Nel modello neoclassico standard, il mercato del lavoro raggiunge spontaneamente un punto di equilibrio attraverso l’interazione tra domanda e offerta, senza necessità di interventi esterni. I lavoratori decidono quanto lavoro offrire in base al livello del salario reale: se il salario aumenta, cresce anche l’offerta di lavoro; se diminuisce, l’offerta si riduce. Dal lato delle imprese, all’aumentare del costo del lavoro si riduce la domanda di lavoro, e viceversa. L’intersezione tra queste due curve determina un equilibrio in cui non esiste disoccupazione involontaria: ogni lavoratore disposto a lavorare al salario di equilibrio trova occupazione.
Se, tuttavia, intervengono rigidità istituzionali – in particolare salariali – che impediscono l’aggiustamento dei prezzi dei fattori, l’equilibrio viene disturbato. In presenza di salari minimi imposti, contrattazione sindacale rigida o altre barriere alla flessibilità salariale, il salario reale può mantenersi sopra il livello di equilibrio. In questo caso, una parte della forza lavoro rimane disoccupata non per scelta, ma per effetto di un prezzo del lavoro non compatibile con la domanda delle imprese.
Questo modello, posto che abbia mai funzionate perfettamente (automaticamente), riflette una società ottocentesca, nella quale le imprese assumono (domandano lavoro) entro i limiti della produttività marginale del lavoro. Assumono finché la produttività del lavoro è maggiore o eguale al salario. Se la produttività aumenta, aumenta anche la domanda di lavoro. Un calo della produttività riduce l’incentivo ad assumere.
All’inizio del Novecento, con il Fordismo, si osserva un marcato aumento della produttività marginale del lavoro. Le imprese riescono a produrre una quantità maggiore di output con lo stesso numero di lavoratori, oppure a mantenere lo stesso livello di produzione con un numero inferiore di occupati. Questa efficienza dovrebbe tradursi in una discesa dei prezzi e in un aumento del potere d’acquisto dei salari, ristabilendo un equilibrio dinamico. Eppure, Henry Ford compie una scelta che appare controintuitiva nel quadro neoclassico: aumenta i salari e riduce l’orario di lavoro. Perché? Perché il modello T passa da un prezzo equivalente a 28.000 dollari odierni nel 1908 a meno di 5.000 nel 1925. Le strade americane si riempiono di automobili, e nel giro di pochi anni il mercato interno appare saturo. Un’ulteriore riduzione dei prezzi – e quindi un aumento del salario reale relativo – non basta più a stimolare la domanda.
Il fordismo ha raggiunto il suo limite. Si arriva al collasso del 1929.
Il salario non è solo un costo, è anche un reddito. Il lavoratore non è solo un fattore produttivo, è anche un consumatore. In questa osservazione si misura buona parte della rivoluzione keynesiana.
Nel modello neoclassico, il lavoratore accetta un impiego solo se il salario offerto è almeno pari al suo salario di riserva, ovvero la soglia al di sotto della quale preferisce non lavorare. Tale salario rappresenta il punto di indifferenza tra lavoro e tempo libero, secondo una logica di massimizzazione dell’utilità individuale. Se il salario si colloca al di sotto di questa soglia, il lavoratore, razionalmente, sceglie l’ozio.
È evidente che si tratta di una bufala. In un’economia capitalistica avanzata, fondata su una forte divisione del lavoro e sulla mercificazione di ogni bene e servizio – dall’acqua corrente alla gestione dei rifiuti – nessuno può permettersi di oziare senza reddito. Il soggetto sovrano e razionale, libero di scegliere l’ozio in assenza di un salario soddisfacente, è una finzione matematica. L’ozio presuppone l’esistenza di un reddito preesistente: derivante da risparmi, rendite, o sussidi pubblici. Senza alcuna fonte di reddito, il lavoratore non è libero di scegliere, ma è costretto ad accettare condizioni di lavoro anche molto sfavorevoli, abbassando di fatto il proprio salario di riserva. Dunque, la rigidità dei salari verso il basso è una finzione matematica, usata per giustificare la disoccupazione.
