Quando le cronache di guerra continuano a riportare in primo piano le atrocità, gli orrori e le nefandezze dei crimini commessi dagli eserciti nei confronti della popolazione civile, quando la propaganda dei guerrafondai riesce a persuadere le menti deprivate dal pensiero critico che c’è un nemico alle porte dell’Occidente, che ha intenzione d’invaderci, o che le nostre case sono circondate dai terroristi, che arrivano con i barconi di ferro, pronti a seminare il panico sulle strade delle città occidentali, pertanto bisogna fermarli nei lager costruiti in quei paesi come la Libia, la Tunisia, la Turchia, eccetera, con i soldi della fiscalità generale, ossia dei contribuenti europei, e in primo luogo i lavoratori dipendenti, allora bisogna prendere in considerazione la prospettiva, come scrive Leo Essen, che i capitalisti stanno cercando di mettere in campo “notevoli quantità di ragione” per continuare i loro affari con altri mezzi, vale a dire la guerra. (1)
Non ci sono solo forze irrazionali che spingono in direzione della guerra, ci sono anche una serie di ragioni che vengono prodotte, anche se involontariamente, dal sistema formativo e di addestramento, connesso con quello di reclutamento. Quest’ultimo termine è usato con disinvoltura da chi si occupa della gestione delle risorse umane (forza lavoro) senza pensare per un attimo che la sua etimologia è legata all’arruolamento dei corpi militari.
Non è un caso che Brecht apra la sua opera Madre Coraggio e i suoi figli, dedicata alle vicende, agli intrighi, allo squallore, alla disperazione e alle controversie che innervano il tema della guerra, con la scena di un reclutatore e del suo maresciallo, che nel1624 si trovano a Dalarne, nella Svezia Centro-occidentale, per assoldare uomini e formare i drappelli dei reggimenti, da inviare al fronte.
Entrambi si lamentano del fatto che da quelle parti non riescano a scovare “carne da macello”, poiché per troppo tempo hanno prevalso relazioni pacifiche, quindi l’umanità si è diffusa in modo incontrollato e caotico.
Il maresciallo istruisce il reclutatore: solo la guerra potrà mettere ordine, all’inizio è difficile far passare le ragioni della guerra; ma una volta che ha preso piede, «la gente ha paura di ritornare alla pace, come chi gioca a dadi ha paura di smettere, perché viene il momento di fare i conti». (2)
Ed è proprio mentre questo dialogo sta per volgere al termine che i due commilitoni incrociano il carro della vivandiera Anna Ferling, nota come Mother Courage, con i suoi tre figli: due giovanotti e una ragazza muta. Un incontro maledetto, poiché il figlio maggiore cade nelle grinfie del reclutatore, come il pidocchio sulla testa viene scovato dalle unghie delle mani.
Una donna con un vitalismo animalesco e dotata di una grande capacità di adattamento a situazioni estreme, pur di continuare a far quattrini sulle macerie e le disgrazie che semina la guerra, è ignara dei pericoli che corrono i figli.
Una popolana che – scrive Luigi Forte, nell’Introduzione al lavoro di Brecht – si arrabatta e si muove, zigzagando fra desolazione e miserie umane, con perfido calcolo e se pur nell’abiezione mostra un’inesauribile carica pulsionale come il suo autore.
Nel 1939, sul finire del mese di settembre, qualche giorno dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale in Europa, quando la Germania di Hitler invase la Polonia, Brecht iniziò a scrivere Madre Coraggio e i suoi figli, un libro che terminò in poco più di un mese.
Al momento della pubblicazione di questa tragedia, Brecht si trovava in Svezia: prima di approdare in California nel 1941, trascorse circa 7 dei suoi 15 anni di esilio nei paesi scandinavi.
Nel riportare in scena la tragedia della guerra dei trent’anni, Brecht non parla esplicitamente di quello che sta succedendo in quei giorni, ma è chiaro che scrive sull’ideologia della guerra, sulle catastrofi e violenze che caratterizzano ogni conflitto armato.
Nella prima metà del XVII secolo, la Germania e gran parte dell’Europa sono sconvolte dalla guerra dei trent’anni e con questo dramma, che esprime attraverso il teatro epico, Brecht lancia un monito ai paesi scandinavi che lo accolgono dal 1934 al 1941: il delirio nazista sta per devastare di nuovo il vecchio continente.
Nel mettere in scena quel lontano e cruento conflitto, il drammaturgo tedesco si rese conto che, a turno, i paesi, che non erano direttamente coinvolti nella guerra, traevano enormi vantaggi economici dai traffici di armi e di altre mercanzie, indispensabili al prosieguo di tutte le normali attività che si compiono durante la vita quotidiana. Il personaggio allegorico di Madre Coraggio, con il suo misero carro, trainato dai propri figli, allude ai paesi collaborazionisti, che riconoscono la condizione dell’autore come rifugiato politico, ma che di fatto gravitano attorno alla Germania di Hitler, concludendo succulenti affari con i gerarchi e i capitalisti che formano i pilastri del regime nazi-fascista.
