Il romanticismo imperante – Max Weber

Romantico

 

Nel 1917 Max Weber tenne a Monaco due conferenze. La prima – La scienza come professione – riscosse un grande e meritato successo. La guerra non era ancora finita, ma le distruzioni erano sotto gli occhi di tutti. Milioni di persone erano rimaste vittime dei conflitti, resi più micidiali dall’ausilio fornito dalla tecnica e dalla scienza chimica, dalla fisica, dalla tecnologia industriale, dalla produzione in serie di ordigni e macchinari di distruzione di massa. Le domande che già si era posto Tolstoj – Che senso ha tutto ciò? Che senso ha la scienza? Davvero essa sta dalla parte del bene, oppure essa non ha smarrito il suo senso, consegnandosi al demonio? – erano diventate domande che tutti si ponevano, e che ponevano alla scienza. La speranza che essa potesse dire cosa sia il bene, cosa sia il bello, cosa sia il giusto, cosa sia il vero, era una speranza morta nei campi di battaglia.
Era consapevolezza comune nelle università, soprattutto americane che, dice Weber, la vita individuale dell’uomo civilizzato, inserita nel «progresso», nell’infinito, non potesse avere, per il suo senso immanente, alcun termine. Infatti, dice Weber, c’è sempre ancora un progresso ulteriore da compiere dinanzi a chi c’è dentro; nessuno, morendo, è arrivato al culmine, che è posto all’infinito. Abramo o un qualsiasi contadino dei tempi antichi moriva «vecchio e sazio della vita» poiché si trovava nel ciclo organico della vita, poiché la sua vita, anche per quanto riguarda il suo senso, gli aveva portato alla sera del suo giorno ciò che poteva offrirgli, poiché per lui non rimanevano enigmi che desiderasse risolvere ed egli poteva perciò averne «abbastanza». Ma un uomo civilizzato, dice, il quale è inserito nel processo di progressivo arricchimento della civiltà in fatto di idee, di sapere, di problemi, può diventare certamente «stanco della vita», ma non sazio della vita. Di ciò che la vita dello spirito continuamente produce, dice, egli coglie soltanto la minima parte, e sempre soltanto qualcosa di provvisorio, mai di definitivo: perciò la morte è per lui un accadimento privo di senso. E poiché la morte è priva di senso, lo è anche la vita della cultura in quanto tale, che proprio in virtù della sua «progressività» priva di senso imprime alla morte un carattere di assurdità. Ovunque nei suoi ultimi romanzi, quest’idea, dice Weber, costituisce il motivo fondamentale dell’arte di Tolstoj.
Quale posizione possiamo assumere a questo proposito? – chiede Weber. Ha il «progresso» in quanto tale un senso riconoscibile che vada al di là del piano tecnico, in modo che porsi al suo servizio possa diventare una professione fornita di senso? La questione dev’essere posta – dice. Ma non si tratta più soltanto della questione della vocazione alla scienza, cioè del problema: che cosa significa la scienza come professione per colui che si dedica a essa? bensì anche di un altro problema: che cos’è la professione della scienza nella vita complessiva dell’umanità? e qual è il suo valore?
La risposta di Weber è chiara e definitiva.
La scienza non ha alcun senso. Ciò che fa e produce lo fa all’oscuro di ogni finalità, di ogni orizzonte di senso, di ogni ragionevole quadro generale. Ciò che la scienza fa è immotivato, insensato, privo di fondamento, arbitrario – addirittura scellerato. Il fatto vero è che la scienza non può più pretendere, come al tempo dell’illuminismo, di presentare il bene come valido per tutti in ogni circostanza e in ogni luogo e tempo, e non può farlo nemmeno per il bello, e, soprattutto, non può farlo per il vero.
L’illuminismo credeva nella verità come necessità, ovvero credeva nella verità che afferma che le cose stanno cosi e così e per tutti, e che non può essere altrimenti, che non è possibile che una cosa sia diversamente da quello che è.
Per l’illuminismo la verità era assoluta, senza limiti, valida per sempre e per tutti. Non erano ammissibili verità relative a chi le esprime e a dove le esprime, non erano ammissibili verità, per così dire, storiche.
