I
Nel 1983, per il centenario della morte di Marx, l’Istituto Gramsci invita a parlare i più importanti e rappresentativi marxisti. La conferenza si tiene a Roma dal 16 al 19 Novembre, e ha carattere ecumenico. Sono presenti autorità internazionali del marxismo terzomondista, ecologista, operaista, neoricardiano, sraffiano, liberale, strutturalista, keynesiano e nostrano. C’è anche un economista napoletano, Augusto Graziani.
Graziani si laurea nel 1955 in Giurisprudenza alla Federico II, con una tesi in Economia politica con Giuseppe Di Nardi, economista di scuola neoclassica. A metà degli anni Cinquanta si trasferisce alla London School of Economics (LSE) dove studia sotto la supervisione di Lionel Robbins. Un anno dopo si sposta ad Harvard e incontra Wassily Leontiev. Al Massachusetts Institute of Technology (MIT) frequenta Paul Rosenstein-Rodan. Nel 1962 ritorna in Italia, dove gli viene assegnata la cattedra di Economia politica a Catania e poi a Napoli.
Da Robbins, dice Graziani (Intervista), ho appreso quella che sinteticamente si potrebbe definire la grandezza della scuola neoclassica, e cioè la sua rigorosa coerenza interna. Ritengo, dice, che questo insegnamento mi sia rimasto, dal momento che anche negli anni successivi, quando mi sono discostato dalla scuola neoclassica, l’ho fatto senza mai formulare critiche interne, proprio perché ritengo che quello sia uno dei castelli teorici in sé più perfetti. Ho sempre cercato di formulare critiche esterne, e cioè dissociazioni sul terreno dei postulati di partenza e delle ipotesi di base. Da Leontief, dice, credo di aver appreso un principio di prudenza nella ricerca applicata, il non credere mai ciecamente ai dati empirici.
L’esperienza della LSE, il fatto che essa fosse la sede degli avversari teorici della Cambridge di Keynes, segna profondamente Graziani. È attratto dall’empirismo del neoclassicismo, ma ancora di più dalla tentazione scettica che suscita ogni empirismo radicale.
Nel 1968 «il Manifesto» – totalmente fuori fase – lo definisce un Riformista Decente.
Io sono un grande ammiratore della teoria economica neoclassica – dice nel 1990. L’unica stortura del modello neoclassico, dice, è che in esso non esiste alcuna distinzione di classe. Il modello descrive l’assetto economico di una società nella quale tutti gli individui sono uguali, tutti sono proprietari, ma soffre indubbiamente di difficoltà logiche interne, messe in evidenza da Piero Sraffa e dalla sua scuola: questo è indiscusso. Penso però che la critica di Sraffa appartenga a quel genere di critiche interne che a me francamente interessano meno. Io, che guardo l’edificio neoclassico dall’esterno, resto quindi un grande ammiratore della teoria dell’equilibrio. E tuttavia, dice, è venuto un momento in cui ho cominciato a rendermi conto del fatto che la lettura marxiana dava spiegazioni più soddisfacenti. Anche se, dice, sono sempre rimasto un marxista a metà: per esempio, non ho mai fatto mia quella che per un vero marxista è la base della sua fede, e cioè la teoria del valore; è questo un aspetto del marxismo che trovo affascinante sul piano sentimentale, e per molti aspetti lo considero tuttora valido, ma non mi sono mai affannato a sostenerlo sul piano analitico. I temi del marxismo che invece trovo interessanti sono l’idea della divisione in classi, della proprietà dei mezzi di produzione, del lavoro come merce, ed ancora il problema della instabilità del capitalismo, della crisi e della dipendenza internazionale. Del marxismo io sono un utente, non uno studioso.
Il centro delle argomentazioni di Graziani è occupato dal Pareggio di bilancio. Si tratta di un tema di ragioneria. A torto si crede che la Ragioneria non sia una scienza, perché in essa opera il meccanismo. La Teoria starebbe dal lato della Scienza, condividendone i principi e le necessità, mentre la Ragioneria starebbe dalla parte della Pratica.
La Ragioneria, dice Pietro Fredas (Manuale di Ragioneria), è il timone di tutta l’amministrazione. Nella Teoria del circuito monetario di Graziani la Ragioneria cerca, senza riuscirci, di emergere dal suo ruolo secondario e derivato di Scrittura contabile. Se questa cenerentola, gravata e imbruttita da tutti i suoi meccanismi, primo fra tutti la partita doppia, non figura nel sistema delle Scienze vere e proprie, è perché ha a che fare con la pratica, con la prassi. È essa che, nell’agenda, tiene conto delle cose dell’azienda – del da farsi (agĕre). Tanto il capitale che il patrimonio, dice Fredas, nelle scritture sono computati a titolo di fondo o sostanza. Il fondo, a sua volta, è costituito da elementi positivi e negativi. I primi formano l’attivo, i secondi il passivo. I beni esistenti e di proprietà, e i beni che si ricevono per diritto da altri dopo un certo tempo (crediti) sono componenti positivi; mentre i beni che si dovranno cedere ad altri dopo un certo tempo (debiti) sono componenti negativi. Nelle aziende private, quando l’attivo supera il passivo si ha il patrimonio o capitale netto, mentre negli enti pubblici si ha l’avanzo patrimoniale. Nel caso in cui il passivo superi l’attivo, nelle aziende private si ha il deficit patrimoniale o passivo scoperto, e in quelle pubbliche il disavanzo patrimoniale. È errato ritenere, come fanno alcuni, dice Fredas, che l’eccedenza del passivo sull’attivo significhi che l’azienda sia in stato di fallimento. Tale stato si determina solo quando l’azienda cessa i suoi pagamenti.
Elemento centrale delle scritture contabili è il conto. Esso ha un oggetto determinato e commensurabile, dice Fredas, e mira a ricordarne la grandezza iniziale e le successive variazioni in aumento e in diminuzione. Queste variazioni non possono essere considerate nelle loro varie grandezze (numero, capacità, misura, ecc.), bensì in una sola, comune a tutti: tale grandezza sarà il valore. Grandezza, dice, necessariamente espressa in valore monetario o moneta di conto o numerario. Il saldo del conto o bilancio è dato dalla differenza tra il totale dei valori iscritti nelle due sezioni (dare e avere) da iscrivere (il saldo) a pareggio nella sezione con valore inferiore.
