La verità, dalla Zona Rossa

matrimonio

Non siamo fuggiaschi o rifugiati, non siamo una brigata di amici migrati in una villa di campagna. Non siamo nel Decameron o in Le mille e una notte. Non facciamo storytelling o narrazioni. Non siamo in un frame. Siamo circondati, ma non siamo in un Panopticon, spiati dalla sera alla mattina, da un potere che ammalia con la promessa di una soluzione, di un vaccino. Là fuori c’è di tutto, pure un po’ di confusione, ma non certo un potere, un sovrano – lo Stato. Ci sono le macerie di quarantanni di libertà sfrenata, di gozzoviglie e chiacchiere, c’è pure quel sindaco di Cassano Allo Ionio, con la sua ordinanza che ci impedisce di tornare a casa, a noi oriundi – sei la nostra vergogna! Poi ci sono i ragazzi dell’Esercito Italiano, saliti al nord da San Severino Lucano, da Morano Calabro, da Ariano Irpino, da Ramacca; ci sono i lavoratori che tengono la posizione negli ospedali e nelle poste, nei cantieri e nei capannoni. Li vediamo da questa «Finestra», e sono ancora lì. È l’unica cosa che ci conforta e ci dà speranza.
Quando finirà tutto questo? Quando torneremo alle nostre vite?
Ci vorranno dieci giorni, come nel Decameron, o ci vorrà un tempo infinito, ciclico, sempre identico, il tempo delle Mille e una notte, il tempo della fine della storia, congegnato in modo che tutto cambi per non cambiare niente, che tutto torni uguale ogni sera, purché si narri la storia, purché si continui a raccontare per allontanare la decisione e la scelta?
C’è qualcuno che dice che non è niente, che là fuori non c’è nulla, che la nostra paura è suggestione, o troppa televisione, intossicazione di informazioni, sovraesposizione ai media, macchinazione del Potere o di una rete microfisica di poteri. Non è successo niente, dicono, è tutto un imbroglio, l’epidemia non ha luogo – anzi, «non ha avuto luogo», per citare Baudrillard e il suo giudizio sulla prima guerra del golfo.
La mattina del 21 giugno 1937 Todd Andrews si alza, estrae la pistola dalla fontina, e la punta alla tempia. Se non c’è più alcuna ragione per cui valga la pena vivere, pensa, non ce n’è nemmeno alcuna per cui valga la pena morire. Ripone la pistola, e nell’attesa di risolvere il dilemma, inizia, come nelle Mille e una notte, a narrare storie, fino all’esaurimento.
Dove domina la narrazione, le note e le glosse, il sogno nel sogno, l’incubo nell’incubo, le storie di storie, che confutano altre storie, in un eterno ripetersi, senza conclusione; dove la narrazione domina, la mise en abyme, come dicono gli esperti, ammazza ogni idea di cambiamento, di speranza, di uscire dall’incubo, di mettere la testa fuori e camminare all’aperto, senza quell’immunità garantita dal fatto che tanto sono storie.
Avvertire un’apertura nell’orizzonte, sperare in qualcosa, diventare umani.
Oggi si celebra un matrimonio.

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* John Barth, L’opera galleggiante.
* John Barth, La letteratura dell’esaurimento.

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