Vladimiro Giacché. Hegel. La dialettica – punultima lezione

Hegel

 

L’ultimo libro di Vladimiro Giacché, «Hegel. La dialettica», pubblicato da Diarkos, libro che vi consiglio di leggere, non costituisce l’occasione o il pretesto per una sortita filosofica. La filosofia di Hegel, dice Heidegger (1941), si staglia (stecht) definitivamente nella storia del pensiero come l’unica e ancora incompresa richiesta di un confronto con essa. Nietzsche, che si liberò lentamente e tardi della misera tendenza, ereditata da Schopenhauer, a diffamare e disprezzare Hegel, disse una volta: Noi tedeschi siamo hegeliani, anche se un Hegel non fosse mai esistito.
In questa considerazione viene colto un aspetto della filosofia di Hegel che la rende, allo stesso tempo, conturbante e ostica. Filosofare, vuol dire Giacché, non corrisponde a pensare, o pensare correttamente secondo un metodo. Per Hegel la filosofia è piuttosto un viaggiare (pervagari) che intraprende un cammino. Ma il cammino (la strada) non esiste per viaggiare. Ciò a cui si va incontro non «è» lì già dato. Il viaggiatore mette in cantiere se stesso, gli attrezzi che fabbrica «strada facendo» e la strada che percorre.
Riassumendo, si può dire che la strada e il viaggio non sono un pacchetto turistico bello e pronto, o una minestra al dado precotta e da riscaldare – una semplice-presenza (Vorhandenheit). La strada o la minestra non sono i mezzi per raggiungere un obiettivo, e, in quanto mezzi, adatti a ogni scopo.
Quando, nel linguaggio corrente, si dice «Fare esperienza della vita», oppure quando un padre dice al figlio «Devi fare le tue esperienze per capire come si mangia il pane», vuole appunto significare che il pane e la ‘Nduja, non sono semplici mezzi per placare il desiderio (
begierde), frenare la spinta (trieb) e soddisfare la fame in modo generico. Ma che ogni boccone, a seconda della struttura di rimandi in cui il gesto si realizza (wirklich), ha un sapore o amaro, o dolce, o salato, come salato era per Dante il pane mangiato in esilio.
Pertanto, la ‘Nduja non è una semplice-presenza, non ha sempre e per tutti lo stesso sapore. Non ha una sostanza immutabile che si rifletterebbe nell’occhio interessato da una brama per così dire neutra (
ne-uter). Il turista, il vero turista, non è colui che è già piantato nella sua posizione, e per il quale si tratta di passare in rassegna i vari pacchetti vacanza per saggiarne la validità, come si farebbe con qualcosa che dapprima «è» e che poi si trascende.
La ‘Nduja non appartiene al turista come una nozione teorica. Non si fa esperienza della ‘Nduja leggendo il
Cucchiaio d’oro, come non si fa esperienza filosofica leggendo la Wissenschaft der Logik. Tuttalpiù, si diventa filosofi stringendo l’organon tra virgolette («menzionandolo»), alla maniera di un Menard borgesiano. Erigersi sulla ‘Nduja, contemplarla, senza farsi prendere la mano dall’appetito, ma tenendo la stretta sull’arnese (Zeuge), e trattenersi, per poi affondare e penetrare la polpa rossa (Entäusserung), e ritirare lo Zeuge e affondarlo nella bocca, assaporare, e, senza masticare, ingoiare (Zuhandenheit).
Una volta disciolto il corpo intermedio nella sacca ventricolare, non si ottiene un nulla, ma un «non»-nulla, che, da una parte, sotto forma (
gestalt) di «Furz und Rülps» si dissipa come «gespenst», e, dall’altra, si raccoglie (Aufhebung) come Geist. Non è una comunione o un’ultima cena – ma è un evento «non» ripetibile.
La ‘Nduja è ciò che il turista non nega immediatamente nel godimento, come farebbe il bifolco, ma è ciò che egli lavora, «elabora» (bearbeiten), e questo comporta il tenere a freno (hemmen) la voglia bruta, e rinviare (aufhalten) la consumazione – ammesso che si voglia rientrare dell’investimento nel pacchetto vacanza. Senza questa economia (D-[M]-D1), senza speculazione sul piatto, si rischia la perdita assoluta dell’investimento. Un bifolco, guidato dalla trippa (trieb) e non dalla coccia (Geist), non ha il senso di ciò che fa – si alimenta, fa rifornimento, come una macchina. Il turista, invece, trattenendo la fame e la spinta (trieb), pensa il piatto, ci specula sopra, fa una esperienza culinaria. Il piatto non si annulla nelle deiezioni, ma ricompare nel racconto e nelle memorie con cui di volta in volta si intossica il prossimo nella sala d’attesa del barbiere (Foucault, Le philosophe masqué).
L’
ingozzarsi puro e semplice, il cibarsi muto e senza rendimento, Hegel lo chiamava «negatività astratta», opponendola alla negazione del turista «che sopprime in modo da conservare e trattenere ciò che è soppresso (Die Negation des Bewusstseins, welches so aufhebet, dass es das Aufgehobene aufbewhart und erhält)» e che «perciò stesso sopravvive al fatto di venire soppresso (un heimit sein Aufgehobenwerdern überlebt).» L’Aufhebung è dunque anche contro-Spinta repressiva, una contro-forza, una Hemmung, una inibizione, una specie di anti-erezione (Derrida, Glas).
Attraverso il ricorso all’
Aufhebung che conserva la posta, il turista resta padrone del gioco, lo limita, lo elabora dandogli forma e senso (Die Arbeitbildet), senso che rivende al malcapitato che gli siede accanto nella sala d’attesa del gastroenterologo. Astuzia della ragione.
L’investimento del bruto
(Entfremdung), senza ritorno e senza Aufhebung, si vaporizza in «Furz & Rülps». Furz & Rülps che non si presentano mai, perché, in caso contrario, come per i Furz di Dolce & Gabbana o i Rülps di Tognazzi, rimetterebbero in movimento il lavoro, verrebbero recuperati e contabilizzati, dando fondo (Grund) alla chiacchiera (Geschwätz) secondo cui del porco non si butta mai niente. A meno che non si voglia credere a Dietorovocje Sminuscjenko quando dice che (traslittero) «svin’i yagoditsy tozhe sosut».
S
arebbe davvero ingenuo considerare il bifolco e la ‘nduja in una unità immediata – o piena -, non scalfita dalla negatività. Sarebbe un voler far arretrare il suo desco alle metafisiche pre-kantiane della presenza piena.

Da quando il bifolco ha visto Striscia la notizia, anche la sua testolina, piena di grilli e sottigliezze metafisiche, non può non sapere «che cos’è» la ‘Nduja, da dove viene, come la si deve conservare e in quali circostanze la si può presentare in tavola. Dunque, nemmeno il bifolco può uscire dalla gabbia hegeliana. Rimacinato dalla storia, erede dei figli dei fiori (puzzoni e straccioni per vezzo, rimpinzati di cultura da fare schifo) si trova (il bifolco) ripreso dalla dialettica, come davanti a quella stalla di cui parla DeLillo in Rumore bianco.

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