La verità assoluta degli illuminista era stata distrutta dai romantici. Hamann, Herder, i fratelli Schlegel, Novalis, Schiller, avevano revocato ogni sua pretesa di universalità. Ognuno ha le proprie ragioni, dicevano i romantici, ognuno è preso in una catena unica di condizioni che estendendo all’infinito la possibilità di abbracciare pienamente e fissare il condizionato. Pertanto, il condizionato, il finito, è sempre un passo indietro rispetto al suo destino, il quale, pertanto, non può essere colto in modo assoluto.
Dati questi presupposti romantici, si chiede Weber, qual è il senso della scienza? Qual è il suo senso dal momento che tutte le illusioni precedenti – «la via al vero essere», «la via alla vera arte», «la via alla vera natura», «la via al vero Dio», «la via alla vera felicità» – sono naufragate? La risposta più semplice, dice, l’ha data Tolstoj con queste parole: «La scienza è priva di senso perché non dà alcuna risposta alla sola domanda importante per noi: che cosa dobbiamo fare? come dobbiamo vivere?». Il fatto che essa non dia questa risposta, dice Weber, è assolutamente incontestabile.
In ogni lavoro scientifico, dice, si presuppone sempre la validità delle regole della logica e della metodologia. Ma questi presupposti, dice, sono per lo meno problematici. Essi non possono essere a loro volta dimostrati con i mezzi della scienza.
Le scienze naturali, come per esempio la fisica, la chimica, l’astronomia, presuppongono come ovvio il fatto che, dice Weber, le leggi ultime dell’accadere cosmico siano degne di essere conosciute. Non soltanto perché con queste nozioni si possono raggiungere successi tecnici, ma «per se stesse». Questo presupposto, dice, non è però assolutamente dimostrabile; e meno che mai si può dimostrare se il mondo che esse descrivono sia degno di esistere, se cioè abbia un «senso», e se abbia un senso esistere in esso. Questo esse non se lo chiedono.
Prendete un’arte pratica così sviluppata scientificamente come la medicina moderna – dice. Il «presupposto» generale dell’esercizio della medicina è – in parole povere – che si attribuisca valore positivo al compito della conservazione della vita in quanto tale e della riduzione al minimo della sofferenza in quanto tale. E ciò è problematico. Il medico, dice, cerca con i suoi mezzi di conservare la vita al moribondo, anche quando questi implora di essere liberato dalla vita, anche quando i parenti, per i quali questa vita è priva di valore, che gli augurano la liberazione dalla sofferenza e a cui gli oneri per conservare questa vita priva di valore sono divenuti insopportabili desidererebbero o dovrebbero desiderare, volenti o nolenti, la sua morte. Soltanto i presupposti della medicina e il codice penale, dice, impediscono al medico di desistere. Se la vita sia degna di esser vissuta, e quando, la medicina non se lo chiede.
Tutte le scienze naturali, dice Weber, ci danno una risposta alla domanda: che cosa dobbiamo fare se vogliamo dominare tecnicamente la vita? Se però dobbiamo e vogliamo dominarla tecnicamente, e se ciò abbia, in ultima analisi, propriamente senso, esse lo lasciano del tutto da parte, oppure lo presuppongono per i loro scopi.
Prendiamo la giurisprudenza – dice: essa stabilisce ciò che è valido secondo le regole del pensiero giuridico, in parte logicamente cogente e in parte legato a schemi convenzionali; vale a dire, stabilisce se determinate regole giuridiche e determinati metodi di interpretazione sono riconosciuti come vincolanti. Non risponde alla domanda se debba esservi il diritto e se si debbano stabilire proprio quelle regole; essa può indicare soltanto che, se si vuol ottenere un risultato, questa regola giuridica costituisce, secondo le norme del nostro pensiero giuridico, il mezzo appropriato per conseguirlo. O prendete le scienze storiche della cultura – dice. Esse ci insegnano a comprendere i fenomeni della cultura – politici, artistici, letterari e sociali – in base alle condizioni del loro sorgere. Ma, dice, non offrono di per sé una risposta alla questione se questi fenomeni culturali fossero e siano degni di sussistere; e neppure rispondono all’altra questione se valga la pena conoscerli. Esse presuppongono che abbia un interesse partecipare, mediante tale procedimento, alla comunità degli «uomini civilizzati». Ma che così stiano le cose, esse non sono in grado di dimostrarlo «scientificamente» a nessuno, e che esse lo presuppongano non dimostra affatto che ciò sia ovvio. E infatti, dice, non lo è per nulla.

