platone aristotele e marx

I

Agli occhi degli economisti del XVIII secolo gli individui indipendenti della moderna società borghese appaiono come un ideale la cui esistenza appartiene al passato. Non come un risultato storico, dice Marx (Introduzione del 57), ma come il punto di partenza della storia. Il lavoratore indipendente conforme a natura non è infatti, secondo la concezione della natura umana degli economisti, originato storicamente, ma posto dalla natura stessa. Quanto più risaliamo indietro nella storia, dice Marx, tanto più l’individuo – e quindi anche l’individuo che produce – ci appare non autonomo. La produzione ad opera dell’individuo isolato è un non senso. Allo stesso modo è mitologico pensare che l’origine dell’idea di Economico sia spuntata in testa bella e fatta e sia stata poi applicata.
A questo punto, dice Marx, poiché ogni periodo storico è
una singolarità diversa da tutte le altre, sarebbe impossibile parlare, in riferimento a periodi diversi, di Economico, di Lavoro, eccetera, perché nel tempo l’attimo scorre e non si fissa in niente.
In ogni caso, continua Marx, tutte le epoche hanno certi caratteri in comune, certe determinazioni comuni. La
produzione in generale – ad esempio – è un’astrazione che ha un senso, in quanto mette effettivamente in rilievo l’elemento comune, lo fissa e ci risparmia una ripetizione. Allo stesso modo il lavoro in generale.
In quanto generalità, dice Marx, il lavoro è una categoria antichissima.
D’altra parte, dice, questa astrazione del lavoro in generale non è soltanto il risultato mentale di una concreta totalità di lavori. L’indifferenza verso un lavoro determinato corrisponde a una forma di società in cui il genere determinato del lavoro è fortuito e quindi indifferente. Il lavoro qui è divenuto non solo nella categoria, ma anche nella realtà, il mezzo per creare in generale la ricchezza, ed esso ha cessato di concrescere con l’individuo come sua destinazione particolare. Un tale stato di cose è sviluppato al massimo nella forma d’esistenza più moderna delle società borghesi, gli Stati Uniti. Qui, dunque, dice Marx, l’astrazione della categoria «lavoro», il «lavoro in generale», il lavoro sans phrase, che è il punto di partenza dell’economia moderna, diviene per la prima volta praticamente vera. Così l’astrazione più semplice che l’economia moderna pone al vertice e che esprime una relazione antichissima e valida per tutte le forme di società, appare tuttavia praticamente vera in questa astrazione solo come categoria della società moderna.

