L’uomo sottosopra. Giovanni Mazzetti e l’Alienazione

Uomo capovolto © openclipart.org

I
 
L’uomo sottosopra, dice Mazzetti, è una riflessione metodologica. Il tema centrale del libro è l’alienazione. Per discutere questo tema vengono considerate 1) la contraddizione, 2) il feticismo, 3) la libertà.
Il libro, che si divide in due parti, rimanda esplicitamente al Capitale, al paragrafo sul Feticcio della merce e il suo arcano. Nella prima parte è delineata una antropologia. Punto di riferimento sono le scienze positive, in particolare l’etnologia, la psicologia, l’etologia. Nella seconda parte i risultati acquisiti sul terreno dell’antropologia vengono trasmessi ad una ontologia (?). Si tratta, dice Mazzetti, di riuscire a convalidare il tema dell’alienazione (un tema rognoso, sviluppato dalla filosofia e dalla sociologia marxiste), con il tema dell’antropologia o zoologia.
Gli interlocutori diretti di Mazzetti sono marxisti italiani del secolo scorso (Napoleoni, Colletti). Il tema principale inserisce il libro in un contesto, mai tematizzato direttamente, che rimanda a Lukács, e al dibattito acceso intorno al tema della reificazione, eccetera (approfondire).
Lo sviluppo dell’uomo, se e quando avviene, dice Mazzetti, può realizzarsi solo come alienazione. L’alienazione è un modo di procedere capovolto.
Nella Prima parte la scrittura di Mazzetti è molto sorvegliata. Già dalle prime righe si tiene a sottolineare che l’antropologia non ha nulla a che vedere con lo storicismo e con la sua teleologia. Si tratta di una presa di distanza dalle tre correnti del marxismo storico, legate, in un modo o in un altro, all’idea di progresso.
L’idea di progresso sociale è più di una speranza, racchiude una certezza anticipata, basata sulla necessità, corroborata da leggi, di un passaggio positivo e ineluttabile da uno stadio meno evoluto ad uno stadio di maggiore evoluzione – evoluzionismo. Si tratta di una componente presente in tutta la tradizione socialista. Se ne trovano spunti in Saint-Simon, Proudhon, Henry George.
Il marxismo assicura all’idea di progresso sociale la diffusione nei movimenti e nei partiti politici di tutto il mondo.
Secondo Balibar (La filosofia di Marx) sono tre le correnti del marxismo che hanno, più di altre, diffuso l’idea di sviluppo positivo (progresso). Si tratta 1) della socialdemocrazia tedesca, e più in generale della II internazionale. Centrale è il tema della certezza del senso della storia (Bernstein, Jaurès, Kautsky, Plechanov, Labriola; 2) del comunismo sovietico e del Socialismo reale – soviet + elettrificazione; 3) dello Sviluppo socialista elaborato nel terzo mondo (terzomondismo).
Le rappresentazioni del progresso, dice Balibar, si formano a partire dalla fine del XVIII secolo. Si presentano come teorie della integralità della storia, sul modello di una curva spazio-temporale. La storia intera può essere colta nella sua logica come un susseguirsi di stadi. Oppure, dice Balibar, può essere totalizzata in base a momenti o avvenimenti privilegiati: la crisi, la rivoluzione, il rovesciamento. Oppure può essere totalizzata in base al cattivo infinito, ovvero all’idea di un avanzamento progressivo indefinito. Infine, può essere intesa come un processo che conduce ad un momento conclusivo di stasi e omogeneità.
È evidente che se la storia avanza verso una meta, questa meta deve essere già nota all’inizio, e che dunque l’inizio della storia e la sua fine sono identici, e che la storia è circolare. Al contrario, se la storia non ha una meta fissata all’inizio, se non avanza secondo una regola universale di sviluppo, se non avanza per necessità legale, allora avanza a caso.
L’idea teleologica della storia suppone l’irreversibilità e la linearità del tempo, e quindi l’esclusione di ogni aleatorietà. A ciò si aggiunge l’idea di perfezionamento – tecnico, morale, scientifico, umano, eccetera. Infine, dice Balibar, una rappresentazione della storia come progresso può duplicare l’idea di cambiamento attraverso quella di una capacità sempre accresciuta di cambiare. In questa tendenza, l’accento posto sull’educazione, può annodarsi dall’interno all’idea di progresso. Si passa ad una 4a idea di progresso, la più importante politicamente, l’idea che la trasformazione è una trasformazione di sé, un’auto-trasformazione, un’auto-generazione, nella quale si realizza l’autonomia dei soggetti.
L’idea di sviluppo – di avanzamento – si trova certamente anche nei testi di Marx, per esempio nella Prefazione alla Critica dell’economia politica (1857). A grandi linee, scrive Marx, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno, possono essere designati come epoche che marcano il progresso della formazione economica della società.
L’evoluzionismo è tipicamente ottocentesco. Cerca nella storia le leggi del cambiamento che spieghino il passaggio da uno stadio all’altro. Comte, ad esempio, elabora uno schema di movimento continuo, uniformemente ascendente.
Con il post-moderno l’idea di progresso, e ogni idea di avanzamento sociale, cade in discreto. Il Pensiero selvaggio di Lévi-Strauss può essere considerato un testo di riferimento.
 
II
 
Libertà
Il tema della libertà è sviluppato in due tempi.
Nel primo tempo – antropologia – Mazzetti ribadisce che la libertà, intesa come libero arbitrio, è sempre e soltanto il potere di un Dio.
Dio, dice Mazzetti, posto al di fuori e al di sopra della natura, è un soggetto che non è «fatto» da un oggetto con il quale interagisce.
Dio non è un ente determinato. Non è un questo o un quello. Se fosse un ente determinato, la sua determinazione risulterebbe dalla sua relazione con ciò che sta presso di lui e contro di lui.
Dio è il semplice e l’immediato: l’assoluto (l’infinito). Se Dio non fosse immediato, cioè assoluto, sarebbe condizionato (mediato) da un altro, dunque bisognerebbe arretrare a quest’altro e porre quest’altro come Dio. Dunque, bisogna pensare Dio come l’assoluto.
Nella Grande Logica (p. 58) Hegel definisce l’Essere come il cominciamento semplice e immediato.
A differenza di Dio (infinito), l’ente determinato (finito) non è libero: è «fatto» dall’oggetto con il quale interagisce.
Siamo sul piano della Negazione determinata. La negazione non dà come risultato il nulla. Non è la negazione dello scetticismo che nega tutto e si ritrova con niente in mano. La negazione nega qualcosa di determinato e restituisce un risultato positivo. La determinazione – Spinoza – è negazione – determinatio negatio est – perché mentre qualcosa si presenta nella sua individualità propria, questo qualcosa separa e nega da sé ciò nei cui confronti si differenzia.
Nella Grande Logica (I,36) Hegel dice che il negativo è insieme anche positivo. Quello che si contraddice non si risolve nello zero, nel nulla astratto, ma si risolve essenzialmente solo nella negazione del suo contenuto particolare. Una tale negazione non è una negazione qualunque, ma la negazione di quella cosa determinata che si risolve (si ri-leva), ed è perciò negazione determinata. Nel risultato è contenuto quello da cui esso risulta.
L’ente determinato che viene negato non è tolto come inessenziale. Al contrario, solo includendo nella determinazione dell’ente anche ciò che lo nega determinatamente si arriva a conosce l’ente nella sua verità.
Ne consegue che l’ente determinato non è libero alla maniera in cui è libero Dio.
L’uomo, dice Mazzetti (p.43), esiste e può esistere nella sua determinatezza esclusivamente nell’interazione con il particolare ecosistema ambiente, di cui è parte.
L’uomo esiste come un ente determinato. In quanto ente determinato è parte, ma non è parte di un tutto.
Il tutto – l’ecosistema, l’ambiente, la natura, eccetera – non è un terzo in cui le parti si risolvono, altrimenti questo tutto sarebbe un aldilà della parte. Essere aldilà della parte significa essere immediato e semplice, ovvero esser Dio. Dunque, o il tutto è aldiqua, tra le parti, e dunque non è tutto, oppure è aldilà delle parti, allora è Dio.
Le parti non hanno un aldilà. Sono opposte ad altre parti. A meno che la parte non stia anche per il tutto. (Approfondire).
 
III
 
Sia l’ambiente, dice Mazzetti (46), sia l’interazione che con esso l’animale vivente stabilisce, non si presentano di fronte all’animale come oggetto (gegenstand) che l’animale determina. L’animale, l’ambiente e l’interazione fra i due, fanno un tutt’uno. L’animale non esiste come soggetto separato da essi, bensì solo come ente che, come qualsiasi altro animale, è tale solo immediatamente nell’interazione che stabilisce.
Il punto di partenza, dice Mazzetti, un punto scientificamente acquisto, è costituito dall’immediatezza, dalla semplicità.
Sia il soggetto, sia l’oggetto, non sono dati immediatamente, sono posti dalla mediazione e nella mediazione. E dunque non sono l’inizio. L’inizio comincia con l’essere immediato e semplice. La separazione sopraggiunge a questo inizio semplice.
L’animale ha desideri, agisce, avvista una preda e la divora. Questi desideri sono immediati. Si rivolgono verso ciò che è – dice Kojève (Introduzione a Hegel). Nonostante il desiderio animale neghi la cosa, questa negazione non è una negazione determinata. È una negazione pura e semplice, una soppressione, e non un rilevamento – una Aufhebung.
La consumazione e l’inibizione, dice Derrida nel suo commento a Hegel (Glas), nell’animale occupano lo stesso tempo. Non c’è aufhebung presente nell’animale o dialettica della natura. Almeno la dialettica non vi è presente. C’è animalità quando la consumazione o la non-consumazione si susseguono ma non si uniscono. L’animale come tale (è per questo che non avrebbe storia e si ripeterebbe senza fine), l’uomo in quanto animale, consuma, poi non consuma, distrugge poi non distrugge. Si sazia e poi si ferma, poi si sazia e ricomincia. Tale dissociazione o successività è proprio quanto il desiderio umano ri-leva.
L’animale consuma o non consuma. L’uomo, anziché consumare, sublima, nega l’oggetto – natura – , lavora l’oggetto, lo trasforma, lo ri-leva, senza consumarlo, lo trasforma, e trasformandolo, si trasforma in esso.
Non c’è dialettica della natura, dialettica animale. L’ulivo dell’età di Pericle è lo stesso di quello del tempo di Venizelos.
All’inizio – ma qui l’inizio non va inteso in termini storiografici o storici – all’inizio non c’è storia, la storia comincia proprio con l’abbandono dell’inizio. L’inizio – come in Rousseau, come in Hobbes, eccetera – rimane sempre fuori dalla storia. All’inizio c’è l’essere indeterminato e semplice.
Sulla scorta di Marx (Manoscritti), Mazzetti ricorda che Hegel pone la negazione come condizione che permette all’animale di trascendere l’immediatezza nella quale è unito alla natura.
Il mutamento qualitativo – la trascendenza – dice Mazzetti (46), che pone l’animale come soggetto, e la natura come oggetto, non è un dato originario. La trascendenza deve risultare da un precedente.
La trascendenza, la quale pone il soggetto e l’oggetto, non è prima. Non è l’inizio.
Se vogliamo veramente comprendere che cosa è l’uomo – dice Mazzetti (qui viene posta in modo esplicito la domanda metafisica: che cos’è?) – e se volgiamo capire come l’uomo sia «fatto» dalla negazione, non possiamo limitarci a cercare la negazione nella vita umana.
Qui Mazzetti sfodera un chiaro anti-umanismo.
Alla domanda che cos’è non si può rispondere ponendo il soggetto umano come soggetto. All’inizio, al fondo, chiarisce Mazzetti, non c’è il soggetto umano vivente. Il soggetto umano vivente è «fatto», è un risultato.
Se vogliamo comprendere che cos’è l’uomo, dice Mazzetti, e come esso venga «fatto» dalla negazione, non possiamo limitarci a cogliere l’operare della negazione nella vita umana, fantasticando di un uomo originario che ha sostituito per scelta l’istinto con la ragione. Se la negazione è il principio motore del farsi dell’uomo, essa deve anche avere una dimensione pre-umana.
Qui il tema della libertà incontra il tema della negazione.
La libertà – è un dato acquisito – si esprime nell’immediato. Tutto ciò che è mediato non è libero. Il soggetto non è libero. Ad essere libero è Dio.
L’inizio deve essere libero. Se non fosse libero, non sarebbe l’inizio. Ecco perché all’inizio non può esservi il soggetto umano, perché il soggetto umano è un prodotto della negazione determinata.
Ma che cos’è la negazione?
La negazione, dice Mazzetti (riprendendo Marx che riprende Hegel) è il motore della storia.
La determinazione fondamentale della filosofia hegeliana, scrive Heidegger (Hegel), è la negatività.
L’antropologia deve essere staccata da ogni aldilà. L’origine dell’uomo, dice Mazzetti, deve essere totalmente posta a partire da un aldiqua. Questa origine deve essere piena, deve essere pura, deve essere libera. L’aldiqua dell’uomo deve avere la stessa struttura dell’aldilà divino. Deve essere immediato e semplice. L’assoluto divino deve diventare un assoluto terreno.
Come porre questo assoluto?
Mazzetti tematizza solo l’assoluto antropologico. L’uomo, dice, non è l’effetto di una causa. Non c’è una legge che giustifichi l’origine dell’uomo. L’uomo è figlio del caso. Le mani di acciaio della necessità scuotono il bossolo dei casi – e l’uomo si presenta (Nietzsche, Aurora).
L’arbitrio, dice Mazzetti (15), può essere sempre e soltanto il potere di un Dio, di un essere che, esistendo al di fuori e al di sopra della natura, è in grado di comportarsi come soggetto che non viene «fatto» dall’oggetto con il quale interagisce.
Nel caso della comparsa dall’Anthropos l’arbitrio non è quello di un Dio, non è quello dell’uomo – è l’arbitrio del caso.
Dio non è fatto – non ha una causa fuori di sé – è la causa di se stesso. L’uomo, invece, è fatto. Non è primo, non è inconcusso, non è semplice. E tuttavia, la sua causa 1) non risiede in un aldilà, 2) non risiede in se stesso (in quanto l’uomo è il posto, e non il ponente), e 3) non risiede nemmeno nella natura – se così fosse si scadrebbe in un meccanicismo deterministico. Bisogna dunque pensare la struttura della genesi dell’uomo sia come semplice e immediata (libera, ma posta in un aldiqua), sia come composta e mediata (storica). Bisogna pensarla dialetticamente.
Per pensare la dialettica bisogna pensare la contraddizione.
 
IV
 
Prima di procedere bisogna ricordare, ancora una volta, che ci si trova su un piano antropologico (e non Logico). La contraddizione di cui si parla non è una contraddizione logica – né di una logica formale, né di una logica ontologica (come è quella di Hegel).
Questa precisazione è importante, per due ragioni. In primo luogo perché qui si è ancora all’interno di un commento (una esegesi) a un testo di Marx: Il Feticcio della merce; e in secondo luogo perché la differenza – tra antropologia e ontologia – rimarca un’altra differenza che percorre tutto il testo di Mazzetti, ma che non viene mai tematizzata: la differenza tra l’esistenza e l’essenza.
Nel Poscritto del 1873 alla seconda edizione del primo libro del Capitale, Marx ricorda come la prima parte del primo libro sia stata scritta tenendo presente la Logica di Hegel. E sebbene la sua dialettica sia diversa da quella hegeliana, e ne rappresenti una demistificazione, il primo Libro del Capitale è stato scritto con la Logica come testo guida.
Mentre i tediosi discepoli si compiacevano di trattare Hegel come un «cane morto», io, dice Marx, mi professavo apertamente discepolo di Hegel, e qua e là, nel capitolo sulla teoria del valore, civettai perfino col modo di esprimersi a lui peculiare. La mistificazione di cui soffre la dialettica nelle mani di Hegel, non toglie affatto che egli per primo ne abbia esposto in modo comprensivo e cosciente le forme di movimento generali. In lui, la dialettica si regge sulla propria testa. Bisogna capovolgerla per scoprire il nocciolo razionale entro la scorza mistica.
Tuttavia, continua Marx, la dialettica rimane scandalo e abominio perché, nella comprensione positiva della realtà così com’è, include nello stesso tempo la comprensione della sua negazione, del suo necessario tramonto; perché vede ogni forma divenuta nel divenire del moto, quindi anche nel suo aspetto transitorio. Il moto contraddittorio della società capitalistica, dice Marx, si rivela nella luce più cruda nelle alterne vicende del ciclo periodico che l’industria moderna attraversa, e nel loro punto culminante — la crisi generale.
 
V
 
Che cos’è la contraddizione?
La realtà-effettiva-positiva include, come momento, la negazione – dice Marx.
Nella Logica (II, sezione I, Cap. II, 491) Hegel dice che la contraddizione viene ordinariamente allontanata, in primo luogo, dalle cose (von den Dingen), dagli enti (von den Seienden) e dal vero in generale (und Wahren über-haupt); si afferma che non vi è nulla di contraddittorio.
La contraddizione, continua Hegel, viene addossata alla riflessione soggettiva, la quale la limiterebbe al comparare e riferire. Anche se poi, a dirla tutta, la contraddizione non si troverebbe nemmeno nella riflessione soggettiva, nella mera logica formale, perché il contraddittorio, si dice, non si può né rappresentarepensare. Sia nella realtà effettiva, presente, alla mano (vorhanden), sia nella riflessione pensante, la contraddizione è un’accidentalità, un’anomalia, una mostruosità, un abominio.
Per quanto riguarda l’affermazione che la contraddizione non si dia, che non esista (vorhandenes), non abbiamo alcun bisogno di inquietarci – dice Hegel. L’esperienza comune mostra come si diano una quantità di cose contraddittorie, di disposizioni contraddittorie, la cui contraddizione non sta in una riflessione esteriore (äußerlichen Reflexion), ma in loro stesse (in ihnen selbst vorhanden ist). E la contraddizione non è da prendere come un’anomalia che si mostri solo qua e là, ma è il negativo nella sua determinazione essenziale, il principio di ogni muoversi, muoversi che non consiste se non in un esplicarsi e mostrarsi della contraddizione.
Qualcosa si muove, dice Hegel, non in quanto in questo Ora è qui, e in un altro Ora è là, ma solo in quanto in un unico e medesimo Ora è qui e non è qui, in quanto in pari tempo è e non è in questo Qui.
Si debbono concedere agli antichi dialettici le contraddizioni che essi rilevano nel moto, ma da ciò, dice Hegel, non segue che non ci sia moto, ma che anzi il moto effettivo è la contraddizione stessa.
Hegel richiama la dialettica di Zenone e le aporie del moto.
Nell’argomento della Freccia, Zenone aveva mostrato che una freccia in movimento sarebbe ferma. Se ci si rappresenta il moto come il transito attraverso una serie di istanti discreti e consecutivi, si deve ammettere che la freccia, in ciascun istante, è ferma. E che ad ogni istante consecutivo è sempre e ancora ferma in un punto successivo della serie. Parimenti, se si immagina il moto della freccia come il transito attraverso una serie di spazi discreti e consecutivi il risultato non cambia, e non cambia per la ragione che una freccia non può essere contemporaneamente se stessa ed un’altra. E il moto significa appunto diventare altro. Siccome il medesimo non può essere altro, dunque per il medesimo non c’è moto.
Hegel ribalta questo argomento e dice: siccome non può esserci moto senza alterazione (senza negazione del medesimo), e siccome il moto si dà – è sotto gli occhi di tutti – dunque il medesimo (nello stesso tempo e nello stesso luogo) è alterato: è se stesso e anche altro. È identità dell’identità e della non-identità.
Avanza qui una struttura di anticipazione e di ritenzione.
Allo stesso modo, continua Hegel, il moto interno (interiore, intimo), il vero e proprio muovesi, il trieb* [la spinta], l’appetito, non consiste in altro, se non in ciò, che qualcosa è, in se stesso, sé e la mancanza, il negativo di se stesso, sotto un unico e medesimo riguardo. Il medesimo è se stesso + la propria mancanza. È sé e l’altro da sé. È sé – più il proprio differimento nello spazio e nel tempo.
Poiché il positivo, dice Hegel, è in se stesso la negatività, allora esce fuori di sé ed entra nel mutamento. Qualcosa è vitale solo in quanto contiene in sé la contraddizione, ed è propriamente questa forza – proprio in quanto sostiene e sopporta la contraddizione.
Quando, invece, un esistente non può nella sua determinazione positiva estendersi sino ad abbracciare in sé in pari tempo la determinazione negativa e tenere ferma l’una nell’altra, non può cioè avere in lui stesso la contraddizione, allora esso non è l’unità vivente stessa, non è fondamento o principio, ma soccombe nella contraddizione.
La contraddizione, come negazione, non è l’annullamento del positivo. Non è neanche una forza che, nello stesso tempo, dispiegata su un medesimo campo di battaglia, si oppone ad un’altra forza. La negazione è il differimento del medesimo. È una struttura di anticipazione. Il positivo, mosso dal trieb, è un medesimo Ora-qui e Ora-non-Qui. Tutto ciò emerge solo in una struttura di ritenzione e di anticipazione, in cui il non-ancora è anticipato nell’ora, e il non-più-ora è ritenuto nell’ora. L’ora-presente si ordina a partire dal futuro e dal passato. Se così non fosse, dice Hegel, si passerebbe dall’eguaglianza all’ineguaglianza, in cui le due determinazioni sarebbero estrinsecamente contrapposte, sarebbero l’una fuori dell’altra, e la differenza passerebbe tra l’una e l’altra, e non dentro l’una e dentro l’altra.
Questa struttura di ritenzione è speculativa. È un salto dal trieb alla ragione.
 
VI
 
Mazzetti pone la questione del passaggio alla ragione, parla esplicitamente di un passaggio dall’istinto alla ragione. Di un passaggio che non avviene per scelta, che non avviene nel vuoto.
La comparsa della ragione non è immediata. Nell’immediato non c’è ragione.
La negazione, in quanto motore della storia, non è esclusivamente umana, non è esclusivamente legata alla ragione, non è una negazione formale – della logica formale –, proprio in quanto agisce prima della comparsa della logica formale. È un presupposto della logica formale.
A questo punto Mazzetti lascia in sospeso (e abbandona per sempre) il tema del passaggio alla ragione, e ritorna all’antropologia. Quello che gli preme mostrare è che 1) la negazione non solo non è una negazione umana (il che lo iscrive ancora in una linea di discendenza da Hegel), e 2) che la negazione non è una negazione logica, non è una negazione ontologica (il che lo avvicina all’empirismo anglosassone dal quale crede di doversi smarcare).
Mazzetti non tematizza la dialettica tra essenza ed esistenza, tre universale e particolare, tra infinito e finito, tra apriori e aposteriori, tra storico e strutturale. Questa non-tematizzazione peserà come un macigno quando si avranno tra le mani le coppie Lavoro concreto e Lavoro astratto, Valore e valore d’uso, Valore e Valore di scambio, Denaro e Banconota, eccetera.
 
VII
 
La negazione, dice Mazzetti (p.50), è il processo nel corso del quale si presentano impedimenti esterni alla continuazione della riproduzione dell’organismo nella forma che, sino a quel momento, è stata la forma normale per la specie. Dove normale non è criterio di valore.
Opposta alla negazione è la conferma.
L’individuo, dice Mazzetti (p.47), o esplica la sua esistenza in una forma coerente con l’ecosistema (conferma) o perisce (negazione). L’unità del singolo con l’ambiente in cui è immerso non è statica.
La conferma non stabilizza l’individuo. L’individuo non è statico. L’organismo, dice Mazzetti (p.51), deve ricevere, accanto ad una parziale conferma, anche una parziale negazione. C’è una «frustrazione ottimale» in ogni esistenza non regressiva. Che ciò possa apparire contrario all’opinione, dice Mazzetti, non deve stupire. Accanto alla conferma (piacere) deve sempre presentarsi una negazione (dispiacere). L’individuo è il sintomo di piacere e dispiacere.
È evidente che questo quadro della negazione è più vicino a Nietzsche che a Hegel.
Nei frammenti postumi – novembre 1887, marzo 1888 [11,76] – Nietzsche dice che la normale soddisfazione dei nostri istinti, per esempio della fame, dell’istinto sessuale, dell’impulso al movimento, non contiene ancora affatto in sé niente di depressivo; agisce anzi nel verso di provocare il senso vitale, come anche lo rafforza ogni ritmo di piccoli stimoli dolorosi, checché vogliano farci credere i pessimisti. Questa insoddisfazione, invece di ispirare disgusto per la vita, è il grande stimulus della vita. – Si potrebbe definire il piacere in genere come un ritmo di piccoli stimoli di dispiacere.
Nel frammento successivo [11,77] Nietzsche ribadisce che, secondo le resistenze che una forza ricerca per affermare su di esse il suo dominio, deve crescere la misura dell’insuccesso e della sciagura in tal modo sfidati; e in quanto ogni forza può sfidarsi solo contro qualcosa che resiste, in ogni azione c’è necessariamente un ingrediente di dispiacere. Ma questo dispiacere agisce come stimolo di vita.
Per capire cosa sia la vita, dice Nietzsche [11,111], che specie di aspirazioni e di tensione sia la vita, la formula deve valere per l’albero e la pianta altrettanto che per l’animale. «A che cosa aspira la pianta?» – ma qui abbiamo già inventato una falsa unità, che non esiste: il fatto di una crescita infinitamente molteplice con iniziative proprie, e proprie a metà, viene nascosto e negato, se vi poniamo davanti la grossolana unità «pianta». Che gli ultimi e i minimi «individui» non siano da intendere come atomi, che la loro sfera di potenza si sposti continuamente – ciò è evidente a prima vista; ma aspira ciascuno di essi, nel trasformarsi così alla «felicità»? – Piuttosto, ogni espandersi, incorporare, crescere è un lottare contro qualcosa che resiste; il moto è essenzialmente qualcosa di collegato con stati dolorosi: ciò che qui spinge (treibt) deve in ogni caso valere qualcosa d’altro, se a tal punto vuole il dolore e continuamente la cerca – Per che cosa lottano tra loro gli alberi di una foresta vergine? Per la «felicità»? No, per la potenza.
 
VIII
 
All’inizio c’è la spinta. Per Hegel la spinta è il trieb, per Nietzsche è il treibt, per Mazzetti è l’istinto. La spinta sembra essere prima, sembra coincidere con l’inizio. Ma questo inizio – la spinta – non è più l’inizio. Visto che l’inizio deve essere immediato e semplice.
La spinta non può non condividere l’inizio con la contro-spinta. La spinta, dice Nietzsche, è come un ritmo di piccoli stimoli di contro-spinte. Anche per Hegel ci sono spinte e contro-spinte. E per Mazzetti c’è la Frustrazione ottimale.
Sia Nietzsche, sia Hegel, saltano dagli effetti per così dire antropologici della spinta, agli effetti ontologici.
Cosa fa Mazzetti?
 
IX
 
È salvandosi fortunosamente da un’inondazione su un tronco, dice Mazzetti (p.53), che l’antenato dell’uomo impara.
Il passaggio dall’istinto alla ragione è ancora descritto in modo non teleologico: il passaggio è casuale. Nulla in ciò che precedeva la ragione ha preparato il suo avvento, niente lo ha programmato o causato.
La ragione non è un effetto necessario (legale) delle condizioni precedenti. Risulta dalle condizione precedenti. Ma il risultato emerge fortunosamente. Se così non fosse, se il passaggio fosse stato programmato, si sarebbe dovuto pensare e credere in una ragione prima della ragione (teologia).
La ragione è emersa liberamente, casualmente (divinamente).
 
X
 
In uno scritto giovanile – Lo spirito del cristianesimo e il suo destino –, per spiegare il passaggio dall’istinto alla ragione, Hegel usa la figura dell’inondazione – del diluvio.
All’inizio l’uomo era tutt’uno con la natura. Il diluvio (Noè) rompe questo idillio. La natura sarà ora nemica, un nuovo rapporto dovrà essere instaurato.
Affinché l’uomo potesse tenere testa alle aggressioni della natura ormai ostile – dice Hegel – questa doveva essere dominata, e dal momento che il tutto diviso in due non può essere diviso che in idea e effettività, la più alta unità di dominio è o nell’essere-pensato o nell’essere-effettivo.
Per dominare l’ostilità della natura era necessario pensarla, concepirla, afferrarla. La ragione si ingegna intorno ad una ferita – ideale masochista.
Idealizzazione è masochismo.
Il moto è collegato da stati dolorosi, dice Nietzsche. Questo collegamento fornisce la figura del Tutto, e questo tutto è una finzione – una creazione. L’essere, dice Nietzsche (2,110), è invenzione di colui che soffre del divenire.
 