Come è facile intuire, il pareggio del conto (o Pareggio del bilancio) si ottiene iscrivendo il saldo nella sezione il cui totale è minore (saldo di dare nella sezione avere e saldo di avere nella sezione dare). In questo caso si dice che il conto è quadrato. Quando i conti quadrano, ossia quando le due sezioni presentano un totale identico, il conto è chiuso. Nel caso in cui, senza la trascrizione di alcuna operazione di chiusura, le due sezioni del conto si bilanciano – dando un risultato pari a zero – si dice che il conto è spento.
Alla sua apertura il conto ha un saldo pari a zero. Se tutte le entità contabilizzabili sono intese come entità interne – questo è il punto centrale della teoria del circuito –, e se al tempo zero (all’inizio) il conto è spento, come si accende, come si passa da zero ad uno?
Ogni conto deve essere valorizzato con una unità di misura coerente. Del tutto ingenuamente si potrebbe credere che è sufficiente accreditare il conto di una unità. Ma se all’inizio i conti sono tutti azzerati, e non potrebbe essere diversamente, perché altrimenti bisognerebbe spiegare l’origine del saldo, facendo arretrare la ricerca ad un periodo antecedente; se all’origine tutti i conti sono azzerati, da dove proviene il primo credito?
I neoclassici, von Mises per esempio, hanno creduto, dice Graziani (La teoria monetaria), che tutto abbia avuto inizio dal valore-uso. Posto il valore-uso, è posto anche il valore. Ma ciò non è possibile, obietta Graziani. Affinché il valore-uso si valorizzi è necessario che vi sia già una prima unità accreditata. La dimostrazione che l’utilità (valore) della moneta derivi dall’utilità (valore) dei beni che con essa si possono acquistare è una dimostrazione fallace.
Come fece osservare Helfferich in modo convincente, la quantità di beni che una moneta può acquistare dipende dal livello dei prezzi, e quindi dal valore della moneta. Al fine di conoscere l’utilità della moneta e il suo valore, occorrerebbe dunque avere già misurato il valore della moneta stessa. Si tratta palesemente di un circolo – dice Graziani.
Porre da una parte il valore e dall’altra l’uso, ossia porre da una parte l’infinito e dall’altra il finito, è un modo errato di affrontare il problema, un modo che conduce in un circolo.
Siccome ho posto un valore-uso, dicono i neoclassici, dunque ho anche una moneta con cui comprarlo. Ecco trovato il modo per accreditare il conto. Senonché, dice Graziani, per valorizzare il valore-uso bisogna, preventivamente, avere moneta sul conto. Altrimenti non si capisce quale sia e a quanto ammonti il valore del valore-uso. Nella dimostrazione neoclassica è presupposto ciò che si deve dimostrare.
L’argomento keynesiano, elaborato per superare le difficoltà di quello neoclassico, assume l’utilità della moneta in modo diretto. Il valore della moneta non deriva da un raffronto con la merce che si desidera valorizzare, ma deriva da un valore immediato e diretto che il consumatore attribuisce alla moneta.
La moneta ha un suo valore-uso, e il suo valore, dice Graziani, deriva dall’utilità diretta che il soggetto trae dalla scorta che egli decide di trattenere presso di sé. La moneta non acquista valore dal confronto, e dunque dallo scambio, con qualcos’altro. Ma trae valore dal fatto di non essere scambiata, di essere trattenuta come scorta liquida. Se la domanda di moneta è domanda di scorta liquida, ciò significa che essa è utile di per sé e non in quanto strumento per l’acquisto di altri beni. Chi domanda moneta, la domanda non per spenderla ma per trattenerla.
Anche percorrendo questa diversa strada non è possibile avviare il bilancio, dotandolo di una consistenza iniziale. E non è possibile per il fatto che, dice Graziani, il bilancio, al tempo zero, è in pareggio. Bisognerebbe presupporre un bilancio già avviato e consistente di scorte liquide, le quali, in un secondo momento, verrebbero valorizzate dal suo possessore. Ma anche in questo caso bisogna presupporre ciò che deve essere dimostrato. Oppure supporre una scorta liquida di moneta senza valore. Ma una scorta liquida senza valore è un valore-uso. Anche qui bisogna dunque supporre che, una volta posto il valore-uso, sia posto anche il denaro che lo compri.
È proprio percorrendo questa strada che i teorici del circuito trovano (o credono di aver trovato) la soluzione al quesito. Essi iniziano col distinguere due tipi di soldi, che qui, per comodità, chiamerò Denaro e Moneta, anche se questa distinzione, come si vedrà, è difficile da mantenere.
II
Il Denaro è una merce, e il suo prezzo è l’interesse, oppure, in un’economia di baratto, il Denaro è una merce e il suo prezzo è commisurato al suo valore-uso. Tutte le economia (o tutte le teorie economiche – sarebbe più corretto dire) in cui il Denaro funziona come merce, dice Graziani (La teoria monetaria), sono economie di baratto. In queste economie il Denaro funziona come un Simbolo. Il rapporto tra il numerario e il numerato non è arbitrario. Il simbolo è più o meno il contenuto che esso esprime come simbolo. L’oro, come equivalente generale di ogni altra merce, è esso stesso una merce; il lavoro, come equivalente generale di ogni altra merce, è anch’esso una merce. La carta moneta o il bancomat funzionano come simboli. Il contenuto che essi esprimono ha un aggancio con la cosa espressa. Il simbolo, scrive Saussure (Corso), ha il carattere di non essere mai completamente arbitrario: non è vuoto, implica un rudimento di legame tra il significante e il significato. Il simbolo della giustizia, la bilancia, non potrebbe essere sostituito da qualsiasi altra cosa, per esempio un carro.
Per costituirsi, il simbolo ha bisogno di una dilazione nei pagamenti. Senza dilazione non c’è costituzione di Denaro. Eppure, proprio perché il Simbolo non è un Segno, nel momento in cui esso si presenta come contro-valore, la distanza entro la quale si istituisce si azzera, o, perlomeno, questa è la funzione che esso svolge o si desidera che svolga. Il denaro simbolico, essendo esso stesso una merce, estinguerebbe immediatamente il debito.