II

Una concezione della verità come quella appena esposta da Marx deve suonare strana alle nostre orecchie.
Siamo abituati a considerare la verità come c
orrispondenza con regole, formule, leggi appartenenti al pensiero, espresse in principi. Oppure siamo abituati a considerarla come corrispondenza a fatti, come correttezza tra ciò che si pensa e la realtà dei fatti esperiti.
In generale, consideriamo vero ciò che è corretto.
Per ottenere il vero nel senso del retto e del corretto l’uomo dev’essere certo e sicuro dell’uso retto delle facoltà cognitive. L’essenza della verità, dice Heidegger, si determina in base a questa sicurezza e certezza. Il vero diviene ciò che è assicurato e certo. Il verum diviene certum (Heidegger, Parmenide). La questione della verità, dice, si trasforma nella questione di come l’uomo possa essere certo e sicuro sia dell’ente che egli stesso è, sia dell’ente che egli stesso non è.
Da una parte, la questione della verità viene appaltata alla psicologia, e, dall’altra, alla scienza sperimentale.
Tale per cui il non-vero è il falso nel senso dell’erroneo, cioè dell’uso non retto della ragione.
P
er Marx la verità è di tutt’altro genere. La verità è ciò che diviene. La verità non è l’adeguazione tra pensiero e fatti sperimentali, la verità non si sperimenta, non si testa, non si prova. La verità accade, si produce. C’è una verità del lavoro che coincide esattamente con il lavoro della verità.
Nella Sez. I, cap. I, §3 del
Capitale Marx tratta la Forma di equivalente della merce. E anche qui si imbatte nella stessa situazione. Se un genere di merci, per esempio gli abiti, serve da equivalente a un altro genere di merci, per esempio la tela, e perciò gli abiti ricevono la proprietà caratteristica di trovarsi in forma immediatamente scambiabile con tela, con questo, dice, non è data in alcun modo la proporzione in cui abiti e tela sono scambiabili. Se si decide di scambiare abiti con tela, rimane ancora da trovare un metro di misura per stabilire l’esatta proporzione.
Quale può essere questo metro di misura?
Il primo a trattare questo tema, dice Marx, è stato Aristotele (
Etica Nicomachea).
Lo scambio, scrive Aristotele, non può esistere senza l’eguaglianza. E l’eguaglianza non può esistere senza la commensurabilità. Ma affinché due grandezze siano commensurabili devono ammettono una comune unità di misura. Qui però, dice Marx, Aristotele si ferma perplesso, e rinuncia ad analizzare ulteriormente la forma valore. «È impossibile in verità – scrive Aristotele – che cose di genere tanto diverso siano commensurabili», cioè qualitativamente eguali.
Aristotele, dice Marx (nota 1 al cap II di
Critica…), non si nasconde che queste cose differenti sono grandezze assolutamente incommensurabili.
Quello che
Aristotele cerca è l’unità di misura delle merci in quanto valori di scambio. Misura che, dice Marx, da greco antico, Aristotele non può trovare. Solo facendo diventare commensurabile mediante il denaro ciò che di per sé è incommensurabile Aristotele si toglie dall’imbarazzo. E ciò avviene nella misura necessaria a soddisfare bisogni pratici. Si accontenta di questo ripiego, anche se sapeva bene che il valore di scambio delle merci è presupposto dai prezzi delle merci. Che vi fosse lo scambio prima che esistesse il denaro – si legge nell’Etica Nicomacheaè cosa evidente; infatti non fa alcuna differenza che 5 giacigli valgano una casa o tanto denaro quanto ne valgano 5 giacigli.
È impossibile che cose diverse siano commensurabili. Questa è la conclusione di Aristotele.
Dunque, dice Marx, è lo stesso Aristotele a spiegarci contro quale scoglio naufraghi lo sviluppo ulteriore della sua analisi: l’insufficienza del concetto di valore.
Che cos’è l’eguale, cioè la sostanza comune, che nell’espressione di valore del letto la casa rappresenta per il letto?
Una tale sostanza «in verità non può esistere», dice Aristotele.
Aristotele, dice Marx, non riesce a vedere che questo elemento comune è il lavoro umano. Il fatto che, nella forma dei valori delle merci, tutti i lavori sono espressi come eguale lavoro umano e perciò come equivalenti, Aristotele non poteva leggerlo nella stessa forma valore perché la società greca poggiava sul lavoro servile, quindi aveva come base naturale l’ineguaglianza degli uomini e delle loro forze lavoro. L’arcano dell’espressione di valore, l’eguaglianza ed eguale validità di tutti i lavori perché ed in quanto lavoro umano in generale, può essere decifrato solo quando il concetto dell’eguaglianza umana possieda già la consistenza e la tenacia di un pregiudizio popolare. Ma ciò è possibile, dice Marx, unicamente in una società in cui la forma merce è la forma generale del prodotto del lavoro, e quindi anche il rapporto reciproco fra gli uomini come possessori di merci è il rapporto sociale dominante. Il genio di Aristotele brilla appunto in ciò, che egli scopre un rapporto di eguaglianza nell’espressione di valore delle merci. Solo il limite storico della società in cui viveva, dice, gli impedisce di scoprire in che cosa mai consista, «in verità», questo rapporto di eguaglianza.
Aristotele scopre il rapporto di uguaglianza in cui le merci sono poste l’una di fronte all’altra come commensurabili, ed effettivamente le misura servendosi del denaro, ma non riesc
e a scoprire la natura della sostanza comune, perché questa sostanza – che a questo punto non è più una sostanza – deve diventare vera, deve avverarsi, e non può che avverarsi nella storia.