XI
 
Tutto ciò riconduce ad una figura classica della Fenomenologia dello Spirito: la lotta tra Signoria e Servitù (da approfondire. Mazzetti riceve il tema della Signoria (denaro) e della Servitù (lavoro) senza mai tematizzarlo).
L’uomo, dice Hegel (Fen. Cicero, 287), non ha tremato per questa o per quella circostanza, né in questo o in quell’istante. Ha provato angoscia (Angst) dinanzi alla totalità delle propria essenza perché ha avuto paura della morte, cioè del signore assoluto. In questa angoscia, la coscienza è stata intimamente dissolta, ha tremato fin nel più remoto recesso, e tutto quanto c’era in essa di fisso è stato scosso. Questo puro movimento universale, questo assoluto divenir-fluida di ogni sussistenza, però, è appunto l’essenza semplice dell’autocoscienza, la negatività assoluta, il puro esser-per-sé.
L’uomo guarda ciò che è fuori, il suo altro (il medesimo sdoppiato) come suo signore – come suo ideale. Da parte sua, dice Hyppolite (Genesi e struttura), in quanto si riconosce servo, l’uomo si umilia. Ciò che è fuori di lui (la signoria) appare al servo come la verità – verità e potere esterni.
La paura della morte, l’angoscia, gli restituisce quelle possibilità (quel potere) che, investito nel doppio, gli parlava comandandolo da fuori (Mazzetti, cfr. Il crollo della mente bicamerale). Tutti i momenti naturali ai quali egli aderiva come coscienza calata nell’esistenza animale, si sono dissolti in quell’angoscia fondamentale (Hyppolite). Il servo ha tremato, e in questa angoscia primordiale ha percepito la propria essenza come un tutto. Gli si è presentato il tutto della vita e tutte le peculiarità dell’esserci si sono risolte in tale essenza. Perciò la coscienza del servo si è sviluppata come puro esser-per-sé.
La coscienza umana, dice Hyppolite, può formarsi solo attraverso questa angoscia che dà sul tutto del suo essere. Allora gli interessi particolari, il disperdersi della vita in forme più o meno stabili, sono scomparsi e in tal paura l’uomo ha preso coscienza della totalità del suo essere – una totalità che nella vita organica non è mai data come tale. “Nella mera vita, nella vita che non è spirito, il nulla non esiste come tale”.
La coscienza del servo non è solo questo dissolversi in sé di ogni sussistente, ma anche eliminazione progressiva di ogni aderire a un esserci determinato, poiché nel servizio – nel particolare servire il signore – essa si disciplina e si distacca dall’esserci naturale.
Ciò che qui si palesa, attraverso l’angoscia di fronte alla morte, è il nulla. Un nulla che, in quanto nulla, non esiste, non è presente, non è a portata di mano. Nella coscienza dell’essere effettivamente esistente si insinua una mancanza, un nulla, il rinvio a un non-essere, che non è il non di ciò che si contrappone, di ciò che è presente in quanto contrapposto.
 
XII
 
In Che cos’è metafisica – prolusione tenuta nel 1929 a Friburgo – Heidegger affronta lo stesso tema.
Secondo Hegel – dice Heidegger – la filosofia, dal punto di vista del buon senso comune, è «il mondo alla rovescia».
La scienza, dice Heidegger, si rapporta all’ente e a nient’altro, tratta l’ente come disponibilità presente e a portata di mano. E non vuole saperne del niente. Il niente gli sembra una fantasticheria e una mostruosità.
Chiedendo «Che cos’è il niente?», dice Heidegger [cos’è è la domanda metafisica], si assume già il niente come qualcosa che «è» così e così, cioè lo si tratta come un ente. Eppure, dice Heidegger, il niente differisce dall’ente in modo assoluto. Ogni risposta a questa domanda è per principio impossibile, perché si articola nella forma secondo cui il niente «è» questo o quello.
La regola del pensiero in generale, cui comunemente ci si richiama, dice Heidegger, ossia il principio di non contraddizione, la «logica» generale [formale], sopprime la questione, perché il pensiero, che essenzialmente è sempre pensiero di qualcosa, qui, come pensiero del niente, dovrebbe agire contro la sua propria essenza.
Insomma, dice Heidegger, per la logica formale, quella stessa logica che governa il ragionamento ordinario e comune, la domanda a proposito del niente è una domanda assurda, e nella sua assurdità deve essere rigettata, perché contraria al principio di contraddizione.
Eppure (nonostante la logica formale), rivendicando la sovranità del pensiero sulla logica, bisogna riconoscere che è solo con l’aiuto del niente che si può determinare l’ente, porlo come un oggetto della scienza.
Infatti, dice Heidegger, il niente è la negazione della totalità dell’ente, il puro e semplice non-ente. Ma in questo modo, chiede Heidegger, non abbiamo posto il niente sotto la giurisdizione del no, della negatività, e rinviato tutta la questione del niente alla logica formale e all’intelletto?
La possibilità della negazione, come operazione dell’intelletto, e quindi l’intelletto stesso – risponde Heidegger – dipendono dal niente.
Ammesso e non concesso che non ci si lasci fuorviare dall’intelletto e dalla logica formale, e si consideri il niente come un dato, ci si domanda dove si mostra il niente, dove lo si deve cercare, dove lo si incontra. E poi, chiede Heidegger, per trovare qualcosa, non dobbiamo forse già sapere in generale che c’è? Certamente! Innanzitutto e per lo più l’uomo è in grado di cercare solo se presuppone la presenza di quel che cerca.
Sia come sia, dice Heidegger, noi conosciamo il niente, quotidianamente ne parliamo, ne abbiamo una conoscenza, seppur vaga, e, a partire da questa conoscenza mediana e vaga, ne possiamo perfino fornire una definizione: il niente è la negazione completa della totalità dell’ente.
Se seguiamo questa definizione preliminare, essa ci guiderà verso la ricerca di quella totalità dell’ente che, una volta trovata, ci indicherà la direzione verso la quale cercare il niente.
Potremmo trovare la totalità dell’ente nell’«idea» – dice Heidegger. E poi negare nel pensiero e «pensare» come negato ciò che abbiamo così immaginato. Certo, dice Heidegger, ma per questa strada acquisiamo il concetto formale del niente, ma mai il niente stesso. Anche se, a dirla tutta, il niente pensato e il niente vero e proprio, essendo il niente l’assoluta indifferenza, sono entrambi niente. In più, anche qui, si finisce sempre per considerare il niente – immaginato o effettivo – come un che di sussistente, dunque di contraddittorio.
Se la totalità dell’ente non la si cerca nell’idea, ma la si cerca in sé, è evidente che questa totalità non può essere colta in modo assoluto. Posta in mezzo all’ente nella sua totalità, una parte, in quanto parte, non è in grado di cogliere il tutto (negazione determinata).
Eppure, dice Heidegger, per quanto frantumata possa apparire la vita quotidiana, ci sono situazioni in cui, l’ente si mantiene in un’unità del «tutto». Anche quando siamo presi dalle cose e da noi stessi, il «tutto» dell’ente ci soprassale – per esempio nella noia. La noia profonda, quella noia che ci avvolge come una nebbia silenziosa, accomuna tutte le cose, tutti gli uomini, e con loro noi stessi in una strana indifferenza. Questa noia rivela l’ente nella sua totalità.
Lo stato d’animo, dice Heidegger, per cui si «è» così e così, ci consente, quando ne siamo pervasi, di sentirci situati in mezzo all’ente nella sua totalità. Il sentirsi situati (Befindlichkeit – lo stato d’animo) non solo svela l’ente nella sua totalità, è al tempo stesso l’accadimento fondamentale del Da-sein (il da del Dasein).
Se lo stato d’animo è in grado di portare l’uomo (il Dasein) innanzi all’ente nel suo insieme, esiste uno stato d’animo in grado di portarlo al cospetto del niente? – chiede Heidegger.
Questo stato d’animo esiste, ed è l’angoscia (Angst). L’angoscia, dice Heidegger, non è la paura. La paura è sempre paura di un ente determinato, di un questo o di un quello che di volta in volta ci minaccia. Chi ha paura è prigioniero di ciò che lo minaccia. Cerca di liberarsi dalla cosa minacciosa, perdendo di vista tutto il resto, smarrendo anche la ragione.
L’angoscia, dice Heidegger, non perturba. È attraversata da una quiete singolare. Non è angoscia di qualcosa in particolare, di un questo o di un quello. Nell’angoscia si è spaesati (Unheimliche). Tutte le cose, e noi stessi, affondano nell’indifferenza. Le cose non si dileguano, si allontanano, e allontanandosi si rivolgono a noi e nell’angoscia questo allontanamento ci assedia, ci opprime. Non rimane nessun sostegno. Nel dileguarsi dell’ente l’angoscia rivela il niente. Essa porta via ogni ente, e con essi anche noi stessi. Resta solo il puro Da-sein.
Nell’angoscia, precisa Heidegger, non ha luogo un annientamento di tutto l’ente in sé. Tanto meno una negazione dell’ente nella sua totalità. La negazione è estranea all’angoscia, e, in ogni caso, la negazione, che dovrebbe produrre il niente, arriverebbe troppo tardi. Il niente ci viene incontro già prima. Viene incontro insieme all’ente nella sua totalità che si dilegua.
Nell’angoscia nientificante, che non è un annientamento – l’angoscia non annienta niente – sorge l’ente in quanto tale, l’ente in quanto è ente – e non niente. Immerso nel niente il Dasein è oltre l’ente nella sua totalità. Trascende l’ente. Se il Dasein non trascendesse l’ente, se fosse sempre presso di esso, non potrebbe mai comportarsi in rapporto all’ente, e perciò neanche a se stesso. Senza l’originaria evidenza del niente, dice Heidegger, non ci sarebbe nemmeno un esser-se-stesso. Il niente è ciò che rende possibile l’evidenza dell’ente per l’esserci umano. Pertanto, la negazione, che presuppone sempre un negabile, e dunque un ente già costituito, presuppone il non della nientificazione. Dunque, conclude Heidegger, il niente è l’origine della negazione, e non viceversa.
Siamo esseri finiti, gettati in mezzo alle cose, non siamo capaci di portarci originariamente dinnanzi al niente mediante una nostra decisione o volontà. La finitudine, dice Heidegger, scava così abissalmente nel Dasein, che alla nostra libertà è preclusa la finitezza più propria e più profonda.
Come trascendere la finitudine?
L’essere tenuto immerso del Dasein nel niente sul fondamento dell’angoscia latente è l’oltrepassare l’ente nella sua totalità, è la trascendenza – dice Heidegger.
L’essere oltre, il domandare oltre l’ente, per tornare a comprenderlo come tale e nella sua totalità è Metafisica.
Nel domandare del niente, dice Heidegger, accade proprio un tale andare oltre l’ente in quanto ente nella sua totalità.
 
XIII
 
Il riferimento all’ente di tutte le scienze positive appare ad esse come il frutto di una libera scelte. Esse trovano il loro ambito di ricerca già disponibile, si tratta solo di sceglierlo e cominciare.
Tutte le scienze positive, dice Heidegger (I problemi fondamentali della fenomenologica), hanno per tema l’ente, e questo è già dato al loro sguardo sempre in quanto ente. Esse lo presuppongono, per esse è un positum. Tutte le proposizioni delle scienze non filosofiche, anche gli enunciati della matematica, sono proposizioni positive.
Ma da chi è dato quest’ente che le scienze positive trovano già disponibile? Dove comincia, e come deve essere l’inizio della scienza?
L’inizio, va da sé, non deve cominciare da altro, non deve avere niente fuori di sé. L’inizio deve essere immediato e semplice.
L’inizio, dice Hegel (Grande Logica, 55), dev’essere un inizio assoluto. Non può presupporre nulla, non deve essere mediato da nulla, né avere alcuna ragione d’essere. Anzi, deve essere esso stesso la ragione d’essere o il fondamento di tutta la scienza. Deve essere quindi semplice e immediato, o, meglio, soltanto l’immediato stesso.
L’inizio, continua Hegel, non può avere una determinazione di fronte ad altro, né può avere alcuna determinazione in sé, non può essere composto, non può racchiudere alcun contenuto, perché un tale contenuto sarebbe come una distinzione e un riferirsi di diversi l’uno all’altro, e sarebbe dunque una mediazione.
E tuttavia, per essere inizio, l’inizio deve partire, distinguersi, staccarsi da un punto, spiccare il salto. L’inizio deve essere libero e determinato – allo stesso tempo. Deve essere fatto e non-fatto, prodotto e produttore, causa ed effetto di se stesso. L’inizio deve essere contraddittorio, deve essere dialettico. La logica formale esclude che una stessa A possa essere allo stesso tempo libera e determinata, causa ed effetto, prodotto e produttore, in-sé (sovrano) e fuori di sé (alienato).
L’inizio, se non fosse immediato, sarebbe preso come già posto innanzi.
Un determinato, dice Hegel, contiene un altro, oltre al primo. Sta dunque nella natura dell’inizio stesso, che esso sia l’essere, e niente più. All’inizio non si ha nulla fuori di sé o dentro di sé, alcun oggetto particolare, perché il cominciamento, come cominciamento, deve essere semplice. Non si ha nulla, eppure, qualcosa deve divenire, qualcosa deve succedere. Ecco perché il cominciamento non è il puro nulla, il nulla della negazione logica, il no della negazione formale. Deve essere un nulla dal quale deve uscire qualcosa. Dunque, anche nel cominciamento è già contenuto l’essere. Il cominciamento, dice Hegel, contiene l’uno e l’altro, l’essere e il nulla; è l’unità dell’essere col nulla; – ossia è un non essere, che è in pari tempo essere, e un essere, che è in pari tempo non essere.
All’inizio, dove tutto comincia, l’essere e il nulla sono come diversi – dice Hegel. Poiché l’inizio – se è vero che inizia – accenna a qualcos’altro; è un non essere che si riferisce all’essere come a un altro. Ciò che comincia non è ancora; va, soltanto, all’essere. L’inizio contiene l’essere come quell’essere che si allontana dal non-essere, o lo toglie (aufhebt) via considerandolo come contrapposto a lui. Divenire. La verità dell’essere e del nulla è pertanto questo movimento consistente nell’immediato sparire dell’uno di essi nell’altro: il divenire. Movimento in cui l’essere e il nulla sono differenti, ma di una differenza che si è in pari tempo immediatamente risoluta.
Inoltre, dice Hegel, ciò che comincia è già (non potrebbe cominciare se già non fosse); in pari tempo, però, non è ancora (se fosse già non potrebbe diventare ciò che è). Nell’inizio questi opposti, l’essere e il non essere, sono immediatamente uniti. Vale a dire che il cominciamento è la loro unità indifferente, indistinta.
L’analisi dell’inizio e dell’iniziale ci darebbe, dice Hegel, il concetto dell’unità dell’essere con il non-essere – o, in forma riflessa, il concetto dell’unità dell’essere differente e del non essere differente – oppure, quello dell’identità della identità con la non identità – la prima e la più pura definizione dell’assoluto.
Cominciare con l’essere, dice Hegel, conduce l’essere al nulla, e ciò non è accettabile, dice qualcuno. Cosa c’è di più normale, si obietta, che cominciare con l’inizio stesso, e analizzare questo inizio per quello che è? Senonché, ribatte Hegel, la pretesa di cominciare con l’inizio è insostenibile.
Se all’inizio si pone un che di concreto, si pone cioè qualcosa di determinato, viene assunto come immediato (ovvero come iniziale) ciò che in verità è mediato. Ma il mediato appare quando le scienze sono già poste, quando le cose appaiono già come regioni determinate di scienze positive diverse. Ma le cose appaiono come diverse solo quando sono già conosciute come diverse, e quindi in quanto la scienza è già cominciata. Invece, quello che si cerca qui è proprio il punto che dà avvio al cominciamento, un punto che precede la comparsa delle scienze positive e dei propri oggetti. All’inizio, questa differenza, non è ancora posta, e tutto appare come lo stesso.
Ciò con cui si deve iniziare, dice Hegel, non può essere qualcosa che contenga dentro di sé una relazione. Perché ciò presupporrebbe dentro di sé un mediare ed un passare da un primo ad un altro, e da un altro ad un altro ancora, rendendo vana la posizione dell’inizio. Ciò che si pone come inizio bisogna prenderlo come tale che non si possa analizzare, bisogna prenderlo nella sua semplice, e non riempita, immediatezza, e però come essere, come l’assolutamente vuoto.
Infine, dice Hegel, si pensa che all’inizio vi possa essere l’Io, e che tutto debba essere dedotto da questo primo vero e immediatamente certo presupposto. Tuttavia, quest’io, essendo allo stesso tempo un che di concreto, è la coscienza stessa di un mondo infinitamente molteplice. Affinché possa porsi come inizio deve essere purgato da se stesso, deve essere emendato di questa molteplicità, deve essere purificato e posto come un Io astratto. Ma a questo punto non è più quell’Io concreto e ordinario della nostra coscienza. Anche se, conclude Hegel, la determinazione del sapere puro come Io porta continuamente con sé il richiamo all’Io soggettivo, i cui limiti bisogna dimenticare, e che, nonostante l’oblio, ritornano sempre come rimosso, e affettano l’Io ponendo come contrapposto ad altro, e dunque come mediato, come composto.
L’inizio, ribadisce Hegel, deve essere semplice, perché nel semplice non vi è nulla oltre il cominciamento. E solo l’immediato è semplice, perché solo nell’immediato non vi è ancora un essere preceduto da altro. Soltanto l’essere – il semplice, che non possiede alcun altro significato, questo vuoto – è dunque, semplicemente, il cominciamento.
Queste note preliminare, dice Hegel, non sono un preambolo, o una introduzione. Il semplice non ammette alcuna introduzione, alcun preliminare, alcun metodo.
L’essere, il puro essere, dice Hegel, è senza nessuna determinazione. Nella sua indeterminata immediatezza è simile solo a se stesso, e non è dissimile da altro. Non ha altro fuori di sé. Il cominciamento deve prodursi in sé, a partire da sé, differenza tra sé e sé. Con qualche determinazione o contenuto, che fosse diverso da lui, o per cui esso fosse posto come un diverso da un altro, l’essere non sarebbe fissato nella su purezza. Piena immanenza. Nessuna trascendenza. Nessun aldilà. Tutto è qui, e da questo tutto, a partire da questo tutto, deve cominciare ogni cosa. Il là deve suonare da qui, e non da un aldilà.
Ma chi suona e a chi, se tutto è uno?
 
XIV
 
L’uomo impara fortunosamente – dice Mazzetti. Immaginare l’inizio della conoscenza come una libera scelta significa presupporre come dato ciò che invece bisogna dimostrare (p.53). Porre all’inizio la libertà significa, dice Mazzetti, immaginare l’uomo prima dell’uomo. Significa immaginare l’uomo come prodotto di un progetto dell’uomo, e siccome l’uomo non è prima dell’umo, allora il progetto dell’uomo è il progetto di una mente umana trascendente – divina. Si finisce nella teologia. Si scade nella teleologia, cioè nel supporre che ciò che sta alla fine (prodotto) sia uguale a ciò che sta nell’idea (divina) iniziale (produttore). Ma all’inizio non c’è alcuna idea.
Vale sempre ricordare la domanda Nietzschiana: A cosa serve la mano? Ad afferrare. Certo! Ma solo in un ordine teo-teleologico.
In un ordine darwiniano, la mano non serve a nulla, è stata prodotta (ma qui produzione perde ogni valenza) senza uno scopo, e il senso che oggi, di volta in volta, acquista è provvisorio e contestuale, arbitrario.
Ma se l’idea (il progetto, il produttore) non è, e non può essere, all’inizio, la si troverà forse alla fine? Bisogna dunque supporre all’inizio il caso e l’arbitrio?
Muta il contesto, le conoscenze acquisite non inquadrano la nuova situazione, si genera una frustrazione (che non è un problema, visto e considerato che ci si pone solo problemi per i quali la soluzione è già data). Nessun finalismo (teleologia), nessuna preveggenza (orientamento) può dare risposta alla frustrazione, da nessuna delle conoscenze acquisite può emergere la soluzione. L’azione [non l’uomo, ma la mera azione – anti-umanismo], dice Mazzetti (p.54), cerca (ma qui non c’è un soggetto della ricerca, la ricerca e un tirare a sorte, ma senza una mano che lanci i dadi) la soluzione alla cieca, per caso. È solo il verificarsi accidentale dell’effetto positivo che apre un primo spiraglio. Ma neanche il caso è sufficiente, occorre la ripetizione. [Nietzsche – volontà di potenza (azione) e eterno ritorno (ripetizione) – le mani d’acciaio del bisogno che scuotono il bossolo dei casi – approfondire].
Prima di procedere, bisogna ricordare che l’inizio, la questione dell’origine, non si risolve una volta per tutte. La questione dell’inizio emerge ad ogni frustrazione. Là dove c’è frustrazione la questione si ripresenta, e con essa si ripresenta il tema della teleologia e della teologia. Non si può assolutamente dare per scontato che, per esempio, la mano, apparsa per caso e priva di fini, assoggettata ad un qualche scopo, acquisisca una validità funzionale permanente, seppur arbitraria, perché inserita in un contesto che convalida il senso attribuitogli. Se il contesto cambia, la mano ritorna muta, insignificante, o acquisisce un senso che produce una significazione indeterminata.
Rimane il fatto che su questo piano l’azione e la ripetizione sono azione e ripetizione animale, il salto alla ragione necessita di un’ulteriore tematizzazione.
Nella prima parte del libro – antropologia darwinista – Mazzetti affronta il tema dell’origine confrontandosi con la biologia, l’etnologia, la psicologia, la fisica, la paleontologia. Nella seconda parte, dove si tratterebbe di mostrare il salto alla ragione, i riferimenti alla tradizione non son per nulla tematizzati. Si dà per scontato il punto di vista tradizionale.
 
XV
 
L’animale – dice Mazzetti (p.57) – cerca una soluzione a caso. Impara, solo se ripete casualmente. L’animale apprende un comportamento, e quel comportamento appreso attraverso la reiterazione, diventa un elemento intrinseco, proprio dell’animale. Ma questo elemento proprio, in sé, non diventa mai un elemento per sé, non diventa un elemento conosciuto per se stesso. L’animale replica, reitera, ma senza sapere, senza porsi come fine ciò che ripete. Non ha idea, insomma, di ciò che fa. Non ha accesso all’idea. L’animale rimane confinato all’esistente, all’essente, ente perduto tra gli enti, non trascende il mondo degli enti, rimane vincolato alle cose, mangia, si nutre, ma il nutrimento non diviene mai un suo nutrimento, un suo tema, un suo scopo, un suo mezzo, eccetera.
Bisogna ricordare che non siamo all’interno di una antropologia. Mazzetti tenta il salto dall’animale al razionale. Siamo in una ontologia.
Non siamo più all’interno di una antropologia darwiniana, nella quale i cambiamenti emergono a caso, e le variazioni rimangono segnate in strutture fisiche che replicano, sino alla successiva frustrazione, la novità impressa. Non siamo neanche in una struttura di apprendimento animale dove il comportamento appreso è ritenuto e replicato, ma senza intenzione, senza cognizione, senza idealizzazione. Nel quadro dell’apprendimento animale, dice Mazzetti, per quanto in profondità possa spingersi la trasformazione prodotta dall’apprendimento, ciò che l’animale non può acquisire in questo quadro, un quadro che rimane di tipo naturale, è la capacità di idealizzazione, cioè di pre-figurare l’azione, di pensarla prima di attualizzarla. I processi di adattamento animale – dice Mazzetti (p.57) – non implicano l’emergere di un elemento che è proprio della condizione umana. Questo elemento è lo scopo, il fine. L’uomo si distingue dall’animale in quanto accede all’idea.
Se è vero che l’uomo è stato in tutto e per tutto un animale – senza mai cessare d’esserlo, e che in quanto animale non aveva la ragione; se la ragione deve essere stata prodotta, allora deve aver avuto un inizio, un’origine. Ma siccome l’animale, dice Mazzetti, non può mai acquisire la capacità di confrontarsi con la propria azione (non è capace di prefigurare e idealizzare – non ragiona) è destinato a rimanere per sempre confinato nella sua animalità. A meno che, per mera casualità, non compia un salto che lo faccia accedere all’idea. Ma in ogni caso, ogni volta, l’accesso all’idea, idea che non sia soluzione a un problema emerso dal contesto dato, deve avvenire per salto. E che dunque la storia dell’uomo non è, e non sarà mai, una storia, bensì una raccolta sincronica di salti. A meno che non si consideri l’uomo pensante come presupposto dell’uomo pensante. Il ché, va da sé, immette in un circolo – e in tutte le sue complicazioni.
Complicazioni che Hegel ha affrontato nella Logica.
 
XVI
 
Solo la comparsa dello scopo, ribadisce Mazzetti (p.58), testimonia della comparsa di una vera e propria soggettività. Ma il manifestarsi dello scopo, aggiunge Mazzetti, presuppone la struttura di soggetto e oggetto. L’animale non si trova mai in questa struttura. Non è mai soggetto contrapposto ad un oggetto. È immediatamente una cosa sola con la sua attività vitale. Non si distingue da essa. È quella stessa cosa.
Il soggetto appare insieme alla capacità di posposizione, e questa emerge dal freno delle spinte, dall’inibizione dello stimolo.
Non ti mangio, dunque ti penso. (Masochismo, approfondire)
 
XVII
 
L’uomo, dice Hegel, cessa di essere un semplice essere naturale consegnato a intuizioni e spinte immediate, alla loro soddisfazione come pure alla loro produzione. Egli ne è consapevole ed è per questo che reprime le sue spinte e mette il pensiero, l’ideale, tra l’urgenza della spinta e la sua soddisfazione. Nell’animale, al contrario, le due cose coincidono. L’animale non può spezzare volontariamente la loro connessione; quest’ultima può essere spezzata solo dal dolore o dalla paura. Ma la spinta umana esiste, indipendentemente dalla sua soddisfazione. Potendo frenare, oppure abbandonarsi alla sua spinta, l’uomo agisce per dei fini e si determina secondo l’universale. Deve determinare quale fine deve essere imposto; può anche porre come fine l’universale stesso. A determinarlo è la rappresentazione di ciò che è e di ciò che vuole. È qui la sua indipendenza: egli sa cosa lo determina. In questo modo può assumere come fine il concetto semplice, per esempio la sua libertà positiva. Le rappresentazioni dell’animale non sono ideali, effettive: è per questa regione che l’animale è privo dell’indipendenza interiore. In quanto vivente, l’animale porta in sé la fonte del proprio movimento – si direbbe autonomo. Ma nessuno stimolo esteriore può operare se non è già presente in lui: per l’animale quanto non corrisponde al suo essere intimo non esiste [è come una macchina, fa solo ciò che è programmato per fare. Non sa gestire ciò che non è programmato, non sa anticipare, non sa porsi fini]. Anche l’animale si divide da sé in due. Ma non può interporsi tra le sue spinte e la loro soddisfazione; non possiede volontà e non conosce inibizione. In lui la stimolazione comincia interiormente e suppone uno sviluppo immanente [non trascende – è immediato]. L’uomo è indipendente non perché è dotato di auto-movimento, ma in quanto è capace di inibire il movimento e, attraverso ciò, rompere la sua immediatezza e la sua naturalità. [L’uomo non è una macchina, sa bloccare il desiderio, sa frenare la spinta che lo mette in moto, e sa bloccarla perché sa porsi un fine].
L’uomo, dice Hegel, può conoscere se stesso ed è per questo che si distingue dall’animale, egli è pensante: ma pensare è conoscere l’universale.
 
XVIII
 
La comparsa della ragione, che distingue l’uomo dall’animale, dice Mazzetti (60), è il frutto di una vera e propria rottura. Questa rottura ha bisogno di una spiegazione. Non può essere assunta come un dato di fatto. E non può esserlo perché la spiegazione non è così ovvia.
Come può accadere, chiede Mazzetti (61), che un non soggetto (l’uomo animale), attraverso la sua azione non soggettiva, giunga a diventare un soggetto (l’uomo umano)? Come può un soggetto privo di ragione giungere a porsi uno scopo? Come spiegare la genesi della ragione senza ricorrere alla teologia?
Allo stesso modo che nell’antropologia, qui, nell’ontologia, si deve supporre che la ragione sia comparsa per caso.
Sebbene la ragione sia il risultato di un processo, questo processo non ha come punto di partenza la ragione, ma ha invece il caso. La ragione è emersa dal caso. E ogni volta che la ragione ri-emerge, il caso si presenta a riscuotere il pegno.
 