Il Denaro-simbolico o Denaro-merce si presta ad essere usato nel modello di equilibrio neoclassico, in quanto questo modello non tollera dilazioni nei pagamenti, e non le tollera, non solo perché esse mettono a rischio il pareggio di bilancio, ma anche perché la chiusura dei conti è un presupposto indispensabile.
Per ragioni teoriche, nel modello di Walras gli scambi avvengono tutti simultaneamente a prezzi di equilibrio, ogni soggetto, in modo perfettamente simultaneo, vende e compra beni e servizi di valore equivalente. L’intero processo, dice Graziani, assume così la forma di un grande baratto, nel quale il Denaro non è necessario. Il sistema teorico dell’equilibrio economico generale, dice, proprio in quanto immagina la determinazione simultanea di tutti i prezzi, presenti e futuri, esclude a priori ogni domanda di Denaro, oppure ha bisogno di un Denaro che, come il Denaro-merce, estingue immediatamente il debito, senza dilazione. In esso il Denaro è trattato alla stessa stregua di tutti gli altri beni e, come per questi beni, anche per esso si procede a un equilibrio dello scambio. Si tratta la quantità di Denaro esistente come frutto delle trattative che si svolgono fra banche e imprese nel mercato delle valute. In questo modello, dice Graziani, alla comparsa della Denaro, si frappone a impedirlo la stessa definizione di equilibrio. Come è noto, dice, la posizione di equilibrio generale viene definita non soltanto dalla condizione oggettiva di eguaglianza fra domanda e offerta in tutti i mercati, ma anche dall’insieme sottostante delle condizioni di equilibrio soggettivo, le quali esigono che, nella posizioni di equilibrio, ogni partecipante allo scambio abbia portato il proprio bilancio ad un rigoroso pareggio. A sua volta, la condizione di pareggio del bilancio viene interpretata nel senso più restrittivo: e cioè non soltanto come eguaglianza fra attivo e passivo dello stato patrimoniale, ma come pareggio delle entrate e delle uscite correnti, cosa, questa, che implica l’avvenuta estinzione, da parte di tutti i soggetti, di ogni debito verso gli altri, ivi incluso il settore bancario. Se nella posizione di equilibrio i debiti bancari sono estinti, lo stock di Denaro è scomparso. Una posizione di equilibrio rigorosamente intesa sembra inconciliabile con la stessa presenza del denaro.
III
Questo modello statico del pareggio di bilancio, dice Graziani, non può essere applicato a un’economia Monetaria. Se in un’economia moderna, dice, ogni soggetto dovesse rispettare la regola del pareggio continuo del bilancio, egli dovrebbe cedere ed acquistare, istante per istante, beni o servizi di pari valore. Un modo per realizzare questa esigenza (lo scambio differito di valori-uso), senza tornare al baratto primitivo, è quello di utilizzare unicamente un Denaro-merce. Poiché la moneta metallica ha natura di merce, chi paga con moneta metallica si disobbliga in via definitiva e non lascia alcuna forma di debito pendente – i conti sono tutti immediatamente estinti. Un residuo dell’idea che il vincolo di bilancio vada rispettato nell’ambito di ogni singolo periodo si trova, dice, nella convinzione, tipica degli autori di scuola neoclassica, che l’unica ed autentica forma di moneta sia la moneta metallica, e che le monete cartacee correnti altro non siano che sostituti provvisori, a fronte dei quali, in un’economia ben ordinata, dovrebbe trovarsi un deposito di metallo di valore equivalente (a fronte dei biglietti in circolazione, la banca di emissione dovrebbe tenere riserve auree corrispondenti).
Il ricorso al Denaro-merce sembra garantire al contempo sia la dilazione dello scambio, sia l’estinzione istantanea del debito. Qui comincia ad emergere la doppia valenza del Denaro-simbolo, il quale funziona sia come una merce sia come un segno, svolgendo contemporaneamente le funzioni di equivalente generale e di merce specifica.
Il modello dell’equilibrio può essere applicato a un sistema dinamico con dilazione, solo se, dice Graziani, il vincolo del bilancio è formulato in modo meno rigido di quanto non avviene in Walras. D’altro canto, dice, proprio perché un’economia monetaria consente al soggetto di acquistare senza immediatamente cedere in cambio merci di pari valore, è necessario che un vincolo vi sia: se così non fosse, vi sarebbe la possibilità di acquisire beni reali in cambio di semplici promesse di pagamento mai saldate, il che configurerebbe una appropriazione indebita, quasi una sorta di diritto di signoraggio a favore di singoli individui.
Agli occhi degli economisti neoclassici, il Denaro-merce – oro – evita il rischio che qualcuno possa lucrare sui saldi di bilancio, in quanto la cessione del Denaro-merce da parte del compratore estingue istantaneamente il debito col venditore, ma garantisce contemporaneamente la dilazione di una seconda compera come contropartita.
IV
Quando si introduce una Moneta-segno, e i conti non sono estinti con la cessione del controvalore, non si è più in un’economia di baratto, ma si è in un’economia monetaria. In essa, dice Graziani, sorge il problema della chiusura dei conti. La soluzione, dice, consiste nel prendere in considerazione periodi finiti di tempo e imporre il pareggio del bilancio soltanto al termine di un periodo che comprende più cicli di contrattazione. In questo caso, in ogni periodo di tempo, esisteranno debiti e crediti pendenti fra soggetti; ma rimane l’esigenza che tutti i soggetti saldino i propri debiti entro un periodo prestabilito. Ciò per evitare la presenza di promesse non mantenute, di debiti perpetuamente inevasi e, in definitiva, di appropriazioni indebite. È evidente, dice, che ogni modello di economia di mercato deve imporre a tutti i partecipanti un vincolo di bilancio, in quanto il mercato come istituzione non può ammettere che un soggetto si appropri di beni reali senza cedere alcunché in cambio. Nell’immagine di Patinkin, dice, imporre il vincolo del bilancio significa stabilire che il mercato ideale non tollera né mendicanti né ladri.
