Marxismo e filosofia. Karl Korsch

Korsch ritratto

Marxismo e filosofia di Karl Korsch, pubblicato nel 1923, viene spesso accostato a Storia e coscienza di classe di Lukács, pubblicato lo stesso anno. Solo alla fine della stesura di Marxismo e filosofia Korsch viene a conoscenza del libro di Lukács. La sorpresa è grande. La sintonia tra i due libri è enorme. A legarli sono molti temi, al centro dei quali c’è Hegel.
Per quanto ho potuto constatare sino a ora, scrive Korsch in un brevissimo Poscritto, non posso che approvare con gioia le esposizioni di Lukács fondate su una più larga base filosofica, che spesso toccano questioni che ho posto in questo mio saggio.
A legare i due libri non c’è solo Hegel, c’è anche una presa di posizione netta verso la Seconda internazionale, verso un appiattimento del marxismo sul positivismo o sul neo-kantismo, sull’economicismo, e in genere sulle scienze positive. Quello che si vuole fare, ma che non si può fare – Korsch lo spiega bene – è elevare il marxismo alla dignità di una scienza positiva: dell’economia, per esempio, oppure della sociologia.
Negli anni Venti il Marxismo non aveva il fascino e la fama che gli si accorda oggi. Nelle facoltà di filosofia, nel migliore dei casi, il marxismo rappresentava una sottosezione piuttosto marginale di un capitolo della storia della filosofia del XIX secolo, e nel suo complesso non meritava più di una trattazione che andava sotto il titolo Dissoluzione della scuola hegeliana. D’altro canto, i seguaci diretti della dottrina di Marx, avevano, perlopiù, trasformato questa dottrina in qualcosa di essenzialmente a-dialettico. Il marxismo si era trasformato in un metodo, in un insieme di regole formali e di principi euristici utili alle singole direzioni della ricerca scientifica. La dialettica di Marx era stata ridotta ad un insieme di massime teoriche che al più delineavano una sociologia sistematica generale. Nel complesso, dice Korsch, il marxismo veniva inteso come un principio soggettivo valido soltanto per il giudizio riflettente in senso kantiano. Il complesso della filosofia di Marx era stato trasformato e ridotto ad una critica scientifica dell’ordinamento economico, dello Stato, dell’Istituzione pubblica, della Religione, delle Arti, della Scienza, eccetera, contravvenendo alle basi stesse del marxismo.
Il marxismo non può diventare una scienza positiva.
Perché?
Perché la scienza positiva presuppone ciò che deve essere dimostrato. Dà per acquisita la differenza tra soggetto della scienza e oggetto investigato. In più, cosa ancora più grave, la scienza presuppone una forma – metodo – separata dal contenuto. Mentre la forma è invariante e astorica, e perciò valida universalmente, il contenuto è soggetto alla storia e dunque alla variazione.
Prezzo pagato dalla filosofia Critica per salvarsi dallo scetticismo.
A questo quadro, già di per sé disarmante, bisogna aggiunge il realismo ingenuo imperante nei maître à penser leader dei partiti socialisti e comunisti. Secondo la concezione di questi leader, dice Korsch, il marxismo doveva criticare, con prove, dati, teorie e schemi, l’economia ufficiale, tale da mettere nelle mani del proletariato l’arma scientifica necessaria per scalzare o contestare l’ideologia della scienza ufficiale.
Il difetto fondamentale di questo approccio, dice Korsch, consisteva nell’aggrapparsi a quel realismo di cui il cosiddetto buonsenso, e con esso anche il comune positivismo scientifico, si servivano per tracciare una netta linea di demarcazione tra la coscienza e il suo oggetto.
L’ingenuità del realismo popolano si poggiava sulla fiducia nel dato di fatto.
Fiducia nel dato, nel positum, senza mai minimamente sospettare che questo dato fosse in verità posto.
Non che le cose oggi siano cambiate di molto, considerato che quando il presidente dell’INPS, già docente alla Università Bocconi e membro o consulente di FMI, OCSE e Banca Mondiale (altrettante fabbriche di dati e di scienza positiva), quando il presidente dell’INPS Boeri dice che a parlare sono i dati e che i dati non si intimidisco, perché i dati sono i dati, e parlano chiaro e a tutti (universalità e necessità), il popolo dei maître à penser leader di partiti socialisti e comunisti a socio unico crede di trovarvi una conferma alle cogitazioni postate in bollettini telematici affollati di commenti. Ubriachi di dati, prodotti da macchine amministrative pubbliche e privatizzate dotate di una potenza di calcolo da far tremare le gambe, i leader comunisti (marxisti o meno), attaccati ad una di queste macchine via telnet o SSH o virtual desktop, lasciano filtrare il dato verso il popolino: che si ubriachino anche i poveri cristi!
