazione, le carte di credito, eccetera, i rimandi della calamita ai suoi usi possibili si allargano, sino al punto da mostrare la vacuità della domanda «che cos’è la calamita?». Aldilà di questi rimandi, la calamita non è niente.
A questo punto bisogna chiedersi se la distinzione che Marx cerca di mantenere tra proprietà (naturali) e utilità (storiche) resiste all’argomento che considera l’emergere delle proprietà come strettamente connesso con la struttura di rimando degli usi possibili.
Il rischio che si corre, che è il rischio corso da Baudrillard, è di annullare la differenza tra natura e storia, e considerare tutto, dunque anche la natura (con o senza virgolette), come un prodotto storico.

II

I valori-uso, dice Marx (Capitale I, 1.1), costituiscono il contenuto materiale della ricchezza, qualunque sia la forma. I valori-uso sono i vettori dei valori-scambio.
Il valore-scambio può essere in generale solo il modo di espressione di un contenuto distinguibile da esso. È forma, e non contiene nemmeno un atomo di valore-uso. E non può contenerlo, dice Marx, poiché le proprietà corporee, in generale, entrano in considerazione solo in quanto rendono l’oggetto utilizzabile, cioè in quanto fanno di esso un valore-uso. Se queste proprietà entrassero anche nel valore-scambio i prodotti non sarebbero più commensurabili.
Da una parte, per essere commensurabile, il prodotto deve perdere le differenze corporee che lo distinguono da tutti gli altri corpi di prodotti, e, dall’altra, deve mantenere le proprietà corporee, perché se il prodotto perdesse queste proprietà, lo scambio non avrebbe più alcun motivo di essere perfezionato. Il prodotto deve presentarsi contemporaneamente come valore-uso e valore-scambio.

III

Il titolo del primo paragrafo del Capitale è: I due fattori della merce: valore-uso e valore (sostanza del valore e grandezza del valore) – Die zwei Faktoren der Waare: Gebrauchs werth und Werth (Werthsubstanz, Werthgrösse).
Nel secondo paragrafo, Marx chiarisce che il valore-scambio non deve esprimere solo il valore in generale (Werthsein), ma anche il valore determinato quantitativamente, ovvero la grandezza di valore (Werthgrösse). Dunque, ci sono la Werthsubstanz, la Werthgrösse e la Werthsein. La Werthgrösse e la Werthsein sono parti della Werthform. La Welt-form, dice Marx, deve esprimere non soltanto l’esser-valore, ma anche la sua grandezza. È importante non confondere la Werthgrösse con la Werthsein, perché è proprio dal passaggio dall’esser-valore della merce alla quantificazione di questo valore che si misurano tutte le difficoltà, non solo dell’approccio di Marx, ma di ogni altro approccio.
La
Werthsubstanz è il lavoro. Ma il lavoro, dice Marx, non è l’unica sostanza. Il valore d’uso, ovvero il corpo della merce (Waarenkörper), è la combinazione di due elementi: 1) materia fornita dalla natura e 2) lavoro. Se si sottrae il totale dei vari lavori utili contenuti nel corpo della merce, rimane sempre un substrato materiale (materielles Substrat), presente per natura, senza intervento dell’uomo. L’uomo può soltanto modificare la forma della materia, ma questa materia si offre da sé. Il lavoro non è l’unica sostanza dei valori d’uso. C’è anche una sostanza materiale che si fa avanti da sé.
I
l valore-uso, il corpo fisico, ha dunque una sostanza materiale. Questa sostanza si mostra di volta in volta come bussola, come hard disk, come film, come treno, come cassa acustica, eccetera. Gli usi possibili della sostanza calamita sono molteplici. Questi usi hanno il carattere del ritmo (ῥυϑμός), dello scorrere, del mutevole, dell’instabile e incostante. Ciò che è privo di ritmo, che rimane stabilmente presente nell’avvicendarsi dei diversi prodotti è la sostanza. Pertanto, l’unica cosa che, nel ritmo incessante, rende veramente afferrabile il valore-uso è proprio la sostanza materiale. Le attualizzazioni di questa sostanza sono di un grado minore, non soddisfano in pieno i requisiti per imporsi come veraci.
Percorrendo questa strada si finisce per squalificare il mondo a favore di un un aldilà ideale. Si finisce, da una parte, per squalificare i lavori effettivi, a favore di un lavoro astratto o di un lavoro medio, dall’altra, per squalificare la realtà effettiva, svalutata a copia di una forma ideale.

IV

La sostanza, contrapposta all’accidente, è ciò che è necessariamente. Mentre l’accidentale è ciò che è possibile, ciò che può diventare qualcosa di diverso da ciò che era o è, la sostanza è ciò che è. Tutto ciò che si riscontra nell’esperienza è accidentale, non può fornire un punto stabile, capace di rispondere alla domanda «Che cos’è?», perché le cose che si incontrano quotidianamente non sono perfette, non solo assolute, sono relative, sono limitate, riservano altre possibilità.
La distinzione tra ente possibile e ente necessario rispecchia la distinzione della filosofia medievale tra ente finito e ente infinito.
La filosofia medievale distingue tra ente infinito (Dio) ed ente finito (Creatura). A questa distinzione fa seguito quella fra ente necessario ed ente contingente. La bussola è un ente contingente. La calamita non necessariamente è bussola, può anche essere hard disk. La bussola non esaurisce gli usi possibili della calamita. Se la bussola esaurisse gli infiniti usi possibili della calamita la sua esistenza in quanto ente contingente corrisponderebbe perfettamente, ovvero necessariamente, con la sua essenza.
La filosofia medievale infine distingue anche tra ente come puro atto (
actus purus) e ente potenziale (ens potentiale), ovvero tra l’ente come pura effettività, e l’ente invece come ancora possibile. Anche ciò che è in atto, ma che non è Dio stesso, è costantemente minacciato dalla possibilità di non essere (Heidegger, I problemi). Pur se esistente, esso è ancora possibile, ha la possibilità di non essere o di essere qualcosa di diverso da quello che è, mentre Dio, per sua essenza, non può non essere. L’ente infinito, dice Heidegger, è necessario, non può non essere, esso è per essentiam, alla sua essenza appartiene l’effettività, è actus purus, pura effettività senza potenza. La sua essentia è la sua existentia. In esso essenza ed esistenza coincidono. L’essenza di Dio è la sua esistenza. E poiché in questo ente essenza ed esistenza coincidono, evidentemente non potrà sorgere il problema della loro distinzione, problema che invece, dice Heidegger, si impone al livello dell’ens finitum.
Già nell’uso ordinario, quando parliamo della calamita, emerge la necessità di distinguere tra la calamita e i suoi usi effettivi nella vita quotidiana. In ciò che della calamita si attualizza di volta in volta vediamo la bussola, il treno o l’hard disk. In nessuna di questa manifestazioni si mostra anche la calamita.
La calamita è ciò che unisce i molteplici utilizzi che di essa si mostrano. L’unificazione di questi molteplici usi non può mai venire dai sensi (Kant,
Critica, § 15). Non può mai trovarsi nelle cose. Possiamo voltare e rivoltare le cose che abbiamo sotto mano, ma in esse, dice Marx (Capitale I, 1.3), non troveremo nemmeno un atomo che manifesti ai sensi la presenza della calamita. Partendo dai sensi non sapremo mai cosa essa è. Il suo significato, il suo senso, il suo valore, non possono essere recepiti. Cosa essa è, qual è il suo valore, il suo senso, il suo significato, il suo contenuto, la sua oggettività, non possono in alcun modo essere appresi mediante i sensi.
Come si forma allora il concetto della calamita?