III

A diciannove anni Marx lesse e tradusse parzialmente la Retorica, poi l’interesse per Aristotele si spense, per riaccendersi verso il 1857, quando Engels gli propose di scrivere alcuni articoli su Aristotele e Epicuro per la New American Cyclopaedia di Charles Anderson Dana. A questo periodo (1858) risalgono un quaderno che contiene estratti dell’Etica Nicomachea e della Politica, redatto a Londra, e un quaderno redatto nel 1860 (o nel 1862). Si tratta di quaderni di estratti compilati nella biblioteca del British Museum, oggi posseduti in gran parte dalla biblioteca dell’Internationaal Instituut voor Sociale Geschiedenis di Amsterdam (Carlo Natali, K. Marx lettore della Politica e dell’Etica Nicomachea).
Aristotele è servito a Marx per risolvere il problema del cominciamento.
Come iniziare?
Questa domanda può apparire ingenua. Eppure, ciò che questo inizio farà accadere – oggi lo sappiamo – sarà il marxismo stesso.
In più, questo inizio farà accadere il sistema – Das Kapital.
P
erché l’inizio è così importante?
Per un conoscitore della filosofia hegeliana, scrive Natali (Aristotele in Marx), il problema dell’inizio non è una cosa indifferente. L’esposizione del sistema della scienza non può cominciare a caso, o da un punto qualsiasi. Come per Hegel, anche per Marx, il problema dell’inizio è oggetto di discussione: il cominciamento stesso deve essere un immediato, che non presupponga altro da se stesso, e che insieme sia la ragione e il fondamento di tutta la scienza.
Nella
Grande Logica (I, 56, Con che si deve incominciare la scienza?), Hegel dice che il cominciamento deve esseste assoluto o, ciò che in questo caso significa lo stesso, deve essere astratto. Non può presupporre nulla, non può essere mediato da nulla, né avere alcuna ragione d’essere. Astratto qui vuol dire che il cominciamento non può avere nient’altro fuori di sé che lo condizioni. Non sarebbe un cominciamento se non fosse libero, astratto e assoluto (termini che qui sono sinonimi). Se il cominciamento fosse un punto determinato, assunto arbitrariamente (a tiramento), o presupposto a titolo di postulato, di ipotesi, eccetera, postulato e ipotesi che, in seguito ad una messa in prova, potrebbero venire confermati o non confermati; se il cominciamento fosse così mediato, sarebbe già posto innanzi, dice Hegel, e pertanto non sarebbe un cominciamento. Perciò, dice, per entrare nella filosofia non c’è bisogno di alcuna preparazione precedente, di alcun metodo, né di riflessioni né di addentellati offerti da qualcos’altro. L’inizio deve essere semplice. Qui semplice vuol dire non ulteriormente divisibile. L’inizio deve essere astratto. Astratto vuol dire che ci si deve ritirare da ogni contenuto. Astratto non vuol dire, come nel pensiero riflettente, che un elemento viene isolato dal suo insieme e considerato per se stesso. Astratto vuol dire che il sapere si tira indietro da ogni contenuto, lasciandolo a sé, senza determinarlo oltre. Oppure, dice, l’inizio è da considerarsi come quell’unità, nella quale il sapere, al culmine del suo unirsi con l’oggetto, viene a cadere. In quest’unità il sapere sparisce, non lasciando alcuna differenza o determinazione. Si comincia con il nulla, ma