II

Come si arriva a questo disincanto? Come si arriva a non credere più nelle verità universali e necessarie, eterne? Come si arriva alla considerazione sconsolata che non c’è più nulla che limiti o condanni l’assassinio, la violenza, la frode e le peggiori bassezze? Che non c’è nessun freno, e che, come nei Fratelli Karamazov, non c’è più nulla che fermi la mano omicida o suicida?
A partire dal 1780 il romanticismo tedesco si abbatte sull’illuminismo francese devastandolo. La tradizione razionalistica, seconda la quale esiste una natura delle cose che bisogna studiare, che bisogna capire, che bisogna conoscere, e a cui gli uomini debbono adattarsi se non vogliono correre il rischio di autodistruggersi o di rendersi ridicoli, viene demolita.
Per i romantici l’uomo abbraccia i valori che abbraccia, e se occorre muore eroicamente per difenderli. Per i romantici, per Herder, per Hamann, si possono capire altri esseri umani soltanto nel contesto di un ambiente che sarà molto diverso dal nostro. L’idea dell’uomo cosmopolita, ossia di un uomo che si sente egualmente a casa sua a Parigi, o a Copenaghen, o in Islanda, o in India, gli riesce repellente. Un uomo appartiene al luogo in cui vive, gli uomini hanno radici, essi possono creare soltanto all’interno dei simboli in cui sono stati allevati, e ciascuno è stato allevato entro una società chiusa che ha parlato a lui in una maniera assolutamente peculiare, unica. Ogni situazione o ogni tempo ha le sue verità. La verità è contingente e storica. Ogni persona ha le sue sacrosante ragioni e verità che differiscono da quelle degli altri.
Ma una ragione che non è più assoluta, che qui vale, ma non vale più là, che vale oggi, ma non vale più domani, sconfina nell’irrazionalismo.
Weber è più che consapevole del rischio di un tale relativismo. Eppure, non può nascondersi che un commerciante o un grande industriale privo di «fantasia negli affari», cioè senza idee, senza idee geniali, è per tutta la vita soltanto qualcuno che rimane, nel migliore dei casi, un commesso o un impiegato tecnico: non produrrà mai innovazioni organizzative. Come non può nascondersi che nel campo della scienza l’ispirazione non ha affatto un ruolo maggiore che nel campo dei problemi della vita pratica che un imprenditore moderno deve affrontare. E d’altra parte non ha un ruolo minore – cosa che viene anch’essa sovente misconosciuta – che nel campo dell’arte. È un’opinione puerile ritenere che a tavolino, munito di un regolo o di altri mezzi meccanici o di macchine calcolatrici, il matematico giunga a qualche risultato scientificamente valido. La fantasia matematica di un Weierstraß, dice, è naturalmente orientata in modo del tutto diverso, nel suo senso e nel suo risultato, dalla fantasia di un artista, e anche sotto il profilo qualitativo è fondamentalmente differente da essa. Non però per quanto riguarda il procedimento psicologico. L’una e l’altra sono ebbrezza e «ispirazione».
L’assimilazione della scienza all’arte non si ferma al livello esteriore dell’ebrezza o dell’impulso creativo. Allo stesso modo che per i romantici non c’è distinzione tra arte e vita, anche per la scienza non c’è distinzione tra verità e vita.
Ogni vita è diversa da tutte le altre. Dunque, ogni scienza professata da ogni singolo scienziato è un capitolo a sé. Ci sono tante verità quanti sono gli scienziati che le professano. Questo argomento è pienamente romantico. E se oggi il racconto sfonda con la forza bruta del martellamento, e gli scienziati diventano opinionisti, lo dobbiamo appunto a questa riduzione dell’episteme alla doxa.
Per il romanticismo di Jena, per Schlegel, non c’è separazione tra arte e vita. L’arte non è una tecnica o un metodo per riprodurre o rappresentare o interpretare il mondo. Il mondo non è un oggetto colto da uno speciale punto di vista – il punto di vista artistico. Per i romantici di Jena l’arte non ha un oggetto. L’artista non sta di fronte all’oggetto come vi sta il razionalista illuminista. L’arte non è una scienza positiva, e non lo è proprio in quanto non ha davanti a sé, posto (positum), il suo oggetto. Tutto ciò che è, tutto ciò che possiamo definire, in modo sommario, il cosmo, la natura, non si dà come un ente nel quale introdursi. Il Cosmo non è disponibile. Non è posto. Il romantico non è l’artista che si introduce in un mondo, un mondo oscuro, impenetrabile, misterioso, eccetera, ma pur sempre un mondo posto davanti ai suoi occhi, disponibile in quanto conoscibile. Il romantico non ha difronte a sé nessun mondo da esplorare. Il romantico è già presso le cose.
Nei Frammenti critici (70) Schlegel dice che tutta l’arte deve diventare scienza, e tutta la scienza deve diventare arte; poesia e filosofia devono essere unificate. L’arte e la scienza, la scienza e la vita, non sono l’una fuori dall’altra. Non sono generi diversi, o stili diversi di un supposto sapere umano che li porrebbe come forme nelle quali racchiudere il suo contenuto umano. Non c’è nessuna forma, nessun genere, nessun metodo che preceda l’umano, e non c’è alcun umano al di fuori di una forma. Forma e contenuto sono l’uno il riflesso dell’altro, sono l’una nell’altro.
Nei Frammenti dell’Athenaeum (98) Schlegel dice che la poesia romantica è una poesia universale progressiva. Il suo scopo non è solo quello di unificare nuovamente tutti i generi separati della poesia e di porre in contatto la poesia con la filosofia e la retorica. Essa vuole, e deve anche, mescolare e fondere poesia e prosa, genialità e critica, poesia d’arte e poesia della natura, rendere la poesia vivente e sociale e la vita e la società poetiche, poetizzare l’arguzia e riempire e saturare le forme d’arte con la più pura materia culturale d’ogni specie e animarle con gli slanci dello humor. Altri generi poetici sono finiti e possono adesso venire analizzati completamente. Il genere poetico romantico è ancora in divenire; anzi questa è la sua essenza peculiare, che può soltanto eternamente divenire e mai essere compiuto. Esso non può essere esaurito da alcuna teoria, e solo una critica divinatoria potrà osare di voler caratterizzare il suo ideale. Esso solo è infinito, dice Schlegel, così come esso solo è libero e riconosce come sua prima legge che l’arbitrio del poeta non tollera alcuna legge. Il genere poetico romantico è l’unico a essere più di un genere e, per così dire, a essere la poesia stessa: poiché in un certo senso tutta la poesia è o deve essere romantica.