V

La calamita è un oggetto. Ingenuamente si ritiene che l’oggetto sia la cosa che abbiamo di fronte e che possiamo afferrare con la mano. Ma con la mano afferriamo sempre e solo la bussola, o l’hard disk, e mai la calamita. Afferriamo ciò in cui la calamità si manifesta. Afferriamo questo o quel suo uso attuale, ma mai i suoi usi possibili, la sua sostanza.
L’oggetto, dice Kant (Critica, § 17), è ciò nel cui concetto è unificato il molteplice di una data intuizione. Tutto il molteplice è unificato in un concetto dell’oggetto. In più, dice, ogni unificazione delle rappresentazioni richiede l’unità della coscienza nella sintesi di esse. Dunque, l’unità della coscienza è ciò che solo costituisce il rapporto delle rappresentazioni con l’oggetto, e quindi la loro validità oggettiva, ossia ciò che le fa conoscere, e su cui perciò riposa la possibilità dell’intelletto.
Tutto il molteplice dell’intuizione, dice Kant (§ 17), è sottoposto alle condizioni dell’unità sintetica originaria dell’appercezione. Ogni unità del molteplice rimanda e richiede l’unità di un soggetto. L’io penso, dice Kant (§ 16), il
cogito sum, deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni; in caso diverso, si darebbe in me la rappresentazione di qualcosa che non potrebbe essere pensata; il che equivale a dire che la rappresentazione o sarebbe impossibile o, per me almeno, sarebbe nulla. L’intuizione è quella rappresentazione che può venir data prima di ogni pensiero. Perciò ogni molteplice dell’intuizione ha una relazione necessaria con l’io penso, nello stesso soggetto in cui questo molteplice ha luogo. Ma la rappresentazione dell’io penso è un atto della spontaneità, ossia non può venir ritenuta propria della sensibilità. Io la chiamo, dice Kant, appercezione pura, per distinguerla da quella empirica, o anche appercezione originaria, perché è quella autocoscienza che, producendo la rappresentazione io penso – che deve poter accompagnare tutte le altre, ed è una e identica in ogni coscienza – non può essere accompagnata da nessun’altra. L’unità di questa rappresentazione, dice, la chiamo anche unità trascendentale dell’autocoscienza, per designare la possibilità della conoscenza a priori, che in essa si basa. Infatti, le molteplici rappresentazioni che sono date in una certa intuizione, non potrebbero tutte assieme essere mie rappresentazioni se tutte assieme non appartenessero a una sola autocoscienza.
L’autentico soggetto, l’autentica sostanza, è per Kant l’io, l’io penso. È evidente che non si tratta dell’io psicologico, dell’io empirico, dell’io antropologico. Di quell’io che può essere appreso da una scienza positiva. Non può essere, insomma, un io recepito dalla sensibilità, in quanto tutto ciò che proviene dalla sensibilità, dunque anche un io psicologico o antropologico, per essere riunito in unità, richiede appunto un io trascendentale.
L’io così inteso è il fondamento originario dell’Unità del molteplice, può tenere tutto, fare la sintesi. L’intelletto, che è sempre volto a investigare i fenomeni, per scoprire in essi una regola oggettiva, dunque inerente la conoscenza dell’oggetto, formula le leggi. E benché queste leggi le apprendiamo mediante l’esperienza, esse, dice Kant, non sono che determinazioni particolari di leggi più complesse che hanno la loro origine a priori nell’intelletto stesso. Esse non sono tratte dall’esperienza, ma debbono, al contrario, conferire ai fenomeni la loro conformità a leggi, rendendo così possibile l’esperienza. L’intelletto, pertanto, non è la semplice facoltà del rinvenimento di regole mediante il raffronto di fenomeni, ma è esso stesso il legislatore della natura. Senza l’intelletto, dice, non sussisterebbe assolutamente una natura, ossia un’unità sintetica del molteplice.
I fenomeni, dice Kant (
Critica p.415 Bompiani), non possono, come tali, avere luogo fuori di noi, ma esistono soltanto nella nostra sensibilità. Questa, però, in quanto oggetto della conoscenza in un’esperienza, non è possibile, assieme a tutto ciò che può contenere, se non nell’unità dell’appercezione. L’unità dell’appercezione, a sua volta, è il fondamento trascendentale della necessaria conformità a leggi di tutti i fenomeni di un’esperienza. Tutti i fenomeni, in quanto esperienze possibili, si trovano dunque a priori nell’intelletto, dal quale traggono la loro possibilità formale, non diversamente dal modo in cui, in quanto semplici intuizioni, si trovano nella sensibilità, mediante la quale soltanto risultano possibili quanto alla forma.
Al livello dell’ente finito, essenza ed esistenza non possono coincidere. A tal proposito, si pone il problema della loro connessione, del salto dall’una all’altra. Se si considera la serie finita di 1,3,5,7…, si può supporre che il numero da attendere dopo il 7 sia il 9, e che la legge che governa la successione, e in base alla quale si può ricavare la soluzione, è la successione dei numeri dispari. Ma nulla garantisce in modo necessario e universale che questa serie effettiva continui secondo la nostra supposizione. La serie finita 1,3,5,7…, riserva infinite possibilità di sviluppo, oltre quella della successione dei numeri dispari. Solo una mente infinità, che ha percorso il tempo dall’inizio alla fine, conosce con assoluta necessità tutti i numeri della serie, e quindi la legge che la governa. Un ente finito – l’uomo – può azzardare solo supposizioni, congetture empiriche, le quali hanno la validità di verità soggettive, affermazioni relative, statistiche, contestabili. Solo un ente infinito (Dio), o il creatore della serie, possono conoscere la legge che presiede alla successione e proporre una verità oggettiva.
Quando Marx dice che il valore-scambio non contiene nemmeno un atomo di valore-uso; quando dice che il valore-scambio è la forma di cui il valore-uso è il contenuto, vuole ribadire questo assunto della filosofia critica, ovvero che la sostanza del valore è soggetto. Resta da vedere se questo soggetto, sulla scia di Cartesio e di Kant, coincide con l’Io penso.

