Rendita finanziaria e rendita fondiaria a Roma. Dialogo con Federico Sannio

capitalista

 

Chi ha vissuto a Roma, negli ultimi vent’anni, ha potuto notare il crescente degrado che ha avvolto la città: voragini che si aprono all’improvviso e inghiottono il manto stradale, strade dissestate e piene di buche, parchi pubblici invasi dalle erbacce e dall’immondizia, rifiuti abbandonati in prossimità delle piazzole di sosta lungo le strade consolari, marciapiedi rotti, edifici popolari stracolmi di muffa, eccetera. A volte, se non ci si confronta con altri abitanti delle periferie romane, si ha l’impressione che il caos esterno e l’incuria non siano reali, ma solo una proiezione soggettiva derivante dall’invecchiamento, in quanto con l’aumentare dell’età si diventa meno tolleranti agli sfaceli e in generale alle perturbazioni dell’ambiente circostante.

Ma così non è! Infatti, non appena si esce dalla dimensione individuale e ci si mescola agli altri, si ravviva la memoria storica.

Una conferma di tutto ciò l’ho avuta parlando con Federico Sannio – appartenente alla generazione precedente a chi sta scrivendo – cittadino di Ostia Antica, il quale dice: «Prima che il Comune di Roma decimasse gli addetti al verde pubblico, il parco adiacente il Castello e il Borgo antico aveva un giardiniere che se ne prendeva cura».

«Ovviamente, precisa Sannio, stiamo parlando di un determinato periodo storico, ovvero di un periodo che inizia nei primi anni 70 e si conclude sul finire degli anni 90 del secolo scorso, quando le politiche di privatizzazione dei servizi pubblici si accavallano all’urbanizzazione selvaggia.

«Beninteso, ancor prima del “miracolo economico” e delle baraonde domenicali sulle spiagge del litorale romano, quando s’incominciarono a lenire le ferite della guerra, le campagne intorno a Roma pullulavano di gente che viveva nelle baracche.»

Provo a sintonizzarmi su queste immagini in movimento!

Migliaia di donne, uomini e bambini che vivevano in catapecchie di legno e lamiere, in precarie condizioni igieniche, ebbero accesso al diritto ad abitare a prezzi calmierati. A tal proposito, giova ricordare «Poi venne la casa vera», un film documentario di ricerca sul territorio, diretto da P. Isaja e M. P. Melandri, che racconta, tra le altre vicende, le lotte per il Diritto a una casa dignitosa, portate avanti da Virgilio Melandri, l’urbanista dei poveri, e dagli altri membri dellAssociazione Italiana Casa AIC, i quali, nei primi anni Sessanta, pongono le basi per un tenace movimento in favore dell’edilizia popolare.

«Sul finire degli anni 90, dice ancora Sannio, i progetti di edilizia popolare, come quelli realizzati dal sindaco Petroselli a Tor Bella Monaca, sono invece completamente scomparsi dall’agenda politica nazionale e locale.

«Anzi, inizia una campagna mediatica di denigrazione e ghettizzazione sempre più aspra. Al punto di considerare tali insediamenti urbani (Quadraro, San Basilio, Ostia Nuova, ecc.) come l’origine di tutti i mali: droga, prostituzione, strozzinaggio, rapine e così via.»

A queste riflessioni di Sannio, io aggiungerei altre tre variabili che concorrono ad aumentare le tensioni sociali nei rapporti di vita quotidiani degli abitanti che risiedono nelle borgate periferiche.

 

  1. Ingenti somme di denaro vengono indirizzate sul ”mattone”, in quanto considerato un investimento sicuro, facendo lievitare, in modo esorbitante, i prezzi al metro quadro e le rendite fondiarie degli immobili ubicati nelle aree centrali della città;

  2. La soppressione, da parte del Governo D’Alema, della legge sull’equo canone e la conseguente liberalizzazione dei prezzi degli affitti ben presto mostrarono gli effetti negativi e i grossi limiti delle sciagurate posizioni ideologiche che risultavano maggioritarie. Infatti, non ci fu nessuna proliferazione dei contratti d’affitto “a buon mercato”. Per ciò che concerne gli appartamenti sfitti, al contrario, gli inquilini sperimentarono sulla propria pelle un’impennata dei prezzi delle pigioni;

  3. Il delinearsi di tali circostanze, insieme alle variazioni delle destinazioni d’uso di molti fabbricati, ossia la loro trasformazione da unità abitative in locali adibiti ad attività commerciali, fanno aumentare il flusso della pressione demografica, costituito dai nuovi nuclei di migranti, nazionali e internazionali, che di fatto gravitavano nelle aree periferiche, sin dai primi anni novanta.