III

Weber non può ignorare la lezione del romanticismo. Se la vita è un’opera d’arte, allora la scienza è un’impresa artistica, è un’avventura unica che produce un risultato unico.
Il romanticismo realizza un ribaltamento che Weber accoglie pienamente. La scienza non è fatta per comprendere, ma per prendere posizione. Il difetto principale del razionalismo (se vogliamo parafrasare le tesi su Feuerbach), il suo difetto è che l’oggetto (Gegenstand, ciò che sta di fronte) è concepito solo sotto la forma dell’obietto (Objekt, ciò che è proiettato fuori dal soggetto) e non come attività umana, come prassi. È nella pratica che l’uomo deve dimostrare la verità e il carattere immanente del suo pensiero. La disputa sulla realtà e non realtà di un pensiero isolato dalla prassi è una questione medievale, scolastica, è una questione razionalista, metafisica e teologica. La scienza razionalista interpreta il mondo. La scienza romantica, mentre cerca di comprenderlo, lo trasforma.
Nel campo scientifico, dice Weber, conta soltanto la personalità, conta chi si pone puramente al servizio della causa. E ciò non soltanto in campo scientifico. Non conosciamo alcun grande artista che abbia fatto altro all’infuori di porsi al servizio della propria causa, e di questa soltanto.
Nella scienza, dice Weber, bisogna, come Goethe, fare della propria vita un’opera d’arte.
Il lavoro scientifico, dice Weber, è inserito nel corso del progresso. Ognuno di noi sa che ciò che lo scienziato ha fatto sarà invecchiato dopo dieci, venti, cinquant’anni. Questo è il destino, anzi, questo è il senso del lavoro della scienza, al quale esso è sottoposto ed esposto in un modo del tutto specifico rispetto a tutti gli altri elementi della cultura per i quali pur vale la stessa cosa: ogni «riuscita» scientifica comporta nuove «questioni» e vuole essere «superata» e invecchiare. A ciò deve rassegnarsi chiunque voglia servire la scienza.
Alcuni lavori scientifici, dice, possono conservare durevolmente la loro importanza come «mezzi di godimento» a causa della loro qualità artistica, oppure come mezzo di formazione. Ma essere superati scientificamente – è bene ripeterlo – è non soltanto il destino di noi tutti, ma anche il nostro scopo. Non possiamo lavorare senza sperare che altri procedano più avanti di noi. In linea di principio, questo progresso tende all’infinito.
E con ciò, dice Weber, perveniamo al problema del senso della scienza. Infatti non è per nulla ovvio che qualcosa che è sottoposto a una legge siffatta possa avere in sé un senso e una ragione. Perché mai ci si dà da fare intorno a ciò che, nella realtà, non giunge e non può mai giungere alla fine?
Ebbene, dice, anzitutto per scopi puramente pratici, cioè per scopi tecnici nel senso più ampio della parola: per poter orientare il nostro agire pratico in base alle aspettative che l’esperienza scientifica ci indica. Bene. Ma questo significa qualcosa solo per l’uomo pratico.
Lo scienziato, dice, afferma di esercitare la scienza «per amore della scienza» e non soltanto perché altri possano in tal modo conseguire successi di carattere economico o tecnico, perché possano nutrirsi, vestirsi, illuminare, governare meglio. Ma quale lavoro fornito di senso egli crede dunque di compiere con queste creazioni sempre destinate a invecchiare, lasciandosi incanalare in questa attività, divisa in settori, che procede all’infinito?