Se si vuole salvare la baracca, dice Keynes, bisogna far girare la macchina più lentamente. Se l’efficienza marginale del capitale scende (ovvero, se il rendimento atteso degli investimenti è troppo basso), gli imprenditori non investono più. Bisogna produrre una macchina meno efficiente, più dispendiosa, una macchina che consumi più energia. Se il pieno impiego comportasse un’efficienza marginale del capitale negativa, dice, il processo diverrebbe vantaggioso unicamente perché è allungato. Se si vogliono impiegare tutti i fattori disponibili bisogna far fare alla macchina un giro più lungo, allungando artificialmente il tragitto. Oppure, dice Keynes, si dovranno impiegare processi di produzione fisicamente inefficienti, tali da produrre la stessa quantità di prodotti, ma con un consumo maggiore di energia. Oppure si dovrà usare la macchina al livello di efficienza raggiunto, ma fargli fare più giri a vuoto, fargli produrre beni superiori a quelli richiesti, dunque inutili. Ci troviamo dunque in una situazione nella quale i processi di produzione brevi dovrebbero essere mantenuti sufficientemente scarsi da garantire che la loro efficienza, dal punto di vista della produzione fisica, bilanci lo svantaggio della grande disponibilità della loro produzione (Teoria generale, 377)
Questa è una riformulazione del concetto secondo cui, in assenza di investimenti buoni (cioè ad alta efficienza e domanda garantita), si può stimolare l’attività economica allungando artificialmente i processi produttivi. È una critica implicita al modello neoclassico secondo cui ogni investimento efficiente è automaticamente anche utile per l’economia. Se il problema è l’insufficienza della domanda effettiva, anche una produzione inutile può essere utile perché crea reddito e occupazione. Qui si chiude il cerchio: in un mondo in cui la tecnica permette di produrre troppo con troppo poco lavoro, si deve mantenere una scarsità artificiale nei processi più efficienti per non distruggere l’occupazione. È una critica radicale al modello neoclassico, che presume che la crescita tecnica sia sempre benefica.
La soluzione proposta da Keynes è la distruzione consapevole di una parte delle forze produttive impiegandole in attività delle quali viene artificialmente allungata la durata.
Cosa sono, in fondo, tutti questi faux frais de production – ricerche di mercato, pubblicità, design, stile, gadget, obsolescenza programmata – se non strumenti scientificamente elaborati per allungare artificialmente il ciclo produttivo? Sono meccanismi destinati non ad accrescere l’utilità dei beni, ma a consumare produttività, a rallentare l’avanzamento delle forze produttive, riportandole entro i limiti imposti dai rapporti di produzione. In altri termini, sono tecniche per contenere il valore d’uso entro la cornice del valore di scambio.
Cosa sono tutte quelle tangenti che pendono sul prodotto e che vengono elargite, attraverso la réclame, ai cantanti, agli influencer, ai giornali, ai siti web e, oggi sempre di più, alla scuola, alle università, facendo apparire queste attività inutili come attività utili?
È impiego di lavoro improduttivo fatto apparire come lavoro produttivo.
Dunque, se l’obiettivo è il pieno impiego, il lavoro inutile deve diventare la base del lavoro socialmente necessario.
Qui bisogna fare una precisazione. Nel modello neoclassico la differenza tra lavoro utile e lavoro inutile non ha senso. In esso l’offerta e la domando sono in equilibrio – sono equivalenti. Non ci sono lavori utili e lavori inutili. Questa distinzione non è contemplata. Ciò che per un agente è inutile, per altro agente è utile. Ciò che per uno è scarto e rifiuto per un altro è utile come carburante. Non c’è bisogno di inventarsi lavori inutili. Non ci sono distinzioni di genere – si tratta di un modello trans-genere. Non ci sono limiti, se si esclude l’unico vero limite: l’efficienza marginale del capitale.