XIX
 
Ponendo come base della ragione il caso, non si sfocia nello scetticismo, nell’irrazionalismo?
Le cose non sono così semplici. Qui si affaccia tutta la potenza della dialettica, di una ragione che tutto abbraccia, persino il suo contrario, persino la sua negazione, o la sua contraddizione. Come notava Heidegger, la negazione presuppone sempre un negabile, e dunque una ragione già costituita.
Ogni scetticismo genuino, dice Husserl (Idee, I,196), di qualunque specie e direzione esso sia, si rivela nell’assurdità di principio consistente nel negare nelle sue tesi quello che implicitamente presuppone come condizione di possibilità della validità delle sue argomentazioni. Chi dice io dubito del significato conosciuto nella riflessione, afferma un controsenso. Poiché, facendo una affermazione sul dubitare, riflette, e il presentare come valida questa affermazione presuppone che la riflessione abbia (almeno in questo caso) veramente e indubitabilmente il valore conoscitivo messo in dubbio.
Hegel sottomette lo scetticismo ad un amaro trattamento: è abitudine di Hegel mettere a lavoro l’avversario, farlo faticare alla costruzione del sistema.
 
XX
 
In ogni istante la cosa percepita è colta in una delle sue facce, e la completezza è rimandata ad un orizzonte relativamente indeterminato di percezioni possibili. La verità non è mai raggiunta, è sempre relativa, è opinione, perché la conclusione della serie non è determinabile. Il corso effettivo della percezione aggiungerà sempre nuovi e imprevedibili dati, anzi, vere e proprie correzioni, o cambiamenti radicali, tanto che ciò che si riteneva effettivo risulterà illusorio. La verità così costituita non sarà altro che un’opinione relativa ritenuta per vera.
La verità non-relativa – la verità assoluta – deve essere necessaria e indubitabile, universale, deve essere per tutti e per sempre.
Ma come può l’uomo, essere finito, accedere all’infinito? Si deve per forza richiedere un soggetto eterno, infinito (Dio)?
Se si tiene fermo l’attaccamento all’aldiqua, se si rifiuta ogni sostengo proveniente dall’aldilà, se si rigetta la teologia, se si considera l’esperienza come il fondamento di tutto ciò che si sa, se si ritiene che la percezione contiene tutto quel che accade, allora, dice Hume, si deve riconoscere che l’esperienza non contiene, né da essa potrebbero essere date, le determinazioni di necessità e universalità.
 
XXI
 
Bacone, considerato il duce di tutta la filosofia dell’esperienza (Hegel, Storia, 3,1,15], abbandona ogni contenuto trascendente. La Scienza di fonda sull’osservazione della natura esteriore e interiore. Dalla natura si desumono conclusioni, e da esse si trovano rappresentazioni generali, le leggi che governano il campo di osservazione. Il suo punto di vista, dice Hegel, è costituito dal fenomeno sensibile, il finito e il terreno. Bacone considera l’esperienza come unica verace fonte della consonanza. Il mondo naturale empirico non è solamente osservato. In esso si cercano generi, universalità, leggi. In questa ricerca, la conoscenza naturale viene ad imbattersi nel campo del concetto, genera qualcosa che appartiene all’ambito dell’idea.
Il metodo di Bacone si oppone al metodo scolastico, allora in voga, di conquistare il sapere deducendolo da procedure, da definizioni, da concetti ammessi, da dogmi, da un abstractum, senza osservare ciò che c’è nella realtà.
Alla deduzione sillogistica della scolastica Bacone sostituisce l’induzione, un processo che parte dalle cose stesse, e non dal principio assunto come dogma. E tuttavia, osserva Hegel, quando Bacone contrappone l’induzione al sillogismo, si limita ad una contrapposizione formale. Non si avvede che ogni induzione e anche deduzione, come già sapeva Aristotele. Quando, osservando una quantità di cose, si ricava un principio generale, non si fa altro che sillogizzare. Quando si dice 1) che questi oggetti qui presenti hanno queste proprietà, e 2) che in virtù di queste proprietà appartengono insieme ad una classe, e 3) che questa classe ha queste proprietà generali, non si fa altro che presentare un sillogismo completo per ciò che riguarda la sua costituzione formale. Ciononostante, dice Hegel, non si può non riconoscere che l’induzione della conoscenza naturale parte dall’esperienza, e che da essa deduce la determinazione generale. Il problema è semmai il grado di deduzione presupposto dall’induzione.
L’errore formale di tutti gli empiristi, dice Hegel, è il credere di attenersi alla sola esperienza. Non si ha coscienza che nell’accogliere le percezioni si fa metafisica. L’osservazione non si arresta al singolo, né può arrestarvisi. Cerca l’universale, e questo universale consta di pensieri, se non di concetti. La più cospicua forma di pensiero, dice Hegel, è quella della forza. Si parla di una forza elettrica, di un forza magnetica, di una forza di gravità, ma la forza è un universale, e non un percepibile.
In ogni caso, dice Hegel, all’empirismo sfugge il singolo sensibile, il finito, che nelle sue mani diventa un universale.
Allo stesso modo di Bacone, anche Locke eleva a principio il particolare, la determinazione finita, l’individuo. Si differenzia da Spinoza, dice Hegel, per il quale il vero è ciò che solo veramente è, l’eterno, la sostanza, l’universale che è in sé e per sé, senza origine, senza tempo, e senza storia, e di cui tutte le cose particolari sono mere modificazioni che si concepiscono a partire da questa sostanza unica, immediata, eterna, e di fronte a cui tutto ciò che è determinato, individuale, perisce.
Locke si oppone anche alla dottrina delle idee innate. Le idee (l’universale) non sono innate. Si deve pervenire all’universale mediante un processo. L’universale deve essere posto. L’anima è all’inizio una tabula rasa, un niente che deve essere riempito dall’esperienza e con l’esperienza.
Se l’inizio è una tabula rasa, priva di ragione, da dove provengono le idee?
Provengono dall’esperienza – risponde Locke.
Giusto – ribatte Hegel. Se si ammette come unica possibilità l’aldiqua, allora l’idea deve venire da questo aldiqua, dall’esperienza. Tutto è esperienza, sia il mondo fuori di me (natura), sia il mondo dentro di me (psiche).
Ma che cos’è l’esperienza?
L’esperienza, dice Hegel, è il sapere immediato, la percezione, in cui la percezione sono io stesso.
È assurdo credere in una percezione che non sia esperienza di colui che percepisce. Dunque, ciò che percepisco e sento, ciò che argomento e dico, è – esiste – nell’esperienza.
Da questa esperienza, stando a Locke, in modo passivo, l’intelletto, tramite la sensazione, riceve l’impressione delle cose quali esistono, e forma le idee semplici. A questo punto, mediante un’azione attiva, l’intelletto, attraverso comparazione, distinzione e contrapposizione, separazione o astrazione, ricava i concetti generali, quali spazio, tempo, esistenza, unità, diversità, causa ed effetto.
Nulla è più superficiale di questa idea, dice Hegel. La cosa stessa di cui si tratta – l’essenza – non viene affatto sfiorata. Ci si rivolge ad un determinato, compreso in un rapporto concreto, poi l’intelletto da una parte astrae, a dall’alta fissa. Ci si limita a porre a fondamento la traduzione del determinato nella forma dell’universalità. Ma questa essenza universale che viene posta a fondamento è proprio ciò di cui bisogna dire cosa sia. Lo stesso Locke, dice Hegel, alla fine è costretto a confessare di non sapere minimamente cosa sia lo Spazio.
Questa formulazione naif dell’Universale proposta da Locke, nonostante la sua patente infondatezza, è diventata famosissima – dice Hegel. Cosa c’è di più chiaro che il dire che abbiamo il concetto di tempo perché percepiamo, non propriamente vediamo, il tempo, e dello spazio perché lo vediamo?
Il fatto è, dice Hegel, che Spazio, Causa, Effetto, ecc., sono categorie. La questione è: In che modo queste categorie vengono al particolare? In che modo lo spazio universale perviene a determinarsi?
Infine, Locke distingue le essenze (universale) in essenze reali e in essenze nominali. Le prime esprimono la vera essenza delle cose, mentre le seconde esprimono un che di esistente negli oggetti, ma senza esaurirlo.
Nell’idealismo e nello scetticismo successivi, il pensare in generale viene considerato come il semplice, il generale essere identico a sé, come un movimento negativo per il quale il determinato (il particolare) viene tolto. In quanto negazione del determinato – negazione assoluta – questo idealismo diventa scetticismo. Lo scetticismo è l’autocoscienza e la certezza di sé poste come intera realtà e verità. La peggior forma di questo idealismo inglese, dice Hegel [Hegel, Storia, 3,1,15], è quella secondo cui l’autocoscienza singola e formale non sa dire altro senonché tutti gli oggetti sono nostre rappresentazione [Idealismo soggettivo: Berkeley, Hume].
Locke ripone la sorgente della verità nell’esperienza, nell’essere percepito. Da ciò Berkeley conclude dicendo che l’essere di tutte le cose è il loro essere percepite. Tutto ciò che sappiamo della cosa si riduce a nostre determinazioni.
Anche Hume si propone di completare il pensiero di Locke. Richiama l’attenzione sull’esperienza come fondamento della conoscenza. La percezione contiene tutto ciò che avviene. Tuttavia, argomenta Hume [Hegel, Lezioni, 3,II,230], l’esperienza, in quanto percezione sensibile, non contiene necessità, non contiene nesso causale. La percezione immediata si riferisce a un contenuto di condizioni di fatto o di cose, che esistono l’una accanto all’altra e l’una dopo l’altra, ma non a ciò che chiamiamo causa ed effetto. Nella successione del tempo non c’è causa ed effetto, e di conseguenza neppure necessità (legge). Quando diciamo che la pressione dell’acqua è stata la causa della rovina della casa, non si tratta di un’esperienza pura. Abbiamo visto l’acqua che faceva pressione o si muoveva in un dato luogo, e che poi la casa è crollata. La necessità non è giustificata dall’esperienza, siamo noi a introdurla nell’esperienza: è escogitata da noi accidentalmente, è soltanto soggettiva. Questa specie di universalità, che noi colleghiamo con la necessità, Hume la chiama abitudine. Siccome abbiamo visto più volte le conseguenze, ci abituiamo a ritenere necessario il nesso. La necessità, per Hume, è un’associazione di idee del tutto accidentale. Nulla assicura che l’evento successivo si verifichi secondo l’evidenza dei precedenti.
(Allo stesso modo si demolisce il concetto di Universale).
Quel che percepiamo sono singoli fenomeni, sensazioni, in cui vediamo che una cosa ora è così e poi è altrimenti. Può darsi che questa medesima determinazione la si percepisca più volte e in varie occasioni. Ma tutto ciò è ancora molto lontano dall’universalità, la quale è una determinazione che non ci è data dall’esperienza.
La conoscenza del nesso causale, o dell’universalità, del genere, non nasce da concetti apriori, ma dalla pura e semplice esperienza. Dall’attendersi da cause simili effetti simili. Non c’è conoscenza fuori dall’esperienza, non c’è metafisica. Ciò che si conosce è solo il finito, ma siccome il finito si estende indefinitamente, ciò che conosciamo sono solo illazioni, abitudini di pensiero, opinioni, consuetudini, le quali non sono più vere delle chiacchiere, in quanto non hanno, come le chiacchiere, alcun punto assoluto di ancoraggio.**
La necessità e l’universalità non sono giustificate dall’esperienza – dice Hume. Siamo noi ad introdurle nell’esperienza. Sono escogitate da noi accidentalmente, e sono soltanto soggettive. Necessità e universalità sono associazioni di idee del tutto accidentali. Il soggetto è tutto, l’oggetto è niente.
Lo scettico si eleva sulla certezza sensibile, e conclude sempre nel nulla. Ha bisogno di un contenuto particolare per poterlo dissolvere nel nulla. Questo nulla coincide con ciò che, nella vita vivente, si presenta come la morte, e, nella natura in generale, come dileguare puro e semplice.
Lo scettico, dice Hyppolite (Logica), conclude nell’astrazione del nulla, isola il nulla come ineffabile, anziché pensarlo come la negatività interna che consente al discorso di proseguire andando di determinazione in determinazione. La coscienza che pretende di raggiungere l’essere assoluto nella singolarità, sia fuori di sé che in se stessa, è vittima di questa pretesa immediatezza dell’essere, e ciò che trova non è l’essere ma, appunto, il nulla, non la mediazione, ma la trascendenza dell’astrazione suprema.
Pensiamo di cogliere l’essere singolare immediatamente come singolare, ma ciò che diciamo è quanto di più universale, un questo, un costui; e ogni ente è un questo, ogni io un costui. Crediamo di cogliere la ricchezza stessa del reale, ma di questa esperienza non ci resta che la coscienza della nostra povertà. Vediamo il singolare mutarsi in universale, e l’essere individuale trapassare nel nulla come nulla di tutte le determinazioni. E questo universale è la forma più povera del pensiero, è l’astrazione suprema, il nulla implicito delle determinazioni.
 
XXII
 
Hegel mette al lavoro lo scettico. Allora lo scetticismo diventa un momento dell’autocoscienza.
L’esserci immediato (Hyppolite), il sensibile trovato, è negato, e questa prima negazione consente all’immaginazione di disporre del dato in sua assenza, di evocarlo come assenza. Non è più la cosa stessa a essere presente, dice Hegel, ma io che mi ricordo della cosa e la interiorizzo. Io non vedo più, non sento più la cosa, ma l’ho vista, l’ho sentita.
L’Io, negando il sensibile, ancora lo conserva come un eco, si rappresenta l’assenza, si riferisce a ciò che non è presente in ciò che è presente. La cosa sentita non è né questo né quello, ma solo un non-questo, e che è altrettanto indifferente a essere questo o quello, tutto ciò lo si chiama universale: l’universale è dunque in effetti il vero della certezza sensibile [Hegel, PhG I, 84]
La singolarità sensibile si esprime effettivamente attraverso il proprio annientamento. Trascorre, diviene, si nega, e se la si vuole trattenere non resta che questo universale astratto. L’essere identico al nulla, questo elemento di tutte le determinazioni.
Lo stesso io singolare trascorre. Ciò che resta è il nome universale, ‘io’, che il linguaggio enuncia esattamente in quanto tale, trasformando in banalità quella pretesa unicità.
Il sensibile, dice Hyppolite (Logica), si fa dunque senso negandosi come sensibile. Questa negazione (Aufhebung) è il suo esser posto come significato enunciato nell’universalità dell’io. Nell’intuizione, l’Io universale appare a se stesso anzitutto come affetto dal di fuori. Trova un ente particolare e lo coglie, ma già questa affezione nella sua particolarità concreta è un discernere sul fondo dei qui e degli ora che costituiscono l’universale orizzonte spazio-temporale.
Colui che parla garantisce la permanenza di quelle determinazioni, è egli stesso questa permanenza formale, questa tautologia astratta da un contenuto che vale nella particolarità della propria distinta determinazione. Empirismo e formalismo, dice Hyppolite, sono qui, come sempre, complementari. L’intelletto sussume determinazioni sotto determinazioni, le coordina, è l’Io formale che lega tra loro tutte quelle determinazioni in un ordine esteriore, ma per ciò stesso resta loro estraneo, come l’unità astratta resta estranea alla diversità. L’intelletto così caratterizzato distingue sempre ciò di cui parla (il contenuto) da colui che parla (la forma). Preserva così l’Io nella sua sterilità, mantenendolo sempre fuori dal contenuto stesso.
 
XXIII
 
L’autocoscienza, dice Hegel (Fen. Signore e Servo, Cicero, 279), è, innanzitutto, essere-per-sé semplice, è uguaglianza con se stessa perché esclude da sé tutto ciò che è altro. Essa scorge la propria essenza e il proprio oggetto assoluto nell’Io. E in tale immediatezza, cioè in questo essere del proprio essere-per-sé, è qualcosa di singolare. Ciò che per l’autocoscienza è altro, quindi, è come oggetto inessenziale, segnato dal carattere del negativo. L’autocoscienza mostra di non essere legata a nessuna esistenza determinata.
L’autocoscienza, commenta Hyppolite (Genesi), si presenta impegnata in un contrasto col mondo. Per lei il mondo è ciò che scompare, che non sussiste, ma questo stesso scomparire dell’altro le è necessario per porre sé. Se divoro l’oggetto, rimango al livello della natura, se voglio sollevarmi sopra la natura, devo differire questo momento, devo allontanare l’oggetto, devo negarlo sublimandolo, altrimenti resto ancorato al livello della negazione naturale. Rimanere sul piano del vitale è la posizione naturale della coscienza, dice Hegel, è l’autonomia senza la negatività assoluta. Qui la negazione non produce il riconoscimento.
Bisogna invece negare la natura conservandola (Aufhebung), realizzare la possibilità di negare e, negandola, trascendere la propria realtà data, essere più e altro che l’essere meramente vivente.
La spinta, spinge per uscire fuori di sé, spinge verso lo sdoppiamento, la posposizione. Rinviando il consumo la coscienza si pone come proprio alter ego.
L’autocoscienza, scrive Hegel (Fen., 275), si dà in un’altra coscienza. Essa è uscita fuori di sé. Questo Uscire-fuori-di-sé ha un doppio significato: in primo luogo, dice Hegel, l’autocoscienza ha perduto se stessa; in secondo luogo l’autocoscienza ha rimosso l’altro, lo ha lavorato (Andere aufgehoben), essa, infatti, non vede anche l’altro come essenza (Wesen), ma vede se stessa nell’altro. È necessario che l’autocoscienza ri-levi (aufheben) questo suo essere-altro, che ritorni in sé, che si riprenda il sé uscito fuori, estraniato. Si tratta della rimozione (aufhebung) del primo doppio significato (1 – perdita di sé; 2 – lavorazione dell’altro). In primo luogo, dunque, l’autocoscienza, per diventare certa di sé come essenza, deve rimuovere l’altra autocoscienza autonoma; in secondo luogo, l’autocoscienza deve rimuovere se stessa, in quanto è essa stessa quest’altra essenza – deve superarsi.
Insomma, in un primo movimento la coscienza esce fiori di sé e pone l’altro come suo altro, come altro nel quale si specchia. In un secondo movimento, l’altro vien rilevato dall’autocoscienza, la quale, in quest’altro, trova se stessa e si supera, si completa, si concilia.
Rimuovendo il proprio esser-altro l’autocoscienza diviene nuovamente uguale a sé e riottiene quindi se stessa.
L’autocoscienza non potrebbe fare tutto da sé? – chiede Hegel.
Un’attività (Tun) unilaterale sarebbe inutile – risponde Hegel.
Ciò che deve accadere può accadere solo tramite il fare dell’altro, tramite il gioco delle forze (kräfte). Senza l’uscita fuori, senza il differimento e la differenza, senza gioco delle forze, non si dà pensiero.
Bisogna essere mediati dall’altro. Il termine medio, dice Hegel, è l’autocoscienza, la quale si scompone negli estremi; ciascun estremo è lo scambio della propria determinatezza, è un passaggio assoluto nell’estremo opposto. Essendo coscienza, ciascun estremo passa fuori di sé, e tuttavia nel suo esser-fuori-di-sé è a un tempo trattenuto entro sé, è per sé; e il suo essere-fuori-di-sé è per l’estremo stesso.
 
XXIV
 
Nel momento in cui, dice Mazzetti (p.64), di fronte ad una negazione, l’organismo non sperimenta questo scarto, e, nonostante la frustrazione, non si accorge negativamente di se stesso, è necessariamente destinato a soccombere. Infatti, in tal caso, non può far altro che ostinarsi a porre in essere il comportamento sempre seguito, che però non è più in grado di assicurargli la riproduzione, e si risolve in una mera dissipazione della propria carica vitale.
Dal un lato abbiamo una carica vitale, dall’altro abbiamo la negazione, la frustrazione. Da un alto abbiamo il positivo e dall’altro il negativo, da una parte la forza, dall’altro la contro forza, da una parte la spinta e dall’altra la contro spinta. Se la spinta non regge agli urti della contro spinta l’organismo si dissolve (ma cos’è l’organismo? È la spinta, oppure è la contro-spinta? Si può pensare un organismo solo come spinta? È mai possibile una spinta senza contro-spinta? Se, dunque, sono necessarie spinte e contro spinte, l’organismo cos’è, visto che le spinte e le contro spinte sono dinamiche? Non viene meno il riferimento a qualcosa che la parola organismo vuole tenere fisso? E se così è, questo tener fisso nella parola non ha bisogno di essere tematizzato? Ma a questo punto che né è dello stesso, del concetto di medesimo? Come si produce il medesimo – lo stesso? E lo stesso è un altro, oppure è ancora e sempre lo stesso, ma quale stesso, questo o quest’altro? Qui avanza tutta una serie di domande alla quali bisogna rispondere. A meno di non voler assumere come dato l’organismo. Ma l’organismo o è un dato, oppure è un divenire, e se è un divenire non è un dato – oppure è tutt’e due insieme – ma qui bisogna aprire un capito sull’origine, un capitolo che includa la dialettica).
Questa puntualizzazione di Mazzetti vuole fissare e dare per acquisto un dato importante. L’inizio ricomincia sempre. La questione dell’inizio e dell’iniziale non è chiusa mai definitivamente.
Che cos’è l’inizio?
Mazzetti pone la questione dell’inizio in termini darwiniani. L’inizio non ha una ragione fuori di sé, non ha una causa fuori di sé, non ha nulla fuori di sé.
L’inizio deve essere semplice, immediato. Se l’inizio non fosse semplice e immediato bisognerebbe porre una fonte più originaria alle spalle dell’inizio, e declassare questo inizio ad un inizio di secondo livello, ad un inizio fattizio, falso, finto, costruito a partire da un’altra istanza, un’istanza che, rispetto all’inizio che si cerca di provare e fondare, si trova in un aldilà inconcusso – Dio.
Siccome nessuno ha pensato l’inizio del mondo (teo-teleologia), e l’inizio del mondo è un fatto puramente mondano, l’inizio deve iniziare nel mondo, deve trovarsi nell’aldiqua. A questo punto sorge il problema di come pensare l’inizio senza dover pensare questo inizio come un qualcosa di determinato. Perché se si pensa l’inizio come un qualcosa, si deve pensarlo opposta a qualcos’altro, dunque determinato da qualcos’altro – si cade nella negazione determinata. Un inizio determinato da qualcos’altro non è un inizio.
In secondo luogo, siccome l’inizio è mondano, è un inizio terrestre, un inizio che si pone nell’aldiqua, bisogna che questo inizio sia posto, che abbia inizio, che abbia una partenza. Ma come può il semplice e l’indeterminato accedere alla storia, diventare fatto, evento, accadimento, eccetera?
Mazzetti arricchisce questo quadro, di per sé già problematico e aporetico, con una nuova questione. L’inizio, dice Mazzetti, non inizia una volta per sempre. L’inizio ricomincia ad ogni negazione. La questione dell’inizio non ha fine. Ritorna. O perlomeno può ritornare. E porsi nuovamente.
È quando si ripropone la questione dell’inizio? Si ripropone quando, dice Mazzetti (p.64), un nuovo contesto, parzialmente estraneo, inibisce la capacità dell’organismo di vivere. In questo caso, nel caso in cui agisce al frustrazione, l’organismo può tentare un’azione alla cieca, e alla cieca trovare una soluzione.
L’elemento più importante in questa riflessione non è il caso. Il caso, è stato già ribadito, si presenta all’inizio. La cosa importante, qui, è questa, che non è il caso a ripresentarsi, ma è l’inizio a ricominciare. Ogni volta che il contesto cambia ciò che l’organismo è, ciò che rappresenta, ciò che significa (ma qui è ancora prematuro parlare di senso, siamo ancora immersi in una antropologia, dalla quale si fatica a staccarsi), ogni volta che il contesto muta, si ricomincia, e si ricomincia a caso, alla cieca. Il risultato è risultato parzialmente fortuito.
Bisogna precisare che quando qui Mazzetti parla di negazione si riferisce solo ed esclusivamente a quei casi in cui si verifica quello che lui chiama svuotamento. In tutti gli altri casi, in cui accade ciò che l’organismo si aspetta, anche là dove si manifesta una frustrazione intollerabile o insopportabile, persino mortale, non si è in presenza di uno svuotamento, e dunque non si è in presenza di un inizio. Questa precisazione può apparire superflua, visto che è evidente che ciò che richiede una modifica casuale non può essere programmato, non può essere previsto, non può essere anticipato come fine, come scopo. Ora, se il fine, come dice Mazzetti a pagina 57, è proprio ciò che è intrinseco, che è proprio della soggettività umana, vuol dire che ad ogni nuovo inizio, alla basa di ogni vero cominciare (e si potrebbe già dire, alla base di ogni senso) c’è il non-umano, c’è l’animale, c’è la reiterazione animale, c’è il caso, il bestiale. Ogni svuotamento è uno svuotamento dell’umano, è un ripresentarsi del non umano (che, bisogna dirlo, occorre smettere di identificarlo con l’animale). Questa conclusione, la quale pone alla base di ogni inizio (dello svuotamento), il non-umano, che pone il non-umano come ragione dell’umano, deve essere estesa ad ogni ambito della discussione. Bisogna lasciare che produca il suo effetto dirompente.
 