Queste tre variabili s’intrecciano tra di loro e contribuiscono in modo rilevante al fenomeno dell’indebitamento crescente dei nuclei familiari (tipici e atipici) o dei singoli individui, i quali trovano accesso facilitato al credito, mediante strumenti finanziari diversificati, in base a modeste garanzie reddituali.

Sannio, nella sua replica a queste considerazioni, mette in evidenza un altro aspetto importante.

«Sebbene l’Unione inquilini, dice, in questo periodo, denunci più volte, con fervore, che il numero degli appartamenti sfitti supera di gran lunga la domanda, si assiste all’espansione dei mutui bancari, anche perché le rate mensili, comprensive degli interessi, su prestiti trentennali e con un minimo capitale anticipato, sono inferiori ai canoni di affitto con la stessa scadenza temporale.»

Eh si! Mi sembra un tassello calzante!

Tuttavia, l’indebitamento dei privati con gli Istituti bancari e parabancari dev’essere inquadrato in un discorso più ampio.

Nel periodo che va dal 1994 al 1998, stando a informazioni attendibili, il debito del Comune di Roma passa da 3,3 miliardi di euro a 6,2 miliardi di euro. (1)

Un debito che non è solamente il frutto di una cattiva gestione della macchina amministrativa, non è solo il risultato di sprechi, corruzione, furti patentati e di tutti quegli episodi che rientrano nel concetto di “Roma Ladrona”. Esso è collegato anche e soprattutto alla strozzatura dei Trasferimenti monetari ai Comuni da parte dell’Amministrazione centrale dello Stato, e dunque alla necessità di ricorrere all’accensione di prestiti privati, sia per le spese correnti che per quelle in conto capitale. I Comuni, in particolare quello di Roma, sono costretti ad indebitarsi e a restituire le somme di denaro ricevute maggiorate degli interessi.

Infatti, se osserviamo una delle tante mappe sull’indebitamento delle città capoluogo, apprendiamo che il prendere a prestito degli Enti locali è una pratica molto diffusa, e scopriamo, inaspettatamente, che al primo posto c’è Milano, con un debito (1), nel 2019, di 3,7 miliardi di euro, debito che costringe i suoi cittadini a pagare 300 milioni di interessi all’anno. (2)

Il Comune di Roma, in questa classifica, risulta al quinto posto, con 1 miliardo di euro. Nondimeno, in molti esprimono perplessità su questo valore numerico, in quanto a partire dal 2008 il debito di Roma Capitale è stato al centro di un dibattito nazionale che ha visto diversi colpi di scena, lasciando intendere che le procedure di ristrutturazione ricordino un po’ le scatole cinesi.

Che strano!! Sembra che il lavoro dei Commissari Straordinari per il rientro del debito, nominati a partire dal 2008, somigli sempre di più a quello degli illusionisti: l’oggetto si vede e sparisce, ritorna, muta forma, trae in inganno, esprime una cosa per un’altra.

Nei loro giochi di prestigio sono così abili e disinvolti che riescono a ottundere i sensi degli spettatori (cittadini) e, in qualche modo, puntano, scommettono sul fattore tempo. Dopo circa 13 anni di Gestioni Commissariali separate e di vari tentativi di ricognizione del debito pregresso al 2008, nei Bilanci non c’è chiarezza, così come risultano ingarbugliati i Piani di Rientro redatti dagli incaricati del Governo.