Con questa formulazione più ampia, dice, si viene ad ammettere che, per il corretto funzionamento degli scambi, non è necessario restare al baratto né alla moneta metallica, ma è sufficiente che il rispetto del vincolo del bilancio garantisca la compensazione di debiti e crediti. Nel corso di ogni periodo vi sarà sempre un certo ammontare di debiti e crediti pendenti e un corrispondente ammontare di scorte liquide; ogni pendenza, dice, scompare in un ideale istante finale, nel quale tutti i soggetti hanno simultaneamente portato in pareggio il proprio bilancio. Questa definizione di economia monetaria come economia che, eliminata la moneta metallica, si serve di una moneta segno, la quale svolge le sue funzioni in proprio e non già in rappresentanza di una moneta metallica, dice, è stata formulata con singolare chiarezza da Hawtrey (1927).
In un modello dinamico, con dilazione dei pagamenti, il Denaro-merce, il quale consente l’estinzione istantanea del debito, lascia il posto alla Moneta-segno, la quale non estingue immediatamente il debito, in quanto la Moneta non è una merce. Non vi è scambio di cosa contro cosa, ovvero baratto. Solo in un modello nel quale viene usata la Moneta-segno, ovvero una promessa di pagamento registrata in un conto delle Scritture contabili, possono e debbono costituirsi scorte liquide. Di che genere sono queste scorte liquide? Sono Denaro-merce, oppure sono Moneta-segno?
V
Anche nella fase della produzione la Moneta-segno fatica ad apparire. Se si considera la classe dei capitalisti come un insieme – dice Graziani (La teoria marxiana della moneta); se i loro bilanci vengono consolidati, il saldo degli scambi reciproci (interni alla classe) risulta pari a zero. Se si considerano le imprese come un singolo aggregato, dice, l’unico acquisto che esse possono effettuare per avviare la produzione è quello di forza-lavoro, ogni altro acquisto di mezzi di produzione resta eliminato in quanto transazione interna al settore. Pertanto, dice, le imprese, nel loro insieme, non hanno bisogno di Moneta-segno. Il loro bilancio consolidato è simile al bilancio di una famiglia in una ipotetica società semplice primitiva.
Per una mitica società semplice, dice Graziani, nella quale per definizione non vi è separazione tra lavoro e mezzi di produzione, si può immaginare che ogni nucleo familiare sia proprietario della terra che coltiva e degli attrezzi che utilizza. La produzione viene realizzata direttamente, senza alcuno scambio preventivo, alla stregua di un’attività privata indipendente dal mercato. Dunque, considerati come aggregati, i bilanci delle imprese sono simili al bilancio di una famiglia (ipotetica). Così come in una famiglia, dove non c’è separazione tra lavoro e mezzi di produzione, anche nel complesso delle imprese non c’è separazione tra produttori e fornitori di semilavorati; gli uni forniscono agli altri ciò di cui hanno bisogno. I crediti e i debiti si compensano e si azzerano.
Anche se si considerano i singoli bilanci non consolidati, e si introduce una dilazione negli scambi, nulla, dice Graziani, impedisce di introdurre Denaro, concependolo come una merce tra le tante, e precisamente quella che, sotto il profilo tecnico e merceologico, meglio si presta a fungere da intermediario degli scambi. Nulla impedisce di pensare che le imprese trovino conveniente produrre, fra le tante merci, anche la merce moneta; come nulla impedisce di pensare che, sempre nella fase della circolazione, le imprese trovino conveniente far circolare le merci attraverso semplici promesse di pagamento. Ma il denaro che si usa nella circolazione rimane sempre un denaro-simbolo, esso stesso una merce, che perciò riduce lo scambio ad un baratto – consegna di bene contro bene. Si ha dunque ragione a considerare lo scambio tra capitalisti come un baratto e, di conseguenza, a consolidare i loro bilanci, riducendo i saldi a zero. Quando c’è consegna di bene contro bene, i bilanci si pareggiano senza saldi positivi o negativi, i conti non vengono nemmeno accessi. Non c’è necessità di scrittura contabile.
Il Denaro simbolico, dice Graziani, non può essere usato per avviare la produzione. Nella fase di avvio, e solo nell’avvio, dice, l’unico scambio che avviene, quello fra capitalisti e salariati per l’acquisto della forza-lavoro, necessita di Moneta-segno. In questo scambio non può essere usato il Denaro-merce, perché, come si è visto, per essere prodotto, il Denaro-merce presuppone il Denaro-segno. Questa è la ragione per la quale i teorici del circuito hanno bisogno di due tipi di moneta.
Nel tempo che intercorre tra l’inizio della produzione, momento in cui la Moneta-segno viene messa in circolazione, e il momento finale della circolazione, in cui la Moneta-segno viene ritirata e distrutta, la Moneta-segno subisce una mutazione, diventa Denaro-simbolo.
VI
Secondo Graziani bisogna distinguere tra scambio fra capitalisti e lavoratori, il quale implica uno scambio tra classi diverse e contrapposte, e scambio interno alla classe dei capitalisti. Questa distinzione, dice, assume una rilevanza considerevole ai fini dell’analisi teorica della moneta.
Mentre nel momento iniziale dello scambio fra capitale-denaro e forza-lavoro non sembra possibile definire la moneta come merce e sembra inevitabile riconoscere alla moneta la natura di credito puro, nella fase degli scambi interni alla classe capitalistica nulla impedisce che la moneta assuma la natura di moneta-merce.
Vi sono dunque due moneta. Una moneta-simbolo, che si valorizza alla stesa stregua di una merce, e una moneta-segno, che non si valorizza, se si valorizza, alla stessa stregua di una merce.
La Moneta-simbolo è usata nella circolazione. Può essere una moneta-merce, come l’oro o l’argento. Il suo funzionamento non può dirsi identico a quello della moneta-segno, in quanto, essendo essa stessa una merce, riduce lo scambio ad un baratto – consegna di bene contro bene.
Questo tipo di moneta-simbolo, dice Graziani, non può essere usata per avviare la produzione.
La produzione non si avvia con una moneta-merce. All’origine del capitalismo non può essere posto un simbolo, o un qualcosa che abbia a che fare con l’esperienza.