Il progresso scientifico, dice Weber, è una frazione, la frazione più importante, di quel processo di razionalizzazione al quale sottostiamo da secoli e contro il quale oggi di solito si assume posizione in una maniera così straordinariamente negativa. Rendiamoci conto, in primo luogo, di ciò che propriamente significa, dal punto di vista pratico, questa razionalizzazione intellettualistica a opera della scienza e della tecnica orientata scientificamente. Vuole forse significare che oggi noi altri abbiamo una conoscenza delle condizioni di vita nelle quali esistiamo maggiore di quella di un Indiano o di un Ottentotto? Ben difficilmente.
Chiunque di noi viaggi in tram, dice Weber, non ha la minima idea – a meno che non sia un fisico di professione – di come esso fa a mettersi in movimento; e neppure ha bisogno di saperlo. Gli basta di poter «fare assegnamento» sul modo di comportarsi della vettura tranviaria, ed egli orienta il suo comportamento in base a esso; ma non sa nulla di come si faccia per costruire un tram capace di mettersi in moto.
Al contrario, dice Weber, il selvaggio ha una conoscenza incomparabilmente migliore dei propri utensili. Se oggi spendiamo del denaro, dice, scommetto che, perfino se vi sono colleghi economisti qui presenti, quasi ognuno avrà pronta una risposta diversa alla domanda: come il denaro fa sì che con esso si possa comperare qualcosa – ora molto, ora poco? Il selvaggio, dice, sa in quale modo riesca a procurarsi il suo nutrimento quotidiano e quali istituzioni gli servano a tale scopo.

IV

Il processo di razionalizzazione e disincanto, tipico della scienza, ha delle radici che vanno oltre il romanticismo. Il mondo della scienza, dice Weber, è un insieme di astrazioni artificiali che cercano di cogliere il sangue e la linfa della vita reale, senza però mai riuscirci. Qui, nella vita, pulsa la vera realtà: tutto il resto sono fantasmi tratti da essa e privi di vita, e nient’altro. Come si è compiuta una tale svolta? – chiede Weber.
I Greci, Platone e Aristotele, si dotarono di uno strumento con il quale si poteva costringere chiunque nella morsa della logica, in modo da non lasciarlo uscire senza ammettere o di non saper nulla o che questa e non altra è la verità, l’eterna verità, che non può mai perire come invece passano l’agire e l’indaffararsi degli uomini ciechi. Se solo si fosse trovato l’esatto concetto del bello, del buono, o anche del coraggio, dell’anima, e via dicendo, si sarebbe potuto cogliere anche il suo vero essere, e ciò sembrava di nuovo aprire la via per sapere e per insegnare come agire correttamente nella vita, soprattutto come cittadino.
Accanto a questa scoperta dello spirito greco si presentava timidamente, e poi prepotentemente nell’età del Rinascimento, il secondo grande strumento del lavoro scientifico, l’esperimento razionale, come mezzo di un’esperienza controllata in maniera affidabile, senza il quale la scienza empirica moderna sarebbe impossibile. Gli aprirono la strada i grandi innovatori nel campo dell’arte – dice Weber: Leonardo e i suoi pari, e in modo caratteristico soprattutto gli sperimentatori nella musica del Cinquecento con i loro clavicembali sperimentali. Da questi, l’esperimento passò nella scienza, soprattutto a opera di Galilei, e nella teoria a opera di Bacone; in seguito lo adottarono le scienze esatte nelle università del continente, in primo luogo in Italia e in Olanda.
E oggi? – si chiede Weber. Chi crede oggi ancora – all’infuori di alcuni grandi fanciulli, quali si possono trovare proprio nelle scienze della natura – che le conoscenze dell’astronomia o della biologia o della fisica o della chimica possano insegnarci qualcosa sul senso del mondo, o anche soltanto sulla via per la quale si possa rintracciare un tale «senso», dato che ce ne sia uno? Esse, dice, sono semmai adatte a soffocare alla radice la fede che vi sia qualcosa come un «senso» del mondo.