da questo nulla qualcosa deve avvenire. Il cominciamento, dice, non è il puro nulla, ma un nulla da cui deve uscire qualcosa. Si comincia con l’essere. Ma che cos’è quest’essere? Non è ciò che sta innanzi, non è la realtà effettiva, non è la natura, non è il mondo, soprattutto non è l’oggetto o la realtà oggettiva, men che meno il soggetto, non sono le cose animate e inanimate, le cose attuali e le cose possibili. Non è niente di tutto ciò preso singolarmente: è il tutto nel suo insieme – l’insieme indistinto. L’insieme dove tutto è niente, dove l’essere coincide con il niente. Ecco perché Hegel dice che si incomincia con il niente. L’essere e il nulla, dice, sono nel cominciamento come diversi; poiché il cominciamento accenna a qualcos’altro; – e un non essere che si riferisce all’essere come a un altro; ciò che comincia non è ancora; va, soltanto, all’essere. Il cominciamento contiene dunque l’essere come quello che si allontana dal non essere, o lo toglie via considerandolo come contrapposto a lui. L’analisi del cominciamento, dice, ci darebbe quindi il concetto dell’unità dell’essere con il non essere, – o in forma riflessa, il concetto dell’unità dell’essere differente e del non essere differente, – oppure quello dell’identità della identità con la non identità. Questo concetto si potrebbe considerare come la prima e più pura (cioè più astratta) definizione dell’Assoluto.
Il perché il cominciamento non può non essere Assoluto, cioè astratto, Hegel lo spiega benissimo nelle righe successive.
Coloro che non sono convinti che si cominci con l’essere, dice Hegel, perché così l’essere passa nel nulla, e da ciò sorge l’imbarazzo per l’unità di essere e nulla, propongono di cominciare con la rappresentazione del cominciamento. Vogliono cominciare con un’idea precisa e chiara del cominciamento, collocando il cominciamento nello spazio e nel tempo, dicendo, per esempio, che tutto è incominciato così e così, che all’inizio le cose erano così e così, e che in seguito le cose sono andate così e così. Questa analisi, dice Hegel, presuppone come nota la rappresentazione del cominciamento. Si tratta del modo ordinario delle scienze positive di rapportarsi al proprio oggetto, ovvero di presupporlo.
Le scienze positive, dice Hegel, presuppongono il loro oggetto, lo assumono come un postulato, del quale tutti devono averne la stessa rappresentazione e vi possono trovare le medesime determinazioni.
Il cominciamento,
così come viene inteso dalle scienze positive, è inteso come un determinato concreto, è già un mediato, un qualcosa di sopraggiunto, di incominciato, e non di incominciante – e propriamente non è un cominciamento.
Ciò con cui si deve cominciare, dice, non può essere un concreto, non può essere un fatto, non può essere qualcosa che contenga in sé una relazione. Il cominciamento non deve essere già esso stesso un prima e un altro. Quello che è in sé un primo e un altro, dice, contiene già un essere andato innanzi. Quello che costituisce il cominciamento – il cominciamento stesso – bisogna prenderlo
come tale che non si possa analizzare, bisogna prenderlo nella sua semplice, non riempita immediatezza, e però come essere, come l’assolutamente vuoto.