VI

Credendo di poter trovare nelle cose stesse le leggi che le governano si finisce per cadere nello scetticismo. Kant supera questo rischio ribaltando la prospettiva. È venuto il momento anche in metafisica, dice (Critica, Introduzione), di tentare il cammino inverso, muovendo dall’ipotesi che siano le cose a doversi regolare sulla nostra conoscenza, e non la conoscenza sulle cose. Non si tratta di una resa al razionalismo, o all’innatismo. Kant non si ritira dall’esperienza effettiva e dall’atteggiamento empirista. I pensieri senza contenuto, dice, sono vuoti. C’è sempre un momento di passività, la sensibilità implica ancora una certa passività, una ricettività rispetto ad un dato che agisce e ha effetti sul cogito sum. Questa passività evidenzia la connessione tra il cogito, che qui si pone come sostanza, e il cogitato. Tuttavia, nonostante questa relazione di passività, Kant rileva il momento produttivo dell’Io penso. Le intuizioni senza concetti, dice, sono cieche. Sottolinea la relazione tra sostanza e produzione.
Come va intesa questa produzione?
Il primo modo, quello medievale e antico, in cui il contenuto si collega alla forma, rimanda all’atteggiamento produttore propriamente detto. Il secondo modo, che è quello di Kant, rimanda all’apprensione, alla percezione.
La risposta alla domanda «Che cos’è?» deve riguardare qualcosa che sia necessario. Qualcosa che valga per tutte le occorrenze. Qualcosa, dunque, che sia già stato. Che possa presiedere all’apparizione di tutte le occorrenze effettive, di tutte le sue attualizzazioni. Qualcosa che sia prima o fuori dal tempo, che sia meta-fisico
La ragione della serie 1,3,5,7…, non può essere un numero della serie, non può trovarsi tra le cose effettive, ma solo nella testa del suo creatore (Dio).
Anche Marx caratterizza la sostanza come produzione.
Ciò che distingue il peggiore architetto dall’ape migliore, dice (Capitale I, 5.1), è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera. Al termine del processo lavorativo, emerge un risultato che era già presente all’inizio nella mente del lavoratore, e quindi che esisteva già come idea. L’uomo non si limita a effettuare soltanto un cambiamento di forma dell’elemento naturale, ma, allo stesso tempo, realizza nell’elemento naturale il proprio scopo, di cui ha coscienza e conoscenza, che determina come legge il suo modus operandi, e al quale egli deve subordinare la sua volontà. Nell’Introduzione del 57 Marx chiarisce in modo ancora più esplicito questo aspetto.

VII

A differenza dell’ape, che esegue istruzioni stampate nel DNA, l’uomo sa cosa deve fare, possiede un’idea di ciò che sarà, ha uno scopo. Ha un fine che corrisponde esattamente con l’inizio. Ha cognizione dello stampo con il quale generare tutti gli esemplari possibili, tutte le copie. Ha in testa l’originale.
Una cosa qualunque, dice Heidegger (I problemi), una finestra, un tavolo, prima di essere effettiva era già ciò che è, deve esserlo già stato per potersi attuare. Essa doveva esser già stata quanto alla sua cosalità: infatti solo perché era possibile pensarla come passibile di attuazione, essa poteva essere attuata. Quello che un ente effettivamente esistente è già stato si chiama essenza.
Si risale alla
quidditas (all’essenza) quando si vuole determinare quello che l’ente è autenticamente. Questa determinazione, dice Heidegger, viene meglio definita come forma μορφή (morphḗ). Forma è ciò che costituisce la figura di un ente. Essa corrisponde a come un ente appare, in greco εἶδος (eîdos), ciò che si vede di una cosa. La forma, in greco, si collega all’εἶδος. Ciò che costituisce la determinazione autentica dell’ente, ciò che sta alla radice e traccia in anticipo ogni proprietà e ogni azione di una cosa, la sua essenza, è chiamata perciò natura, conformemente all’uso che Aristotele fa del termine physis (in greco φύσις). Ancora oggi, dice Heidegger, noi parliamo di natura delle cose.
All’inizio c’è l’idea, la forma. A partire da questa forma, che costituisce l’origine, ma anche l’originale, l’autentico, il vero, il compiuto, ma anche la causa, ovvero ciò a partire da cui l’effetto si attualizza, si generano gli effetti. La ragione degli effetti va cercata nelle cause, la ragione della creatura nel Creatore.
Tutto si deciderebbe nel passato. Un’attribuzione di importanza smisurata al passato e alla storia, intesa come maestra di vita, come master o stampo o originario e originale o esemplare, deriva proprio da questa teo-logia.
La distinzione tra Creatore e creatura replica la distinzione tra infinito e finito, tra necessario e contingente, tra verità e possibilità, tra scienza e statistica, tra episteme e doxa. Ma anche tra tutto ciò che è nel tempo e dunque nella storia e ciò che, invece, è fuori dal tempo, fori dalla storia – meta-fisico.
Per la filosofia medievale, dice Heidegger, qualcosa esiste se è
actu, se si fonda su un agere, sulla produzione di un effetto (ἐνέργειᾰ – enérgeia). L’esistenza (la Wirklichkeit) indica l’esser-effettuato, ossia l’effettività insita in esso (actualitas, ἐνέργειᾰ, ἐντελέχεια). Il vocabolo tedesco Wirklichkeit (effettività), dice Heidegger, è la traduzione di actualitas. Il fenomeno dell’actualitas, corrisponde al termine greco ἐνέργειᾰ. Grazie alla actualitas, dice la scolastica, grazie all’effettività, un’essenza, un determinato che-cosa, viene posto e situato al di fuori delle sue cause.