La contrapposizione tra la coscienza e il suo oggetto, dice Korsch, già per il punto di vista trascendentale della filosofia critica non sussiste più integralmente, e per la coscienza dialettica è del tutto soppressa. Un soggetto indipendente che analizza un dato bruto non si è più visto dai tempi di Kant. L’ingenuità di supporre là fuori una realtà bruta che la scienza verrebbe a riflettere nel dato non può essere accettata. Anche per Kant il dato è fenomeno. Il passo da questo scientismo popolano alla Bufala è breve. Il naufragio della scienza, il non poter affermare niente di sicuro, niente di universale, è stato un risultato necessario dell’empirismo storico, il quale condusse Hume a dire che solo affidandosi al buon senso si può affermare che domani sorgerà il sole.
Solo l’ingenuo, dice Korsch, può contrapporre il pensiero all’essere (il mondo là fuori) come se si trattasse di un’entità indipendente, e solo l’ingenuo può definire la verità come coincidenza della rappresentazione con un oggetto situato al suo esterno e che essa fotografa. Lo scientismo ingenuo è la base dell’economicismo marxista, il quale ritiene che l’unica realtà sia il dato economico, e che la scienza, oltre ad essere rispecchiamento di questo dato, è per giunta una sovrastruttura, ovvero una entità totalmente determinata dal database economico.
Si dà il caso che nemmeno la scienza ufficiale è libera da questa ingenuità. Anzi, dice Korsch, anche la scienza ufficiale insegue l’ingannevole fantasia dell’Oggettività.
Il marxismo correttamente inteso ha rinunciato e deve rinunciare all’illusione di un oggetto puro contrapposto ad un soggetto puro. Il marxismo è qui per mostrare che ogni scienza è impura, è qui per smascherare ogni pretesa di purità. Questo mascheramento non pretende di essere puro. Non viene intrapreso come qualcosa di imparziale, di autosufficiente. È invece sempre connesso con la lotta pratica, e perciò si distingue nettamente da ciò che nella scienza ufficiale, a partire da Kant, si è indicato con il termine critica (La concezione materialistica della storia, 1922).
Lo smascheramento non si ferma alle cosiddette scienze dello spirito, all’economia, alla sociologia o alla storiografia, si estende, e deve essere esteso, anche alla matematica – per esempio. Il contenuto dei sistemi matematici, dice Korsch, è condizionato praticamente sul piano storico, sociale, economico: è non c’è dubbio che con il prossimo rivolgimento del mondo storico-sociale anche la matematica verrà più o meno rapidamente sovvertita – figurarsi le basi di dati economici e gli istituti di statistica che le fabbricano.
Se questo approccio scientifico positivo ha potuto affermarsi, dice Korsch, è anche dovuto al fatto che già dalla metà del XIX secolo le università e gli studiosi in genere si erano staccati dalla filosofia hegeliana. Già negli anni Cinquanta – se si escludono alcuni studiosi non tedeschi – Hegel non aveva seguaci. E poco più tardi nessuno riusciva più nemmeno a comprendere la sua filosofia. Negli anni Settanta, in Germania, si registrò un ritorno a Kant. Una nuova epoca del pensiero filosofico si aprì.
Cosa è andato perso della dialettica hegeliana nell’economicismo e nel realismo ingenuo della II internazionale? Cosa c’è di errato e malevolo nelle ricerche di studiosi marxisti come Hilferding (Il capitalismo finanziario)?
 
II
 
Per capire come siano andate le cose, dice Korsch, bisogna applicare la dialettica di Hegel agli sviluppi filosofici del XIX secolo. Solo assumendo questo indirizzo si potrà capire cosa è davvero successo.
Negli anni Quaranta la filosofia classica tedesca trapassò nella nuova scienza marxista.
Non bisogna intendere questo trapasso in modo astratto – dice Korsch. Bisogna abbandonare l’abituale modo di pensare degli storici della filosofia odierni, i quali considerano ogni elemento – ogni momento – come separato da tutti gli altri, tale per cui la storia della filosofia si presenta come una accozzaglia più o meno lineare di vite e pensieri di filosofi. Bisogna acquisire la totalità del processo. Il vero non può essere afferrato immediatamente, ma soltanto attraverso la sequenza di mediazioni in cui esso si sviluppa. Se ci si ferma ad un singolo elemento (momento), senza cogliere la totalità, si ottiene un risultato falsato dello sviluppo effettivo. Se ci si ferma al singolo elemento, senza considerare il tutto, si ottiene come risultato una verità astratta, prodotto di quello che Hegel chiama Intelletto riflettente.