Ecco perché Graziani deve, con un gesto classico, immaginare l’inizio della produzione come un inizio al di fuori della storia. Nel momento ideale in cui la fase della produzione ha inizio, scrive (La teoria marxiana della moneta), non esistendo, in astratto, ancora alcuna merce, non può esistere nemmeno la merce moneta. La moneta deve quindi essere potere d’acquisto senza essere merce: non può dunque avere altra natura se non quella di promessa di pagamento valida e accettata, e cioè la natura di moneta creditizia. Vale la pena di notare una conseguenza che scaturisce immediatamente dal fatto che, dice, in questa fase iniziale, la moneta assume la natura di credito. In questa fase il pagamento fondamentale che viene effettuato è il pagamento del salario per l’acquisto di forza-lavoro.
La moneta-segno, la moneta che dà avvio a tutto, deve essere potere, deve essere un potere che non sia incarnato in una cosa, che non sia, allo stesso momento, valore e merce, sensibile e sovrasensibile. Se questo potere fosse incarnato in un simbolo, caccerebbe tutta la faccenda in un circolo, rendendo vana la ricerca di un punto d’origine. Di più, renderebbe impuro questo inizio. Metterebbe addirittura in discussione l’idea stessa di inizio e di origine, di potere e di potere puro, di sovranità o di archeologia o di libertà.
Graziani crede che questo potere originario possa essere inteso come una pura promessa, come un atto linguistico, un atto di fede, un atto da attribuire alla Finanza, alla Banca (con la B maiuscola). Non alla banca che tratta Denaro, ma a una fantomatica Banca che emette promesse. Ma non promesse trascritte in scritture contabili, nel dare e nell’avere di conti in partita doppia, perché i conti in partita doppia, al momento della loro accensione, non ammettono la trascrizione di un saldo puro, di un saldo che non sia il frutto di una precedente vendita. Una precedente vendita, prima di questo saldo, è impossibile, manca il contante con cui misurarla. A meno che, questo primo saldo non sia inteso come un Fiat o un furto o un abuso derivante da un fantomatico potere sovrano. Un certo odio verso la finanza nasce anche da qui, da questa Teoria (e sottolineo Teoria) pura del credito.
Questa Economia politica del segno dei Teorici del circuito ha a che fare più con Austin e con Nietzsche, che con Marx e Ricardo. Senonché, se ne avvede anche Graziani, per l’imprenditore che utilizza la moneta-segno per l’acquisto di mezzi di produzione, il valore d’acquisto del mezzo monetario deve essere determinato. È a questo punto, dice, che sorgono le discussioni maggiori intorno al problema del valore della moneta. Se infatti la moneta ha natura di credito puro, i termini di scambio fra moneta e mezzi di produzione restano difficili a determinarsi.
VII
Nell’economia capitalistica, dice Graziani, la Moneta non serve a far circolare merci già prodotte, bensì a consentire l’acquisto iniziale di forza-lavoro che renderà possibile alle imprese la realizzazione tecnica della produzione. Quando la moneta viene richiesta in questa forma, essa non viene richiesta per un acquisto definitivo ma soltanto per un prestito temporaneo, avente la durata del ciclo produttivo. Esaurito il ciclo, la moneta vien ricostituita nella sua forma liquida, e può essere rimborsata al finanziatore, o utilizzata nuovamente, per un altro ciclo produttivo. Una volta restituita al finanziatore, la moneta viene distrutta.
Nell’analisi di questo ciclo, dice Graziani (La teoria marxiana della moneta), due momenti appaiono cruciali, quello iniziale e quello finale. Sono i due momenti di apertura e chiusura dei conti. Senza il primo momento i conti non potrebbero essere aperti, e senza il secondo momento i conti non potrebbero essere chiusi. La chiusura dei conti è importante quanto l’apertura, perché essa determina il punto di equilibrio tra i due piatti della bilancia. Mentre il primo momento sbilancia i conti, il secondo momento li riequilibra. Dallo squilibrio emerge il valore, e dall’equilibrio risulta il prezzo. Senza lo squilibrio iniziale il processo di formazione del prezzo non potrebbe prendere le mosse. Vi è tuttavia un problema, che Graziani evidenzia con chiarezza, senza coglierne esattamente la natura.
La moneta iniziale, quella con la quale il capitale compra la forza-lavoro, moneta che Graziani definisce credito puro, non ha valore, o, meglio, non ha il Quanto, non è in grado di dire il quanto del valore, non è in grado di esprimere il prezzo da pagare. La banca apre un conto e lo accredita, ma di quanto lo accredita? Non è sufficiente numerare questo credito, bisogna dire a cosa corrisponde questo potere. È necessario che il potere arbitrario del segno di significare tutto e niente, diventi potere d’acquisto, ovvero potere legato a questa o quest’altra cosa singolare. Bisogna esprimere questa moneta nei termini di qualcos’altro, bisogna trasformare la moneta-segno in una moneta-simbolo. Se il segno non diventa simbolo, non è in grado di quantificare la ricchezza. Non è in grado di dire cosa vale la Moneta, con cosa può essere scambiata, quanti prodotti è capace di acquistare.
Una, sia pur parziale, via di uscita da questa innegabile difficoltà, dice Graziani (La teoria marxiana della moneta), può essere ricercata partendo dalla constatazione che, nella fase della produzione, la moneta si scambia con una merce sola, che è la forza-lavoro. Il problema del valore della moneta (di quanta forza-lavoro può comandare) si riduce quindi al problema della determinazione del salario.
Nella fase di avvio, dice Graziani, la moneta è null’altro che credito puro. Dunque, il problema è un problema di definizione di unità di misura, o se si vuole della scala dei prezzi monetari. Questo problema, dice, è, come tale, privo di rilevanza.
Il salto dal puro credito alla scala di misura, ovvero il salto dall’intelligibile al sensibile, che, in questa fase, è accantonato, si ripresenta nella fase della circolazione. Qui, dice Graziani, nulla impedisce alla moneta di assumere le sembianze di merce. Ma, in questa fase, se la moneta si presenta come merce, essa si scambierà sul mercato come tutte le altre merci, seguendo la regola comune dello scambio. Senonché, come lo stesso Graziani ribadisce in più occasioni, con una moneta che sia anche una merce non è possibile, di diritto, avviare un bilancio e portarlo in pareggio.