V

In tutta questa brillante discussione Weber non ha mai tematizzato il suo riferimento a due (o tre) tipi di scienza e a due tipi di infinito. Ha cercato di tenerli sempre debitamente distinti.
Da una parte Weber ha posto la scienza sperimentale, che non è la scienza contestata dai romantici. Dall’altra parte ha posto la scienza classica, quella contestata appunto dai romantici. La prima sarebbe la scienza sperimentatale, affermatasi definitivamente con il Rinascimento, e solidale con il romanticismo. La seconda sarebbe la scienza di impostazione illuminista e razionalista. Ma le cose non sono così semplici. E le due scienze non possono essere mantenute una di fronte all’altra, come pensa Weber.
Nelle lezioni tenute a Friburgo nel semestre invernale 1930-31 sulla Fenomenologia dello spirito, Heidegger dice che il senso dell’opera di Hegel è chiarito dal titolo completo dell’opera, che è Sistema della Scienza.
Che cosa significa Scienza per Hegel?
Preliminarmente, Heidegger chiarisce che con «la scienza» Hegel intente il sapere più alto e autentico. Questa dottrina, che si trova anche in Ficthe, non si occupa delle scienze – non è né una «logica» né una «teoria della scienza» – ma si occupa della scienza. Quindi non di una scienza particolare e nemmeno delle condizioni che rendono possibili le scienze particolari, ma si occupa della filosofia in quanto sapere assoluto.
Perché, chiede Heidegger, la filosofia viene chiamata «
la scienza»?
L’abitudine ci rende inclini a credere, dice Heidegger, che la filosofia
assicura alle scienze esistenti o possibili i fondamenti, cioè la delimitazione e la possibilità dei loro ambiti – ad esempio storia e natura. La storiografia si occuperebbe di un oggetto – la storia – garantito dalla filosofia, la scienza fisica si occuperebbe di un oggetto – la natura – garantito sempre dalla filosofia. In più, la filosofia garantirebbe la fondazione delle loro procedure, del loro metodo. In quanto la filosofia si farebbe garante del fondamento delle scienze positive, allora solo essa sarebbe scienza in senso alto.
Questa concezione della filosofia come Scienza delle scienze, dice Heidegger, è viva sin dai tempi di Cartesio. Essa ha condizionato i tempi successivi, e ha pure cercato una giustificazione retrospettiva nella filosofia antica. Questa concezione della filosofia, dice, acquista una forma positiva, radicale e autonoma solo con Husserl.
Tuttavia, dice Heidegger, tutto questo processo, che da Cartesio porta a Husserl, non ci aiuta a capire come mai per l’idealismo tedesco la filosofia è
la scienza. Per Fichte e Schelling, e in modo particolare per Hegel, la filosofia non costituisce la scienza per il fatto che deve avere luogo la giustificazione ultima delle scienze e di ogni sapere; ma, dice, piuttosto perché, per un impulso più radicale di quello della fondazione del sapere, è necessario oltrepassare il sapere finito nell’acquisizione del sapere infinito.
La scienza di cui parla l’idealismo tedesco, e in particolare Hegel, non ha nulla a che fare né con le scienze positive, né con una super scienza ad esse connessa,
e non vi ha niente a che fare per il fatto che la scienza, a differenze delle scienze positive, ha la pretesa di cogliere l’infinito.
Mentre le scienze positive, come ha
evidenziato Weber, hanno rinunciato a cogliere l’infinito, e si barcamenano in un indefinito pregressismo, dove non c’è più alcuna ragione che permette di distinguere il vero dal falso, il bene dal male, il bello dal brutto, è tutto si riduce ad un mero funzionalismo, dove è buono o vero o bello solo ciò che funziona, che si adatta, che si presta, la scienza di Hegel si distingue per la sua aspirazione a cogliere proprio l’infinito.
Come già si comincia a intuire,