XXV
 
Come caratterizza Mazzetti lo svuotamento?
Nonostante, a più riprese, Mazzetti affermi che bisogna iniziare a cercare le ragioni umane nel non umano (il caso, l’arbitrio, il libero, il semplice, l’immediato, il non-teologico, il non-teleologico), ogni volta torna sui propri passi. Tutto lo riporta all’antropologia. Così, a pagina 65, quando decide di illustrare lo svuotamento, riparte dall’etologia. Riparte dagli animali.
Sarà il cane a introdurre il passaggio?
Ma il passaggio può mai essere reso presente (vorandenheit)?
La condizione animale si supera quando, dice Mazzetti (68-69), non si agisce più istintivamente. L’umo vive per qualcosa, l’animale vive per niente, sussiste. Da ciò non si deve trarre la conclusione, dice Mazzetti, che l’uomo sia apparso, sin dall’origine, così come se lo rappresenta la tradizione, ovvero come animale razionale. Il passaggio (l’evento – la storia), dice Mazzetti, richiede la comparse di una base reale pratica. Da una parte deve presentarsi l’animale, dall’altra la base pratica, la quale, svuotando l’animale, lo costringe a trovare alla cieca una soluzione adattiva. Non si può immaginare la comparsa dell’umo senza questo svuotamento dell’animale. L’uomo fa la sua comparsa in forma capovolta, come non-umano. Proprio perché si rapporta, e non può non rapportarsi, al mondo in una forma conflittuale – di soggetto che non è soggetto e che pone la propria soggettività come emanazione immediata di forze esterne sovrastanti – l’uomo è strutturalmente dominato dai rapporti e dalle pratiche che realizza, e, paradossalmente, trova in questo dominio una conferma della propria natura di non soggetto, nonostante sia lui, con la propria azione, a determinare, entro certi limiti, la realtà.
In un paragrafo intitolato Il punto di passaggio: il non soggetto che si riconosce come tale, si consuma il divorzio di Mazzetti con il (semplificando) darwinismo.
Bisogna stare attenti, avverte Mazzetti, a non intendere in modo errato il processo di svuotamento. L’organismo che subisce lo svuotamento può trovare degli spiragli adattivi. Non è detto che venga disintegrato dal nuovo contesto.
Nel caso dell’uomo la non disintegrazione, e dunque la continuità, è dimostrata dal fatto, dice Mazzetti (p.68), che siamo qui a porci la questione dell’origine. Se l’organismo si fosse disintegrato non saremmo qui, e non racconteremmo un bel niente. Se siamo qui, vuol dire che l’organismo che ci ha preceduti, e che possiamo identificare come un nostro antenato animale, è sopravvissuto allo svuotamento, e che proprio questo svuotamento, conclusosi in modo positivo, è stato all’origine del passaggio dall’animalità dell’animale alla ragionevolezza dell’umano. Siccome c’è stato uno svuotamento, e siccome siamo qua a raccontare la storia di questo svuotamento, dunque deve esserci stato un superamento di questo svuotamento. Ad un momento passivo (svuotamento) è seguito un momento positivo (superamento dello svuotamento).
Questa non è una dimostrazione, perché presuppone ciò che deve essere dimostrato. (approfondire)
Insomma, dice Mazzetti, bisogna evitare un primo grave errore. Non bisogna credere che l’uomo sia apparso all’inizio già bello e fatto. L’uomo è stato prodotto, ed è stato prodotto da un processo la cui leva si trova nello svuotamento e nella resistenza a questo svuotamene. Se questa resistenza non si fosse manifestata, non staremmo qui a parlare di questo evento. La prova di questa resistenza, e dunque dell’avvenuto passaggio, siamo noi. Noi testimoniamo del fatto che, essendo qui a ragionare, cioè a raccontare la storia di questo passaggio, la storia del passaggio dalla natura (animale) alla ragione (umana), noi testimoniamo del fatto che questo passaggio è avvenuto. La dimostrazione è la nostra ragione stessa. Si tratta ancora di una spiegazione teleologia, la quale suppone come fondamento della ragione, la ragione. È la ragione a dimostrare e fondare la comparsa della ragione.
Bisogna dire, per non diventare vittime della logica formale, che qui siamo alle prese con una logica dialettica, in cui ogni spiegazione, per così dire, storica, sbatte contro il muro degli universali, e ogni spiegazioni che parta dagli universali, sbatte contro il muro della storia. Ma questo sbattere non è ciò che deve essere tolto come un errore formale, questo sbattere deve essere tolto – ri-levato (Aufhebung) – nei termini della logica dialettica. Qui non c’è un primato di una tesi che sarebbe essa sola, positiva (Hyppolite, Logica). Ciò che va pensato è la riflessione della tesi nell’antitesi, così come dell’antitesi nella tesi [riflessione dell’Universale nello storico e dello storico nell’Universale]; e la sintesi non è il dileguare dell’opposizione in una morta unità. Come tale, essa sarebbe il ritorno alla tesi astratta e non a «quell’infinità o quell’inquietudine assoluta del puro auto-movimento» Fen.I,137.
Il passaggio dalla natura alla ragione, dice Mazzetti (69), non può essere avvenuto in modo repentino e pieno.
Perché?
Considerando il passaggio repentino e pieno si rischia, dice Mazzetti, di proiettare l’uomo di oggi nell’uomo di ieri, lasciando credere che l’uomo di oggi fosse già contenuto nell’uomo di ieri, togliendo quindi con ciò di mezzo il caso, e pensando la comparsa della ragione come un fine posto da una ragione esterna alla ragione. Tutto qua.
Un simile evento – il passaggio istantaneo – è logicamente impossibile – dice Mazzetti. Ed è impossibile perché, per affermarsi, l’evento richiede di ri-iscriversi, richiede la spazializzazione, e la spazializzazione richiede il tempo, e il tempo il dileguare, e il dileguare richiede l’essere e il non-essere, richiede la negazione, il nulla, eccetera. Richiede, come dice, Mazzetti, il positivo e il negativo. Richiede un organismo che si pone e un contesto in cui si ripropone. Senza un contesto (adeguato – o non adeguato) l’evento del passaggio è impossibile (ammesso e non concesso che lo sia mai stato – Mazzetti lo dà per scontato), immaginarlo è pura fantasia. Un simile evento è un ripetersi dell’origine, è uno sdoppiarsi dell’originario. Non c’è altro modo di pensare la storia e la ragione contemporaneamente, non c’è modo di pensare l’inizio della ragione, che pensarlo sdoppiato.
L’inizio, dice Mazzetti, non si presenta come lo pensa l’ingenuo.
L’ingenuo crede, da una parte, che, il primo giorno, la ragione si sia presentata tutta in una volta, così come la conosciamo adesso. L’ingenuo crede che l’inizio sia stato istantaneo. Ma l’inizio, proprio perché inizia, non può essere istantaneo. Dall’altra parte, l’ingenuo crede che l’inizio sia nella storia, che abbia una storia, che ci sia una storia che inizia con l’inizio, e che dunque si possa raccontare la storia a partire appunto da questo inizio. Ma l’inizio non può essere nella storia, se così fosse ci sarebbe un inizio prima dell’inizio, verso il quale arretrare indefinitamente.
L’inizio, per non essere pensato ingenuamente, va pensato come svuotamento, ovvero come raddoppiamento dello stesso.
Ciò che sarà proprio dell’uomo (la ragione) (p.69) è posto fuori di sé dall’uomo – dice Mazzetti.
Bisogna prestare molta attenzione a questo passaggio. L’uomo non è ancora un uomo. È un animale. Non può porre fuori di sé ciò che ancora non è. Se così fosse, si tornerebbe a porre la ragione prima della ragione, si tornerebbe alla teologia.
L’uomo, dice Mazzetti, pone fuori di sé ciò che diverrà proprio dell’uomo, e pone in maniera ricorrente ciò che diverrà in seguito il suo fuori come interno a sé. Intervengono qui strutture proiettive e introiettive che testimoniano della difficoltà del costituirsi della ragione.
Si tratta di un passaggio molto oscuro.
Solo se si tiene conto di tutto ciò, dice Mazzetti (p.70), si riesce a tenere fermo il punto che l’antenato animale dell’uomo è natura. La ragione, all’inizio, è natura. E solo attraverso un lungo processo storico trascende questa originaria condizione.
Certo.
Ma come avviene tutto ciò? Come spiegare il trapasso, senza ricorrere alla teologia?
Non è per nulla sufficiente dire che il passaggio è storico. Appena si pone il passaggio nella storia, la questione dell’origine cade nell’indeterminato, in un regresso indefinito.
Il passaggio, dice Mazzetti, avviene in maniera capovolta.
La ragione originaria fa la sua comparsa come non-ragione. Poi, proprio in questo punto, Mazzetti perde per strada un dato già acquisito, ovvero che la questione dell’inizio si ripresenta ogni volta.
La questione dell’inizio, aggiunge Mazzetti (ribadendo un tema già acquisito), si ripresenta ad ogni frustrazione.
L’uomo agisce e smuove il mondo, produce delle cose, cambia la natura, pensa, crea, trasforma, imprime il suo marchio nelle cose, queste cose, che portano impresso il suo marchio, che sono la sua essenza fuori di sé resa autonoma, si contrappongono al creatore reclamando per sé il controllo, il potere. La scena è quella dell’arcano della merce, o quella più classica del servo-padrone della Fenomenologia dello spirito. Si tratterebbe, per l’uomo, di riappropriarsi di ciò che è diventato ex-proprio.
L’uomo, dice Mazzetti (70), è strutturalmente dominato dai rapporti e dalle pratiche che realizza, e trova in questo dominio conferma della propria natura di non soggetto, nonostante sia lui, con la propria azione, a determinare la realtà.
A questo punto si apre un bivio. Da una parte si può continuare a sostenere il tema della frustrazione ottimale, del caso, e dell’inizio che ricomincia ad ogni frustrazione. Oppure si può cedere, come sembra capitare a Mazzetti, alla teleologia. Non per niente, in questo punto esatto del suo libro, Mazzetti tira in ballo proprio l’Introduzione alla Critica dell’economia del 57, introduzione che, lo si è ricordato, presta il fianco alla filosofia della storia.
L’uomo determina la realtà. L’uomo produce il mondo, poi il mondo gli si rivolta contro. A questo punto l’uomo cosa fa? Crede che questo mondo abbia una vita propria, che sia dotato di una volontà, di una ragione. E siccome il mondo ha una ragione, e nel frattempo è diventato potente, non rimane che sottometterglisi. Questa sottomissione non è un errore. È piuttosto un’erranza. L’uomo non sbaglia, non commette un errore logico-razionale nell’intendere ciò che lo riguarda. Più semplicemente, l’uomo perde la ragione, si smarrisce, esce fuori di senno.
 
XVI
 
Nel paragrafo successivo – Il superamento dello svuotamento – Mazzetti azzera nuovamente il cronometro, e chiede: Come possiamo rappresentarci il punto di partenza del processo storico attraverso il quale l’uomo ha conquistato il primo rapporto positivo, non animale, con le condizione della sua esistenza?
Poiché la separazione tra ragione e natura non è intenzionale, all’inizio ci si deve aspettare una spinta ad affermare l’unità. Ciò che la contro-spinta divide, la spinta riunisce. Tutto rimane intatto. Fino a quando la separazione, ripetendosi, non si rende riconoscibile. E tuttavia, la strada del riconoscimento è lunga. Anche perché, dice Mazzetti, la separazione è coerentemente percepita come dominio delle condizione esterne, come dominio della natura sulla ragione. La ragione, quando inizia a pensare, pensa la separazione come domino della natura sulla ragione, oppure come ragione confinata nella natura. Il potere in formazione, dice Mazzetti, non viene sperimentato come un proprio potere, ma come un potere esterno che domina e indirizza. Il potere è il Mana, incarnato nella natura, la natura è tutto, l’uomo è niente.
È questa, dice Mazzetti, la condizione in cui l’uomo inizia il suo cammino. Per giungere all’animismo l’uomo ha già superato alcuni gradini del suo sviluppo.
Ma cosa giustifica questo sviluppo? In base a cosa si può parlare di sviluppo?
In base all’orientamento antropocentrico dell’etnologia.
Con il procedere dello svuotamento (74), l’animale percepisce il contesto come un caos capace di inghiottirlo. La manifestazione di un potere sovrastante induce a cercare all’esterno punti di riferimento, uno spazio sacro, o un oggetto sacro, intorno ai quali ruotare e trovare un equilibrio. Lo svuotamene consiste in una regressione del comportamento istintivo (74), alla quale non corrisponde un comportamento libero. La libera scelta – la capacità di porsi dei fini – non appare con lo svuotamene, e non appare immediatamente. È uno stato che deve instaurarsi. C’è bisogno della ripetizione, ma la ripetizione da sola non basta. La ripetizione è il presupposto. Essa deve mostrarsi come ripetizione, deve apparire come tale, deve manifestarsi.
Se la ripetizione è il ripresentarsi del medesimo, questo medesimo deve apparire come un ché di esterno e sussistente per sé. Deve apparire come un potere esterno. Il proprio potere, dice Mazzetti, deve coerentemente presentarsi come un potere esterno, non ci sono altre strade. Si parte dallo sdoppiamento, e lo sdoppiamento conduce, attraverso il mana, la superstizione, eccetera, a percepire la ragione. La ragione emerge da questa struttura di sdoppiamento. La natura si sdoppia, si replica, si anima. Il mondo si deve dividere in un signore che comanda – il mana – e un servo che obbedisce – l’animale-uomo.
La ragione si oppone alla natura vivente, vuole porsi come sé indipendente, ma dovrà esperire la resistenza delle natura vivente.
Come si presenta l’esperienza durante la quale scopro l’indipendenza della natura in rapporto alla ragione?
La ragione nasce (Hyppolite, Genesi, 198) dal riprodursi incessante dell’appetito e dell’oggetto dell’appetito. L’oggetto viene negato, l’appetito appagato. Ma quest’ultimo si riproduce, e un altro oggetto si fa avanti per essere negato. La monotonia del loro riprodursi ha una necessità, una ricorsività. L’appetito non si esaurisce mai, la sua insistenza, mai pacata, scava un vuoto, occupato da un estraneo, che è il doppio stesso del desiderio, il desiderio non ancora appagato, che spinge oltre, e spinge verso la cosa desiderata. Il negativo della cosa desiderata, la sua impronta, marcata dalla ripetizione, è la forza in me dell’altro che spinge verso fuori, verso l’appagamento, verso il riempimento del vuoto. Ma il vuoto non si riempie mai, e la spinta continua incessantemente ad esporre fuori.
Ciò che parla in me è questo fuori, è la marca del fuori.
In questa duplicazione di sé, dice Hyppolite (Genesi, 199), l’autocoscienza raggiunge se stessa. Si sdoppia e si oppone a sé. Quanto le è esterno le è interno, e quanto le è interno le è esterno. Per l’autocoscienza, dice Hegel (Fen., Signoria e Servitù, Cicero, 275), si dà un’altra autocoscienza. Essa è uscita fuori di sé. Questo fuori è essa stessa, percepita come estranea a sé.
È l’autocoscienza stessa, dice Hyppolite, a opporsi a sé nell’essere. La differenza tra un essere semplicemente vivente e un’autocoscienza sta in ciò, che l’autocoscienza esiste come potenza negativa. Non è solo una realtà positiva, un esserci che dilegua schiacciato da quanto lo oltrepassa e gli resta esterno – e così muore in assoluto. In seno a questa realtà positiva essa è ciò che si nega e si trattiene nella negazione. È l’esistenza stessa dell’uomo, il quale non è mai ciò che è, oltrepassa sempre se stesso, è sempre aldilà di sé, nell’avere un futuro.
Tutta la dialettica di signoria e servitù, dice Hyppolite, presuppone i due poli: l’Altro e il Sé. L’Altro è la vita universale che l’autocoscienza scopre differente da sé, l’elemento della differenza e della sostanzialità delle differenze. Di fronte a tale positività il sé è l’unità riflessa divenuta pura negatività. Adesso il Sé si trova nell’Altro. Emerge come una figura vivente particolare, come l’altro dell’altro, un esemplare del genere.
L’Altro, dice Hyppolite, è senza dubbio un Sé, cosicché io vedo me stesso nell’altro. Tutto ciò ha un duplice significato. Dapprima io ho perduto me stesso, perché mi trovo come un altro. Poi ho perduto l’altro, poiché non lo vedo come essenza ma vedo me stesso nell’altro.
Ciascun estremo passa fuori di sé, dice Hegel (Fen. Cicero 277), e tuttavia nel suo esser-fuori-di-sé è a un tempo trattenuto entro sé, è per sé.
Nella lotta del servo e del signore i due momenti del Sé e dell’Altro sono dissociati. Il Sé è il signore che nega la vita nella sua positività – la negazione assoluta, il potere annichilente. L’Altro è il servo, ridotto all’elemento della cosalità. Il Sé è il potere sovrastante, teologico, che può ripristinare lo stato di natura, che può annichilire ogni distinzione – intelletto astratto. Il signore esprime l’autocoscienza astratta immediata (l’IO = IO).
Il padrone si rivelerà il servo del servo, e il servo il padrone del padrone.
Negli scritti giovanili, dice Hyppolite (Genesi), Hegel considera i rapporti fra Dio e uomo presso certi popoli come rapporti tra padrone e servo. Parla della servitù dell’uomo sotto la legge, sia nel legalismo ebraico sia nel moralismo kantiano. In tali concezioni l’Universale e il Particolare risultano assolutamente inconciliabili.
 
XXVII

L’Ebreo, dice Derrida commentando il System der Sittlichkeit di Hegel, è incapace di comprendere un simbolo concreto.
Perché?
Cos’è il simbolo concreto?
È l’unione di finito e infinito.
È l’infinito che si incarna. L’Universale che si incarna (Gesù).
L’infinito degli Ebrei è Legge.
È legge che si istituisce negando la Materia pesante e differenziata.
L’infinito è l’indifferenziato.
Estraneo al simbolo – all’unione concreta e sentita tra l’infinito e il finito – l’Ebreo può accedere solo a una retorica astratta e vuota.
La scissione tra l’infinito e il finito lo rende cieco, lo priva di qualsiasi potere di rappresentarsi concretamente l’infinito – dice Derrida. La sua stessa iconoclastia esprime l’aridità del suo cuore: vedendo nelle rappresentazioni sensibili solo legno e pietra – materia – le rigetta con facilità come fossero idoli. Non incarnano – non simbolizzano – l’infinito. Perché l’infinito è negazione di tutto ciò che è finito. Gli Ebrei hanno a che fare solo con la pietra e intrattengono con essa solo un rapporto negativo. Sono preoccupati solo dell’invisibile – commenta Derrida (il soggetto infinito è necessariamente invisibile, insensibile – [se fosse visibile, dunque sensibile, non sarebbe infinito, ma finito] – ma dal momento che non vedono l’invisibile, rimangono nello stesso tempo ancorati al visibile, alla pietra che è solo pietra. Hanno a che fare solo con l’invisibile e il visibile, con l’insensibile e con il sensibile, ma non sono in grado di vedere l’invisibile, di sentire l’insensibile, di sentire (ed è questa la funzione di mediazione, la funzione agglutinante del sentire) l’invisibile nel visibile, l’insensibile nel sensibile, di lasciarsi coinvolgere nella loro unità: l’amore e la bellezza aprono all’unità del sensibile e del non sensibile, del finito e dell’infinito.
«Il soggetto infinito doveva rimanere invisibile – Hegel -, poiché ogni visibile è un essere limitato». Spirito puro e Materia pura.
«Un idolo era per loro solo pietra e legno». Pietra e legno sono Materia pura. Materia in cui non si è incarnato l’universale, l’infinito.
«L’idolo non vede, non ascolta, non si occupa di loro, e non presagiscono nulla delle sue divinazioni».
Questa cieca ossessione paralizza l’arte, la parola, la retorica. L’oggetto rimane un Significante senza Significato. Il Significato non si incarna nel Significante. Si rimane estranei alla parola.
Gli Ebrei, (siamo sempre nel commento di Derrida a Hegel) sensibili all’essenza di ogni forma sensibile, hanno provato a produrre un oggetto che desse in qualche modo luogo e figura all’infinito. Ma tale luogo e tale figura hanno una struttura particolare: essa blocca il proprio vuoto in se stessa, offre riparo solo al proprio deserto interiorizzato. Non apre su nulla, non trattiene nulla, non contiene – come tesoro – che il nulla: un buco, uno spazio vuoto, una morte. Una morte o un morto perché, secondo Hegel, lo spazio è la morte e tale spazio è di una vacuità assoluta. Niente dietro i veli. Di qui la sorpresa ingenua del non-ebreo quando apre, o lascia aprire, o viola il Tabernacolo, quando entra nella dimora o nel tempio e, dopo tanti passaggi rituali per poter accedere al centro segreto, non scopre niente – non scopre che il niente.
Nessun centro, nessun cuore [nessuna intimità, l’intimità cristiana, religione del cuore], uno spazio vuoto, niente. «Per questa ragione la presenza di Dio (Dasein Gottes) non sopraggiunge come verità, ma come un comandamento. Gli Ebrei erano schiavi, e non si può essere schiavi di una verità o di una bellezza».
Gli Ebrei, dice Hegel, sono tutti schiavi di un sovrano invisibile: tra loro e il loro sovrano nessuna mediazione legale e razionale, soltanto capi tribù che appaiono o scompaiono a seconda dello stato delle forze. I poteri sono reali, non giuridici. Ci sono poteri empirici, funzionari o scribi. Ma gli scribi non sono guidati dallo spirito della legge. Obbediscono a regole empiriche, o a precetti e a comandamenti. La loro scrittura è eteronomica. E dal momento che la letterarietà resta empirica è sempre possibile contravvenire alle prescrizioni quando la situazione delle forze lo permette o lo esige. Processo del fariseismo. [Siccome la Legge rimane inaccessibile, ci si affida a regole pratiche variabili. Kafka e il Castello, l’accesso alla Legge. Il guardiano – anche lui volge le spalle alla Legge, anche lui, custode della porta, non ha accesso alla Legge. Gli Ebrei non accedono alla Legge, non sono liberi, non hanno proprietà privata, quello che hanno gli è dato in prestito, non hanno per-sé, un essere presso di sé. I greci sono cittadini in base a una legge che si danno da sé – gli ebrei hanno una Legge che viene dall’esterno – eteronomia. Sono stranieri presso Dio].
C’è un abisso tra l’onnipotenza divina e lo scatenamento delle forze [abisso vuol dire che tra infinito e finito non c’è mediazione, non c’è passaggio diretto. Non c’è aufhebung]. Nessuna legge può schematizzare l’abisso agli scribi dalle lettere morte.
La lettera Farisaica – dice Derrida – rimane lettera morta. Il fariseo non è guidato dallo spirito. Innalzare la lettera farisaica dell’ebreo equivarrebbe anche a costituire un linguaggio simbolico in cui il corpo letterale si lascia animare, ventilare, sollevare, penetrare dall’intenzione spirituale. L’Ebreo non ne è capace, nella sua famiglia, nella sua religione, nella sua politica; se ne divenisse capace, non sarebbe più Ebreo. Quando ne diventerà capace, sarà diventato cristiano.
L’Ebreo, dice Hegel, resiste alla storia.
«Tutti gli stati consecutivi del popolo ebraico, compreso quello miserabile e sordido in cui, ancora oggi, si trova, sono solo la conseguenza e lo sviluppo del suo destino originario, che li ha maltrattati e li maltratta fino a quando non si riconcilieranno col lui».
Per il ri-levamento di tale destino bisognerà attendere la Madonna, il Messia.
 
XXVIII
 
Con lo svuotamento, dice Mazzetti, l’uomo perde la capacità di muoversi in modo istintivo. La nuova capacità non può non presentarsi in forma capovolta, nelle sembianze di una forza esterna e superiore che impone le sue leggi. Siamo prossimi all’idea di mercato, di mano invisibile, di denaro, di leggi economiche, eccetera.
La sopravvivenza è rimessa alla capacità di riappropriarsi di una potenza che, per adesso, non si sa dove si annidi. Dal suo nido segreto comanda il processo di riproduzione (74).
Il fatto religioso emerge proprio dal bisogno di impossessarsi di questo potere, di trasformarsi da creatura in creatore. Per restare nel solco hegeliano Mazzetti avrebbe dovuto precisare che si tratta già del passaggio alla religione cristiana. Nella religione ebraica, il religioso in quanto tale, non può emergere. Il religioso ha bisogno di un simbolo, di un vitello d’oro, ha bisogno che lo spirito santo si faccia carne, che il sovrasensibile si manifesti nel sensibile, che la legge infinita si reifichi in un corpo mistico (mistico = unione tra sensibile e sovrasensibile, reificazione), ha bisogno di Gesù.
Non si è più sul piano del Dio ebraico, un Dio il cui potere sovrasensibile può scatenare il caos, può annichilire ogni cosa, un potere che può inghiottire il singolo. Un potere che ha come contropartita l’Universalità astratta della legge. Qui siamo alla legge del cuore. Il potere è un potere incarnato, reificato, fattosi corpo e sangue, un potere interno, del cuore, un potere intimo, che parla da dentro, ma come un altro, con la stessa nostra medesima voce, come nella mente bicamerale di Jaynes, che Mazzetti porta come testimonianza di questo stadio dell’autocoscienza. È un potere al quale si chiedono lumi sul futuro, su cosa fare, su come comportarsi, su questioni di vita pratica e di gestione della casa, eccetera.
Il passaggio alla ragione è alienazione – un’alienazione necessaria – dice Mazzetti (75).
La religione e l’alienazione non sono errori. Un errore può essere evitato. Mentre l’alienazione è 1) un errare che riporta sulla retta via – un errore necessario, dice Mazzetti (76), cedendo alla teologia. Un errare che alla fine del percorso rimette le cose a posto. Una incarnazione (reificazione) che si risolve in un’esalazione, in una resurrezione, in un ritorno al padre da cui tutto era cominciato. Oppure, più propriamente, è 2) un errare senza meta prestabilita. Un errare che non è un errore, ma che, allo stesso tempo, non presuppone alcuna ricomposizione, che addirittura rende impraticabile, se non impossibile, ogni precisa ricapitalizzazione.
 
XXIX
 
Che cos’è l’alienazione?
Intanto, dice Mazzetti (80), bisogna preventivamente chiarire che gli atti che l’animale pone e che eventualmente porteranno alla comparsa della ragione non si presentano all’inimale né come presupposto né come scopo. Questa presa di posizione anti-teleologica è del tutto evidente, e fa pendere il discorso di Mazzetti verso religione 2. L’animale non può porsi come fine della propria azione la produzione della ragione. Solo la Ragione può ritenere di porsi come fine la produzione di una ragione (artificiale). In più, e per gli stessi motivi (anti-teleologici), l’azione animale non può nemmeno essere un presupposto della comparsa della ragione.
L’alienazione ha a che fare con un potere, un potere esterno e sovrastante, che dirige l’azione dell’uomo (si dà un’alienazione animale? da approfondire). Questo potere è un potere umano che si presenta come un potere altrui che opera in maniera indipendente dal volere e dall’agire dell’uomo.
È evidente che l’alienazione, così come è intesa qui da Mazzetti, non spiega il passaggio dalla natura alla ragione. E non lo spiega perché in questa struttura l’uomo è già presupposto. Infatti, si presuppone un uomo in possesso di un potere effettivo, che in un secondo tempo viene dato via, perso, alienato, eccetera, e che in un terzo tempo viene recuperato all’uomo. Siamo un un circolo. La fine (o il fine) è uguale all’inizio. Siamo nella religione cristiana, dove, prima tappa (tesi), si pone lo spirito santo; seconda tappa (antitesi), lo spirito si incarna nel simbolo (ostia, denaro); terza tappa (sintesi) il simbolo viene sublimato, ingoiato, eliminato, e lo spirito ritorna alito, presenza a sé del presente.
L’uomo alienato, dice Mazzetti, non sa di essere lui il produttore delle sue pratiche e delle sue rappresentazioni. Non sa ancora che la separazione dal mondo animale si è compiuta nella sua interezza (80).
 