IV

Nel II paragrafo dell’Introduzione del 57 Marx si pone esplicitamente questa domanda: con cosa iniziare?
Bisogna iniziare con la produzione, perché è in essa che la materia viene formata? Oppure bisogna iniziare con la distribuzione, perché è con essa che si decide come il singolo partecipa di questi prodotti? Oppure, infine, forse, bisogna cominciare con il consumo, nel quale i prodotti diventano oggetto del godimento?
La
produzione produce gli oggetti corrispondenti ai bisogni; la distribuzione li ripartisce secondo leggi sociali; lo scambio ridistribuisce il già distribuito, secondo il bisogno individuale; nel consumo, infine, il prodotto esce fuori da questo movimento sociale, diviene direttamente oggetto e servitore del bisogno individuale e lo soddisfa nel godimento. A questo modo, la produzione appare come il punto di partenza, il consumo come il punto finale, la distribuzione e lo scambio come il punto medio, punto che è a sua volta duplice, essendo la distribuzione determinata come il momento che procede dalla società, e lo scambio come il momento che procede dagli individui. Nella produzione la persona si oggettiva nel prodotto, l’oggetto si soggettivizza; nella distribuzione la società, sotto forma di disposizioni generali e imperative, si assume la mediazione tra la produzione e il consumo; nello scambio, questi vengono mediati dalla determinazione fortuita dell’individuo.
La distribuzione determina la
proporzione (il quantum) in cui i prodotti toccano all’individuo; lo scambio determina quella produzione in cui l’individuo richiede la parte assegnatagli dalla distribuzione.
Produzione, distribuzione, scambio, consumo, formano così un sillogismo in piena regola; la produzione è il generale; la distribuzione e lo scambio sono il particolare; il consumo è l’individuale in cui il tutto si chiude.
Ora,
dice Marx, questa è certamente una connessione, ma superficiale. Ed è superficiale perché la produzione è consumo, e il consumo è produzione. Ciascuno è immediatamente il suo opposto. Al tempo stesso, tuttavia, tra i due si svolge un movimento mediatore. La produzione media il consumo, di cui crea il materiale e la quale senza di essa mancherebbe l’oggetto. Ma il consumo media a sua volta la produzione, in quanto crea ai prodotti il soggetto per il quale essi sono dei prodotti. Il prodotto riceve il suo finish nel consumo. Una ferrovia sulla quale non si viaggi e che quindi non si logori e non venga consumata, è soltanto una ferrovia δύναμει (in potenza), e non in realtà. Senza produzione non vi è consumo; ma, non vi è nemmeno una produzione senza consumo, giacché a questo modo la produzione sarebbe senza scopo. Il consumo produce la produzione in duplice modo: 1) in quanto solo nel consumo il prodotto diviene un prodotto effettivo. Per esempio, un vestito non diviene realmente un vestito che per l’atto di portarlo; una casa che non è abitata, non è in fact una vera casa; il prodotto, quindi, a differenza del semplice oggetto naturale, si afferma e diviene prodotto solo nel consumo. Dissolvendo il prodotto, il consumo gli dà il finishing stroke (l’ultimo perfezionamento); giacché il prodotto è la produzione non soltanto come attività oggettivata, ma come oggetto per il soggetto attivo. 2) Il consumo produce la produzione in quanto crea il bisogno di una nuova produzione e quindi nel motivo ideale che è lo stimolo interno della produzione; esso crea anche l’oggetto, che esige nella produzione determinandone lo scopo. Se è chiaro che la produzione offre esteriormente l’oggetto del consumo, è perciò altrettanto chiaro che il consumo pone idealmente (ideal setz) l’oggetto della produzione, come immagine interiore, come bisogno, come impulso (trieb) e come scopo. Esso crea gli oggetti della produzione in una forma ancora soggettiva. Senza bisogno non vi è produzione. Ma il consumo produce il bisogno.
A ciò corrisponde da parte della produzione che essa: 1)
fornisce al consumo il materiale, l’oggetto. Un consumo senza oggetto non è un consumo. 2) ma non è soltanto l’oggetto che la produzione fornisce al consumo. Essa dà anche al consumo la sua determinatezza, il suo carattere, il suo finish. Allo stesso modo che il consumo dava al prodotto il suo finish come prodotto, la produzione dà il suo finish al consumo. Innanzitutto, dice Marx, l’oggetto non è un oggetto in generale, ma un oggetto determinato, che deve essere consumato in un modo determinato, in un modo ancora una volta mediato dalla produzione stessa. La fame è la fame, ma la fame che si soddisfa con carne cotta, mangiata con coltello e forchetta, è una fame diversa da quella che divora carne cruda, aiutandosi con mani, unghie e denti. La produzione non produce perciò solo l’oggetto del consumo ma anche il modo di consumo, essa produce non solo oggettivamente ma anche soggettivamente. La produzione crea quindi il consumatore. 3) La produzione fornisce non solo un materiale al bisogno, ma anche un bisogno al materiale. Quando il consumo emerge dalla sua immediatezza e dalla sua prima rozzezza naturale – e l’attardarsi in questa fase sarebbe ancora il risultato di una produzione imprigionata nella rozzezza naturale – esso stesso come impulso è mediato dall’oggetto, e il bisogno di quest’ultimo che esso prova è creato dalla percezione dell’oggetto. La produzione produce quindi il consumo a) creandogli il materiali; b) determinando il modo di consumo; c) producendo come bisogno nel consumatore i prodotti che essa ha originariamente posto come oggetti. Essa produce perciò l’oggetto del consumo, il modo di consumo e l’impulso al consumo. Allo stesso modo, il consumo produce la disposizione del produttore, sollecitandolo in veste di bisogno che determina lo scopo della produzione.
Non solo la produzione fornisce l’oggetto esterno del consumo, il consumo fornisce l’oggetto rappresentato della produzione; ma ciascuno di essi – oltre ad essere immediatamente l’altro e il mediatore dell’altro – realizzandosi cr
ea l’altro, si realizza come l’altro. Il consumo porta a compimento l’atto di produzione, perfezionando il prodotto come prodotto, dissolvendolo, consumando in esso la forma oggettiva, indipendente; facendo maturare e divenire abilità, mediante il bisogno della ripetizione, la disposizione sviluppata nel primo atto di produzione; esso non è quindi l’atto conclusivo in virtù del quale il prodotto diviene prodotto, ma anche l’atto in virtù del quale il produttore diviene produttore.