VIII

In Aristotele la sostanza può essere forma (eidos, morphé), ma può anche essere materia (ὕλη). La forma è l’intima natura di una cosa, il che cos’è o l’essenza (einai). La forma o essenza dell’uomo è l’anima, ovvero ciò che fa di lui un essere vivente razionale, l’essenza di un animale è l’anima sensibile, e di una pianta l’anima vegetativa. Le cose sono conoscibili nella loro essenza. Tuttavia, se l’anima razionale, ovvero la forma-uomo, non avesse un corpo cui dare forma, non avremmo un uomo effettivo, e se l’anima sensibile non si imprimesse in una materia, non avremmo un animale. Poiché la materia risulta fondamentale per la costituzione delle cose, essa potrà dirsi, entro questi limiti, sostanza delle cose. I limiti sono bene definiti. Se non ci fosse la forma, la materia sarebbe indifferenziata e non basterebbe a costituire le cose.
Nella vita comune la materia è considerata come il sostanziale. Tutto ciò che esiste contiene certamente materia. Ogni mutamento presuppone un sostrato (
hypokeimenon) nel quale il mutamento si compie.
Nella sostanza, dice Hegel (
Lezioni), i momenti dell’attività e della possibilità non cadono insieme, ma appaiono come separati. La determinazione più precisa di questo rapporto della forma verso la materia, nonché il movimento di questa opposizione, ci danno le diverse maniere della sostanza.
Aristotele, dice Hegel, usa l’espressione
dynamis (potentia, possibilità) per indicare la materia, la quale può assumere tutte le forme, senza essere essa stessa il principio formativo. L’energia (ἐνέργειᾰ – enérgeia, Actus) è la forma attuante. Quindi, dice, per Aristotele il concetto fondamentale della sostanza è che non soltanto essa è materia – sebbene nella vita comune la materia è considerata senz’altro come il sostanziale – ma è anche forma.
Tutto ciò che esiste, dice, muta, e ogni mutamento presuppone un sostrato (
hypokeimenon) nel quale il mutamento si compie. Ma poiché la materia stessa è soltanto potenza, ovvero possibilità, e non atto, atto che spetta alla forma, allora dipende dall’attività della forma che la materia sia veramente. Quando le cose vanno per il loro verso e il legno diventa tavolo, la produzione giunge alla sua fine e al suo compimento nell’opera.
Questa fine, dice Heidegger (
Sull’essenza), in greco, si chiama τέλος. Ciò presso cui una produzione «finisce» è il tavolo come finito, ma finito appunto come tavolo, come ciò che un tavolo è, e secondo l’aspetto che ha. L’aspetto presso cui il tavolo finisce è l’εἶδος (aspetto). L’aspetto (εἶδος) deve essere in vista fin dall’inizio. Il τέλος non è il fine o lo scopo, ma la fine nel senso della compiutezza che ne determina l’essenza (il finish, dice giustamente Marx – una ferrovia diventa vera solo nel suo finish, nel suo utilizzo in quanto ferrovia). Solo per questo, dice Heidegger, il τέλος può essere assunto come fine e posto come scopo. Ma il τέλος, l’aspetto pre-visto del tavolo, è ciò di cui ha conoscenza chi se ne intende, l’architetto.
Aristotele, dice Heidegger, caratterizza la materia (ὕλη) come avvio (
dynamis). Dynamis significa attitudine a, capacità di. Il legno presente nella falegnameria è adatto a un tavolo. Ma non il legno in generale – non il legno considerato come materia prima – ha il carattere di essere adatto al tavolo, bensì solo questo, scelto e tagliato in assi. Scelta e taglio, caratteri che rendono adatto il legno, sono determinati dalla produzione di ciò che si deve produrre. Produrre, dice Heidegger, significa appunto porre davanti nella presenza qualcosa nel suo aspetto in quanto finito. La materia (ὕλη) è ciò che è disponibile e che è adatta, ciò che appartiene a un ente che ha in sé la disposizione che avvia la sua motilità. Ma solo quando un ente si installa nel suo aspetto esso è in ogni istante come è.
Aristotele, dice Heidegger, insiste nel ripetere che l’aspetto e l’installarsi nell’aspetto non vanno presi, in modo platonico, come qualcosa di per sé separato, ma come l’essere in cui in ogni istante ogni singolo ente, per esempio questo tavolo qui, sta. La forma è un carattere della fisica, e non un qualcosa di trascendente.
Ora, se la forma immette la materia nel suo aspetto, portandola così alla presenza, e se la presenza è οὐσία, allora l’οὐσία (l’essere) è un carattere della fisica, e non della meta-fisica. Pertanto, l’ente vero e proprio non è l’ente metafisico, ma l’ente fisico. La svalutazione della fisica, a vantaggio della meta-fisica, è qui revocata.
Per Aristotele la forma (μορϕή) non è fisica così come la materia (ὕλη), bensì di più. Questa differenza si chiarisce se messa in relazione con il fatto che la fisica è principio del movimento. La forma (μορϕή) realizza meglio l’essenza della οὐσία.
Queste precisazioni di Heidegger sono molto importanti.
Marx ribadisce lo stesso argomento nel Capitale (I, 1.1) quando scrive che il valore-uso è attualizzato (
verwirklicht) nel consumo (Der Gebrauchswert verwirklicht sich nur im oder der Konsumtion). Il valore-uso è sostanza, è dynamis e possibilità che prende forma e si attualizza (actus) nel consumo.

IX

Nel II paragrafo dell’Introduzione del 57 Marx pone esplicitamente questo tema. La produzione dice, è consumo, e il consumo è produzione. Ciascuno è immediatamente il suo opposto.
Il prodotto riceve il suo
finish nel consumo. Una ferrovia sulla quale non si viaggi e che quindi non venga consumata e non si logori, è soltanto una ferrovia δύναμει (in potenza), e non in realtà. Se la ferrovia non venisse venduta e comprata come ferrovia, sarebbe merce invenduta, si attualizzerebbe in rifiuto ferroso. Ma il rifiuto ferroso è potenza dell’industria siderurgica, che lo attualizza in barre di metallo e in binari, eccetera. Un vestito non diviene realmente un vestito che per l’atto di portarlo; una casa che non è abitata, non è in fact una vera casa; il prodotto, quindi, si afferma e diviene prodotto solo nel consumo. Dissolvendo il prodotto, il consumo gli dà il finishing stroke (l’ultimo perfezionamento); giacché il prodotto è la produzione non soltanto come attività oggettivata, ma come oggetto per il soggetto attivo.
Il consumo,
dice Marx, produce la produzione in quanto crea il bisogno di una nuova produzione e quindi nel motivo ideale che è lo stimolo interno della produzione; esso crea anche l’oggetto, che esige nella produzione determinandone lo scopo. Se è chiaro che la produzione offre esteriormente l’oggetto del consumo, è perciò altrettanto chiaro che il consumo pone idealmente (ideal setz) l’oggetto della produzione, come immagine interiore, come bisogno, come impulso (trieb) e come scopo. Esso crea gli oggetti della produzione in una forma ancora soggettiva. Senza bisogno non vi è produzione. Ma il consumo produce il bisogno.
A ciò corrisponde da parte della produzione che essa: 1) fornisce al consumo il materiale, l’oggetto. Un consumo senza oggetto non è un consumo. 2) ma non è soltanto l’oggetto che la produzione fornisce al consumo. Essa dà anche al consumo la sua determinatezza, il suo carattere, il suo
finish. Allo stesso modo che il consumo dava al prodotto il suo finish come prodotto, la produzione dà il suo finish al consumo. Innanzitutto, l’oggetto non è un oggetto in generale, ma un oggetto determinato, che deve essere consumato in un modo determinato, in un modo ancora una volta mediato dalla produzione stessa. La fame è la fame, dice, ma la fame che si soddisfa con carne cotta, mangiata con coltello e forchetta, è una fame diversa da quella che divora carne cruda, aiutandosi con mani, unghie e denti. La produzione non produce perciò solo l’oggetto del consumo ma anche il modo di consumo, essa produce non solo oggettivamente ma anche soggettivamente. La produzione crea quindi il consumatore. 3) La produzione fornisce non solo un materiale al bisogno, ma anche un bisogno al materiale. Quando il consumo emerge dalla sua immediatezza e dalla sua prima rozzezza naturale – e l’attardarsi in questa fase sarebbe ancora il risultato di una produzione imprigionata nella rozzezza naturale – esso stesso come impulso è mediato dall’oggetto, e il bisogno di quest’ultimo che esso prova è creato dalla percezione dell’oggetto. La produzione produce quindi il consumo a) creandogli il materiali; b) determinando il modo di consumo; c) producendo come bisogno nel consumatore i prodotti che essa ha originariamente posto come oggetti. Essa produce perciò l’oggetto del consumo, il modo di consumo e l’impulso al consumo. Allo stesso modo, il consumo produce la disposizione del produttore, sollecitandolo in veste di bisogno che determina lo scopo della produzione.
Non solo la produzione fornisce l’oggetto esterno del consumo, il consumo fornisce l’oggetto rappresentato della produzione; ma ciascuno di essi – oltre ad essere immediatamente l’altro e il mediatore dell’altro – realizzandosi crea l’altro, si realizza come l’altro. Il consumo porta a compimento l’atto di produzione, perfezionando il prodotto come prodotto, dissolvendolo, consumando in esso la forma oggettiva, indipendente; facendo maturare e divenire abilità, mediante il bisogno della ripetizione, la disposizione sviluppata nel primo atto di produzione; esso non è quindi l’atto conclusivo in virtù del quale il prodotto diviene prodotto, ma anche l’atto in virtù del quale il produttore diviene produttore.