vi sono due infiniti. L’infinito del progressismo, che Hegel chiama cattivo infinito, e l’infinito buono, cui aspira la scienza di Hegel.
Nella Grande Logica, Hegel parla di cattivo infinito a proposito, per esempio, dell’infinito numerabile. I numeri contano fino all’infinito. Ma raggiunto l’infinito, all’infinito si può aggiungere sempre un altro numero e superarlo con un nuovo infinito. Ma così, anche a questo nuovo infinito, può essere aggiunto un altro numero e superarlo a sua volta. In questo senso, dice Hegel, l’infinito posto è cattivo, non è genuino, non è vero, perché appena posto, si presenta, al suo posto, un nuovo e più vero infinito, che a sua volta si dimostra un cattivo infinito. All’infinito resta di contro il finito quale un esserci, ovvero una realtà effettiva. Sono quindi due determinatezze, si danno due mondi, un mondo finito e un mondo infinito. Questa cattiva infinità, dice Hegel, è la negazione del finito ma non riesce a liberarsi di questo. Il finito si ripresenta come suo [dell’infinito] altro. Il progresso, la contesta, il confitto, la differenza, eccetera, si barcamenano in questo relativismo, in un medesimo avvicendamento di finito e infinito.
Tredici anni dopo la conferenza di Weber, arriva questa risposta di Heidegger. Se io pongo il compito della filosofia nella tesi «la filosofia non è una scienza», ciò non significa, dice Heidegger, che la filosofia debba essere consegnata nella mani di una sorta di Schwärmerei e di qualsiasi altra arbitraria visione del mondo e della sua predicazione – che porta di questi tempi il nome importante di «filosofia dell’esistenza» – per le quali ogni concettualità e problematica effettiva decade a mera tecnica e schematica. Non mi è mai passato per la testa, dice, di predicare una «filosofia dell’esistenza». Si tratta piuttosto di riproporre il problema più interno alla filosofia occidentale, la domande dell’essere – che è riferita al Logos non solo in quanto mezzo, ma in quanto contenuto – cioè il problema dell’ontologia. Che la filosofia sia la scienza e scienza in generale, non può essere deciso a partire da una qualsiasi ideale conoscitivo, ma solo dal contenuto effettuale e dalle necessità interne del suo proprio ultimo problema, dalla domanda sull’essere.
Heidegger prende contemporaneamente posizione sia contro il fanatismo e lo zelo (Schwärmerei) romantico, sia contro il razionalismo del neo-kantismo. La decostruzione di queste due posizioni complementari prende spunto proprio da Hegel e dalla sua proposta di una Scienza come sapere assoluto.
Niente può fermare una lettura romantica dello stesso Heidegger. E ci sono molti testi che danno adito ad una tale lettura. Ma già sin dal 1930 egli metteva in guardia da una tale lettura. Non gli è mai passato per la testa, da buon allievo di Husserl, di predicare una filosofia dell’esistenza, o una sorta di niccianesimo romantico – niccianesimo fortemente contestato negli studi degli anni 30 e 40. Heidegger tiene fermamente al centro il Logos e la scienza, senza tuttavia rinunciare alla lezione storicista inaugurata dal romanticismo.
Mi fermo a questo punto, senza fornire la dimostrazione di come sia impossibile tenere separato ciò che separato non è: romanticismo e illuminismo (se vogliamo usare questi nomi come etichette). E, soprattutto – la cosa può apparire contraddittoria, ed in effetti lo è – senza fornire la dimostrazione di come sia impossibile proporre un argomento di questo tipo, senza supporre questa separazione.

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Max Webr, La scienza come professione
Friedrich Schlegel, Frammenti critici e poetici
Martin Heidegger, La Fenomenologia dello spirito di Hegel

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