XXX
 
Nel primo capitolo della seconda parte, in un dialogo con il marxista Lucio Colletti, Mazzetti affronta il tema della Scienza. Non è il caso di scendere nel dettaglio e mettere a confronto la posizione di Colletti con quella espressa da Mazzetti. Anche perché, stando a ciò che riporta Mazzetti, il tema è affrontato da Colletti in modo del tutto superficiale.
Nel confronto nessuna precauzione filologica viene adottata. I termini di Hegel e di Marx (soprattutto di Hegel) sono riproposti pari pari. Senza avvedersi che, quegli stessi termini, in un tempo diverso o in contesti diversi, hanno assunto significati differenti, persino opposti. Basti qui ricordare la cautela con la quale Heidegger si avvicina al testo di Hegel (Heidegger, Hegel, punto 2, Verifica del linguaggio concettuale utilizzato nel confronto).
Il dialogo affronta il tema della Scienza, ma non viene in mente che uno dei più importanti libri di Hegel, forse il più importante, visto che l’altro (la Fenomenologia) doveva solo porre le condizioni per la posizione del primo (§25 pic. logica), si intitola Scienza della logica, e che questa Scienza non ha nulla a che vedere con le scienze positive, trattandosi, appunto, di un’Ontologia (Metafisica), di una Scienza dell’essere. Tant’è che nel §28 della Piccola Logica Hegel può scrivere quanto segue: Questa Scienza… Nella nota 17 alla sua traduzione dell’Enciclopedia, nota apposta a fianco della parola Scienza, Croce specifica che con Scienza Hegel si riferisce alla Metafisica di Wolff (Hegel, Enciclopedia, Croce, p. 42).
Sia come sia, Mazzetti propone la definizione di scienza data da Colletti, e ne discute le implicazioni.
Stando a Mazzetti, Colletti dice che compito della Scienza è scoprire nessi causali oggettivi. La critica, al contrario, scaturisce da preferenze soggettive. La critica non dice come la realtà è, dice come doverebbe essere, scaturisce da preferenze soggettive. E queste preferenze inquinano l’oggetto dell’indagine. Dunque, la critica non può essere scientifica. Scienza e critica non possono stare insieme. O si sceglie la scienza, oppure si sceglie la critica.
Nella scienza, dice Colletti, il divenire scorre d’innanzi all’osservatore-scienziato allo stesso modo degli astri. Le leggi scientifiche sono leggi oggettive, esterne al soggetto, e indipendenti dalla volontà, come le leggi naturali. Non dipendono dalla posizione del soggetto. Se ciò dovesse capitare, non ci si troverebbe più al cospetto della Scienza, ma di un’utopica Critica sociale.
Questo tema, discusso in questi termini, non ha nulla a che vedere né con Hegel, né col suo discepolo Marx, non c’è dubbio. Per rendersene conto è sufficiente sfogliare le considerazioni preliminari della Piccola logica, dove Hegel riepiloga lo stato dell’arte da Bacone sino a Kant.
Nel paragrafo 37 Hegel dice che invece di cercare il vero nel pensiero, alla maniera della Metafisica precedente, l’empirismo lo cerca nell’esperienza interna o esterna. Nel paragrafo 38 dice che per l’empirismo ciò che è vero è nella realtà ed è dato alla percezione. Si tratta di una posizione assunta contro la vecchia maniera basata sul principio del dover essere, principio con il quale si prendevano atteggiamenti sprezzanti contro la realtà presente, in favore di un aldilà assente.
La ricerca dell’empirismo si limita, per ciò che attiene il contenuto, al finito, nega il sovrasensibile in generale. Concede al pensiero soltanto l’astrazione, l’universalità e l’identità formale. Ma con ciò convalida la separazione tra forma e contenuto.
L’empirismo non si accorge, dice Hegel, di far uso delle categorie metafisiche di materia e forza, di uno, molti, universale, anche d’infinito ecc., e di utilizzare queste categorie per produrre i suoi sillogismi e ragionamenti. Adopera queste categorie e le loro connessioni in modo del tutto privo di critica e di consapevolezza.
Nel paragrafo 39, a proposito dell’empirismo, viene riconosciuta la giusta affermazione, secondo la quale in ciò che si chiama esperienza – da distinguere dalla semplice percezione singola di fatti singoli – si trovano due elementi: 1) la materia, per sé isolata e infinitamente varia; 2) la forma, che ha i caratteri dell’universalità e della necessità.
Non c’è dubbio, commenta Hegel, che l’empiria mostri una molteplicità pressoché incalcolabile di percezioni uguali. L’Universalità, però, è qualcosa di completamente diverso da una grande moltitudine. D’altra parte, aggiunge Hegel, è vero che l’empiria offre percezioni di mutamenti successivi e di oggetti giustapposti, ma non mostra mai una connessione necessaria.
Ora, dice Hegel (Cicero), poiché la percezione deve rimanere la base fondamentale di ciò che vale come vero, allora l’Universalità e la Necessità appaiono nell’empirismo come qualcosa di ingiustificato, come un’Accidentalità soggettiva, una mera abitudine il cui contenuto può indifferentemente essere costituito in un modo o nell’altro [Hume: scetticismo]
Da ciò deriva che le leggi scientifiche (economiche e giuridiche) appaiono come qualcosa di accidentale, di arbitrario, di costruito, di finto.
Nel paragrafo successivo (§40), Hegel dice che la filosofia critica (Kant) ha in comune con l’empirismo l’assunzione dell’esperienza come unico terreno delle conoscenze. La differenza con l’empirismo sta in ciò, che la filosofica critica non considera tali conoscenze come conoscenze della cosa stessa, della cosa in sé, ma soltanto come conoscenze del fenomeno.
In primo luogo, la Critica distingue gli elementi che si trovano nell’analisi dell’esperienza, cioè la materia sensibile e le relazioni universali. In secondo luogo, per evitare il relativismo dello scetticismo, che considera come contenuto della percezione soltanto il Singolare, e soltanto quel singolare che accade, la Critica insiste nel sostenere che nell’esperienza l’Universalità e la Necessità vi si trovano come determinazioni altrettanto essenziali. Poiché l’elemento Universale e Necessario non deriva dall’aspetto empirico – questo è assodato – allora appartiene alla spontaneità del pensiero, vale a dire che è dato apriori. Pertanto, per la critica, le determinazioni del pensiero costituiscono l’oggettività delle conoscenze empiriche.
La critica, dice Hegel (§41), innanzitutto sottopone a esame il valore dei concetti intellettivi, quegli stessi concetti usati nelle scienze e nelle rappresentazioni ordinarie. La critica non si rivolge al contenuto, si fissa sull’opposizione Soggettività-Oggettività. Con Oggettività si intende l’elemento Universale e Necessario – il cosiddetto apriori. Senonché, dice Hegel, la critica amplia l’opposizione, al punto che l’intero complesso dell’esperienza – la soggettività e l’oggettività – rientra nella soggettività, e di fronte all’esperienza non resta altro che la Cosa-in-sé.
Come fondamento dei concetti intellettivi, dice Hegel (§42 Cicero), la critica indica l’Identità originaria dell’Io (l’unità trascendentale dell’autocoscienza).
Le rappresentazioni molteplici date dal sentimento e dall’intuizione sono, secondo il contenuto, una molteplicità. L’Io riferisce a se stesso la molteplicità delle sensazioni e delle intuizioni, e le unifica entro sé in un’unica coscienza (l’Appercezione pura). Pertanto, dice Hegel, la molteplicità viene ridotta a Identità, a un legame originario, e i modi determinati di questa relazione sono i concetti puri dell’intelletto, le categorie.
Da un lato, dice Hegel (§43), è proprio mediante le categorie che la mera percezione viene elevata a Oggettività, a esperienza. Dall’altro lato, tali concetti, mere unità della coscienza soggettiva, sono vuoti. Pertanto (§44), le categorie sono incapaci di essere determinazioni dell’Assoluto – dell’essere, delle cose stesse. L’Assoluto (la cosa stessa) non è dato in una percezione. La conoscenza mediante le categorie, dice Hegel, non è quindi in grado di conoscere la cosa in sé.
La cosa in sé esprime l’oggetto nella misura in cui si fa astrazione da tutto ciò che l’oggetto è per la coscienza. È facile vedere cosa rimane: il completamente astratto, l’internamente Vuoto, determinato soltanto come aldilà: il Negativo della rappresentazione, del sentimento, eccetera. Altrettanto facile è capire che questo caput mortuum è anch’esso nient’altro che il prodotto del pensiero. Si tratta del pensiero giunto all’astrazione pura. Si tratta dell’io vuoto. E la ragione, dice Hegel (§45 cicero), è appunto questo Io o pensiero astratto che fa di questa identità pura il proprio oggetto. Rispetto a questo pensiero astratto, privo di determinazioni, le conoscenze empiriche sono inadeguate, perché hanno, in generale, un contenuto determinato. E poiché questo incondizionato viene assunto come l’Assoluto e il Vero della ragione (viene assunto cioè come l’Idea), le conoscenze empiriche vengono dichiarate il Non-vero, cioè dei fenomeni.
Conoscere, dice Hegel (§46), non significa altro che sapere un oggetto secondo il suo contenuto determinato.
Tuttavia, un contenuto determinato contiene entro se stesso una connessione molteplice, è connesso con molti altri oggetti. Per la determinazione di questo Infinito (infinito rappresentato dalle molteplici connessioni), per la determinazione di questa Cosa-in-sé, la ragione non dispone di altro che delle categorie, e allora quando essa vuole usarle a tale scopo, essa divine trascendente.
Dunque, ricapitolando, per la Critica le categorie trovano la loro giustificazione nell’unità dell’autocoscienza. Non hanno niente di oggettivo, e la stessa oggettività attribuita alle categorie sarebbe semplicemente qualcosa di soggettivo. Se considerata solo sotto questo aspetto, dice Hegel, la critica kantiana sarebbe un piatto idealismo soggettivo, il quale non si impegna con il contenuto, arrestandosi al solo lato soggettivo, anzi, risolvendo l’oggettivo nel soggettivo.
In effetti, Kant applica le categorie all’incondizionato (metafisica). Quando cerca di conoscere l’Incondizionato, il mondo, ad esempio, la ragione si irretisce in antinomie.
L’antinomia, dice Hegel, afferma due proposizioni opposte intorno al medesimo oggetto, e, precisamente, in modo che ciascuna di tali proposizioni debba essere affermata con uguale necessità. Da ciò deriva che il contenuto del mondo, le cui determinazioni sono coinvolte in tale contraddizione, non possa essere conosciuto in sé, ma possa essere soltanto fenomeno.
La soluzione della Critica è la seguente: La contraddizione non cade nell’oggetto in sé, ma appartiene unicamente alla ragione conoscitiva. Aver rilevato questa contraddizione, dice Hegel, è un grande merito della filosofia moderna. Tuttavia, la soluzione adottata è alquanto banale. Essa consiste semplicemente in una sorta di intenerimento per le cose del mondo. La macchia della contraddizione, dice Hegel, non dev’essere nell’Essenza del mondo, bensì deve appartenere soltanto alla ragione pensante. Si tratta solo di correggere l’errore della ragione. Il mondo in sé non erra.
Kant, dice Hegel, si è limitato a rilevare l’antinomia soltanto in quattro oggetti della cosmologia. Mentre nella grande Logica Hegel ha mostrato come l’antinomia si possa rilevare in tutti gli oggetti di tutti i generi. Tutti gli oggetti hanno questa proprietà, e questa proprietà, dice Hegel, si determina come il momento dialettico dell’elemento logico [ontologico].
Per ciò che riguarda l’incondizionato (l’Assoluto), Kant vi si misura con la prova cosmologia e la prova fisico-teologica.
L’Essere (§50 ), in quanto entità immediata, si presenta come un Essere determinato infinitamente molteplice, come un mondo in tutta la sua pienezza. Questo mondo può essere ulteriormente determinato come una collezione di accidentalità infinitamente molteplici in generale (nella prova cosmologica), oppure come una collezione di fini e di rapporti finalistici infinitamente molteplici (nella prova fisico-teologica).
Pensare questo essere significa spogliarlo della forma della singolarità e accidentalità, e coglierlo come un Essere universale, in sé e per sé necessario, che si determina e agisce secondo fini universali, un Essere che è diverso da quel primo Essere: significa coglierlo come Dio.
Le percezioni, e il loro aggregato (il mondo), non mostrano, in sé come tali, l’Universalità alla quale quel contenuto è stato elevato e purificato dal pensiero; tale Universalità, pertanto, non verrebbe giustificata da quella rappresentazione empirica del mondo.
Al pensiero che dalla rappresentazione empirica del mondo si eleva fino a Dio, viene dunque contrapposto il punto di vista di Hume, secondo cui è inammissibile pensare le percezioni, cioè estrarre da esse l’Universale e il Necessario [Per Hume Dio è un’abitudine, un costume].
Le cosiddette prove dell’esistenza di Dio, quindi, vanno considerate nient’altro che come descrizioni e analisi del cammino dello spirito entro sé. L’elevazione del pensiero al di sopra del Sensibile, l’Oltrepassamene del finito verso l’Infinito, il salto nel Soprasensibile, con l’interruzione delle serie del sensibile: tutto ciò è il pensiero stesso, questo passaggio è soltanto nel pensiero.
Stabilire che un tale passaggio non deve essere effettuato, dice Hegel, significa allora stabilire che non si deve pensare. Gli animali, infatti, non effettuano questo passaggio: essi si arrestano alla sensazione e all’intuizione sensibile, e, di conseguenza, non hanno nessuna religione.
A questo modo di porre la questione dell’Essere Hegel avanza alcune riserve.
La questione delle prove procede per sillogismi – dice Hegel. Nel sillogismo si parte da un inizio, e si suppone che questo inizio debba rimanere così com’è. Si parte dal mondo empirico, e si suppone che, alla fine del processo, questo mondo debba rimanere così come era all’inizio. Si pone il mondo empirico come punto partenza dal quale giungere all’universale, ma si mantiene questo punto (il mondo) fisso, così com’era colto dalla sensazione.
Pensare il mondo empirico, dice Hegel (cicero, p.175), significa piuttosto, essenzialmente, modificare la sua forma empirica, trasformarla in un Universale; a un tempo, il pensiero esercita un’attività negativa su quel fondamento, e il materiale empirico, una volta determinato mediante l’Universale, non rimane più nella sua primitiva figura empirica. Il nucleo intimo del percepito viene portato alla luce mediante l’eliminazione e la negazione dell’involucro.
Le prove metafisiche dell’esistenza di Dio sono interpretazioni e descrizioni difettose dell’elevazione dello spirito dal mondo fino a Dio, e sono tali perché non esprimono, o meglio non mettono in luce, il momento della negazione, implicito in questa elevazione; che il mondo sia accidentale, infatti, implica appunto che è soltanto qualcosa di caduco, di apparente, di in sé e per se nullo.
Nella prova ontologica (§51) si va dall’Astratto del pensiero verso l’Essere. L’opposizione è tra il Pensiero e l’Essere. Nella prima prova, dice Hegel, l’Essere era comune ad entrambi i lati (Dio, e Mondo), e l’opposizione riguardava soltanto l’Universale e il Singolare.
L’intelletto (la critica), anche nella prova ontologica, propone lo stesso argomento adottato per le altre due prove.
Come nell’elemento empirico non si trova l’Universale, parallelamente, per converso, nell’Universale non è contenuta la determinatezza (l’entità determinata, qui, è l’Essere). Siccome il mondo (l’essere) e infinitamente determinato, Dio non può essere un ente mondano – non può esistere.
In altri termini, dice Hegel, non sarebbe possibile dedurre e analizzare l’Essere a partire dal concetto.
Per la Critica, dice Hegel (§52), la determinatezza, le cose stesse, il mondo, rimangono qualcosa di esteriore. Esse rimangono pensiero puramente e semplicemente astratto, ragione. Il risultato è che la ragione non offre altro che l’Unità formale per semplificare e sistematizzare le esperienze: essa è un canone, non un organo della Verità: non è in grado di offrire una dottrina dell’Infinito, ma soltanto una critica della conoscenza.
 
XXXI
 
La risposta di Mazzetti (che è ciò che qui ci interessa, aldilà di quello che effettivamente ha detto Colletti) è molto circostanziata. Intanto, dice Mazzetti, ripetendo pari pari Hegel (§50 picc. logica), supporre che la critica comprometta la scientificità, significa assumere l’oggetto come solamente positivo [come il positum delle scienze positive]; significa assumere che il mondo esterno non solo sussista in sé, bensì sussista solo in sé; significa assumere che il mondo sia un solido cristallo. Bisogna prendere atto, dice Mazzetti (93), che ci sono elementi del mondo effettivo che non sono conoscibili a priori, perché non sono ancora conclusi. Aristotele, dice Mazzetti (riportando un esempio di Marx), non poteva risolvere l’enigma dell’espressione di valore di una merce, perché nel suo mondo la forma della ricchezza, cui l’espressione di valore vuole riferirsi, non era ancora completa. Insomma, dice Mazzetti, un’analisi scientifica può essere benissimo criticata, quando, per esempio, pretende di afferrare la realtà nuova con una forma adatta a una realtà vecchia. In ciò consiste, aggiunge Mazzetti, la forma negativa dell’alienazione.
Colletti, dice Mazzetti, elimina dal suo discorso la storia. Per non cadere in un mero empirismo, divide la forma dal contenuto, e siccome il contenuto è molteplice e vario, ovvero infinito, rinuncia al contenuto (al mondo) e riserva alla scienza solo l’ambito formale e oggettivo.
In ogni caso, aggiunge Mazzetti (95), per non far torno a Colletti, bisogna riconoscere che, perlomeno nell’ambito delle scienze naturali, si dà un oggetto esterno indipendente che si bassa su leggi (Necessarie e Universali) sue proprie. È un fatto, dice Mazzetti, sul quale la maggior parte degli uomini oggi concorda (appunto, direbbe Hume!). Da questo ambito devono essere escluse quelle scienze che si occupano di ciò che l’uomo produce da sé, scienze che non possono prescindere dalla conoscenza dell’azione che ha prodotto la cosa che si vuole conoscere. Non si può ignorare, dice Mazzetti, che c’è un’intenzione che precede l’azione e che cerca di guidarla. Si dà il caso che questa intenzione non sempre centri il suo obiettivo. Da qui derivano gli errori della scienza e i rilievi mossi dalla critica.
Arrivati a questo punto della contesa entra in scena (rientra in scena) il tema della contraddizione. Ma qui non si tratta più, come nell’antropologia (p.50), di impedimenti esterni alla continuazione della riproduzione dell’organismo nella forma che, sino a quel momento, è stata la forma normale per la specie. In questo caso (ontologia) si tratta di impedimenti esterni al pensiero, i quali inibiscono una positiva riproduzione. Si tratta di negazioni inflitte al pensiero, o alla scienza.
Bisogna ricordare che il tema della contraddizione e della dialettica, in Hegel appare collegato alle antinomie kantiane, all’evidenza che l’incondizionato – l’Assoluto (l’Essere), la realtà effettiva – non può affatto essere pensato senza contraddizione (come si è visto nelle prove Ontologiche), e che dunque per poter pensare, l’incondizionato deve essere espulso dai modi e contenuti della conoscenza possibili. Rimuovere la contraddizione significa – in un ordine kantiano – ridurre il conoscibile alla soggettività e all’oggettività, escludendo l’Essere – l’incondizionato -, riducendo la conoscenza a tesi. Tesi che è di per sé limitata e condizionata, e richiede che sia, a sua volta, fondata da un’altra tesi, all’infinito, facendo cadere il pensiero nel cattivo infinito (progresso della conoscenza), tale per cui, come nell’empirismo, si rinuncia all’Assoluto (la verità), per affidarsi all’opinione della maggioranza, al senso comune (Mazzetti, 95).
Siccome il pensiero è fotografa ill mondo, dice Mazzetti, e siccome il mondo varia perché c’è storia, la fotografia, talvolta, può riportare un’impressione non più adeguata alla realtà effettiva. Può entrare in contraddizione con la realtà. E siccome la fotografia è nella testa dell’uomo, l’uomo può intestardirsi in compartimentali inconcludenti, persino autolesionisti o mortali. Si tratta di accorgersi dell’incongruenza (della contraddizione) e riallineare l’immagine con la realtà.
Questo tema del rispecchiamento è del tutto inconcludente. Mostra le stesse pecche dell’empirismo, assume la serie completa delle categorie della metafisica, e, infine, presta il fianco a tutte le contestazioni scettiche.
A pagina 110, quando ritorna direttamente sul tema, Mazzetti dice che la contraddizione indica che, nel rapporto col mondo circostante, non si è tenuto conto di qualcosa che ora, invece, fa la sua comparsa, mettendo in discussione l’approccio assunto in precedenza. Insomma, si presenta uno scarto tra ciò che nella ricerca era posto e ciò che si presenta effettivamente di fronte. La contraddizione svolge un ruolo di spia. L’individuo si è posto uno scopo, ma lo scopo non è coerente con il mondo là fuori, e la contraddizione è il segnale che lo scopo deve essere ricalibrato.
L’indagine scientifica procede proprio in questo modo – dice Mazzetti (111). La scienza si pone un obiettivo, se i conti non tornano, valuta se 1) si trova di fronte a un mero errore (uno sbaglio nella formula), e 2) se si trova di fronte ad una vera e propria contraddizione, cioè a qualcosa che è effettivamente in contrasto con il risultato implicito della ricerca. Se è vera la condizione 2), dice Mazzetti, allora ci si è persi. Se ci si vuole rimettere in carreggiata bisogna riesaminare la tesi e riformularla, tenendo conto dei nuovi dati segnalati dalla contraddizione.
Senza la contraddizione, dice Mazzetti, la ricerca languirebbe, non potrebbe spingersi avanti, le verrebbe a mancare la base di sviluppo.
Siamo usciti fuori dall’ambito della contraddizione così come è intesa da Hegel (e da Marx). Siamo ripiombati nell’ambito delle scienze positive e della divisione tra forma e contenuto, Metodo e Scienza applicata, tra soggetto e oggetto, eccetera. Siamo ritornati all’Io penso astratto che formula la tesi e ne saggia la consistenza. Si amo ritornati a tutto ciò contro cui la dialettica è stata attivata e messa in opera.
Nei paragrafi successivi Mazzetti ribadisce che la contraddizione è una non-coincidenza della teoria con la realtà. Sostenere una tesi, e non avvedersi della contraddizione (113), significa incaponirsi nel credere in cose che sono in totale contrasto con la realtà. Qui la contraddizione assume la forma di smentita della tesi (teoria) da parte della realtà effettiva (pratica).
Ma come si pone una testi?
Se la mente è una tabula rasa – alla Locke; oppure se la mente è dotata di un pacchetto base di idee innate, eccetera, da dove arrivano queste idee nella testa? Non certo dall’esperienza, perlomeno così come la intende l’empirismo; e nemmeno dall’esperienza, così come la intende la filosofia trascendentale.
Da dove proviene allora la tesi?
Non si vorrà seguire l’empirista ingenuo e credere che l’idea sia frutto di un vaglio del più e del meno, di un sondaggio del molteplice?
Solo nel momento in cui accettiamo la contraddizione come un elemento che nega il valore di conoscenza di un insieme di proposizioni che stiamo cercando di verificare, dice Mazzetti (113), solo allora la contraddizione ha un valore euristico.
Ciò che qui si deve mostrare è da dove derivi “il valore di conoscenza di una proposizione”. Non si può dare per acquisito il “valore della proposizione”.
In queste seconda parte ontologica – che sta slittando verso una piatta teoria della conoscenza – deve essere adottato lo stesso rigore adottato nella prima parte antropologica.
Anche la tesi ha un’origine, e questa origine deve essere posta. Non si può immaginare che l’uomo sia comparso con la tesi già piantata in testa. O che la tesi gli sia arrivata, e gli arrivi all’occorrenza, da un aldilà.
Infine, come nell’antropologia, bisogna riconoscere che la tesi non è posta una volta per tutte. Ad ogni inciampo deve essere di nuovo posta. Mazzetti, invece, dà come un fatto acquisito la tesi.
Rimane da chiedersi: come è possibile porre l’identità dell’io, come è possibile porre l’identità del lavoro, come si arriva al concetto di lavoro astratto, di moneta, di merce, di valore (e dunque di valore d’uso e di valore di scambio)?
È del tutto evidente che, guardandosi intorno, non si percepisce alcun valore, né tanto meno il valore d’uso, o il valore di scambio, o il lavoro socialmente necessario, eccetera. L’Universale non lo si incontra per strada, e tuttavia se ne fa esperienza.
Cos’è allora l’esperienza?
Nelle prove fisica e cosmologica dell’esistenza di Dio Kant compie un grosso passo avanti. E tuttavia, dice Hegel, si è limitato a rilevare l’antinomia soltanto in quattro oggetti. Mentre nella grande Logica Hegel ha mostrato come l’antinomia si possa rilevare in tutti gli oggetti di tutti i generi. Tutti gli oggetti hanno questa proprietà, e questa proprietà, dice Hegel, si determina come il momento dialettico dell’elemento logico [ontologico].
Per ciò che riguarda l’incondizionato (l’Assoluto), Kant vi si misura con la prova cosmologia e la prova fisico-teologica. La realtà effettiva (il cosmo) è determinata e infinitamente molteplice. Pensarla come universale e necessaria, significa spogliarla della sua singolarità e accidentalità, e coglierlo come Dio.
Come si esce da questa impaccio?
Pensare il mondo empirico, dice Hegel (cicero, p.175), significa modificare la sua forma empirica, trasformarla in un Universale.
Pensare la contraddizione, significa, prima di tutto, dirigere l’attenzione verso un altro concetto di esperienza. Ed è ciò a cui mira Hegel, per esempio, e in modo impeccabile, nella celebre Introduzione alla Fenomenologia dello spirito. Introduzione alla quale Heidegger ha dedicato un importantissimo studio.
 
XXXII
 
Il commento di Heidegger all’Introduzione della Fenomenologia è vasto e complesso. Qui è sufficiente riassumere i punti di interesse.
Che cos’è l’esperienza per Hegel?
Intanto, bisogna dire che non si dà esperienza che non sia anche conoscenza. Nell’esperienza la conoscenza appare come uno strumento del cui impiego corretto bisogna preoccuparsi. Un discorso sul metodo, come quello che Mazzetti presenta qui, sembra esser indispensabile per ottenere la certezza assoluta sulla veridicità della scienza che si pratica [Cartesio e Kant].
L’esame dello strumento per mezzo del quale ci si dovrà impadronire della certezza assoluta fallirà necessariamente, in quanto la certezza assoluta – e l’assoluto in genere – non può avere fuori di sé alcunché. Tanto meno uno strumento. Pertanto, alla fine, si dovrà cedere ad una certezza relativa (relativismo).
L’esame del mezzo – dice Heidegger: commento a Hegel (Il concetto hegeliano di esperienza, Sentieri interrotti) – non viene a capo di nulla.
Non c’è introduzione alla Scienza.
La Scienza non è l’opera come creazione di un pensatore. [Heidegger, Hegel, 185].
Se l’opera fosse la creazione di un pensatore – di un artista, di un genio, di un filosofo, di un uomo – il pensatore sarebbe fuori dall’opera e l’opera non sarebbe assoluta.
Assoluto – ab-soluto – vuol dire libero da qualsiasi legame, senza alcuna condizione, incondizionato – che non ha di fronte a sé niente che possa limitarlo. Inconcusso.
Se la Scienza fosse condizionata, bisognerebbe cercare il fondamento nella condizione. E se la condizione fosse fuori dell’assoluto, questo fuori non potrebbe che condurre a Dio.
La Fenomenologia di Hegel, dice Heidegger, è l’opera come realtà della coscienza stessa. [Hegel]
La fenomenologia è la scienza dell’esperienza della coscienza, ma non come una mera ricerca esterna a questa coscienza – come accade nella scienza ordinaria, dove ad un oggetto dato corrisponde un soggetto disciplinare.
La scienza fenomenologica è l’esperienza stessa della coscienza, la coscienza che si fa opera.
L’opera non si distingue più dal mondo, dalla realtà e dalla vita (vedi anche Marx, Tesi su Feuerbach). Si tratta di un concetto di opera lanciato dal romanticismo di Jena.
 
XXXIII
 
L’opera, essendo mondo, si innesta e contrasta direttamente il mondo. L’attività artistica è direttamente azione (azione politica). Per l’arte non c’è bisogno di passare all’azione, l’arte è immediatamente azione. Lo stesso dicasi per la scienza. La scienza è immediatamente immischiata nelle cose del mondo. Non esiste arte neutra, come non esiste scienza neutrale.
Se l’arte (la filosofia, l’economia, la scienza, eccetera) fosse qualcosa di esterno rispetto al mondo, o alla vita; se da questo fuori sferzasse il mondo per ricondurlo sulla via maestra, il mondo non sarebbe completo, assoluto – sarebbe limitato. Oppure, ma è la stessa cosa, se il mondo sferzasse dal suo fuori l’arte (la filosofia, l’economia, la scienza, eccetera) per indicarle la via smarrita, l’arte non sarebbe assoluta, indipendente, libera, vera. Dipenderebbe da questo fuori. Ma la verità che dipende da qualcos’altro non è vera.
Dunque, la Fenomenologia (il libro) è esperienza.
Non ci introduciamo nella Fenomenologia. Non c’è introduzione all’esperienza dell’assoluto. Non c’è introduzione – manuale d’uso – all’esperienza. L’esperienza non può attendere di diventare oggetto di un manuale d’uso, di una guida (turistica), proprio perché è ciò a partire da cui l’oggetto (l’oggettività dell’oggetto) si fissa. Fintanto che l’oggetto non si fissa – e l’oggetto si fissa solo nell’esperienza e per l’esperienza – non si dà nemmeno un soggetto dell’esperienza.
Se si iniziasse con l’introdursi nell’assoluto, l’assoluto avrebbe di fronte a sé questa introduzione, come un alcunché di determinato. Poiché l’assoluto è tutto (ab-soluto), l’avere fuori di sé un’introduzione significherebbe avere un’interruzione – un’interruzione dell’assoluto.
Ogni interruzione dell’assoluto deve essere una interruzione nell’assoluto stesso. Ecco perché l’assoluto non ammette all’inizio una introduzione
Se tuttavia vi è introduzione, questa introduzione è un’introduzione dell’assoluto. All’inizio, se l’assoluto vuole mantenersi nella sua assolutezza, l’assoluto deve presentarsi così come sarà alla fine.
Se cerco l’assoluto non posso stargli di fronte, se gli sto di fronte, allora non si tratta dell’assoluto.
Devo stargli dentro.
L’inizio dell’assoluto deve trovarsi dentro l’assoluto, e non al suo esterno. Quando si tratta di assoluto, interno ed esterno non hanno più alcun senso, come non hanno senso le partizioni soggetto e oggetto, teoria e pratica, storia e storiografia, filosofia e storia della filosofia, scienza economica e borsa valori, eccetera.
La Fenomenologia (il libro) non è un manuale d’uso per l’esperienza, un metodo per fare esperienze vere o autentiche. Non è nemmeno il racconto di un’esperienza. È un’esperienza. E siccome è un’esperienza, una lettura che voglia essere fedele alla sua lettera deve, essa stessa, essere un’esperienza. Anzi, non può non essere un’esperienza.
Sembra che così, dice Heidegger, Hegel abbandoni tutte le conquiste della filosofia moderna.
È opinione corrente, dice Heidegger, che la conoscenza sia intesa come un mezzo del cui impiego corretto bisogna preoccuparsi.
 