X

In Aristotele, dice Heidegger, l’aspetto e l’installarsi nell’aspetto non vanno presi, in modo platonico, come qualcosa di per sé separato, ma come l’essere in cui in ogni istante ogni singolo ente, per esempio questo tavolo qui, sta. La forma è un carattere della fisica, e non un qualcosa di trascendente. L’argilla prende la forma del vaso. La forma non può essere staccata da questo vaso qui. Esiste insieme ad esso. L’idea che l’architetto ha in testa si imprime nell’argilla. Ciò che il vaso era all’inizio nella testa dell’architetto, ora è davanti agli occhi e tra le mani. E tuttavia, dice Marx, questo vaso che l’architetto (o l’operaio al suo posto) ha tra le mani, non è ancora il vaso effettivo (verwirklicht). Il vaso diventa veramente ciò che è solo nel suo finish. Ma questo finish non mette la parola fine alle destinazioni del vaso, in quando esso, passando dalle mani del vasaio a quelle del mercante, torna ad essere sostanza del valore-scambio, e il nuovo finish sarà fissato quando il vaso passerà dalle mani del venditore a quelle del compratore. Ma nemmeno in queste mani troverà la destinazione terminale, in quanto da queste mani potrà sempre passare nelle mani di qualcun altro, e da queste in altre mani ancora, senza sosta. Non c’è fine della storia. Il finish non è teleologico. Non c’è atto terminale, non c’è fine della serie. Il ciclo non si chiude. Ciò non vuol dire che per il vaso non ci sarà mai fine, ma solo che questa fine non chiude il ciclo. In questa serie interminabile, nei diverso momenti, il vaso è sostanza e prodotto finito, è potenza e atto.
Di fronte a quest
a disseminazione, e al rischio di consegnarsi allo scetticismo, Kant assume una posizione nuova. La conoscenza della ragione, dice (Critica, Prefazione II), arriva solo fino ai fenomeni, lasciando senz’altro che la cosa in sé sia per se stessa ciò che è, ma sconosciuta a noi.
Per chiudere la serie delle condizioni nella loro completezza, la ragione, dice Kant, esige necessariamente e con ogni buon diritto il raggiungimento dell’incondizionato. Ma l’incondizionato, dice, qualora si conformi agli oggetti in quanto cose in sé, non può essere pensato senza contraddizione. Se, invece, questi oggetti si conformano al nostro modo di rappresentarli, la contraddizione scompare.
Insomma,
penetrare nell’essere autentico dell’ente è negato alle sostanze finite, poiché le intelligenze finite non producono da se stesse né hanno prodotto l’ente che debbono apprendere, e, in ogni caso, proprio in quanto finite, non hanno la capacità di abbracciare l’infinito. Solo il produttore è in grado di apprendere cosa le cose in buona sostanza sono. Noi esseri finiti conosciamo solo ciò che facciamo e fin dove lo facciamo. Anche per Kant, dice Heidegger, l’essere di un ente risiede nella produzione di qualcosa. Noi esseri finiti conosciamo solo ciò che facciamo e fin dove lo facciamo, ma solo a patto che questo noi non sia gettato nel mondo, non sia un elemento della serie. Solo a patto che questo noi sia poggiato su una sostanza trascendentale chiamata Io penso.