Graziani è perfettamente consapevole che il passaggio dal valore al prezzo è, come scrive Marx, un salto mortale. Tuttavia, anziché tentare il salto, rinuncia ad una Teoria generale dei valori e dei prezzi, accontentandosi di un sistema doppio, uno valido in fase di avvio della produzione e un altro valido nella fase della circolazione.
VIII
Le regole che presiedono alla formazione dei prezzi, dice, possono essere concepite in modi diversi: si può immaginare un mercato che livelli i tassi del profitto, così come si può immaginare un mercato che li differenzi continuamente in ragione delle continue innovazioni introdotte dagli imprenditori. Ma, dice, quale che sia la regola di formazione dei prezzi, è chiaro che le merci non possono scambiarsi in ragione del lavoro contenuto. Ma questo è un aspetto irrilevante, dal momento che lo scambio di merci tra capitalisti singoli non può produrre alcuna formazione di valore. Il loro bilancio consolidato ha sempre un saldo uguale a zero.
Il bilancio consolidato di tutti i singoli capitalisti richiede un avvio e dunque una valorizzazione esterne. Nella fase della circolazione le merci non compaiono come fonte di valorizzazione del capitale, ma soltanto come fonte di profitti individuali, e il fatto che i capitalisti scambino fra loro merci secondo rapporti che divergono dai loro valori, dice, non entra minimamente in contraddizione con la corrispondenza tra valore di una merce e lavoro in essa contenuto, corrispondenza che viceversa deve vigere allorché la merce viene presa in considerazione rispetto all’intera classe dei capitalisti.
È evidente in questo passaggio una sovrapposizione, e una certa confusione, tra prezzo, valore e lavoro incorporato.
All’origine di ogni processo di valorizzazione Graziani pone la Moneta-segno. Per sua stessa ammissione, il passaggio da questa Moneta-segno, la quale è null’altro che promessa pura, alla valutazione effettiva, è problematico. Non è sufficiente ridurre il passaggio ad un mero problema di misura o di scelta del tipo di bilancia, lasciando supporre che il problema possa essere risolto scegliendo un metro idoneo. A questo livello, dire quanto vale il lavoro incorporato, dirlo con una scala di misura qualsiasi (oro, tempo, eccetera) richiede, in tutti i casi, l’introduzione di uno strumento materiale di misurazione (orologio, bilancia per il peso dell’oro, eccetera), con il conseguente passaggio obbligato dalla Promessa pura, alla misurazione pratica. Una promessa pura non ha valore, se per valore si intende una certa quantità determinata, o la capacità di misurare una quantità determinata. Per determinare la corrispondenza tra valore di una merce e lavoro incorporato, c’è bisogno, come è stato ampiamente dimostrato in tutte le salse, di una riduzione delle differenze qualitative dei lavori effettivi. Come hanno fatto notare i neoclassici, questa riduzione è possibile solo se si intende il lavoro come sostanza. Ma ciò non è ammissibile per una Teoria che voglia partire dall’esperienza, perché non si ha esperienza di alcuna sostanza. Se essa è introdotta nel modello, deve esservi introdotta dall’esterno. I conti tornano solo se si immagina il rapporto tra le diverse prestazioni lavorative effettive sotto la forma di un’equazione, e si deduce che nelle due cose equiparate esista qualcosa di eguale, una sostanza comune. I lavori effettivi che abbiamo sotto gli occhi vengono così svalutati e annichiliti, a favore di una sostanza comune, sostanza che non contiene nemmeno un grammo della loro effettività empiricamente tangibile; sostanza che non si può toccare e non si può apprezzare.
Ora, bisogna dirlo chiaramente, e credo che Graziani lo abbia dimostrato senza ombra di dubbi, partendo dall’esperienza e dalla cose che abbiamo sotto mano, per esempio il Denaro-simbolo o Denaro-merce, non c’è speranza di arrivare a chiudere i conti in pareggio, né tanto meno ad avviarli. Dunque, non c’è speranza di raggiungere un prezzo di equilibrio. Il prezzo d’equilibrio ha la stessa identica funzione che la sostanza ha nella teoria economica classica.
IX
Riducendo a zero i saldi tra imprese Graziani riesce a eliminare dal modello il Denaro-simbolo, e a dimostrare che ciò su cui lavorano i neoclassici è completamente inconsistente. Non c’è alcun prezzo di equilibrio, la sua ricerca immette in un circolo. A meno che questo prezzo non venga introdotto dall’esterno.
Questo punto era già stato messo in evidenza da Hegel (Enciclopedia, § 38).
Una volta eliminato il Denaro-simbolo rimane soltanto la Moneta-segno. Nel segno, scrive Saussure, ciò che unisce il significante al significato è arbitrario, o ancora, poiché intendiamo con segno il totale risultante dall’associazione di un significante a un significato, possiamo dire più semplicemente: il segno è arbitrario. Così l’idea di «sorella» non è legata da alcun rapporto interno alla sequenza di suoni sor che le serve in francese da significante; potrebbe anche essere rappresentata da una qualunque altra sequenza: lo provano le differenze tra le lingue e l’esistenza stessa di lingue differenti: il significato «bue» ha per significante bof da un lato ed oks dall’altro lato della frontiera.
La parola arbitrarietà richiede anche un’osservazione – dice ancora Saussure. Essa non deve dare l’idea che il significante dipenda dalla libera scelta del soggetto parlante. Non è in potere dell’individuo cambiare un segno una volta stabilito in un gruppo linguistico. Noi vogliamo dire che è immotivato, vale a dire arbitrario in rapporto al significato, col quale non ha nella realtà alcun aggancio naturale. Mentre, il simbolo, dice, ha carattere di non essere mai completamente arbitrario: non è vuoto, implica un rudimento di legame naturale tra il significante e il significato. Proprio in virtù di questo legame il simbolo non può diventare equivalente generale. Il simbolo della giustizia, la bilancia, non può sostituire il simbolo della velocità, la lepre. Il valore del simbolo «bilancia» (giustizia) non può staccarsi dalla bilancia effettiva, così come il valore rappresentato dall’oro non può staccarsi dal metallo. Proprio perché unitamente al valore (ideale) si consegna anche l’oro (reale) il debito può considerarsi immediatamente estinto.