La figura di Madre coraggio era così mimetizzata all’interno delle crudeltà e atrocità della guerra che gli spettatori degli anni cinquanta del secolo scorno, che parteciparono alla rappresentazione teatrale dell’opera, non videro le sue colpe nel collaborare agli atti distruttivi, al fine di trarne profitto. Del resto, qualcosa del genere accadde nella realtà, durante la guerra scatenata dal regime hitleriano, infatti gli “spettatori” degli eventi storici – puntualizza Brecht – videro solo le pene e le sofferenze della guerra, non il loro collaborazionismo attivo e silente, che forniva a molti di loro vantaggi economici sulla pelle di coloro che si scannavano.
Il testo poetico A coloro che verranno, con il quale si rivolge alle generazioni future, è scritto anche nel 39 e in esso spicca un forte bisogno di trovare una via d’uscita ai tempi bui di Madre Coraggio:
Il mio pane, lo mangiai tra le battaglie.
Per dormire mi stesi in mezzo agli assassini.
Quando il gatto e la volpe (il reclutatore e il maresciallo) ingaggiarono Eilif, il figlio maggiore di Madre Coraggio, la donna non si ribellò così tanto al “destino beffardo”, in quanto con il suo lavoro aveva accettato l’idea che se dalla guerra voleva campare, qualcosa bisognava pur dare.
Al seguito dei reggimenti svedesi, Madre Coraggio, nel 1625, nella fortezza di Wallhof, in Lettonia, ebbe la fortuna di rivedere Eilif, prima che entrasse nel tunnel della morte, nella tenda del comandante, il quale lo stava idolatrando per il suo eroismo.
Anna Ferling manifestò tutto il suo disappunto verso questi atteggiamenti, sostenendo che l’eroismo non era una virtù e spingendosi nell’affermazione che in un paese normale non c’era bisogno di uomini e donne virtuosi, «tutti possono essere gente qualsiasi, d’intelligenza media». (3)
Brecht in Vita di Galilei riprende il concetto che considera sventurata la terra che ha bisogno di eroi
come canta Tina Turner: «We don’t need another hero!».
Madre Coraggio non vende solo la biancheria, il vino, la grappa, il pane, le fibbie, le scarpe, la carne, eccetera, ai reggimenti, negozia anche le munizioni per gli archibugi e in particolare impone i suoi prezzi, approfittando dalla penuria di beni e dei bisogni insoddisfatti dei soldati; sa che i soldati con le pance vuote si rifiutano di combattere, così come sa che gli ufficiali corrotti fino al midollo rubano le paghe dei loro soldati, per ubriacarsi e spassarsela con le mignotte.
Brecht rappresenta la guerra come fenomeno sociale, come scontro di interessi, non riesce a condividere l’idea che i mali siano sufficienti per fare del malato un medico.
Egli non cade nella tentazione di esprimere il pensiero romantico dell’anticapitalismo, ma cerca di rimanere aderente alla « marxistica consapevolezza che soggetto e società vivono in un’antitesi permanente, in una dialettica in cui l’interesse di chi sta in alto vanifica gli appetiti e la stessa volontà di sopravvivenza di chi sta in basso». (4)
In questo contesto di guerra, Madre Coraggio non esita a dire: «Per noialtri gente comune vincere o perdere ci costa caro lo stesso!».
Coloro che si abbeverano nella fonte avvelenata del lucro continuano a portare avanti i loro affari, cambiano gli attori e le modalità diventano più rischiose.
Non c’è spazio per le ragioni del cuore, che affogano sotto il diktat della dura sopravvivenza.
Nel conflitto dei trent’anni – osserva Brecht – vale il principio che “la guerra nutre la guerra”, nel senso che una volta che la miccia delle differenze tra cattolici e protestanti viene accesa, la guerra inizia a camminare con le proprie gambe e nel “momento di marciare, molti non sanno che nella loro testa marcia il nemico”.
Il cappellano, rivolgendosi alla vivandiera, che ha paura che la guerra finisca e quindi vive nell’incertezza se debba continuare a comprare le mercanzie, per poi rivenderle, afferma: «La guerra trova sempre una via d’uscita! Perché dovrebbe finire? Essa va incontro a tutte le esigenze pacifiche, altrimenti non potrebbe continuare!».
Il cappellano prosegue il suo discorso, per rassicurare Anna Ferling: «Non è forse possibile farsi una birretta tra una battaglia e l’altra? Chi t’impedisce di defecare o di moltiplicare la specie dietro a un granaio?».
Ci vuole proprio coraggio a vivere in una simile prospettiva! Quel coraggio che Brecht trova nella povera gente, che se ne infischia delle dispute tra protestanti e cattolici, ma che si sente perduta, perché ha perso braccia robuste per la coltivazione dei campi o si è vista distruggere la casa da una palla di cannone.
In tempi di guerra, ce ne vuole di coraggio, quando la mattina ti devi svegliare e devi andare ad arare i campi.
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1) Leo Essen, Con gli analfabeti non si può fare la guerra, 14-02-2021, https://contropiano.org
2) Bertolt Brecht, Madre Courage e i suoi figli, Einaudi 2016, p. 7.
3) Ibidem, p. 43.
4) Ibidem, p. XII.