XI

Per gli economisti neoclassici l’utilità non è una proprietà della cosa, ma un rapporto tra l’individuo e la cosa. Può sussistere o sparire a causa di mutamenti o sviluppi dei bisogni umani. Una stessa cosa può essere utile o diventare dannosa per individui differenti (che hanno bisogni diversi) o per lo stesso individuo in momenti diversi oppure in relazione a usi differenti (Menger, Principi). L’essere-utile non è una sostanza. Non è un elemento costante o comune. Non è un sostrato. Non è soggetto. Non è quell’unità del molteplice che, tenendo tutto, può fare la sintesi. Non è un’unità trascendentale. Se si considerano i prodotti del lavoro, in essi non si trova alcuna sostanza comune. Valere, dice espressamente Böhm-Bawerk, non è essere. La teoria di Marx, mirando alle cose stesse, mira proprio a questo essere. Ma non c’è alcun essere, alcuna costante, niente che possa entrare a far parte di una esperienza effettiva.
La decostruzione di Baudrillard della teoria del valore di Marx si muove sullo stesso binario dei neoclassici. In Marx, dice (
Per una critica), lo statuto del valore-uso è ambiguo. È noto che la merce è contemporaneamente valore-scambio e valore-uso; ma quest’ultimo è sempre concreto e particolare, mentre il valore-scambio è astratto e generale. Nella sua particolarità e concretezza il valore-uso è un valore autentico che verrebbe corrotto (alienato) dal valore-scambio. Vi è in esso, dice Baudrillard, la promessa di risorgere, oltre l’economia mercantile, oltre il denaro, oltre il valore di scambio, nella gloriosa autonomia del rapporto semplice tra l’uomo e il su lavoro, tra l’uomo e i suoi prodotti. L’utilità, in quanto tale, in Marx sfugge alla determinazione storica. Designa un rapporto finale immediato e naturale la cui trasparenza sfida la storia. Invece, dice, il valore-uso e la stessa utilità, come il valore-scambio, sono interamente storici.
Il valore-uso, dice Baudrillard, non può essere assunto come ciò che, nella serie delle permutazioni possibili, rimane stabile. Affinché si inauguri un sistema di valori-scambio, il valore-uso deve recedere dalla sua insostituibilità o incomparabilità. Il prodotto deve essere pensato e razionalizzato in termini di utilità. Proprio questa riduzione costituisce la condizione di base dello scambio economico. Se questa riduzione non si realizza, si rimane vincolati allo scambio simbolico.
Dunque, contrariamente a quanto dice Marx sulla «non comparabilità» dei valori-uso, nell’utilità, scrive Baudrillard, si ritrova intera tutta la logica dell’equivalenza. Il valore-uso è già un equivalente. Solo i beni investiti nello scambio simbolico (il dono, il regalo) sono in senso stretto imparagonabili. La relazione personale (lo scambio non economico) li rende del tutto singolari. Ma, al contrario, in quanto valore utile, l’oggetto attinge all’universalità astratta, all’«oggettività» (attraverso la riduzione di ogni funzione simbolica). Nel simbolo rimane una relazione tra il referente e il significato. L’anello nuziale non può essere sostituito da un anello identico, senza perdere il suo valore affettivo.
L’oggettività del valore-uso è l’utilità. Ogni valore-uso, dice Baudrillard, è traducibile nel codice astratto generale dell’utilità, che costituisce la sua ragione, la sua legge oggettiva, il suo senso – e ciò indipendentemente da colui che se ne serve e da ciò a cui serve. È la funzionalità che si afferma come codice, e questo codice, che si fonda unicamente sull’adeguazione di un valore-uso al suo scopo (utile), sottomette a se stesso tutti i valori-uso, reali o virtuali, senza alcun riferimento alla persona. È qui che ha origine il campo dell’economia, il calcolo economico, del quale la forma-merce non è che la forma sviluppata, e che vi ritorna continuamente.
Questo valore-uso (utilità), dice, contrariamente all’illusione antropologica che ne vuol fare il semplice rapporto tra un «bisogno» naturale dell’uomo e una proprietà naturale utile dell’oggetto, è anch’esso un prodotto storico. Alla metafisica che cerca di naturalizzare la storia in cui è gettato il valore-uso il marxismo ha fornito una solida base di appoggio.
Se i bisogni si ergono sempre più in un sistema astratto, regolato da un principio di equivalenza e di combinatoria generale, allora, dice Baudrillard, è certo che lo stesso feticismo che troviamo collegato al sistema del valore di scambio e della merce agisce in un sistema che è omologo all’altro e che l’esprime in tutta la sua profondità e perfezione.
Come il valore-scambio non è sostanziale al prodotto, ma è una forma che esprime un rapporto storico, così il valore-uso non è neanch’esso infuso nell’oggetto, ma è una determinazione storica.
Valore-uso e bisogni, dice, sono soltanto un effetto del valore-scambio. Significato (e Referente) sono soltanto un effetto del Significante. Né l’uno né l’altro, dice, sono una realtà autonoma che il valore- scambio e il significante esprimerebbero e tradurrebbero nel loro codice. In fondo sono soltanto modelli di simulazione, prodotti dell’azione del valore-scambio e del significante, e mediante i quali questi ultimi si danno la garanzia del reale, del vissuto, del concreto, la garanzia di una realtà oggettiva, cui tuttavia contemporaneamente questi sistemi, proprio in quanto sistemi, sostituiscono la loro specifica logica totale (ma «sostituire», dice, è ancora falso: il termine sottintende infatti che in qualche modo esista una realtà fondamentale che il sistema catturerebbe o dislocherebbe. In realtà non esiste altra realtà, altro principio di realtà al di fuori di quella prodotta immediatamente dal sistema come suo referente ideale). È come dire che valore-uso e significato non costituiscono un altrove (concreto) rispetto al valore-scambio e al significante, dei quali sono unicamente l’alibi.
In più, dice Baudrillard, il sistema naturalizzato del valore-uso non è soltanto il raddoppio, la trasposizione o l’estensione del sistema del valore-scambio. Ne è in pari tempo la garanzia ideologica (e, ancora una volta, se può assolvere a questa funzione è perché è strutturato logicamente allo stesso modo). Un’ideologia, di tipo naturalistico, mediante la quale, dice, si presenta il valore-uso come l’istanza di fronte alla quale tutti gli uomini sono uguali. I bisogni, a differenza dei mezzi per soddisfarli, sarebbero la cosa meglio distribuita del mondo. Gli uomini non sono uguali rispetto ai beni, considerati come valori-scambio, ma lo sarebbero di fronte ai beni considerati come valori-uso. Tutti sarebbero ricchi di possibilità di felicità e di soddisfazione. È la democrazia dei «bisogni», dice, secolarizzazione dell’eguaglianza di tutti gli uomini di fronte a Dio. Così, dice, il valore-uso, rinviato alla sfera antropologica, riconcilia nell’universale gli uomini socialmente divisi dal valore di scambio.
Il presentarsi del valore-uso come sostanza del valore-scambio offre a quest’ultimo quella garanzia universale e atemporale senza la quale il sistema del valore-scambio non potrebbe affermarsi.
Il valore-uso è ciò attraverso cui il sistema di produzione e di scambio riceve il proprio sigillo ideologico.
Il feticismo del valore-uso, dice Baudrillard, è più profondo e più «misterioso» ancora di quello del valore-scambio. Il mistero del valore-scambio e della merce può ancora relativamente venire smascherato e affiorare alla coscienza come rapporto sociale. Nel valore-uso il valore si circonda di un mistero totale, giacché esso si fonda sull’antropologia, nell’evidenza di una naturalità, in un riferimento originario insuperabile. È qui, dice, che consiste la vera «teologia» del valore, nell’ordine dei fini, nel rapporto ideale di «equivalenza», di «armonia», di economia e di equilibrio implicati dal concetto di utilità; e questo a tutti i livelli, tra l’uomo e la natura, tra l’uomo e gli oggetti, tra l’uomo e il suo corpo, tra lui e gli altri. È qui, dice, che il valore assume un’evidenza assoluta e diviene «la cosa più semplice»: ed è pertanto qui che il mistero e l’astuzia (della Storia e della Ragione) si fanno più profondi e più tenaci.
Se il sistema del valore-uso viene prodotto dal sistema del valore-scambio come sua propria ideologia. Se il valore-uso è privo di autonomia, poiché non è che un satellite e un alibi del valore-scambio, pur costituendo con questo un unico sistema nell’ambito dell’economia politica, non è più sostenibile, dice, porre il valore-uso come alternativa al valore-scambio, né la sua «restituzione» al termine dell’economia politica, sotto il segno della «liberazione dai bisogni» e dall’«amministrazione delle cose», come prospettiva rivoluzionaria.
Tutte le illusioni si sono concentrate sul valore-uso, idealizzato in opposizione al valore-scambio, mentre non ne è che la forma naturalizzata.