La carta-moneta, invece, è promessa di pagamento, ovvero promessa di consegna di un qualsiasi controvalore equivalente. Proprio in quanto essa accende un credito (e un debito), sorge l’esigenza di trascrivere questo credito in un conto. Poiché il credito sembra precedere la sua trascrizione, ed essere totalmente svincolato da essa, Graziani parla di credito puro. Esso sarebbe il frutto di una decisione. All’origine del valore, dell’investimento, della produzione e di tutto il resto, ci sarebbe dunque la decisione, la volontà. La volontà di una Banca centrale o di un organismo finanziario che ne ha la potestà, di fare cose con le parole. Senza questa volontà non ci sarebbero né investimenti né acquisto di forza-lavoro.
Proprio in quanto la Moneta-segno è intesa come pura volontà, essa può tradursi in qualsiasi investimento effettivo, può essere equivalente generale. Il Denaro-simbolo, invece, essendo legato ad un corpo fisico, non ha la capacità di tradursi in tutto ciò che vuole. Le possibilità di traduzione sono limitate dalla sua natura fisica.
X
Quando si parla del valore di un segno, dice Saussure, si pensa generalmente e anzitutto alla proprietà che esso ha di rappresentare un’idea, ed è questo in effetti uno degli aspetti del valore linguistico. Ma, se è così, in cosa, chiede, questo valore differisce da ciò che si chiama significato? Queste due parole (valore e significato) sarebbero forse sinonimi? Noi non lo crediamo – dice – benché la confusione sia facile. Il valore, dice, preso nel suo aspetto concettuale, è senza dubbio un elemento della significazione, ed è assai difficile sapere come questa se ne distingua pur restando in sua dipendenza. Tuttavia è necessario mettere in luce questo problema, sotto pena di ridurre la lingua a una semplice nomenclatura.
Prendiamo il significato come lo si rappresenta e come noi, dice, l’abbiamo raffigurato. Da un lato, dice, il significato ci appare come la contropartita del significante nell’intero del segno e, dall’altro lato, questo segno in se stesso, vale a dire il rapporto che collega i suoi due elementi, è anche ed in egual misura la contropartita degli altri segni della lingua.
Poiché la lingua è un sistema di cui tutti i termini sono solidali ed in cui il valore dell’uno non risulta che dalla presenza simultanea degli altri, come è possibile che il valore, così definito, si confonda con il significato, vale a dire con la contropartita del significante?
Per rispondere a un tale quesito, dice, constatiamo anzitutto che anche fuori della lingua tutti i valori sembrano retti da questo principio paradossale. Essi sono sempre costituiti:
1 – da una cosa dissimile suscettibile d’esser scambiata con quella di cui si deve determinare il valore;
2 – da cose simili che si possono confrontare con quella di cui è in causa il valore.
Questi due fattori, dice, sono necessari per l’esistenza d’un valore. Così per determinare che cosa vale un pezzo da cinque franchi, bisogna sapere: 1) che lo si può scambiar con una determinata quantità di una cosa diversa, per esempio del pane; 2) che lo si può confrontare con un valore similare del medesimo sistema, per esempio un pezzo da un franco o una moneta di un’altra valuta (Dollari, Sterline, ecc.). Similmente, dice, una parola può essere scambiata con qualche cosa di diverso: un’idea; inoltre, può venir confrontata con qualche cosa di ugual natura: un’altra parola. Il suo valore non è dunque fissato fintantoché ci si limita a constatare che può essere scambiata con questo o quel concetto, vale a dire che ha questo o quel significato; occorre ancora confrontarla con i valori similari, con le altre parole che le sono opponibili. Il suo contenuto non è veramente determinato che dal concorso di ciò che esiste al di fuori. Facendo parte di un sistema, una parola è rivestita non soltanto di un significato, ma anche e soprattutto di un valore, che è tutt’altra cosa.
Qualche esempio, dice, mostrerà che è così. Il francese mouton può avere lo stesso significato dell’inglese sheep, ma non lo stesso valore, e ciò per più ragioni, in particolare perché parlando di un pezzo di carne cucinato e servito a tavola, l’inglese dice mutton e non sheep. La differenza di valore tra sheep e mutton dipende dal fatto che il primo ha accanto a sé un secondo termine, ciò che non è il caso della parola francese.
Questa sottile analisi di Saussure può essere applicata alla Moneta-segno di Graziani.
La Moneta-segno ha un significato (numerario) e un significante (carta, bancomat, bit, oro, scrittura contabile, memoria umana, eccetera). Il rapporto tra il numerario (5 franchi) e il supporto sul quale la cifra è impressa è arbitrario. Non cambia nulla del contenuto della moneta se esso viene iscritto su un libro mastro, su una cambiale, su un microchip, oppure nella memoria di un computer o di una persona. Un credito di 5 franchi rimane sempre lo stesso, a prescindere dal supporto sul quale è trascritto. La sua esistenza non aggiunge nulla al suo concetto. Senonché, se ci si fermasse a questa considerazione, si avrebbe soltanto una nomenclatura, ovvero un listino dei prezzi. Il listino riporta l’elenco delle cose dissimili (prezzi) suscettibili di essere scambiate con quelle di cui si desidera determinare il costo (beni). Il listino, da solo, non può dirci cosa possiamo comprare. Bisogna rapportare la moneta segnata sulla lista con la moneta che abbiamo in tasca. Solo a questo punto conosciamo il valore (potere d’acquisto) della moneta. Questo raffronto è talmente ricorrente che non ci si fa più caso. Solo quando cambia la moneta, come è avvenuto nel caso dell’euro, o quando si cambia paese e valuta, ci si rende effettivamente conto che il listino è una nomenclatura, e che il significato dei prezzi, seppur intelligibile, non dice quanto costa il bene che vogliamo comprare. Solo il raffronto del prezzo segnato sul listino con lo stipendio mensile, ci dice il valore effettivo del prodotto. Dunque, ciò che una cosa ci costa, non coincide esattamente con il contenuto significato dal prezzo. Il costo si forma per differenza con ciò che esso non è. Resta inteso, dice Saussure, che esso è solo un valore determinato dai suoi rapporti con altri valori similari, e che senza tali valori la significazione non esisterebbe. Non siamo lontani da Nietzsche.