XXXIV
 
Se nella ricerca scientifica, dice Mazzetti, cado in crisi, devo esaminare se la crisi è frutto di un errore nella formula, oppure se è conseguenza di una contraddizione con la realtà effettiva. Nel primo caso correggo la formula; nel secondo caso, correggo l’intero impianto della ricerca, perché esso non rispecchia più la realtà (114). Insomma, dice Mazzetti, il progresso della conoscenza non si auto-alimenta, bensì poggia sull’esperienza che l’azione o la verifica, condotte sulla base del sapere pregresso, conducono a risultati che deludono le aspettative, e cioè che contraddicono le anticipazioni implicite o esplicite. La spinta ad andare avanti, che pure è del soggetto (nell’antropologia era stato acclarato che la spinta precede il soggetto), è il risultato della frustrazione subita: è prodotta dal contesto.
Una volta verificata la correttezza formale della tesi, se il problema sussiste, vuol dire che ad essere errata non è la realtà, ma è la teoria. A questo punto non rimane, dice Mazzetti, che cambiare la teoria. Il problema di partenza deve essere riformulato in maniera diversa (115).
A questo punto, conclude Mazzetti, solo aposteriori, a cose fatte, possiamo ricapitolare il tutto. La ricapitolazione non si limita a rilevare un successo raggiunto solo per tentativi ed errori. Il fatto che si possa ricapitolare la tesi solo aposteriori, non significa, dice Mazzetti, che si debba ricominciare da zero, abbandonandosi al relativismo. Rimangono due punti fermi, la tesi originaria, e il contesto che l’ha contraddetta. Il nuovo, anche quando è atteso come l’inatteso assoluto, è atteso a partire da un contesto e da una posizione acquisita.
Sia come sia, la verità così prodotta non è assoluta, non è necessaria e universale. È una verità statistica, del più e del meno, e non aiuta a spiegare come si passa dalla molteplicità determinata all’universalità. Non aiuta a capire come si forma il valore (valore lavoro, valore d’uso, di scambio, lavoro in genrale, eccetera,). In ciò Mazzetti ritrova una piena solidarietà con Popper. E la sua ricerca della pietra filosofale doppia i tentativi dei primi monetaristi.
L’esperienza presa in considerazione da Mazzetti non ha nulla a che vedere con l’esperienza come è intesa da Hegel. Qui Mazzetti sembra riprodurre lo schema Struttura-Sovrastruttura.
 
XXXV
 
Empiria. Il modo in cui l’uomo ha davanti agli occhi ciò che è presente (Anwesende) non è stato sempre lo stesso – dice Heidegger (Hegel). E neanche l’ente è stato sempre lo stesso. Uno dei modi un cui l’ente si è presentato allo sguardo è l’Empiria.
Se, per esempio, acquisiamo la nozione che ogni volta che qualcuno si ammala bisogna usare questa o quella medicina, allora l’avere presente dinnanzi a sé preventivamente tale stato di cose, ossia «se questo… allora questo…» è una empiria.
È caratteristico dell’empiria il restare costante del «se questo… allora questo…».
L’empirico, dice Heidegger, scorge che ciò è così, ma non spine lo sguardo all’interno di ciò che procura il perché esso è così come è. L’avere davanti agli occhi il perché relativo ad uno stato di cose caratterizza la tekné, che è l’essenza della episteme – la Scienza.
Ciò che per Aristotele è empiria – la predisposizione empirica del «se così.. allora…» per Kant, dice Heidegger, non è ancora esperienza, bensì percezione.
Per Kant l’esperienza è una conoscenza empirica, una conoscenza che determina un oggetto mediante la percezione.
Ogni volta che splende il sole la pietra si riscalda. In senso kantiano l’esperienza si dà solo quando tale fatto empirico si è trasformato in una conoscenza: poiché il sole splende, perciò la pietra si riscalda. Lo stato di cose è percepibile con i sensi, ma fornisce anche una conoscenza oggettiva, valida per tutti, ossia una relazione di causa-effetto.
La conoscenza è una sintesi delle percezioni, che non è essa stessa contenuta nelle percezioni, contiene l’unità sintetica del molteplice nella coscienza. Unità che costituisce l’essenziale di una conoscenza degli oggetti dei sensi, cioè dell’esperienza (non semplicemente dell’intuizione o impressione sensibile).
Ciò che Kant intende per esperienza è realizzato come scienza naturale matematica nel senso di Newton.
Il concetto hegeliano di esperienza si distingue essenzialissime sia dall’empiria di Aristotele, sia dall’esperienza di Kant. Sia Aristotele sia Kant concordano sul fatto che l’esperienza (Kant) e l’Empiria si riferiscono all’ente immediatamente disponibile nella quotidianità.
Ciò che invece Hegel chiama esperienza non si riferisce né all’ente percepibile quotidianamente, né in generale a qualcosa di essente, né tanto meno a rappresentazioni.
Che cos’è dunque l’esperienza per Hegel, qual è il suo «oggetto», visto che si dirige visto «qualcosa»?
L’esperienza è il far scaturire il nuovo oggetto. Tale scaturire, dice Heidegger (Hegel), si mostra come un movimento della coscienza. Movimento della coscienza esercitato nella coscienza.
Questo libro qui, che secondo l’intuizione sensibile, è l’ente «in sé», è però anche intuito pure «per sé», ossia per la coscienza intuitiva. Nell’in-sé si trova al contempo l’esser-per-essa (la coscienza). Tale esser-per-essa non è altro che l’esser-oggetto dell’oggetto libro. L’esser-oggetto e tutto ciò che ne fa parte, si chiama oggettualità di questo oggetto. L’oggettualità non è un nulla, bensì ciò che finora è rimasto sconosciuto all’intuizione sensibile. L’oggettualità, poiché compare al di sopra dell’oggetto noto e abituale per tutti, è qualcosa di nuovo.
L’oggettualità del libro non sembra esser altro che il sapere circa il libro alla maniera dell’intuizione.
L’essente di qualcosa (l’oggettualità) è il vero in un oggetto – dice Heidegger. Dunque, l’oggettualità è il vero oggetto: un oggetto nuovo che contiene la nullità del primo oggetto. Ciò vuol dire: il primo oggetto non è in-sé il vero, e questo proprio perché esso è solo in-sé, cosicché la sua oggettualità, la sua verità, ancora non compare. Il primo oggetto (il libro), visto in tal modo, è il non-vero, oggetto non autenticamente vero, ciò che visto dal punto di vista dell’essenza è nullo [questo è, nega ogni ente particolare].
Il nuovo oggetto (oggettualità) rileva ciò che il non-vero, in quanto non vero, è in verità: esso rileva la propria nullità. Il nuovo oggetto è l’esperienza fatta sul primo. L’oggetto dell’esperienza della coscienza è l’oggettualità (essenza).
 
XXXVI
 
L’Esperienza è per Hegel esperienza della coscienza.
Cosa vuol dire?
L’esperienza è il movimento dialettico dice Heidegger (Hegel). È un viaggiare (pervagari) che intraprende un cammino. Ma il cammino non esiste per viaggiare, non è un andare incontro all’antagonista, la sua accettazione.
Ciò a cui si va incontro non è lì già apparso, ma appare insieme all’esperienza. L’esperienza è il viaggiare, ma è un viaggiare che si costruisce costruendo il suo cammino.
Qui appare evidente la differenza con Mazzetti. Al di fuori dell’esperienza non si dà alcuna natura, alcuna struttura rispetto alla quale la scienza si presenterebbe come una sorta di sovrastruttura, una sovrastruttura che è pur sempre un qualcosa, ma un qualcosa che, rispetto alla struttura che non erra, può anche errare ed essere contraddetta – smentita – dalla struttura, può, rispetto a questa, smarrirsi, perdersi, confondersi, sbagliare, e, per via di questo smarrirsi, anche perire, dissolversi, sparire. Oppure può correggere il tiro, rimettersi in carreggiata, eccetera. Per Hegel non vi è alcuna struttura, alcuna natura, alcun oggetto fuori dall’esperienza. L’oggetto e il soggetto, la natura e la cultura, eccetera, sono momenti dell’esperienza. Perdersi non è un errore. Perdersi non è nemmeno – così lo intende Mazzetti – un segno che la struttura è cambiata, che c’è del nuovo, e che tutto quello che sapevamo non funziona più nel nuovo contesto. Perdersi è l’unico modo affinché il nuovo si affacci. Perdendosi la storia comincia, e cominciando, l’assoluto si lacera, e lacerandosi si sdoppia, e sdoppiandosi si rispecchia, e rispecchiandosi si riconosce, e riconoscendosi si ricompone.
 
XXXVII
 
Oggi si dice fare esperienza di una cosa. Viaggiare, andare all’estero per fare esperienza della vita. Lo si dice proprio a partire dal concetto hegeliano di esperienza. Un concetto in cui non c’è separazione tra la conoscenza e la vita vissuta. La conoscenza non è una guida turistica. Da qui l’idea dell’industria del turismo secondo cui il viaggio autentico è prima di tutto un perdersi, un viaggiare senza guida, senza meta, senza metodo. Un viaggiare che inizia con un perdersi, e finisce con un ritrovarsi. Perdersi per ritrovarsi.
L’andare incontro a ciò che non è ancora apparso è l’andare a zonzo, è l’esperienza stessa, l’andare senza che la meta appaia esterna al viaggio, senza che il senso o il percorso siano esterni al viaggio, dove l’andare è la meta stessa.
L’andare è un mettersi alla prova, è un perdersi per poi ritrovarsi. Viaggiare è un provare e un rimettersi alla prova. È un esame.
L’esame non è – come lo intende Mazzetti – un commisurare la tesi alla realtà effettiva. L’esperienza del viaggio non è un commisurare il cammino percorso rispetto alla guida turistica o alla prenotazione. L’esperienza deve far avverare un nuovo oggetto. Se l’esperienza non si concretizza in questo avveramento non può ritenersi vissuta, cioè vera. Siamo in un ordine diverso di verità, rispetto a quello che prospetta Mazzetti
Non si viaggia per conoscere, per assaggiare, per visitare. Quand’anche il viaggiare fosse un conoscere e un degustare o un visitare, l’esperienza non riguarderebbe l’ente. Non si tratta del gran tour storico, compiuto appunto per recarsi e risiedere nei luoghi dove gli oggetti della conoscenza – libri, dipinti, monumenti, musica, eccetera – sono disponibili. Si tratta dell’on the road di Kerouac, si tratta di un’andata che è un perdersi per ritrovarsi. Non si tratta delle ferie operaie.
È il viaggio spacciato come esperienza dal tour operator, è l’avventura, la sorpresa, o al limite, il non ritorno, come possibilità estrema del ritorno o del ritrovarsi.
L’esperienza è dunque un perdersi, smarrirsi, alienarsi. La nuova esperienza compiuta, presuppone un perdersi e soffrire, lacerarsi e alienarsi.
L’esperienza, dice Hegel, è un potere – sopportare, soffrire.
La coscienza, se vuole l’erezione-elevazione, deve smarrirsi. L’elevazione implica un primo movimento, l’uscire fuori. Questa uscita fuori nell’elevazione è pungente, come pungente è ogni esporsi al fuori -anche se qui parlare di fuori non è del tutto esatto.
La coscienza eretta ed esposta all’esame, sale sul ring, incontra l’antagonista – momento della negazione determinata, del limite. Esperienza del limite, che è anche uno spingere per aprirsi un varco, una penetrazione della cosa, tra le cose – momento masochista. Il dolore come momento costitutivo della posizione tetica.
Eccomi (da-sein): l’erezione!
Il percorso dell’esperienza, dice Hegel, è un cammino della disperazione, e, di conseguenza, l’esperienza è essenzialmente dolorosa.
Hegel, infatti, pensa sempre il dolore metafisicamente, vale a dire come una sorta di coscienza, la coscienza di essere-altro, della lacerazione, della negatività.
Lacerazione del sé, che erigendosi esce fuori di sé, e si oppone al sé come un suo doppio – alienazione – il sé non si riconosce come proprio sé alienato.
L’esperienza della coscienza, dice Heidegger, in quanto esperienza trascendentale-dialettica, è la «cattiva esperienza».
L’esperienza è «cattiva esperienza», nella quale ciò che è saputo si mostra sempre altro da come appare inizialmente. L’esperienza è il dolore trascendentale della coscienza.
La coscienza esce fuori, si rizza. Elevarsi è fare esperienza dell’essere fuori, ritta, nell’atto di penetrare la cosa. Cosa tra le cose, si scopre diversa da come credeva di essere. Tra gli altri, esiste, si ritrae, toccata e rintuzzata, si ritira. Dolore nell’erezione – toccata dall’altro.
L’esperienza, dice Heidegger, è il lavoro del concetto.
Il concetto non è idea dell’oggetto – mera opposizione cartesiana – il concetto è questo viaggio. Uscire fuori di sé. Penetrare la cosa, tornare in sé.
L’esperienza della coscienza, dice Heidegger, in quanto percorso, in quanto esame, in quanto patire (sopportazione e compimento), in quanto dolore, in quanto lavoro, è dovunque e sempre anche acquisizione di conoscenza di nozioni.
Ma questo acquisire nozioni non è mai una mera percezione, bensì il lasciar-apparire che, in quanto percorso e viaggio, esperisce e quindi consegue sempre una figura essenziale della coscienza.
Heidegger ribadisce che l’esperienza dell’elevazione non può essere una mera conoscenza, per così dire, intellettuale. L’elevazione-erezione ha bisogno di passare all’azione, deve uscire fuori e penetrare la cosa.
Che l’esperienza non sia mera conoscenza, non vuol dire che non produca un sapere, una conoscenza e delle nozioni. Conoscenza e nozioni non sono, rispetto all’esperienza, per così dire, una sovra-struttura, sono l’esperienza stessa. Il concetto non è il manuale di istruzioni dell’esperienza, il film pornografico rispetto alla copula effettiva, la guida turistica rispetto al viaggio, la copula a pagamento rispetto all’avventura, l’agenzia di viaggio rispetto allo sci fuori pista, il senso d’orientamento rispetto google maps.
E tuttavia l’esperienza produce conoscenze, savoir-faire, Know-how. Non si può fare esperienza per procura, imparare dall’esperienza di un altro. O meglio, imparare è sempre possibile, imparare da un altro è possibile, imparare da un un altro è ancora un’esperienza, ad è un’esperienza esperita in prima persona, ma non si tratta dell’esperienza di cui l’altro ci insegna, ma è l’esperienza dell’imparare. Imparare a contare i soldi non è uguale a contare i soldi incassati – sono esperienze diverse, incommensurabili. Guardare la partita dagli spalti, non è uguale a giocare. Tuttavia è pur sempre qualcosa. È l’esperienza del tifoso. Perciò, dice Heidegger, l’esperienza della coscienza non è soltanto e primariamente una sorta di conoscenza, bensì è un essere, e precisamente l’essere dell’assoluto apparente, la cui essenza stessa riposa nell’auto-manifestarsi incondizionato.
L’esperienza è l’assoluto che diventa fenomeno, e in quanto fenomeno, si manifesta alla coscienza.
 
 
XXXVIII
 
L’esperienza kantiana. Kant, dice Heidegger, ha posto per la prima volta chiaramente la questione dell’essere dell’ente. Per il pensiero moderno l’ente è ciò che nella coscienza è posto per essa [fenomeno]. Solo ora l’ente è ciò che sta di fronte (Gegenstand) ovvero l’obbietto (objekt). Oggetto è il termine moderno per ciò che è realmente opposto al rappresentare che sa se stesso, l’obbietto per il soggetto. Pensato modernamente il reale – l’ente – è essenzialmente oggetto.
Nel pensiero greco non si trova da nessuna parte il concetto di oggetto. E l’uomo non esperisce se stesso come soggetto. Con la dottrina platonica dell’idea si prepara l’interpretazione dell’essere dell’ente come oggettualità dell’oggetto.
La domanda circa l’essere dell’ente pensata kantianamente è la domanda circa l’oggettualità (l’essenza) dell’oggetto. Kant dice, Chiamo trascendentale ogni conoscenza che si occupa non degli oggetti ma del nostro modo di conoscenza degli oggetti in quanto deve essere possibile a priori (Crit. Rag. Pura).
Per Kant, la Scienza che si occupa degli oggetti stessi è l’esperienza. La conoscenza che pensa l’oggettualità dell’oggetto domanda delle condizioni di possibilità dell’oggetto dell’esperienza.
Questa comprensione dell’oggettualità dell’oggetto dell’esperienza è per Kant la conoscenza trascendentale, ovvero ontologica.
Questa comprensione trascendentale dell’oggettualità dell’oggetto è ciò che Hegel chiama esperienza. Per Hegel l’esperienza non è come per Kant la conoscenza ontica, bensì quella ontologica.
L’oggetto trascendentale, per Hegel, è essenzialmente il nuovo oggetto. La sua oggettualità consiste nella novità, nel carattere emergente, dell’emergere attraverso l’esperienza. L’oggettualità non è un apparire, non è un al di là – idea Platonica – non è innata, emerge come nuovo dall’esperienza. L’oggettualità, l’essenza, in Hegel, emerge dall’esperienza, dalla storia.
Anche per Mazzetti il nuovo emerge dall’esperienza. Ma in un quadro già costituito, dove si fronteggiano soggetto e oggetto. In Mazzetti, a differenza che in Hegel, l’esperienza rimane l’esperienza di un soggetto, e il concetto, proprio perché sottoposto a verifica da parte dell’oggetto, non si informa, non passa all’universale, sconta l’empiria col cattivo infinito.
 
XXXIX
 
A questo punto si potrebbe considerare un inganno il comportamento critico. Esso, dice Heidegger, fa credere di possedere già i concetti essenziali di Assoluto, conoscere e Vero, oggettivo e soggettivo, mentre in realtà può solo darli come già acquisti. La critica pone l’oggetto e il soggetto dando per acquisite l’oggettività dell’oggetto e la soggettività del soggetto. Allo stesso modo si dà per acquisita la validità del valore, e l’usabilità dell’uso. Si tratta solo di far giocare il valore col valore d’uso e costruire un intero impianto scientifico. Ma l’usabilità dell’uso non è disponibile immediatamente, e non si tratta nemmeno di produrla, perché anche il produrre del produttore non è immediatamente disponibile (anche il produttore deve apparire, e per apparire deve palesarsi nella sua produttività), a meno che non si rinvii tutto ad un aldilà.
Nonostante questo difetto critico, dice Hegel, la scienza non può risparmiarsi un confronto con la critica. In quanto anche la scienza, nel suo apparire, non può assicurare il suo conoscere come un conoscere assoluto. Anzi, può soltanto assicurarlo, alla stessa stregua della critica. Siccome la scienza sorge, e in quanto sorge, non può non apparire. Si pone allora il problema dell’essenza di questo apparire.
Cosa significa qui apparire?
Significa, in primo luogo, emergere contrapponendosi a ogni cosa mediante l’autoaffermazione. Farsi innanzi e accennare a qualcosa che non si presenta. Essere l’apparenza di qualcosa che non è apparso o che non apparirà mai. Queste forme, dice Heidegger, sono inadeguate al sorgere della scienza. In nessuna di esse la scienza potrebbe dispiegarsi in ciò che essa è e quindi costituirsi nella sua pienezza. D’altra parte, la scienza non può sorgere improvvisamente come conoscere assoluto. Deve prodursi nella sua verità, ma deve anche produrre quest’ultima. L’apparire ad essa adeguato non può consistere che nel fatto che essa si esponga nel suo prodursi, per costituirsi in tal modo come sapere apparente. La scienza può sorgere solo producendo la presentazione del sapere apparente. E dunque nel suo apparire non entra in scena nella pienezza della sua essenza. Ecco perché la vuota apparizione di sapere [critica] non dilegua per il fatto di essere rifiutata o semplicemente posta da parte. Il sapere apparente non deve scomparire ma andare fino in fondo al suo apparire. Ciò vuol dire che il superamento del sapere apparente segue la stessa strada del sapere apparente. E non può essere altrimenti. Siccome lungo il cammino, dice Heidegger, la parvenza del non-Vero dilegua sempre più, il cammino è quello della purificazione dell’anima in spirito. La presentazione del sapere solo apparente è un itinerarium mentis in Deum.
Poiché questo cammino procede lungo le apparizioni, esso è un cammino dell’esperienza. L’empiria che va dietro al dato, dice Heidegger, merita, in ogni conoscenza, il primato rispetto alla pura costruzione della semplice deduzione. La presentazione del sapere apparente, la fenomenologia, si attiene ai fenomeni. Essa percorre la via dell’esperienza, e guida, passo passo, la rappresentazione naturale fino alla regione della Scienza.
Con gli occhi della rappresentazione naturale si mira sempre a ciò che si suppone innanzi a sé. Ma questo supporre sempre relativo, potrà scorgere il sapere assoluto? No. Ciò che la coscienza naturale si rappresenta sotto il nome di sapere solo apparente e che dovrebbe condurre al vero, è solo mera apparenza.
Il sapere naturale, dice Heidegger, si costituisce come quel sapere che non si preoccupa dell’ente come tale, ma che nel suo rappresentare si subordina all’ente. Quando cerca l’ente nella sua verità, si sforza sempre di sapere l’ente in base all’ente. Tuttavia, dice Heidegger, questo sapere può sorgere nell’ente e può prendere tutto per ente solo se esso, senza saperlo, possiede già la rappresentazione dell’entità dell’ente in generale, della realtà del reale. La coscienza naturale non bada, nella sua rappresentazione dell’ente, all’essere, e deve tuttavia badargli. Non può fare a meno di con-rappresentare l’essere dell’ente in generale, perché, senza la luce dell’essere, non potrebbe mai perdersi nell’ente.
Ontologia, dice Heidegger, significa raccogliere l’ente nella sua enticità. Avvedersi di questo raccoglimento. Invece, nella sua rappresentazione immediata dell’ente, la coscienza è ontica. Per essa l’ente è oggetto. Ci si rappresenta l’oggetto, e rappresentandolo non si può non rappresentare la sua oggettività, ma questa oggettività non viene pensata. Si assume l’oggettività dell’oggetto senza pensarla. Poiché non pensa l’oggettività come tale, pur rappresentandosela, la coscienza naturale, dice Heidegger, è ontologica senza esserlo ancora. La coscienza ontica è pre-ontologica. In quanto tale, la coscienza naturale ontico-preontologica è, latentemente, la distinzione del vero ontico e della verità ontologica. Poiché coscienza [esser-cosciente] significa: essere questa distinzione, la coscienza, per la sua stessa natura, è la comparazione del rappresentato ontico e del rappresentato ontologico. In quanto comparazione essa si attua nell’esame.
La stessa filosofia, dice Heidegger, di tanto in tanto, preferisce restare coll’opinare abituale della coscienza naturale. Essa riconosce che all’oggetto in quanto oggetto appartiene l’oggettività. Ma l’oggettività è per essa semplicemente il non-oggettivo. E dà pure l’impressione di elaborare una filosofia critica per il fatto di assumere un atteggiamento scettico verso l’ontologia.
 
XL
 
Lo strumento deve misurare il conoscere, quanto alla sua adeguatezza all’Assoluto, nell’Assoluto stesso. Deve quindi avere già conosciuto l’Assoluto, poiché, diversamente, verrebbe meno ogni possibile determinazione critica dei limiti. Ma come è possibile aver conosciuto ciò che si tratta di misurare per conoscere? O, viceversa, come si può misurare ciò che si ignora? Come si può misurare, se il misurato è ciò che dà la misura? Il pensiero è tutt’uno con l’Assoluto, deve averlo già conosciuto prima che inizi a conoscerlo. Ma come è possibile tutto ciò? Come è possibile il salto della conoscenza?
All’inizio c’è l’Assoluto. Se qualcosa sopraggiunge, sopraggiunge sempre nell’Assoluto. Ciò vuol dire che non si dà alcun aldilà. Tutto è aldiqua. Il pensiero non è un aldilà del molteplice. Proprio perciò, non essendo un aldilà, è una cosa tra le altre. Ma una cosa tra le altre, può porsi come il tutto, può porsi come misura universale? E se può, come accade tutto ciò, come si trascende il molteplice, se non lo si può trascendere alla maniera di Cartesio e di Kant?
L’Assoluto, scrive Hegel nell’Introduzione, è già presso di noi e vuole essere presso di noi. Il primo passo che la conoscenza dell’Assoluto deve compiere consiste nella semplice accettazione e nella ricezione dell’Assoluto nella sua assolutezza, cioè nel suo essere presso-di-noi.
Hegel, dice Heidegger, parte con l’abbandonare la visione tradizionale della conoscenza come mezzo. Se la conoscenza non è un mezzo, non serve a nulla conoscere le capacità di mediazione del mezzo.
Appena il conoscere è inteso come un mezzo è inteso come qualcosa che si situa fra l’Assoluto e il conoscente. Il conoscere sussiste separato dall’Assoluto, e parimenti da noi che lo poniamo in atto. Ma cosa è mai, chiede Heidegger, un Assoluto che sta da un lato e non dall’altro, che è mai l’assoluto che sta in un qualche lato? (Se l’Assoluto è la verità, va da sé che la verità non può stare da una parte e non dall’altra).
Il salto verso la parusia dell’Assoluto, dice Heidegger, non è così arduo perché, come si crede, dovremmo pervenire nella parusia dal di fuori, ma perché occorre, all’interno della parusia e quindi in base ad essa, produrre ed esibire il nostro rapporto ad essa. Perciò lo sforzo della scienza non sta nel fatto che il conoscente, restando in se stesso, debba sforzarsi di compiere quel salto. Lo sforzo della scienza proviene piuttosto dalla sua relazione alla parusia. Lo sforzo è uno sforzo dell’Assoluto, sforzo faticoso di sopportare fino in fondo la dilacerazione in cui è la relazione infinita nella quale si attua l’essenza dell’Assoluto {l’assolutezza}.
Quando Hegel parla del lavoro del concetto, dice Heidegger, intende riferirsi alla lotta dell’Assoluto stesso per giungere all’assolutezza concettuale e all’auto-certezza senza condizioni. È evidente che senza la lacerazione, e senza essenza dell’assoluto, si procederebbe secondo l’abitudine della critica ordinaria del conoscere, simile a quella che volesse immaginare una quercia sena tener conto che è un albero.
Ma cosa significa, e come si produce, la lacerazione dell’Assoluto?
 