L’intelletto riflettente presenta i singoli elementi del processo come isolati, come separati gli uni dagli altri. Non riuscendo o non volendo afferrare la totalità, snatura i singoli elementi, li sottrae alla totalità, li considera come entità a sé stanti, presenta ogni elemento finito come separato da ogni altro elemento finito. Per questo motivo, a proposito dell’intelletto riflettente, Hegel parla di concetti astratti. Gli illuministi e Kant sono astratti (tratti fuori) perché pretendono di cogliere il singolo elemento in se stesso, senza cogliere il tutto a cui il singolo è connesso.
In che modo sono connessi i singoli elementi?
Gli elementi non sono pezzi di un puzzle, incastrati su un piano sincronico a formare il totale di una figura, dove la verità di ogni elemento si esprime nella totalità composta della figura, e dove ogni pezzo, estratto dal puzzle, non significa nulla. La totalità hegeliana è diacronica. Il tutto si compone nel tempo. Anzi, è il dispiegarsi della serie di elementi che pone il tempo. Si parte da una tesi, ma la tesi pone già la sua antitesi. Porsi è già un esporsi al tempo, un esporre il tempo. Ogni elemento si espone al tempo, e per il fatto stesso di esporsi va oltre se stesso. Può essere considerato identico a se stesso solo se lo si considera avulso, astratto, dal processo di cui è parte. Immerso nel processo temporale ogni elemento nega se stesso, diventando diverso da quello che era. Nel momento esatto in cui l’elemento accede al tempo, diventa tempo, e con ciò pone se stesso (Tesi), subito pone anche la sua Antitesi, pone se stesso nel divenire, pone se stesso come diverso da se stesso. Dal contrasto tra ciò che l’elemento è e quello che tende ad essere nasce un nuovo equilibrio, nasce una nuova entità, che è la Sintesi (negazione dell’antitesi) di questo processo di contrapposizione. La figura è completa.
La figura totale è composta dei singoli elementi, per questo non si parla di soppressione – annullamento – degli elementi singoli, ma di rilevamento, di recupero, di Aufhebung. La verità (dei singoli elementi) è il tutto. E siccome il tutto è un divenire, la verità è la Fine, è il completamento del processo, la sintesi.
 
III
 
Abbandonando l’abituale modo di pensare astratto degli storici della filosofia contemporanei, dice Korsch, e assumendo il tema della dialettica (hegeliana e marxista), allora, improvvisamente, si comprendono non solo la realtà dei nessi esistenti tra l’idealismo tedesco e il marxismo, ma anche la loro interiore necessità. Il sistema marxista nega il sistema hegeliano. La negazione non è un annullamento, è un superamento, uno sviluppo. Il sistema marxista è un sistema superiore a quello hegeliano, perché superandolo lo ingloba (aufhebung). La verità dell’hegelismo è il marxismo.
Come si arriva a questa verità?
Korsch dice segnatamente: Il sistema filosofico marxista – che è espressione teorica del movimento rivoluzionario – deve avere con i sistemi dell’idealismo tedesco – che sono l’espressione teorica del movimento rivoluzionario borghese – lo stesso rapporto che sul piano della prassi sociale e politica intercorre tra il movimento rivoluzionario di classe del proletariato e il movimento rivoluzionario borghese.
Bisogna leggere attentamente questo schema. Contiene tutta la doppiezza – ma anche tutta la potenza e il fascino – del sistema hegeliano.
Quando qui Korsch parla di teoria del movimento eccetera, non bisogna intendere questa teoria, e la teoria in generale, come opposta ad una pratica. Nel sistema hegeliano non c’è teoria, non c’è metodo, non c’è opposizione tra un soggetto teorico e un oggetto della teoria. La più grande innovazione di Hegel è contenuta propria in questo tema, tema sviluppato in modo magistrale nella Introduzione alla Fenomenologia dello spirito. Siccome non è possibile affrontare qui anche questo tema, tema al quale, giustamente, Korsch dedica ampio spazio nel suo libro, rimando alla lettura, riga per riga, di Heidegger: Il concetto hegeliano di esperienza, Sentieri interrotti.