A questo punto, viene meno la consistenza teorica della Moneta-segno. La Moneta, come la presenta Graziani, è un credito puro. Ma in quanto credito puro non ha potere di acquistare alcunché, nemmeno forza-lavoro, non ha valore, è una mera nomenclatura. Per conoscere il valore effettivo dei prodotti che sono sul mercato, bisogna che essi siano posti in relazione alle domande effettive dei contraenti, alle loro stime, alle monete che portano in tasca e, soprattutto, alle relazioni che queste diverse monete hanno tra di loro. Il costo effettivo emerge appunto da questi confronti e rapporti. E ogni rapporto e ogni confronto – ogni mercato – esprime un costo differente. Il costo effettivo che si forma è il frutto del confronto di forze e controforze, in uno scenario complessivo descritto benissimo dalla teoria neoclassica. Il fascino che Graziani subisce da questa dottrina risiede proprio in questo elemento dinamico e differenziale.
Inoltre, se il valore si costituisce nella differenza che oppone le monete sonanti e dal rapporto tra le monete sonanti e i prezzi, la scrittura contabile non può essere considerata un mero strumento che permette di trascrive il prezzo in un listino o in un libro mastro, senza alterarne e dunque costituirne il potere d’acquisto. La scrittura contabile non è un mezzo che trasporta un significato o un valore precostituito e stabile – ideale -, il quale userebbe la scrittura senza venirne intaccato, e il quale potrebbe darsi senza esser scritto. Come Saussure ha mostrato con chiarezza, il valore emerge solo a partire dalle differenze nella catena dei segni scritti, delle monete coniate o stampate ed effettivamente esistenti nelle tasche dei contraenti. Dunque, solo in quanto il valore compare su una banconota, solo in quanto prende corpo, esso può acquisire un valore significativo per i contraenti. Prima o aldilà di questa iscrizione non si dà alcun valore. Ma non nel senso, del tutto secondario, che senza una ricevuta di una banca centrale non posso presentarmi sul mercato ed esprimere una domanda. Ma nel senso costitutivo che anche le promesse di pagamento della banca centrale non valgono nulla, fintanto che non si incatenano nella serie strutturale nella quale cadono.
Tuttavia, bisogna dirlo con chiarezza, è evidente che senza il listino dei prezzi, senza questo aiutino metafisico, sarebbe impossibile per le forze in campo tradurre il desiderio in domanda effettiva, convertire la moneta in un bene e perfezionare l’acquisto. Senza l’intervento della Moneta-segno, sarebbe impossibile dare avvio alle contrattazioni, ovvero alle traduzioni delle domande nelle offerte, e delle offerte nelle domande. Se in questa traduzione qualcosa va perso, è perché, come scrive giustamente Marx (nel Capitale, nei Grundrisse, nella Critica), il prezzo si distingue dal valore non soltanto come ciò che è nominale da ciò che è reale, ma anche per questo motivo: che il secondo si presenta come la legge dei movimenti percorsi dal primo. Questi movimenti sono però costantemente diversi e non si adeguano mai o soltanto in via del tutto accidentale ed eccezionale. Il prezzo delle merci è costantemente superiore o inferiore al loro valore, e lo stesso valore delle merci esiste soltanto negli alti e bassi dei prezzi delle merci.
Rimane da risolvere il problema dell’ingresso della Moneta-segno nel mondo effettivo(nota1).
Dato che con essa si possono fare cose, si possono fare vendite e acquisti, e visto che essa non è esattamente l’espressione di un valore dato, perché il valore, come si è vesto, emerge da una struttura differenziale; visto che essa non constata una situazione già presente, non registra le posizioni degli attori economici, in quanto questi attori possono iniziare a operare solo a partire dalla disponibilità di Moneta-segno; visto e considerato che questa Moneta non può essere un simbolo, né tanto meno cartamoneta, cambiale, bancomat, eccetera, perché il simbolo è una merce, e in quanto tale ha bisogno di un apparato produttivo per essere prodotta, e dunque di una Moneta che lo finanzi; questa Moneta-segno, in quanto può fare cose a partire da una mera volontà, può essere accostata al performativo di Austin. Senonché, anche per il performativo, nonostante la considerazione del contesto in cui l’atto si innesta eccetera, si pongono problemi di ricorsività, problemi che qui non posso nemmeno accennare.
—-
1 – È singolare che un allievo (putativo) di Graziani, tra i più dotati – Marco Veronese Passarella –, confonda la Moneta-segno (o moneta-creditizia) con la moneta-simbolo, arrivando a dire che la Moneta-creditizia si crea mediante semplice annotazione o mediante impulsi elettrotecnici, quando è evidente che sia la moneta scritturale o cartacea, sia la la moneta elettronica, sono monete-simbolo. Oppure quando arriva a dire che da un punto di vista logico, in assenza di un atto di creazione ex nihilo, lo scambio “salario monetario verso forza-lavoro” non potrebbe darsi, e dunque l’intero processo di produzione e di scambio non potrebbe nemmeno essere avviato, dimenticando tutti i quesiti teologici che una creazione dal nulla implica.
Marco Veronese Passarella, Augusto Graziani tra Keynes e Marx, Adria, 6 gennaio 2014
+++++++
* Augusto Graziani, La teoria marxiana della moneta, in C. Mancina (a cura di.), Marx e il mondo contemporaneo 1986
* Augusto Graziani, Intervista (18 dicembre 1990 presso la sede dell’Imes di Roma) . Il Mezzogiorno, il mercato, il conflitto Conversazione con Augusto Graziarli Con Gabriella Corona, Iaia Costa, Giuseppe Croce e Gino Massullo, Meridiana . 16 1993.
* Augusto Graziani, La teoria monetaria della produzione, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, Studi e Ricerche, 1994.
* Roberto Marchionatti, Commemorazione di Augusto Graziani tenuta dal Socio corrispondente nell’adunanza del 10 febbraio 2015, Accademia delle scienze di Torino Atti Sc. Mor. 149 (2015), 47-57
* Pietro Fredas, Manuale di Ragioneria, Ravenna 1861.
* Ferdinand de Saussure, Corso di linguistica generale 1916