V

Una ferrovia sulla quale non si viaggi e che quindi non venga consumata, dice Marx, è soltanto una ferrovia in potenza, e non una ferrovia vera. Affinché diventi una vera ferrovia è necessario che la forza, trovando nell’uso la resistenza giusta, raggiunga lo scopo.
Attendere che una cosa diventi vera non significa sottoporla ad una verifica, ad un test, ad una prova o
a un collaudo. L’uso non è il collaudo della ferrovia. Siccome la ferrovia può essere mal formata, allora bisogna sottoporla ad un collaudo per accertarsi che corrisponda ad una vera e propria ferrovia, che i binari siano costruiti ad arte, e che nei cavi sostenuti dai tralicci passi per davvero corrente elettrica. Anche una ferrovia così collaudata può rimanere pur sempre una ferrovia in forza all’azienda che l’ha prodotta o all’azienda che l’ha comprata, senza mai diventare una vera ferrovia, dove transitano treni e vengono trasportati passeggeri. Una ferrovia non utilizzata non è nemmeno capitale morto. È capitale distrutto. È rottame, spazzatura, rifiuto. La verità di una ferrovia costruita e mai utilizzata è il suo esser diventata rifiuto ferroso. Allo stesso modo la verità di un piatto di pasta non gradito è il bidone dell’umido.
In questa prospettiva il concetto di verità intesa come corrispondenza tra realtà ed intelletto è totalmente inutile. La ferrovia non è una cosa lì davanti, pronta per essere colta da uno scienziato, secondo un metodo di indagine, eccetera. La ferrovia non corrisponde ad uno stato delle cose. La ferrovia divine, si trasforma per via delle manipolazioni in cui si innesta.
In secondo luogo, la verità non è nemmeno l’oggetto di un’esperienza possibile. Questa esperienza può pensare se stessa come verità oggettiva, solo pensandosi come un qualcosa fuori da sul rapporto con la fisica, solo a patto di confinare il mondo fisico fuori dall’esperienza.

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Carlo Natali, K. Marx lettore della Politica e dell’Etica Nicomachea -1857-1867, in Rivista Critica di Storia della Filosofia Vol. 38, 1983;
Carlo Natali, Aristotele in Marx – 1837-1846, Rivista critica di storia della filosofia 1976;
M. Heidegger, Parmenide, Adelphi;
Franco Volpi, Heidegger e Aristotele, Laterza.

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