XII

Baudrillard si spinge sino alla decostruzione della differenza tra forma e contenuto. Questa decostruzione passa per una interpretazione più radicale dell’arbitrarietà del segno. Il tema dell’arbitrarietà è noto. Il segno è immotivato, il significante «tavolo» non possiede alcuna vocazione «naturale» a significare il concetto o il «tavolo» effettivo, dato che si ha Tisch in Tedesco, Table in Inglese, Mesa in Spagnolo, Tabel in Rumeno, ecc.
Cosa permette di passare (tradurre) da Table a Mesa, a Tisch e a Tabel?
Tutti questi significanti hanno uno stesso significato (e uno stesso referente). Tutti si riferiscono allo stesso prodotto e allo stesso significato. Qualunque sia il nome dato al prodotto, esso rimane sempre lo stesso, sia nella sua unità in quanto significato, sia nella sua unità in quanto referente. Il passaggio è garantito proprio da questa unità, ovvero dalla sostanza comune (sostanza materiale: referente; e sostanza ideale: significato).
La teoria economica del circuito si è fermata a questo livello di analisi. Non ha provato in alcun modo a mettere in discussione la metafisica che regge l’impianto dell’arbitrarietà, così come qui è presentato. Solo il ricorso a una sostanza – la moneta ideale (la moneta segno) emessa dalla banca centrale – può garantire l’impianto delle sue equazioni economiche.
Il sistema tripartito Significante, Significato e Referente regge solo se uno (o due) dei tre termini funziona come sostanza. Dal momento in cui nessuno dei termini riesce ad assolvere a questa funzione, è il concetto stesso di segno che deve essere messo in discussione. Ed è appunto quello che fa Baudrillard. La rottura, dice, non passa tra un segno e un referente effettivo, ma tra il significante come forma, e, dall’altra parte, il significato e il referente, che si situano insieme come contenuto, l’uno di pensiero, l’altro di realtà (o piuttosto di percezione).
Il mercato del pesce fresco fornisce la prova che il referente non può funzionare come sostanza. In altri mercati, quello dei funghi freschi ad esempio, al variare giornaliero del referente, varia anche il Significante. Un fungo porcino appena raccolto e venduto è Sillu. Lo stesso fungo venduto la sera o il giorno dopo è Prota. Se nelle varie transazioni non è il referente che rimane costante, sarà allora il significato. Lo «stesso» fungo al quale il Significante fa segno, non potendo essere il fungo effettivo, dovrà allora essere il fungo ideale Significato. Ciò che nel fungo non cambia, e permette il riferimento allo stesso fungo, non è il suo contenuto materiale, ma il suo contenuto ideale.
Il referente, dice Baudrillard,
serve solo a creare l’effetto di realtà. Ma in verità esso è solo l’ombra del segno, la sua proiezione amplificata. Il Significato/Referente che agisce come ombra riflessa del Significante, rappresentando quell’effetto di realtà per cui si compie, e realizza il proprio inganno, l’azione Significante. Il Referente non rappresenta affatto una realtà concreta autonoma. Esso non è che l’estensione al mondo delle cose della separazione instaurata dalla logica del segno. Il mondo, dice Baudrillard, è interpretato e visto attraverso il segno. Il tavolo «reale» non esiste. Se è reperibile nella sua identità (se «esiste») è perché è già designato, astratto e razionalizzato, mediante la separazione che lo fonda come equivalente di se stesso. Da questo punto di vista, dice, non vi è nessuna differenza tra referente e significato, e la confusione spontanea che un po’ dappertutto se ne fa è sintomatica: il referente non ha altro valore se non quello del significato, del quale vuole essere il riferimento sostanziale in vivo, ma del quale non è che il prolungamento in abstracto. Il doppio aspetto del segno (Significante/Significato, che si può generalizzare in Significante/Significato – Referente) nasconde in realtà un’omogeneità formale in cui significato e referente, costituiti da una stessa forma logica, che non è altro che quella del significante, gli servono tuttavia come riferimento/alibi, come garanzia «sostanzialista».
La teoria del
foglio di carta di Saussure, dice Baudrillard, la doppia faccia del foglio che si divide in significato e significante, è del tutto idealista. Propone una metafisica del Significato/Referente che è omologa di quella Bisogni/Valore-uso. Il Significato/Referente viene presentato come realtà originaria, sostanza del valore e finalità ricorrente attraverso il gioco dei significanti come supporto. Allo stesso modo il valore-uso viene presentato come origine e finalità, e i bisogni come movente fondamentale dell’economia. Il privilegio morale e metafisico attribuito ai contenuti (Valore-uso e Significato/Referente) non fa che mascherare il privilegio decisivo della forma (Valore-scambio e Significante).
Da una parte, dice Baudrillard, abbiamo un
filosofia «naturale» della significazione, la quale implica un idealismo del referente. Questo idealismo pianifica una resurrezione totale del «reale», in una intuizione immediata e trasparente, che risparmia il segno (il significante) e il codice per far risorgere il significato, i soggetti, la storia, la natura, le contraddizioni, nella loro verità autentica. Questa visione, dice, si sviluppa oggi ampiamente nella critica dell’astrazione dei sistemi e dei codici in nome dei valori «autentici» (largamente attinti all’interno dei tradizionali valori piccolo-borghesi). È la grande litania moralistica sulla alienazione dovuta al sistema.
L’utilità, il bisogno, il valore-uso, il significato, il referente, il corpo stesso, dice Baudrillard, non sono natura, ma sono codice dall’evidenza naturale che presenta, su molti altri codici possibili (estetico, morale, ecc.), il privilegio di apparire, esso e soltanto esso, come razionale.
La tentazione,
dice, di fare la critica del Significante in nome del significato (referente), di fare del «reale» l’alternativa ideale al gioco formale dei segni, perviene esattamente a un «idealismo del valore-uso». Salvare il valore-uso contro il valore-scambio, senza accorgersi che il valore-uso è un sistema solidale e satellite rispetto a quello del valore-scambio: questo, dice Baudrillard, è l’idealismo fondamentale, l’umanesimo trascendentale del contenuti, che ritroviamo nel tentativo di salvare il significato (referente) contro il terrorismo del Significante.
Dall’altra parta,
assimilando tutto ciò che starebbe fuori dal Significante a un suo riflesso o una sua ombra, si finisce per cedere a un nominalismo ancora più radicale. Ma non è questo il caso di Baudrillard, il quale riconosce un aldilà del Segno.
Ciò che può porre un interrogativo cruciale sul segno,
dice, è il fatto che esso espelle e annienta, nel suo stesso istituirsi, qualcosa. Questo qualcosa non è certo il «reale», il referente, una qualche sostanza di valore respinta nelle tenebre esterne del segno. Ma è il simbolico.
Il simbolo perfetto, dice Baudrillard, è il dono. Il dono non è un oggetto nel senso kantiano. Non h
a oggettività, non è sostituibile, non lo si può separare dalla relazione concreta entro la quale si scambia. Non c’è arbitrarietà. Il simbolo non è autonomo. Non può funzionare fuori dal contesto in cui appare. È legato indissolubilmente alla performance in cui si manifesta. Dal momento che è un regalo – e per il fatto di esserlo – è se stesso, e non un altro. Il dono è qualcosa di unico, e trae la sua particolarità dalle persone e dal momento specifico dello scambio; è pura singolarità.
A differenza della lingua, dice Baudrillard, il cui materiale può essere dissociato dai soggetti che la parlano, il materiale di scambio simbolico, le cose regalate, non possono divenire autonome, e perciò non possono divenire codificabili come segni.
In quanto singolarità non codificabile
il simbolico smantella la relazione tra Significante e Significato. Nella sua trascendenza assoluta, nella sua virtualità di un senso capace di sovvertire il segno, il simbolico, dice Baudrillard, non può essere nominato che per allusione, per effrazione, giacché la significazione che nomina ogni cosa a partire da se stessa, non può che parlare di valore, e il simbolico non è un valore. Di ciò che è fuori del segno, dice, diverso dal segno, non possiamo dire altro se non che si tratta dell’ambivalenza, cioè dell’impossibilità di distinguere termini rispettivi e di considerarli positivi come tali.
Insomma, il simbolico, così tratteggiato, non è diverso dalla cosa in sé di Kant. Anche per Kant ciò che posso conoscere è il mio modo di conoscere il mondo, e mai il mondo vero e proprio. Si può conoscere il mondo quale ci appare, ma il mondo quale esso è in sé stesso ci sfugge, non può essere conosciuto, può solo essere appreso col pensiero. E nonostante ciò, rispetto a questo assoluto, c’è sempre un momento di passività, di effrazione, di soggezione, di affezione, di relazione insostituibile.
Il Significante di cui parla Baudrillard non ha più nulla a che spartire con il significante di Saussure, con l’immagine acustica o con la faccia esterna, esteriore, materiale del significato.
E il simbolico non ha più a che fare con il simbolo, il quale, in Saussure, non è mai un aldilà della significazione.
Se è vero che il simbolo non può funzionare come segno, in quanto non è mai completamente arbitrario, esso però può essere sostituito, ha una relativa arbitrarietà. Il simbolico, al contrario, è radicalmente diverso dal semiologico. Il simbolico resiste decisamente alla logica del segno, non si lascia ridurre ad alcun significato e ad alcun referente, è mero noumeno.