Quando l’efficienza si approssima al tasso di interesse o si approssima allo zero, non è più possibile investire, se non ci si vuole rimettere il capitale.
I lavoratori si adeguano, se sono in esubero chiedono meno, fino al limite del salario di riserva. E tutti sono felici e contenti. La crisi, se una crisi si innesca, è solo passeggera, dura il tempo che i fattori e gli agenti trovino un nuovo equilibrio.
Quello che nei fatti accade quando il mercato è saturo – e il mercato americano, negli anni Venti, è saturo di prodotti, c’è una macchina ogni 5 abitanti – è che i prezzi calano, ma nonostante ciò, visto che il mercato è saturo, non si compra lo stesso, allora le aziende licenziano, la domanda di lavoro si abbassa, le paghe si abbassano e si compra ancora di meno. Si innesca un moltiplicatore negativo, e succede che il PIL nominale cala del 45% e la disoccupazione arriva al 25% – come accadde negli USA durante la Grande depressione.
Un sostenitore del modello neoclassico direbbe che la crisi del 1929 fu dovuta a shock esogeni – fu generata da agenti esteri, stranieri.
Per rimetter al lavoro le forze rimaste disoccupate (volontariamente, s’intende!) è necessario un volume di investimenti così grande da comportare un’efficienza marginale del capitale negativa.
Come portare questo dato in terreno positivo?
Qui interviene Keynes e dice: Bisogna allungare il tempo del ciclo produttivo, renderlo più inefficiente. È l’efficienza che ci ha portati sino a qui, nel disastro: pil dimezzato e un quarto della forza lavoro ferma. Gli investimenti improduttivi – inutili – allungano artificialmente il processo di produzione riportando il sistema nelle condizione di garantire un’efficienza marginale del capitale positiva.
La caduta dell’efficienza marginale del capitale, che è il primo sintomo del verificarsi delle crisi, dice Mazzetti (Come l’acqua sul dorso dell’anatra, quaderni, 6, III, 2020), registra pertanto proprio il fenomeno di allungamento del periodo di circolazione, dovuto al fatto che una buona parte delle merci rimane invenduta. E cioè registra che il valore immesso nel processo di produzione non riesce a realizzarsi nel tempo normalmente necessario, per cause che esulano dalle condizioni tecniche della produzione. Si tratta in altre parole di distruggere consapevolmente una parte delle forze produttive del lavoro impegnandole in attività delle quali viene artificialmente allungata la durata. È la teorizzazione della necessità di impiegare lavoro non necessario facendolo apparire come lavoro necessario. Si socializza il processo di distruzione del capitale piuttosto che socializzare il processo di produzione. O meglio, il fine del processo di socializzazione deve essere unicamente quello di ridurre il tempo di circolazione delle merci, ricorrendo a uno svuotamento della funzione di fondo del valore del denaro o ricorrendo a una vera e propria politica di investimenti pubblici, o quello di controllare i fenomeni di allungamento del ciclo al fine di renderli meno conflittuali; non deve mai consistere invece in un vero e proprio processo di pianificazione.
Fino al 1970, dice Mazzetti, questa strategia ha pagato. Distruggere la base produttiva, rendere il sistema inefficiente, ha pagato. È quello che è successo in occidente, è quello che è successo negli Stati Uniti. La disoccupazione è diminuita e l’accumulazione è avvenuta senza le solite oscillazioni del passato. La distruzione della base industriale ha pagato.
La produzione efficiente di valori d’uso è un problema. Se ne producono troppi. Sono in eccesso. Sono di ottima qualità. Non si guastano, durano a lungo. Per salvare il valore di scambio bisogna sacrificare il valore d’uso, fornendo un mercato e quelle merci (e tra esse la forza-lavoro) che un mercato non ce l’hanno.