Tra i tanti dati elaborati e in circolazione, merita attenzione l’indicatore sintetico puntualizzato da S. Scozzese, che nella sua audizione alla Camera dei Deputati, nell’aprile del 2016, individua un buco nero di circa 12 miliardi di euro, anche se ammette che il 43 % delle posizioni creditizie sono ignote. Creditori non identificabili, che non hanno un nome! Tre anni dopo, nel 2019, dal sito del Comune prendiamo atto che la suddetta cifra è rimasta più o meno invariata, ma c’è una novità: l’annuncio della chiusura della Gestione separata alla fine del 2021.

Il colmo di tutto quest’accrocco, mi fa notare Sannio, che s’intende un po’ di Finanza pubblica, è che dal 2010 in poi, il Governo, per finanziare la bad company capitolina, riscuote 300 milioni di euro dalle tasche di tutti gli italiani e 200 milioni di euro, in parte dai passeggeri degli aeroporti romani e per la restante parte da una super-addizionale Irpef a carico dei residenti della città.

Per di più, l’insieme dei vecchi e nuovi debiti generano una montagna di interessi, dato che sui prestiti si paga un tasso medio superiore al costo del denaro della BCE. Si calcola che sul debito della gestione parallela, quindi senza tener conto di quelli inseriti nel Bilancio del Comune, dal 2008 al 2014, siano stati pagati circa 2 miliardi di euro di interessi. Una cifra enorme che dissangua il tessuto sociale della città.

Nel momento in cui i creditori presentano la cedola di riscossione in scadenza, se non viene pagata, al costo del denaro pattuito si aggiungono gli interessi moratori, dovuti per l’inadempienza temporale dell’Ente che ha sottoscritto le obbligazioni.

In base a quanto esposto qui sopra, a mio avviso, forse, sarebbe il caso che si incominciasse a dire che l’interesse sul denaro anticipato non rappresenta un potere neutro. Anzi esso esprime la forza contrattuale dei rentier della finanza, di un gruppo ristretto di “cravattari” che campano sulle disgrazie altrui. Sarebbe opportuno che si vedessero le connessioni tra l’indebitamento crescente e il patto di stabilità interno imposto agli Enti locali dal 1999 al 2005: si è passati dalla riduzione della spesa per il personale al blocco totale del turn over.

Rendita finanziaria e fondiaria a Roma, come in altre città, vanno a braccetto, si saldano insieme e costituiscono un binomio opprimente, che genera un limite artificiale alla produzione e distribuzione della ricchezza sociale, richiedendo quei sacrifici che nel concreto annullano una serie di diritti sociali.

Dunque, nell’avviarci alla conclusione del nostro dialogo, vorrei porre a Sannio una domanda specifica: alla luce di queste ultime mie considerazioni, da un punto di vista pragmatico, in che cosa consistono i sacrifici?

«I sacrifici – sintetizza Sannio – si traducono nei tagli dei servizi essenziali o in aumenti delle tariffe da pagare, preferenza per i contratti di lavoro a tempo determinato, precarizzazione e peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e lavoratrici delle aziende esternalizzate, cooperative sociali che si aggiudicano le gare al massimo ribasso e poi, in gran parte, elargiscono salari non sufficienti a vivere in una grande città, difficoltà di reperire i soldi per la manutenzione dei treni della metropolitana, lunghe liste di attesa per i disabili, migliaia di persone costrette a vivere in case occupate, con il rischio concreto di essere sgomberate e di finire in mezzo alla strada, eccetera.»

 

  1. Primo rapporto sul debito di Roma Capitale – ATTAC Italia https://www.attac-italia.org, 2/06/2016

  2. Fonte Il Sole 24 Ore

  3. Occorre puntualizzare che i dati sintetici che vengono pubblicati sono così ballerini che alimentano un grado saliente di scetticismo nei confronti delle fonti stesse, specialmente se si tiene conto anche delle fake news. Nello specifico, ci limitiamo a riportare il link di un articolo più recente che ribalta la precedente classifica e nello stesso tempo affermare che l’indebitamento crescente dei Municipi rappresenta il loro denominatore comune. Napoli e il macigno del bilancio. Ecco perché il Comune ha quel buco da 4,1 miliardi di euro. https://napoli.repubblica.it/cronaca/2021/05/28.

 

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