XLI
 
Il divenire, dice Heidegger, sussiste, in quanto l’esame, che è una comparazione, si produce. L’esame non può procedere che precedendosi. La scepsi vede innanzi a sé e vede sé innanzi. Mentre muta il suo sapere circa l’oggetto, anche l’oggetto va mutandosi.
L’esperire, dice Heidegger, è in Hegel un pervenire che cammina raggiungendo. Per avere esperienza, e con ciò avere un sapere che proviene dall’esperienza, bisogna fare l’esperienza. Non c’è un metodo e una conoscenza teorica che esenti dal fare l’esperienza effettiva. Per saper cosa significhi fare l’esperienza di mangiare, bisogna mangiare. Il sapere coincide con l’esperienza stessa.
Il nuovo oggetto, dice Heidegger, è null’altro che l’esperienza stessa.
È a ragion veduta, dice Heidegger, che Hegel non si limita a dire che l’esperienza è l’attenzione a qualcosa di presente, ma al presente {ontico} nel suo esser-presente {ontologico}.
L’esperienza, intesa metafisicamente, è inaccessibile alla coscienza naturale. {perché l’esperienza non è un oggetto che sta innanzi (Gegenstand) che può essere esaminato – l’esperienza va vissuta, è oggetto e soggetto vissuti}. Essa è l’entità dell’ente, e perciò non è mai rintracciabile in seno all’ente come una sua parte. Se si fa una buona esperienza con un oggetto, ad esempio con uno strumento usandolo, la si fa della cosa a cui si volge l’impiego dell’oggetto con cui facciamo l’esperienza stessa. Se si fa una brutta esperienza con un uomo, la si fa in determinate circostanze, nella situazione e nei rapporti in cui l’uomo doveva fare buona prova. Si fa esperienza con l’oggetto, non però di questo, bensì di un’altra cosa che viene introdotta e di cui ci si fida. Nell’esperienza abituale ci si volge all’oggetto da esaminare a partire dalle condizioni in cui esso è posto da altri oggetti. È in base a queste condizioni che risulta come stanno le cose per questo oggetto. Se si debbono mutare le rappresentazioni che si avevano dell’oggetto da esaminare, il mutamento ci sopravviene dai nuovi oggetti richiesti dall’esperienza. La non verità dell’oggetto precedente si manifesta nel nuovo oggetto che noi ci rappresentiamo affinché, rappresentandocelo, sia possibile raffrontarlo al già noto, sul quale vogliamo fare esperienza. Il rivolgimento è la scepsi nell’esperienza. La coscienza è autocoscienza – sé per il sé – ma il sé esce fuori da sé verso l’oggetto, in questo uscire fuori si mostra e appare. Non si tratta di percorrere un sentiero definito prima dalla coscienza naturale, e che la coscienza percorre fino all’assoluto. Piuttosto si tratta del percorso stesso che l’assoluto percorre affinché esso compia il proprio cammino. Non c’è sdoppiamento tra la strada e il viandante – tale che il viandante, vista la strada, la percorra. Se così fosse, se ci fosse una strada pronta e da percorrere, l’assoluto non sarebbe più tale, essendo limitato da questa strada, limitato in quanto il viandante indirizzato dalla strada e percorrendo il percorso tracciato troverebbe l’assoluto nel posticino dove la strada termina.
Nel percorso della coscienza naturale, già nel primo passo (a differenza della primitiva certezza revocata dal dubbio) pesa il riconoscimento che il passo non dà alcuna speranza di riuscita, di portare l’assoluto nella propria verità. Il primo passo richiede un altro passo, per il quale vale la stessa cosa, e ciò fino a quando non si raggiunge l’assoluto. Il percorso del sapere apparente – partito dalla coscienza naturale – si configura come un cammino della disperazione. In questo cammino, il passo successivo – la figura – avanza sul passo precedente senza escluderlo dal cammino verso l’assoluto. Il passo è aufheben. Ne segue che la coscienza traspone il proprio apparire in una storia che rappresenta la formazione della sua essenza.
L’opinione comune obietta: Se il sapere apparente, partito dalla coscienza naturale, è un percorso, da dove prende allora tale percorso il principio della completezza della figura e, soprattutto, da dove prende la propria meta e con ciò la regola della successione dei passi dello sviluppo? [Per dire che si tratta di una figura (completa) bisogna staccare la figura dalle figure che la precedono e la seguono nella serie – la figura è discreta, limitata – e dunque bisogna già, al primo passo, avere un’idea del passo successivo].
Alla domanda del senso comune Hegel ribatte ponendo la domanda in modo corretto.
La meta non è né al di fuori [la strada con la destinazione] né soltanto alla fine [il traguardo]. La meta è l’inizio. I passi non sono stazioni intermedie di un cammino che porta ad un traguardo, raggiunto il quale, l’assoluto si svela. Il cammino non è un elevarsi in salita, il quale, una volta raggiunta la vetta, porta al cospetto di un assoluto già formato e in attesa di essere raggiunto – l’Assoluto non è una scoperta. L’assoluto è la storia. Se c’è storia, questa storia scorre come assoluto. Le figure – i passi – sono passi dell’assoluto. Ad ogni passo la coscienza si eleva, sale un gradino – il gradino successivo, e dunque il passo successivo, non elimina il gradino precedente – ci si eleva sul gradino precedente, che perciò viene superato solo se conservato – i gradini vengono scalati fino all’ultimo, quando il sapere apparente coincide col sapere assoluto, quando non c’è più alienazione. Se la Fenomenologia inizia con la certezza sensibile e «finisce» con lo spirito assoluto, dice Heidegger, questo cominciamento non è posto dall’essere umano, che innanzitutto si trattiene in questa modalità di sapere. Piuttosto la Fenomenologia incomincia con l’apparire dell’essenza della certezza sensibile, poiché questa Figura è la più estrema alienazione in cui l’assoluto può lasciarsi andare. Tuttavia, se si lascia andare là, esso si trova a essere, presso quella più vuota e povera, e quindi massimamente lontano dalla completezza di se stesso. Questa lontananza essenziale da se stesso è però la condizione fondamentale affinché l’assoluto si dia la possibilità di compiere il percorso di ritorno a se stesso, e precisamente da se stesso per se stesso.
Perché nella figura della certezza sensibile la coscienza sperimenta la massima alienazione?
Perché è il momento della negatività assoluta: questo è – tutto è identico, tutto è niente.
La coscienza, dice Heidegger, come portare innanzi se stessa le proprie figure essenziali, è un continuo venir strappato fuori mediante se stessa, al di là di se stessa, verso se stessa – violenza.
La coscienza subisce da sé questa violenza, si guasta ogni appagamento illimitato – dispera. La coscienza strappata e buttata fuori nell’apparire [apparire che è alienazione] presenta se stessa.
“La coscienza subisce da lei medesima questa violenza, per cui essa si guasta ogni appagamento illimitato (vale a dire il fatto di dover sempre superare i propri stadi in maniera disperata) [62].
Disperazione. La coscienza non sopporta il limite. Vive la limitazione con disperazione. Si è disperati perché non si è tutt’uno con l’assoluto. La disperazione è la misura della propria incompletezza, il non essersi elevati all’assoluto.
Ma cos’è questo assoluto che misura i nostri limiti?
È l’assenza di alienazione.
La fine della disperazione coincide con la fine dell’alienazione. E la fine dell’alienazione coincide con la fine del limite. Ma il limite dell’assoluto – l’alienazione – è l’alienazione dell’assoluto. Si ordina a partire dalla fine. Fine che diventa un fine (telos) verso cui tendere. Nella storia dell’assoluto succede quello che deve succedere, senza resto. Quello che è all’inizio sarà alla fine.
La coscienza esce fuori di se stessa – questo uscire fuori è il suo apparire [Fenomeno]. Essa presenta se stessa. In quanto si presenta è.
La coscienza appare nella e mediante l’alienazione. Appare nell’oggetto come soggetto alienato. Senza alienazione non ci sarebbe fenomenologia e scienza fenomenologica. In più, il percorso di questa apparizione, poiché è un percorso della disperazione, cerca di elevarsi-liberarsi da questa disperazione (alienazione), cerca di togliere la disperazione, sollevandosi, facendo leva proprio sull’alienazione. L’alienazione è il primo gradino di una scala, composta da altrettanti gradini fatti tutti di alienazione, la quale conduce alla soppressione (= rilevamento) dell’alienazione.
 
XLII
 
Alienazione. Il percorso che porta alle varie figure della coscienza (gli stadi) ha il tratto del superamento. Il superamento è un aufhebung, cioè un sollevarsi e un salire il gradino (tollere), un posizionarsi sul gradino appena salito (conservare), e un rizzarsi (elevare).
Dei tra momenti del superamento, dice Heidegger, il terzo (l’ultimo) è il primo, perché è da esso che inizia il superamento. Il superamento coincide con l’erezione. La coscienza, dice Heidegger, è essenzialmente, in quanto autocoscienza, già preventivamente nell’elevazione verso l’assoluto. Ed essa ricomprende il proprio saputo sempre e soltanto a partire dall’elevazione, al fine di conservare all’interno nell’elevazione la coscienza di questo saputo come figura. L’esser fuori, che alla fine ritorna dentro, era già all’inizio un dentro. Il fuori ritorna a casa.
Considerata da un altro punto di vista, dice Heidegger, l’erezione (elevamento) è: 1) comprendere e osservare il saputo: è tesi; 2) riportare ciò che è saputo dalla coscienza all’interno dell’autocoscienza: è antitesi; 3) riunificare entrambi in un’unità ad essi superiore: è sintesi.
Se si considera il processo secondo l’opinione comune, si deve ammettere che la sequenza parte dalla tesi, passa all’antitesi e arriva alla sintesi.
Se così stanno le cose, argomenta il pensiero comune, e la tesi è il punto di inizio, il modo in cui Hegel spiega il passaggio dalla tesi, all’antitesi, alla sintesi è arbitrario. Se inizialmente è posta solo la tesi, allora viene a mancare ogni indicazione sulla direzione e sull’ambito dai quali dovrebbe essere tratta l’antitesi. E quando quest’ultima viene posta, resta ancora da chiedersi da quale punto di vista la contrapposizione possa essere intesa come una riunificazione e unità. Non c’è alcun motivo che giustifichi il passaggio da una figura all’altra. Dire che la storia deve muoversi verso una certa direzione è un arbitrio.
Tuttavia, dice Heidegger, questo argomento del pensiero comune è da rigettare. In quanto non considera che il percorso inizia con la sintesi, e non con la tesi.
È la sintesi ciò che porta e conduce, e lo fa a partire dalla violenza dell’elevazione (erezione) che domina tutto. L’ambito di ciò che viene ottenuto dal conservare, e che per ciò stesso richiede un tollere, è già circoscritto.
Tutto inizia con l’elevazione (erezione). Con la violenza dell’erezione. Ma l’erezione inizia perché la coscienza è toccata dall’assoluto.
Bisogna partire dalla sintesi. La sintesi è assoluta.
Ma questo assoluto, dice Heidegger, non viene «fatto» da noi. Non si dà alcun noi, prima della sintesi, prima che, attraverso il raggio, la verità ci tocchi.
L’assoluto è già presso di noi – dice Hegel. L’assoluto – la verità – ci tocca col raggio, ci spinge, ci sprona, ci fa violenza: la violenza dell’erezione, dell’uscire fuori.
La coscienza viene costretta allo sviluppo dalla violenza della sua essenza assoluta. E viene costretta sin tanto che apprende se stessa incondizionatamente nella propria verità, fino all’eliminazione dell’alienazione e alla riappropriazione di se stessa.
Nel fissare la meta – che è l’incondizionato della coscienza – vengono determinate le tappe dello sviluppo – le figure.
La negazione della figura precedente non è un vuoto negare. Né la negazione prende la direzione dello sviluppo nel vuoto indeterminato. Nello sviluppo, la negazione, e con essa la sua essenza, è «negazione determinata». Il percorso, dice Heidegger, è condotto dall’elevazione.
Nello sviluppo si trova un salire in alto da uno stadio sempre più basso a uno sempre più alto. E siccome questo sviluppo crescente è un passaggio differenziante da uno stadio a un altro, diventa chiaro che il percorso del presentarsi del sapere apparente [fenomenologia] che separa e differenzia il basso dal più alto, ha il carattere dell’esame.
Esame, al tempo di Kant, suona come osservazione critico-conoscitiva del conoscere [valutazione].
L’esame è, rispetto a ciò che esamina, un mezzo. Allora il pensiero comune chiede da dove venga presa la misura per questo misurare.
 
XLIII
 
Kant, Rivoluzione copernicana. Copernico non potendo spiegare i movimenti celesti ammettendo che tutto l’esercito degli astri ruotasse intorno allo spettatore, pensò se non fosse meglio far ruotare l’osservatore, e lasciare gli astri a riposo.
Davvero Kant dice che gli oggetti devono regolarsi sulla nostra conoscenza e quindi le stelle sull’osservatore? No.
Kant lascia in pace l’ente in sé e al contempo lo determina, facendo ruotare intorno alla cosa stessa l’apparire [fenomeno] e con esso l’osservatore che rappresenta ciò che appare. Kant non vuol dire: Quell’albero lì, in quanto albero, deve regolarsi su ciò che io penso di esso. Kant dice piuttosto che l’albero in quanto oggetto ha l’essenza della sua oggettualità in ciò che appartiene preliminarmente all’essenza dell’oggettualità. Questa – l’oggettualità – è la misura dell’oggetto.
L’unità originaria dell’autocoscienza e del suo rappresentare unificante è la misura data nell’essenza dell’autocoscienza per il saputo in quanto tale.
Dunque, dice Heidegger, Hegel non pensa la coscienza soltanto nel senso di Cartesio, genericamente come autocoscienza, tale che ogni saputo è quello che è per un io, cioè qualcosa di contrapposto al rappresentare (oggetto). Hegel pensa l’autocoscienza in senso kantiano, come un trascendentale. In più, a differenza di Kant, Hegel non si ferma all’autocoscienza umana, fa espressamente dell’autocoscienza un oggetto di lei stessa, in modo che le misure più originarie si dispieghino in lei stessa. La coscienza, nel percorso verso la sua essenza (assoluto) lascerebbe apparire di volta in volta la misura di lei stessa e che in tal modo sarebbe in se stessa formatrice di misura.
Da uno stadio all’altro la misura cambia, perché, passo dopo passo, appare l’elevazione originaria nell’assoluto in diversi stadi del suo completamento.
La coscienza, rapportandosi col saputo (oggetto), si rapporta già con se stessa. L’oggetto è ciò che è (è un oggetto) solo in quanto è per la coscienzaoggetto e coscienza non sono separabili. Se l’oggetto ha una valenza – cioè una misura (la misura è lo stadio, la figura) – la sua valenza coincide con quella della figura della coscienza.
La coscienza, rapportandosi all’oggetto come a ciò che è da misurare e al contempo a se stessa come al misurando, compie in se stessa, con questo duplice atteggiamento, la comparazione di ciò che è da misurare con la propria misura. Per essa valgono come il medesimo al contempo ciò che è da misurare e il misurando.
La coscienza è, in se stessa, essenzialmente tale comparazione. E fintanto che essa è in sé questa comparazione, essa è essenzialmente esame.
La coscienza non compie l’esame della propria essenza occasionalmente, solo in condizioni critiche, ma in ogni momento, poiché essa, in qualità di autocoscienza, pensa alla sua essenza e ciò vuol dire all’oggettività dell’oggetto.
La misura dell’esame non viene portata alla coscienza da chissà dove. Tanto meno l’esaminare viene compiuto ogni tanto. Non si tratta dell’esame scientifico, per cui da una parte c’è l’esaminatore, dall’altra l’esaminato, e tra i due il metro (neutro) di misura. La coscienza non è neutra, è presa nel divenire di ciò che misura, e l’unità di misura non è estranea alla presa della coscienza. È la presa stessa. Pertanto – dice Heidegger – la coscienza è un auseinandersetzung (un confronto, un dibattito) con sé stessa.
Inoltre, la coscienza ha il tratto del superamento. Questo superamento è confronto con se stessa. Il confronto ha due aspetti: 1) è uno scomporsi conflittuale che esamina – diatriba; 2) è un’esposizione di sé nell’unità di ciò che è in sé raccolto. Già per Platone l’esprimersi sull’essere dell’ente è un dialogo dell’anima con se stessa.
L’essenza dialogico-agonica della dialestai [96] si presenta di nuovo, in forma variata, moderna e incondizionata, nella determinazione hegeliana dell’essenza della coscienza. Il percorso della coscienza tetico-antitetico-sintetico è dialettica in senso originario. Il percorso della coscienza è un movimento dialettico.
Nel rivolgimento la presentazione ha innanzi a sé l’assolutezza dell’assoluto e ha così l’assoluto presso di sé. Il rivolgimento apre e delimita la scena della storia della formazione della coscienza. In tal modo esso garantisce l’integrità e il progresso dell’esperienza della coscienza. L’esperienza progredisce e, mentre procede innanzi a sé, ritorna a sé; ritornando, si accampa nell’esser-presente della coscienza e diviene costante come essente-presente. Il pieno e costante esser-presente [Anwesenheit] della coscienza è l’essere Assoluto.
L’apparente si aliena nel suo apparire. Attraverso questa Alienazione [entäusserung] la coscienza si insedia nell’estremo del suo essere. Tuttavia, né essa si allontana dalla sua essenza, né l’Assoluto cade – in conseguenza dell’alienazione – nel vuoto della debilitazione. L’alienazione è piuttosto il mantenersi in sé della pienezza dell’apparire in virtù della forza di volontà in cui regna la parusia dell’Assoluto. L’alienazione dell’Assoluto è la sua interiorizzazione memorativa [Er-innerung] nel corso dell’apparire della sua assolutezza. L’alienazione è così poco identica all’estraneazione [Entfremdung] nell’astrazione, che proprio per essa l’apparire si trova a casa sua, nell’apparente come tale.
 
XLIV
 
Nel capito successivo, Mazzetti riprende il tema dell’alienazione. Avverte che l’alienazione è un momento necessario del processo di evoluzione.
Evoluzione qui ha un tratto teleologico. La storicità della storia è acquisita a partire dalla sua fine. A dominare è ancora il Marx dell’Introduzione del 57. L’uomo si evolve – è un dato acquisito. Acquisito a partire dalla fine e dal fine.
L’evoluzione non può non inciampare nell’alienazione, che qui si presenta appunto come inciampo della teoria nella pratica. Anzi, del soggetto della scienza positiva (ma anche del comune mortale) con il mondo là fuori. Il mondo là fuori (questo aldilà materiale), il quale presuppone un soggetto che lo ponga innanzi come suo oggetto, è, insieme al soggetto, un presupposto acquisito. La mondanità del mondo non ha bisogno di essere prodotta. Una volta data la testa, con essa sono dati anche gli accessori, ovvero gli universali.
Mazzetti riconosce apertamente e chiaramente che l’evoluzione (e la teleologia che la sorregge) non può fornire quegli universali necessari a codificare ogni occorrenza presente, passata e futura. E che, pertanto, l’uomo è costretto ad avanzare (anche nella ricerca del passato, che non si porrebbe più, in quest’ottica, come passato (evoluto) di questo presente dato), l’uomo è costretto ad avanzare per tentativi ed errori, così come prescrive l’empirismo. Ciononostante, anche nel suo procedere per tentativi ed errori, ciò che guida il tentativo a forzare lo stato di cose presenti, anticipando lo stato di cose non presenti (passate o future), è una idealizzazione di questa non presenza.
Ma come è possibile questa idealizzazione, se l’idealizzazione presuppone degli universali e gli universali sono necessari? L’avvenire (e il passato) deve essere, allo stesso tempo, aperto e chiuso. Come è possibile?
Quando infinito e finito si toccano emerge la contraddizione. Che, bisogna dirlo, non è una non-adeguazione della teoria con la realtà effettiva.
Gli uomini, dice Mazzetti (126), nel loro procedere a tentoni, anche se non possono con certezza anticipare i singoli passi del loro cammino, possono rappresentarsi apriori il non-presente (ciò che ancora non è diventato realtà effettivamente presente), senza doverlo scoprire aposteriori, quando tutto è già consumato.
Il compito della scienza, dice Mazzetti, è proprio quello di spingersi aldilà. Di trascendere il presente effettivamente dato, verso il non-presente. Nel presente dato deve apparire questo aldilà non-effettivamente ancora dato. La scienza positiva – ed è positiva solo fintanto che assume come suo oggetto il positum, il dato – deve anche porre il non-dato, il non-positivo, il negativo.
Che cos’è questo negativo? Da dove arriva? Come si presenta, se non fa parte ancora del presente?
La non-presenza è trattata da Mazzetti come alienazione.
L’alienazione, dice Mazzetti, ha diverse facce. Si presenta con la faccia di quelli che credono di poter fare il mondo a loro immagine e somiglianza, senza che il mondo possa dire la sua. Si tratta degli utopisti, di coloro che immaginano di operare in un mondo che non opponga resistenza, che non sia, a tutti gli effetti, un mondo. In questo caso, dice Mazzetti (126), non ci si limita a cerare di anticipare la realtà, ma ci si incaponisce in una opposizione senza speranza.
Poi c’è la faccia di quelli che agiscono come se tutto fosse stato già scritto, e non ci sarebbe niente da anticipare, perché, si faccia quel che si vuole, le cose andranno come dovranno andare. Si tratta dei feticisti, dice Mazzetti, di coloro che considerano il mondo come un che stante sua sponte, e non come un prodotto degli uomini. Il feticista pone (falsamente) fuori sé – nel feticcio – il proprio potere, e riconosce al feticcio il potere di dettare la legge.
Da un lato si ha l’Utopia, l’idea che è il soggetto a dettare legge, senza alcun freno: sovranità assoluta. Dall’altro lato si ha il feticismo, l’idea che è l’oggetto a dettare la legge: ubbidienza assoluta.
Questi due estremi servono a Mazzetti per mostrare che la conoscenza è una forza implicata in ciò che conosce, e in quanto tale non è neutra.
Considerare la scienza come una forza tra le altre è un passo avanti rispetto a chi considera la scienza come indipendente dall’oggetto che esamina e dal contesto in cui opera. Ma dire che la scienza modifica l’oggetto che studia, e che quest’ultimo retroagiste sulla scienza, non significa spiegare come si formano l’idea di valore, di usabilità, di lavoro in generale, eccetera.
Infine, nel feticismo, dice Mazzetti (128), l’uomo è completamente preda dell’alienazione. In questo caso l’alienazione, da condizione necessaria della produzione e del movimento, si rovescia nel suo opposto.
Nel feticismo l’alienazione non pone nuovi problemi, non è l’inciampo che falsifica la teoria attuale, dando avvio ad una possibile evoluzione, ma è la condizione che pone fine alle possibilità di evoluzione. Il feticcio è lo stadio terminale, la fine del potere dell’uomo come fine della possibilità stessa.
In più, il feticcio, rovesciandosi nel suo contrario, fa credere all’uomo che, dice Mazzetti, il processo evolutivo possa svolgersi da positivo a positivo, che sia cioè il frutto di una mera decisione, di una scelta libera da ogni vincolo, senza che il passaggio abbia bisogno di essere mediato da una disorganizzazione, da una alienazione – appunto. Negando in tal modo che l’alienazione sia un elemento inevitabile del processo di evoluzione umana.
 
XLV
 
Come si passa dalla serie al genere, dalla molteplicità indefinita all’universale? E cosa centra con tutto ciò l’alienazione?
Di fronte alla questione del genere, si tratta per Marx, dice Balibar (La filosofia di Marx, 35), di rifiutare ad un tempo le due posizione (realista e nominalista) tra cui si dividono tradizionalmente i filosofi: quella che vuole che il genere, o l’essenza, preceda l’esistenza (gli individui), e quella che vuole che gli individui (l’esistenza) siano la condizione primaria, a partire dalla quale si astraggono gli universali (essenza). In più, Marx deve fronteggiare un’obiezione ancora più insidiosa, quella di Stirner.
La posizione di Stirner, dice Balibar, è molto più temibile per Marx, perché non si accontenta di mirare agli universali metafisici tradizionali (tutti più o meno teologici: Essere, Sostanza, Idea, Ragione, Bene, eccetera), ma ingloba tutti gli universali, senza eccezione, anticipando Nietzsche e il postmoderno. Stirner, dice Balibar (39), non vuole saperne di nessuna Idea, di nessun Universale, di nessuna Generalità, di nessuna Grande Narrazione, né di quella di Dio, né di quella dell’Uomo, né di quella della Chiesa, né di quella della Rivoluzione.
Per Stirner non c’è alcuna differenza tra Cristianità, Umanità, Popolo, Società, Nazione, Proletariato, Valore d’uso, non più che tra Diritti dell’Uomo e Comunismo. Tutte queste nozioni, dice Stirner, sono astrazioni. Di più, sono finzioni. Costruzioni arbitrarie che pretendono di sostituirsi, ed effettivamente si sostituiscono, agli individui, individui che sono l’unica vera realtà effettiva.
Insomma, dice Balibar, Stirner porta alle estreme conseguenze la tesi dell’idealismo: la tesi dell’onnipotenza delle idee che guidano il mondo. E ne rovescia il giudizio. Le idee non liberano, ma opprimono gli individui. In tal modo, dice Balibar, Stirner porta al culmine la denegazione delle potenze reali (politiche, sociali), ma costringe ad analizzare le implicazioni di potere e sapere.
Coma risponde Marx a questa sfida?
Risponde con un’ontologia della produzione – dice Balibar.
È la produzione che forma l’essere dell’uomo. È la produzione dei propri mezzi di esistenza che trasforma l’uomo trasformando la natura, e che così costituisce la storicità della storia.
Gli universali nascono a partire dalla produzione dei mezzi di sussistenza.
L’universale è il risultato della divisione del lavoro.
Privato di ogni statuto, come di ogni proprietà, negato nella sua individualità, privato dunque di ogni qualità particolare che lo faceva essere l’individuo irripetibile che era, il lavoratore diventa, di fronte al capitale che lo reclama, un esemplare sostituibile, una generalità, una universalità vuota, una non-individualità, un esemplare di un esercito di replicanti.
Questa universalità negativa, dice Balibar, si rovescia in universalità positiva. Lo spossessamene si trasforma in appropriazione e la perdita di individualità in sviluppo multilaterale degli individui.
È visibile in ciò, dice Balibar, il ribaltamento di un tema del liberalismo [Sieyès: noi (che non siamo niente e non contiamo niente) siamo invece tutto, voi (che contate) siete niente]. Ciò che più conta per Marx, dice Balibar, è che non vi è libertà effettiva che non sia anche trasformazione della realtà effettiva; che non vi è lavoro che non sia una trasformazione di sé. Questa trasformazione mina l’idea che gli uomini possano cambiare le loro condizioni di esistenza conservando un’«essenza» invariante. L’essenza – l’invariante per definizione – ha una storia, e poiché la storia si organizza e si racconta proprio a partire da invarianti, ci si immette in un circolo. Come è possibile raccontare la storia, se ciò che permette di raccontarla accade e si forma mentre la si racconta?
In più, bisogna considerare che la produzione delle proprie condizioni di esistenza presuppone perlomeno l’idea minimale di ciò che occorre produrre, e dunque presuppone proprio ciò di cui sarà l’origine, ovvero l’essenza – altro circolo. Ogni volta che ci si accosta all’assoluto si finisce in un circolo, a dimostrazione del fatto che l’assoluto si trova sia alla fine, sia all’inizio del processo. Infine, bisogna considerare attentamente tutte le implicazioni connesse alla cosiddetta incarnazione. Se il materialismo di Marx ha a che fare con l’incarnazione bisogna rilevarne tutte le implicazioni (disseminazione, perdita, alterazione, eccetera).
 