In Keynes, dice Mazzetti, è proprio il fatto che i valori sono beni, e cioè prodotti di lavori specifici con un particolare valore d’uso ad essere la fonte degli ostacoli all’accumulazione. Egli pertanto propone che, ogni qualvolta i rapporti sociali impediscano una soluzione più razionale, vada rimosso proprio il carattere concreto, utile del prodotto del lavoro, e gli uomini vengano impiegati (umiliati) a scavar buche e a riempirle. Per salvare il lavoro astratto deve essere sacrificato il lavoro concreto.
Perché i lavoratori non possono essere impiegati in lavoro utili?
Perché l’utilità, volendo salvare il valore di scambio, riporterebbe al periodo di Ford, e forse a un periodo precedente. L’utilità e l’efficienza accorcerebbero il ciclo, svalutando ciò che è stato già prodotto. Keynes riconosce implicitamente che il capitalismo è diventato un sistema irrazionale. Il lavoro concreto, utile, quello che soddisfa i bisogni e dà senso all’attività di chi lo eroga, costituisce un aspetto integrativo accidentale, che può essere rimosso e deve essere rimosso se si vuole realizzare il valore di scambio.
Se c’è un eccesso di laureati in biologia, lo Stato li impiega nelle scuole a insegnare scienza o li impiega nelle Regioni a compilare le tabelline dei rimborsi carburanti, anche se tutto potrebbe essere fatto automaticamente. Si tratta pur sempre di un lavoro, e si porta il pane a casa, non bisogna biasimare chi accetta un tale ripiegamento. Non c’è scelta, non c’è salario di riserva e rigidità verso il basso o altre frizioni istituzionali, si ha bisogno di un reddito e si deve lavorare, anche se ciò che si produce è inutile e non ha un senso, e le ore spese nel lavoro sembrano quelle di un carcerato: la sorveglianza, il comportamento, la forma, il cartellino, la puntualità, il rispetto.
La negazione di questa trasformazione dell’oggetto, la negazione del rapporto con l’oggetto, e nei servizi, la negazione del rapporto con il paziente, con l’utente, con lo studente, si realizza, dice Mazzetti, nonostante l’attività. Ed è anche la negazione della adeguatezza a bisogni umani. Ma se la rimozione del prodotto è concepibile e realizzabile a vantaggio del valore di scambio, questa rimozione lascia sul campo le sue macerie, i sui relitti. Se lo svuotamento del prodotto e del rapporto sono sempre possibili, ciò non significa che non si fa niente, che si sta con le mani in mano, che si aspetta. Nell’attesa ci si consuma e ci si ammala. Perché si producono lampadine che durano un battito di ciglia, quando si potrebbero produrre lampadine che durano una vita, si producono lavatrici che si devono rompere, auto che si devono rottamare, alunni che si istruiscono per lavori che non ci sono, studenti universitari che si formano per impieghi che non esistono. Come si può, in queste condizioni, credere in ciò che si fa?
La frustrazione e il rifiuto del lavoro vengono anche da qui. Il rifiuto di studiare, di andare a scuola, l’insofferenza degli studenti, la frustrazione dei genitori, genitori con vite vuote – fallite – che investono su figli destinati al fallimento, vengono da qui.
L’attività, anche quando gira a vuoto e forma studenti per lavori che non esistono, non è mai neutra. L’attività, dice Mazzetti, non è mai neutra. Anche quando si distribuiscono direttamente soldi, senza la foglia di fico di un lavoro inutile, questi soldi messi in circolazione, alterano il rapporto tra ciò che è utile e ciò che è inutile.
Non fare niente, pazientare, stare a riposo, spegnersi. Solo i borghesi potevano pensare al non-lavoro – all’ozio – come situazione ottimale. Da Adam Schmitt in poi, fino alla funzione dell’offerta di lavoro, dice Mazzetti, il riposo figura come lo stato adeguato che si identifica con la libertà e la felicità.
La deindustrializzazione