XIII

La posizione di Marx è molto più complessa di come viene presentata da Baudrillard. Per Marx il valore-uso non è mai sostanza senza essere allo stesso tempo realtà effettiva. L’utilità – l’essere-utile di un prodotto, il suo valore – non aleggia nell’aria. Non c’è intelligibile senza sensibile. In più, per Marx, come per Saussure, il senso (il valore) emerge sempre da una struttura differenziale.
Un pan di zucchero, scrive Marx (Capitale, I, 1,4), in quanto corpo, è pesante, e quindi ha un peso, ma questo peso non si può né vedere né toccare in alcun pan di zucchero.
Consideriamo vari pezzi di ferro – dice. Il corpo del ferro, considerato di per sé, non ci fa certo toccare con mano la gravità, più di quanto faccia il corpo del pan di zucchero. Eppure, per fare esperienza della gravità del pan di zucchero, per conoscere il suo peso, per vederlo con gli occhi, lo poniamo in un rapporto di peso con il ferro. In tale rapporto, il ferro è considerato come un corpo che rappresenta nient’altro che gravità, ossia peso. Pertanto, quantità di ferro servono come misura di peso dello zucchero e rappresentano nei confronti del corpo dello zucchero pura e semplice gravità. Adesso la gravità si può vedere e tenere tra le mani, ha le sembianze del ferro. La gravità (la sostanza), che qui il ferro personifica, rinvia al pan di zucchero. Dunque, il valore (la sostanza) non emerge se non entro questa struttura di rinvio. A questo proposito Marx è molto chiaro.
Quel che è stato detto, parlando alla spiccia all’inizio di questo capitolo (Capitale I, capitolo 1), ossia che la merce è valore-uso e valore-scambio, è erroneo, a voler essere precisi. La merce, dice Marx (Capitale I, 1,4) è 1) valore-uso, ovvero oggetto di uso, e 2) «valore». Essa si manifesta come «una cosa a doppia faccia». Questo sdoppiamento, che è una schizofrenia, una divisione interna – ricordiamo che il corpo del valore-uso è invasato, posseduto da un fantasma – non si produce nella merce considerata isolatamente. La «sostanza», di cui parla Marx ripetutamente nel Primo capitolo, non è un proprietà della merce, non è un substrato della singola merce, né materiale né ideale. La «sostanza», se così si può ancora chiamare, non emerge se la merce è considerata isolatamente, ma emerge sempre e soltanto, dice Marx, nel rapporto con una seconda merce, di specie differente. Ma una volta che si sappia ciò, dice, quel modo di parlare non fa danno, anzi, serve ad abbreviazione.
Nessuna merce, dice Marx, può riferirsi a se stessa come equivalente, e quindi neppure rendere la sua propria pelle naturale l’espressione del suo proprio valore, essa si deve riferire ad altra merce come equivalente, ossia deve fare della pelle naturale di un’altra merce la propria forma di valore.
A questo punto, la sostanza, come ciò che rimane costante, non descrive più nulla. E anche il significato, come ciò che, al variare dei significanti, rimane sempre identico a se stesso, non descrive più nulla. E non può farlo proprio perché il significato è inseparabile dal significante. Il valore è inseparabile dal corpo della merce.
Lo stesso quadro si trova in Saussure (Corso). La lingua, dice, è un sistema di cui tutti i temimi sono solidali e in cui il valore dell’uno non risulta che dalla presenza simultanea degli altri. In una scacchiera il valore effettivo di un pezzo dipenda dalla disposizione di tutti gli altri pezzi. Ad un pedone, sulla carta, ovvero secondo il rapporto Significato/Significante, viene attribuito un valore inferiore a quello della regina. Sulla scacchiera, invece, tenuto conto della posizione effettiva degli altri pezzi, può assumere un valore di gran lunga superiore a quello della regina.
Come accordare tutto ciò, chiede Saussure, con quanto è stato detto a proposito del foglio di carta? Il significato ideale non è sostanza, perché anch’esso cambia, anch’esso è soggetto al tempo, e muta a seconda di dove si esprime, di dove si posiziona, di dove è gettato.
Tutti i valori, dice Saussure sembrano retti da questo principio paradossale. Essi sono sempre costituiti 1) da una cosa dissimile suscettibile d’essere scambiata con quella di cui si deve determinare il valore; 2) da cose simili che si possono confrontare con quella di cui è in causa il valore. Il valore di una parola non è fissato fintantoché ci si limita a constatare che può essere scambiata con questo o quel concetto, vale a dire con questa o quella significazione; occorre ancora confrontarla con i valori similari, con altre parole che le sono opponibili. Il suo contenuto non è veramente determinato che dal concorso di ciò che esiste ad di fuori. Facendo parte di un sistema, una parola è rivestita non soltanto di una significazione, ma anche e soprattutto d’un valore, che è tutt’altra cosa. Il valore di un qualunque termine è determinato da ciò che lo circonda. Se le parole fossero incaricate di rappresentare dei concetti dati preliminarmente, ciascuna avrebbe, da una lingua all’altra, dei corrispondenti esatti per il senso; ma non è affatto così. La relazione tra significato e significante non è fissa. La parola «tende» acquista il suo significato quando si giunge alla fine della frase. Non ha un significata fisso e fuori contesto. A questo punto la differenza tra significato e significante sfuma e si perde.
Tuttavia, se non si riconoscesse una certa differenza, una differenza che non è assoluta, né tanto meno radicale, tra significante e significato, tra valore-uso e valore, nessuno scambio sarebbe possibile. Affinché lo scambio sia possibile, bisogna ammettere, anche a titoli di finzione, una certa separazione tra valore-uso e valore. Bisogna, insomma, cedere ad un certo gioco metafisico, consapevoli che
ci si sono modi e modi di cedere alla metafisica, e che non sono tutti uguali.

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Jean Baudrillard, Per una critica dell’economia politica del segno
Martin Heidegger, Problemi fondamentali della fenomenologia (1919/20)
Martin Heidegger, Aristotele Metafisica 1-3
Martin Heidegger, Sull’essenza e sul Concetto della Physis, Aristotele fisica, B,1

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