XLVI
 
Non vi è dubbio che in tutto ciò giochi un ruolo centrale il tema del feticismo della merce.
La teoria del feticismo, dice Balibar, costituisce uno dei punti più alti del lavoro filosofico di Marx. È una grande costruzione teorica della filosofia moderna. Ed è completamente integrata nella opera complessiva di Marx. È ben nota la sua difficoltà, benché l’idea generale sia relativamente semplice.
Il tema del feticismo è affrontato da Marx nell’ultimo paragrafo del primo capitolo del libro primo del capitale. In verità, dice Balibar, il piccolo paragrafo fa corpo con il breve capitolo II, in cui viene esposta la corrispondenza tra categorie economiche e categorie giuridiche. Entrambi, dice Balibar (85), occupano il posto, essenziale nella Logica di Hegel, della mediazione tra l’astratto («la merce») e il concreto («la moneta e la circolazione delle merci»). Ma il tema del feticismo si ritrova in tutta la struttura del Capitale, sino al capitolo XLVIII del III libro inedito.
Il feticismo della merce è descritto da Marx come la trasformazione fantasmagorica del rapporto sociale fra gli uomini in un rapporto tra cose. Le relazioni sociali dei lavori privati dei produttori appaiono non come rapporti immediatamente sociali fra persone nei loro stessi lavori, ma anzi come rapporti di cose fra persone e rapporti sociali fra cose.
Di quali «cose», di quali rapporti «personali» si tratta? – chiede Balibar.
Secondo quanto Marx scrive nel capitolo I del Primo libro del Capitale, la merce, dice Balibar, è una cosa materiale (sensibile) utile (è un valore d’uso). In più, la merce è una cosa immateriale (sovrasensibile – ma non meno oggettiva della prima), è un valore di scambio. Il valore di scambio, dice Balibar, è generalmente espresso in denaro. La quantità di denaro che esprime il valore, dice Balibar, varia nello spazio e nel tempo. Ma tali variazioni, lungi dal dissipare l’apparenza di un rapporto intrinseco tra la merce e il suo valore, gli conferiscono piuttosto un’obiettività supplementare.
Questa obiettività supplementare è costituita dal denaro. Il valore di scambio può presentarsi come merce solo se vi è un riferimento monetario esistente e verificabile.
La presenza del denaro (sonante) di fronte alle merci, come condizione della loro circolazione, aggiunge, dice Balibar, un elemento al feticismo, e permette di comprendere l’impiego di questo termine. Se la merce (l’oggetto d’uso utile) sembra avere un valore di scambio, il denaro, dal canto suo, sembra essere il valore di scambio stesso, e al contempo possedere intrinsecamente il potere di comunicare alle merci che entrano in rapporto con esso questa virtù o potenza che lo caratterizza.
Il denaro materializza il valore della merce sul mercato, e in quanto valore materializzato è indifferente alle persone che sono sul mercato in vista degli scambi, le quali appaiono perfettamente intercambiabili. Questo potere del denaro svuota gli individui di ogni loro particolarità, rendendoli perfettamente intercambiabili, generici.
Il rapporto del denaro con la merce (e con gli attori sul mercato), dice Balibar, lo si può presentare sia come effetto di una potenza sovrannaturale del denaro, potenza che crea a anima il movimento delle merci, che incarna il loro valore; sia, al contrario, come un effetto naturale delle merci tra loro.
Quando l’economia classica (Smith e Ricardo) si propone di risolvere il problema delle fluttuazioni di valore, riducendo le fluttuazioni ad una misura invariabile che è il tempo di lavoro necessario alla produzione di ogni merce, rende però più fitto il mistero, dice Balibar, poiché considera questo rapporto come naturale (e di conseguenza eterno). Ciò si deve al fatto che, continua Balibar, la scienza economica, che cerca l’oggettività dei fenomeni conformemente al programma di ricerca dell’Illuminismo, concepisce l’apparenza come un errore o un’illusione, un difetto della rappresentazione, che si potrebbe eliminare attraverso l’osservazione e la deduzione: spiegando i fenomeni economici attraverso delle leggi, si dovrebbe dissipare il potere di fascinazione che essi esercitano.
Il feticismo, dice Balibar, non è – come potrebbe essere, ad esempio, un’illusione ottica o una credenza superstiziosa – una percezione falsata della realtà. Esso costituisce, piuttosto, il modo in cui la realtà non può non apparire. Questo apparire attivo (Schein ed Erscheinung ad un tempo) costituisce una mediazione o funzione necessaria, senza la quale la vita in società sarebbe semplicemente impossibile. Sopprimere l’apparenza, dice Balibar, significa abolire il rapporto sociale. Per questo Marx attribuisce una particolare importanza al rifiuto dell’utopia, diffusa tra i socialisti inglesi e francesi dell’inizio del XIX secolo, di una soppressione del denaro che cederebbe il posto a dei buoni di lavoro o ad altre forme di redistribuzione sociale.
La struttura della produzione e della circolazione, dice Balibar (67), conferisce un valore di scambio ai prodotti del lavoro, e l’esistenza della moneta, equivalenza generale delle merci, ne è una funzione necessaria.
Ma come può un esistente porsi come essenza, ovvero come invariante, se è vero che un esiste non è mai uguale a se stesso?
La risposta a questa domanda richiede una dimostrazione alla quale, dice Balibar, Marx desiderava legare la sua reputazione scientifica, ma della quale non è mai riuscito a dare una esposizione completa e definitiva.
La dimostrazione coincide con la prima sezione del Capitale (cap. 1-3), dice Balibar. In questa sezione, Marx 1) parte dalla distinzione di lavoro concreto e lavoro astratto, per mostrare come questa distinzione si estenda alla merce, dotata di utilità e valore; 2) mostra come la grandezza di una merce possa essere espressa nella quantità di un’altra merce (valore di scambio). Si tratta del punto più importante, dice Balibar, perché permette di dedurre la costituzione di un equivalente generale, cioè di una merce universale, tale che tutte le altre merci esprimano in essa il loro valore e, reciprocamente, che essa si sostituisca a tutte le merci o le compari tutte; 3) mostra come l’equivalente generale trovato al punto 2 si materializzi, si incorpori, si incarni in un genere di oggetto determinato (metallo, carta, eccetera), e poi, nonostante questa incarnazione, questa singolarità, consenta un processo di idealizzazione, visto che serve ad esprimere una forma universale o un’idea.
Incontestabilmente, dice Balibar, questo ragionamento di Marx è una della grandi esposizioni filosofiche della formazione delle idealità, o degli universali, paragonabile a quanto avevano proposto Platone o Locke, o Hegel, o Husserl, o Frege. La grande differenza sta in ciò, che per Marx gli universali sono storici, e in quanto storici sono sostituibili. Nna volta morto, il Dio denaro deve essere rimpiazzato da un nuovo Dio (Nietzsche).
 
XLVII
 
Mazzetti cerca la porta di uscita dal capitalismo. Ogni volta che si avvicina al portone, e si tratta solo di varcare la soglia, si presenta sempre lo stesso problema. Come può un individuo effettivamente esistente varca la soglia che lo conduca all’essenza? È possibile entrare nella legge, se la legge è un universale (Il castello – approfondire)? È possibile per la legge manifestarsi in un corpo (Nella colonia penale – approfondire)?
Non appena sembra aver trovato la strada che lo conduca aldilà del capitalismo, la strada si biforca, si complica, si perde in mezzo al bosco.
In uno degli ultimi capitoli del suo libro (137) Mazzetti, come un piccolo Josef K., ritorna sui propri passi. Dice: Se l’uomo, che agisce sulla spinta di un bisogno, sperimenta nell’oggetto che produce la propria negatività, riconosce di essere in contraddizione con le proprie aspettative, è ovvio che, per soddisfare il proprio bisogno, dovrà ritornare sui propri passi e rifare tutto d’accapo.
Se la negatività è intessa come contraddizione, e la contraddizione è intesa come impedimento che la realtà effettiva oppone all’uomo, bisognerà tornare sui propri passi innumerevoli volte, perché trovare la strada sarà compito affidato al caso. Di più, la strada non verrà trovata affatto, perché per trovare una cosa, bisogna cercarla, e per cercarla bisogna averne un’idea, e l’idea è un universale, dunque, la strada che conduce all’universale presuppone l’universale – in circolo, e non si tratta di feedback, si tratta delle aporie del tempo.
La contraddizione è un’aporia, non è un semplice ostacolo sconosciuto, e che bisogna conoscere per allinearvi il progetto o la teoria. È un ostacolo conosciuto, che si fatica a superare con i metodi della logica ordinaria, perché la soluzione, e la soluzione contraria, sono entrambe errate.
E non serve a niente porsi aldiqua di qualsiasi teleologia dicendo che (141) il passaggio attraverso l’apertura, che conduce da un modo di vita ad un altro, viene riconosciuto solo quando lo si è quasi interamente compiuto, mediante un movimento prevalentemente a tentoni, e non dopo aver individuato quell’apertura a distanza ed aver deciso di attraversarla.
Perché si riconosce il passaggio solo quando lo si è quasi interamente attraversato?
La serie dei passi che porta fuori dalla porta è potenzialmente infinita, e finisce col finire del camminare – con la morte (Adesso che stati per morire, dice il guardiano a K – K che è un agrimensore, uno che misura e che per misurare ha bisogno del metro, dell’universale – Adesso che stati per morire, posso chiudere la porta, era aperta solo per te. Come è possibile che ognuno abbia una propria porta di ingresso alla legge, se la legge è uguale per tutti? approfondire).
Ma cosa c’è ancora più da riconoscere dopo la morte effettiva, quando l’avvenire non serba più alcuna possibilità e l’assoluto si presenta per davvero?
Il riconoscimento non può avvenire che al penultimo passo, sulla soglia della porta. Si rimane ancora bloccati sulla soglia. Il fatto di aver trovato la porta non significa ancora averla attraversata, o poterla attraversare – lo sa bene K. l’grimensore. Mille eventi possono frapporsi e impedire il passaggio – ammesso e non concesso che si tratti della porta giusta.
Quest’ultima è la riserva nell’empirismo, del fallibilismo alla Popper, con il quale, alla fin fine, Mazzetti deve convenire. In quest’ottica, la scienza è sempre una scienza del più e del meno, una scienza probabilistica. In ogni caso, anche al penultimo passo, per compiere il salto del riconoscimento, e dunque della conoscenza, bisogna aver già preventivamente un’idea, altrimenti si rimane cosa tra le cose, senza possibilità di trascendere il molteplice e incontrare l’oggetto.
L’obiettivo polemico di Mazzetti è l’idealismo soggettivo, il quale presuppone che il cambiamento si basi su una libera scelta dell’individuo, e che dunque il passaggio della porta sia il frutto di una scelta deliberata. Contro questo idealismo Mazzetti ha buon gioco nel dire che il soggetto non esprime solo un momento positivo nel determinare il contesto in cui vive, ma subisce anche un momento negativo, quando il contesto esterno gli si oppone mostrando resistenza, e che questa resistenza, in linea generale e perlopiù, non viene sperimentata positivamente dal soggetto, in quanto la realtà effettiva è in continuo movimento, e le cognizioni elaborate e sperimentate come positive in un contesto dato, si mostrano totalmente inefficaci in un contesto nuovo (contraddizione e negazione), e che il superamento di questo attrito non può che avvenire per tentativi ed errori, perché all’inizio non c’è ricetta che possa anticiparlo, perché se si possedesse una ricetta non si tratterebbe di una nuova variabile (per forza sconosciuta) ma di una variabile conosciuta. Tutto ciò serve a Mazzetti per tenere lontani il determinismo terzo internazionalista, la filosofia della storia, e un certo teleologismo della scienza positiva. Il mondo non si muove secondo leggi necessarie e universali. La storia produce il nuovo, e il nuovo ha le sue proprie leggi, che sono appunto leggi storiche. Ma tutto ciò finisce per rigettare Mazzetti nel relativismo dell’empirismo e del monetarismo, dai quali riesce a difendersi tirando in ballo il feticismo.
Nella lettura di Balibar, il feticismo è alla base dell’idealizzazione. Per Mazzetti il feticismo è alla base di un rapporto capovolto, in cui una relazione tra persone appare come una relazione tra cose, dove il potere personale (o sociale) è trasferito alla cosa (feticcio), e dove è la cosa a comandare alle persone.
Nel capitalismo questo feticcio è il denaro, o la mano invisibile, o il sistema dei prezzi, eccetera. Milton Friedman, dice Mazzetti, presenta il sistema dei prezzi (il mercato, il Laissez-faire) come un meccanismo che svolge il compito di far cooperare gli uomini nella produzione senza che debbano parlare tra di loro o amarsi. Tutto ciò si chiama concorrenza. Ma mentre gli economisti classici, dice Mazzetti (155), presentano la concorrenza come un sistema armonioso, come una mano tesa a risolvere il mutismo generale, la concorrenza, invece, va vista come una collisione, la quale produce un potere estraneo che sovrasta gli individui e li comprime. Proprio il fatto di agire gli uni per gli altri in una indipendenza e indifferenza reciproca – in ciò consiste la concorrenza, dice Mazzetti – essi agiscono come se non fossero tutti parte di un medesimo organismo da loro prodotto, ma, viceversa, come se eseguissero gli ordini di un organismo estraneo al quale sono sottomessi. Il fatto è, aggiunge Mazzetti (e qui è in linea con Balibar), che è il feticcio (il mercato, la mano invisibile, eccetera) a decidere, e che dunque il feticcio ha dei meccanismi, esiste, è una cosa tra le altre, e come cosa incarna un potere al quale gli individui che hanno creato il feticcio stesso devo obbedire, e sul quale non hanno alcun potere. Sino al punto che è il feticcio a decidere della vita e della morte degli individui – sottoposti o meno. L’idealizzazione passa attraverso una incorporazione. A decidere non è l’individuo. L’individuo avanza a tentoni, se così non fosse avanzerebbe 1) seguendo una legge deterministica, oppure, al contrario (ma il risultato è il medesimo) 2) avanzerebbe secondo un idealismo soggettivo, per libera scelta, in totale autonomia rispetto ad un contesto dato o in movimento. A decidere è il feticcio. Il feticcio risolve i problemi 1 e 2.
 
XLVIII
 
Il feticismo spiga come funzionano gli universali, ma non dice nulla su come si formano, dove e come hanno inizio – ammesso e non concesso che abbiano un inizio. Balibar dice che Marx riconduce gli universali alla produzione. Hegel arretra ancora di più, e riconduce tutto all’Assoluto.
In effetti, la produzione, come chiarisce anche Mazzetti, richiamando il noto esempio dell’Ape e dell’Architetto, rimanda ad una forma, e la forma all’idealismo.
Se la forma, l’impronta (μορφή), dice Heidegger (Introduzione alla fenomenologia), risulta fondata nell’εἶδος, ciò significa che questi due concetti sono compresi con il riferimento al formare, all’imprimere, al produrre. I due concetti sono fissati a partire dall’atto di formare e di imprimere, dalla necessità di scorgere preventivamente l’aspetto di ciò che deve essere formato. Il vasaio modella la creta secondo un modello che conosce bene già prima di intraprendere il suo lavoro. Nell’idea c’è già il vaso. L’immagine preliminare manifesta una cosa nel modo in cui è prima della produzione e nell’aspetto che dovrà assumere una volta prodotta.
L’immagine non si è ancora fissata, dice Heidegger, non è stata esternata in qualcosa di effettivo. È un’immagine dell’immaginazione, della φαντασία (phantasia), come dicono i Greci. Perciò l’aspetto anticipato, l’εἶδος, viene anche detto ciò che un ente già era. Ciò che l’ente già era prima del suo attuarsi, l’aspetto a cui si commisura la produzione, è anche ciò da cui ha veramente origine la cosa che riceve l’impronta. L’εἶδος, ciò che una cosa era già preliminarmente, indica la stirpe della cosa, la sua origine, il suo γένος (ghènos). Perciò la cosalità si rivela identica anche al γένος, e quindi questo, dice Heidegger, dovrà essere tradotto con stirpe o lignaggio.
Quel che rende possibili (generabili) le cose generate, i prodotti della generazione, è ancora una volta l’aspetto che deve assumere e far suo ciò che deve essere generato. Tutto ciò che è prima di essere attuato è ancora esente da quella incompletezza, da quella unilateralità e da quel farsi sensibile che necessariamente ogni effettuazione comporta. Il “che cosa”, dice Heidegger, l’aspetto determinante che è prima di ogni effettuazione, non è ancora assoggettato, come ciò che è effettivo, al mutamento, al nascere e al perire. Esso è prima, e perciò è sempre, è ciò che l’ente – costantemente concepito come producibile e come prodotto – era già fin dall’inizio, è la verità dell’essere di un ente. Questa verità è stata interpretata dai Greci anche identificandola con lo stesso ente vero, cosicché le idee, che costituiscono l’effettività dell’ente effettivo, vengono a coincidere in Platone con ciò che è effettivo autenticamente.
L’idea si incarna nel vaso, ma il vaso è solo una copia – è inautentico, autentica è solo l’idea. Nel vaso si ritrova formato ciò che era all’inizio, come essenza, solo nell’idea.
Al Principio, prima del lavoro, è il Verbo.
Il verbo si incarna nella cosa – si reifica, diventa simbolo, vitello d’oro, feticcio -, il sovrasensibile diventa sensibile, si passa dal Dio ebraico al Dio cristiano.
 
XLVIV
 
Quando il produttore mette in vendita il proprio prodotto e attribuisce ad esso un prezzo, scrive Mazzetti (165), «dice» di non aver prodotto, come facevano invece gli uomini comunitari che l’hanno preceduto, per particolari individui a lui vicini e a lui legati da uno specifico rapporto personale, ma piuttosto di aver prodotto per un qualsiasi individuo, da lui indipendente e indifferente come persona. Egli dichiara, cioè, di aver prodotto «in generale», in un rapporto con l’intera collettività, la quale si presenta a lui solo come mercato. Ma se egli abbia realmente prodotto in maniera da soddisfare bisogni sociali altrui non dipende purtroppo da lui. Non avendo «parlato» prima con coloro i cui bisogni debbono essere da lui soddisfatti, né con coloro che con la loro attività debbono soddisfare i suoi bisogni, può scoprire solo aposteriori se è casualmente riuscito ad imbroccare un coerente rapporto con la generalità del processo riproduttivo, che evolve per proprio conto come mercato. La sua pretesa di stabilire un rapporto generale efficace con l’insieme della società, essendo denotata come mero «denaro», conserva una chiara connotazione magica.
Questo lungo brano del penultimo capitolo, che ho riportato integralmente, è molto importante, per diverse ragioni.
In primo luogo Mazzetti enuncia una teoria degli universali (della generalità) che non rimanda alla produzione o alla teoria del valore-lavoro. L’economia classica è definitivamente archiviata, Marx compreso. Il genere non deriva più dal γένος (ghènos).
Il genere si forma a partire dalla prezzatura. Il produttore attribuisce un pezzo al prodotto, e attribuendogli un presso «dice» (tra virgolette) qualcosa. Ma a chi lo dice? Non lo dice a nessuno in particolare. La lingua del prezzo non si indirizza a qualcuno in particolare, non è un idioletto, o un linguaggio privato, o cifrato, o segreto, eccetera, ammesso che ciò sia possibile. La lingua del prezzo parla (e deve parlare) in generale, parla all’ascoltatore generico, parla all’ascoltatore non-presente, all’ascoltatore potenziale, parla allo sconosciuto.
Come è possibile rivolgersi allo sconosciuto?
Il produttore non ha di già «parlato» con i potenziali acquirenti, eppure «parla» loro.
Come è possibile questa magia?
Come è possibile intendersi con il non-presente?
A parlare è il denaro. Ma il denaro, di per sé, non dice niente. L’oro, per esempio, in quanto oggetto sensibile, appare come un bracciale, come un soprammobile, come una materia prima o un semilavorato. Come accade che l’oro parli a tutti la stessa lingua?
L’oro parla perché, oltre ad essere un oggetto sensibile, è anche un oggetto sovra-sensibile, è segno di valore. Certo, ma il valore (la generalità) da dove proviene?
È il produttore, dice Mazzetti, ad attribuire al prodotto un prezzo. E lo fa senza parlare, cioè senza avere preventivamente concordato alcunché con chicchessia, in piena autonomia, arbitrariamente. Tuttavia, il prezzo, anche se arbitrario, anche se non rispecchia il prodotto, deve avere una struttura tale da essere comprensibile da un altro, anche da uno sconosciuto. Il riferimento all’altro non-presente (lo sconosciuto) intacca preventivamente la struttura del prezzo. Il prezzo è sempre il prezzo dell’altro.
Come è possibile, se l’altro non solo non è presente, ma è il tutt’altro, lo sconosciuto, appunto?
Se l’altro non fosse presente-in-quanto-assente, la generalità del prezzo non potrebbe emerge ed affacciarsi al mondo, l’oro rimarrebbe muto – il feticcio non riceverebbe il dono della parola, e non comanderebbe niente.
Il dono: dare la precedenza all’altro (non-presente) a venire. Dare la generalità – l’essere.
Chi parla nel prezzo? L’altro.
Chi è questo altro? Il tutt’altro – e non l’altro dell’altro.
È evidente che qui non si suppone una cosiddetta lingua naturale che fungerebbe da lingua veicolare che fornirebbe il presupposto o il mezzo attraverso cui il prezzo trova la sua determinazione preliminare. L’altro è il tutt’altro proprio perché non è nell’orizzonte di alcuna comunità (naturale o artificiale). Se così fosse bisognerebbe arretrare la ricerca del valore e del prezzo a questa comunità. Prima dell’espressione del prezzo non c’è comunità – la comunità presuppone il prezzo (e non viceversa, come crede Mazzetti).
Per rendersi il compito più facile Mazzetti sovrappone il piano storico-sociologico, al piano ontologico, dando per acquisita la collettività e il mercato.
La collettività non può essere presupposta. Quando Mazzetti assume che la generalità corrisponde ad una dichiarazione che il produttore fa all’intera collettività, presuppone come già costituito ciò che invece deve ancora apparire.
Non esiste ancora collettività storica o naturale.
La collettività (la comunità, eccetera) deve apparire, deve manifestarsi, perché anche la collettività (compresa la comunità) è una generalità. E in quanto generalità non è né una singolarità storica né un fatto sociologico osservabile con apparecchi di controllo. O, perlomeno, se è una singolarità storica, deve avere per forza di cose una struttura mistica – deve apparire nel feticcio o come feticcio. Dunque, se la collettività è una generalità, e la generalità non è ancora apparsa, a chi, il produttore, dichiara il prezzo?
A una comunità a venire – oppure, come in Mazzetti, ad una Comunità feticcio, che permette di accoglie la dichiarazione del prezzo.
Il prezzo reclama una comunità, non la comunità di chi è già in comune ma si sente costretto e vuole uscire fuori. Il singolo prezzo reclama una sua generalità. Chiama a venire una comunità. La generalità, reclamata dal prezzo, viene dall’avvenire. Si ordina a partire dall’avvenire. La comunità si dà nel prezzo come comunità assente.
Se la collettività non è ancora data, in che lingua viene formulata la dichiarazione?
Nella lingua del denaro.
Ma anche il denaro (in quanto lingua dello spirito, dice Hegel) deve apparire.
Come appare il denaro? Ed è sufficiente la dichiarazione per farlo apparire? E come appare la dichiarazione, che dichiara il denaro, e a chi appare, nel suo apparire, se ancora una comunità non è apparsa? A meno che l’apparizione della dichiarazione, della collettività (comunità) e del denaro non siano una sola e medesima apparizione.
In secondo luogo, Mazzetti apre una questione classica legata alla perdita del senso. Ammesso e non concesso che la generalità deve apparire, e che non può non apparire in un feticcio, questo feticcio è anche una cosa sensibile, e come tutte le cose sensibili è soggetta agli accidenti del tempo e dello spazio. Si tratta di un tema che si trova già nel Fedro di Platone.
Questo tema occupa la quasi totalità della dimostrazione della generalità, Mazzetti gli attribuisce grande importanza. Costituisce il nesso teorico centrale di tutti i suoi ragionamenti economici. È evidente che questo tema, che potremmo etichettare come tema della crisi, si basa sulla teoria della generalità, prodotta nelle due righe precedenti, e che Mazzetti dà per acquisita, quando, in verità, fa acqua da tutte le parti.
Il produttore, dice Mazzetti, dichiara di aver prodotto «in generale» (diamo per acquisita questa generalità). Ma siccome si riferisce appunto ad un compratore generico, non è detto che la sua intenzione di vendita sia soddisfatta. Non avendo «parlato» prima con coloro i cui bisogni debbono essere da lui soddisfatti, può scoprire, solo aposteriori, se è casualmente riuscito ad imbroccare un coerente rapporto con la generalità del processo riproduttivo, che evolve per proprio conto come mercato. Insomma, dice Mazzetti, siccome il venditore e il compratore non hanno avuto occasione di parlarsi prima della dichiarazione di vendita, e mettersi d’accordo su cosa e su quanto avevano intenzione di produrre e scambiare, e hanno preferito lasciar parlare al loro posto la merce stessa (o il denaro, è la stessa cosa), la merce, con tutti i grilli che ha per la testa, ha fatto a modo suo, cioè ha cercato di comporre gli interessi a casaccio, affidandosi al mercato. La composizione casuale rispecchia solo accidentalmente le intenzioni degli attori. Quando non le rispecchia si apre la crisi. Crisi che ha a che fare sempre con una perdita di valore, con una perdita si senso. Perdita che si eliminerebbe con una corretta programmazione, con una previsione di produzione e vendita effettivamente corrispondente ai bisogni preventivamente espressi.
Tutto questo ragionamento si basa sul presupposto (non tematizzato) che l’intenzione possa apparire senza materializzarsi. Il sottofondo (il fondamento) di tutta questa articolata questione è ancora un tema classico, presente, tra gli altri, in Rousseau. Si tratta dello stato incorrotto adamitico, presente anche nelle poche righe della dimostrazione della generalità esposta da Mazzetti.
Il produttore moderno, dice Mazzetti, non produce per particolari individui a lui vicini, individui ai quali, un tempo, si poteva sussurrare l’intenzione direttamente nell’orecchio, senza che il soffio toccasse terra e s’incarnasse in un corpo, diventando feticcio. Un feticcio che, accolto il soffio, può andare in giro e parlare con tutti, e dire a ognuno ciò che si desidera venga loro detto. Sempre a rischio di pervertire il senso originario e di gettare tutti nella confusione, nel caos, nella crisi.
È evidente che, per scongiurare la crisi, bisogna disfarsi della magia del feticcio, bisogna disfarsi del feticcio – e il feticcio, l’oggetto magico per definizione, l’oggetto capace di far parlare i muti, di far camminare gli zoppi, di far vedere i ciechi, di parlare la lingua di tutti i popoli, è il denaro.
 
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* Nell’edizione italiana della Logica trieb è tradotto con istinto. In Glas Derrida, dice del trieb di Hegel, che è un sentire umano, perché l’animale non sente sé. È un sentire umano ancora animale. È sentire l’animale. La limitazione animale io la sento, in quanto spirito, come una costrizione negativa, di cui cerco di liberarmi, una mancanza che cerco di colmare. Questa tensione, questa tendenza a liberarmi dal sentire, io la condivido con ogni vivente. Hegel la chiama trieb. Qui non è possibile tradurre trieb con Desiderio o Pulsione. Provvisoriamente Derrida traduce con spinta. L’uomo passa dal sentire (sensazione) al concepire solo reprimendo la Spinta (negando la Spinta, No Spinta – istituzione legge) – cosa che l’animale – secondo Hegel – non saprebbe fare. L’idealità, come pensiero dell’universale, nasce e in seguito porta il segno di una repressione della Spinta: interruzione violenta tra la spinta e il soddisfare, tra il momento animale e il momento spirituale della vita, morte nella vita naturale, morte naturale come vita dello spirito. Le intuizioni sono particolari, sono sensibili. Allo stesso modo anche lo Spirito lo è. Seguendo la Spinta l’uomo è come l’animale, perché nella Spinta non ha coscienza di sé. L’uomo però conosce se stesso ed è per questo – dice Hegel – che si distingue dall’animale. Il salto dall’animalità all’umanità, come salto dal sentire al pensare, prende corpo in una repressione della Spinta. L’uomo possiede delle Spinte, al pari dell’animale, ma può inibirle, reprimerle, trattenerle, frenarle, contenerle. Questo potere negativo – e non ci si deve affrettare a chiamarlo rimozione – è il suo proprio. Il processo di idealizzazione, la costituzione dell’idealità come luogo del pensiero, dell’universale, dell’infinito, è la repressione della Spinta. L’Aufhebung è dunque anche contro-Spinta repressiva, una contro-forza, una Hemmung, una inibizione, una specie di anti-erezione. «L’uomo cessa di essere un semplice essere naturale consegnato a intuizioni e spinte immediate, alla loro soddisfazione come pure alla loro produzione. Egli ne è consapevole ed è per questo che reprime le sue spinte e mette il pensiero, l’ideale, tra l’urgenza della spinta e la sua soddisfazione. Nell’animale, al contrario, le due cose coincidono. L’animale non può spezzare volontariamente la loro connessione; quest’ultima può essere spezzata solo dal dolore o dalla paura. Ma la spinta umana esiste, indipendentemente dalla sua soddisfazione. Potendo frenare, oppure abbandonarsi alla sua spinta, l’uomo agisce per dei fini e si determina secondo l’universale. Deve determinare quale fine deve essere imposto; può anche porre come fine l’universale stesso. A determinarlo è la rappresentazione di ciò che è e di ciò che vuole. È qui la sua indipendenza: egli sa cosa lo determina. In questo modo può assumere come fine il concetto semplice, per esempio la sua libertà positiva. Le rappresentazioni dell’animale non sono ideali, effettive: è per questa regione che l’animale è privo dell’indipendenza interiore. In quanto vivente, l’animale porta in sé la fonte del proprio movimento – si direbbe autonomo. Ma nessuno stimolo esteriore può operare se non è già presente in lui: per l’animale quanto non corrisponde al suo essere intimo non esiste [è come una macchina, fa solo ciò che internamente è programmato per fare. Non sa gestire ciò che non è programmato, non sa anticipare, non sa porsi fini]. Anche l’animale si divide da sé in due. Ma non può interporsi tra le sue spinte e la loro soddisfazione; non possiede volontà e non conosce inibizione. In lui la stimolazione comincia interiormente e suppone uno sviluppo immanente [non trascende – è immediato]. Ma l’uomo è indipendente non perché è dotato di auto-movimento, ma in quanto è capace di inibire il movimento e, attraverso ciò, rompere la sua immediatezza e la sua naturalità». [L’uomo non è una macchina, perché sa bloccare il desiderio, la spinta che lo mette in moto, e la sa bloccare perché sa porsi un fine].
Impedendo l’auto-mobilità animale in sé, l’uomo libera l’auto-mobilità dello spirito, la libertà.
«L’uomo può conoscere se stesso ed è per questo che si distingue dall’animale, egli è pensante: ma pensare è conoscere l’universale».
Potente e lunga catena, almeno da Aristotele ai nostri giorni, essa lega la metafisica onto-teologica all’umanesimo – l’opposizione essenziale dell’uomo all’animale – o meglio all’animalità, a un concetto univoco, omogeneo, oscurantista dell’animalità – vi riveste sempre lo stesso interesse. L’animalità non avrebbe la Ragione, la Società, la Legge, il Desiderio, il Linguaggio, il Rimosso. Delle tre ferite del narcisismo antropico, quella che Freud indica col nome di Darwin sarebbe più intollerabile di quella che ha formato lui stesso.
 
** citare il passo della fenomenologia dove Hegel li fagocita.
 
*** esperienza
 

 

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