Se la teoria e la pratica sono elementi, questi elementi, per sé, non significano nulla, la loro verità (dunque anche la verità della teoria) risiede nel tutto: è il tutto ad essere vero. Parlare di pratica teorica è già più appropriato.
Quando Korsch dice che il sistema teorico marxista è espressione del movimento eccetera, non vuole dire che il movimento, tra le altre cose, ha anche una teoria, ma vuol dire che questo movimento, per il fatto stesso di essere in movimento, è già teoria, anzi è movimento solo in quanto è teoria. Se non fosse un movimento-teoria (una pratica teorica) non sarebbe nulla, sarebbe l’ineffabile.
Nel sistema di Hegel si parte sempre dall’Uno. Per effetto di un impulso, di una spinta, l’Uno si mette in movimento, muovendosi passa dallo stadio A allo stadio B. Per B, la stato A, non è solo il suo passato, è anche il suo altro, è se stesso visto come un altro: è il se stesso visto nell’altro. La verità di B è in A – e viceversa. La teoria di B è la traccia mnemonica di A – e viceversa.
L’unità originaria, dice Althusser (Per Marx), costituisce l’unità dilacerata dei due contrari in cui si aliena, diventando altra pur restando se stessa: questi due contrari non sono che la medesima unità, ma nella dualità, la medesima interiorità, ma nell’esteriorità (ecco perché sono, ciascuno dal proprio canto, la contraddizione e l’astrazione l’uno dell’altro, perché appunto ciascuno non è che l’astrazione dell’altro senza saperlo, essendolo già in sé), prima di ristabilire la loro unità originaria, ma arricchita della sua stessa dilacerazione, della sua alienazione, nella negazione di quell’astrazione che negava la loro unità anteriore: allora saranno di nuovo Uno, avendo ricostituito una nuova «unità» semplice, ricca del lavoro passato della loro negazione, nuova unità semplice di una totalità, prodotto della negazione della negazione. La dialettica hegeliana è tutta qui: ossia tutta quanta sospesa a questo presupposto radicale di un’unità semplice, che si evolve nel suo stesso seno in virtù della negatività, e non ristabilisce mai, in tutto il suo sviluppo — ogni volta nella forma di una totalità più « concreta » — che questa unità e questa semplicità originarie.
Muovendosi da una tesi verso una sintesi (passando per un’antitesi) la dialettica hegeliana pone l’essere. Non c’è essere senza questo movimento.
Il movimento non si arresta. La sintesi si pone come tesi, e la tesi pone la sua antitesi, e via dicendo.
La verità è il tutto, gli elementi (teoria e pratica) non sono niente. In più, la verità è semplice: gli elementi ricompongono l’Uno scisso e molteplice (tesi e antitesi) nella sintesi.
Questi due criteri (unità e semplicità) non sono criteri metodologici. Vanno ribaltati sulla realtà.
Così come non si dà una teoria che sia la teoria di una pratica (la filosofia del movimento eccetera), allo stesso modo non si dà una realtà cosiddetta oggettiva che sia il corrispettivo di una teoria o di una filosofia. La teoria non è un riflesso della realtà, tale per cui la realtà autonomamente andrebbe per la sua strada e la teoria, puntando questa realtà autonoma e indipendente, cercherebbe di fornire un’immagine realistica, e quando ci riesce è vera, quando non ci riesce è falsa (in Hegel, il falso e il vero, così intesi, sono entrambi reali, e in quanto reali sono entrambi effettivi). Non c’è nessuna indipendenza della realtà dalla teoria. Di più. Non c’è realtà che non sia teorica, o teoria che non sia reale. Se c’è scissione tra realtà e teoria è perché c’è alienazione. Ma in questa scissione, gli elementi, da soli, non significano nulla.
Se il movimento è un passaggio per i tre stadi della tesi, dell’antitesi e della sintesi, e la realtà è movimento, dunque, anche la realtà passa per questi tre stadi. Ma non vi passa in modo cieco, vi passa secondo la logica propria al movimento, che è una logica dialettica.
Il sistema filosofico marxista e il sistema filosofico hegeliano sono la stessa e identica cosa del movimento rivoluzionario di classe e del movimento rivoluzionario borghese. Non sono due cose diverse, sono due Figure (due sintesi), che diventato Tesi (momenti) che si sviluppano in altre figure. In più, la logica del momento, dell’elemento, del pezzo (se vogliamo rimanere alla figura del puzzle), logica che lega il pezzo al tutto, non solo è intagliata nel pezzo stesso, ma assume un senso (figura) solo nel tutto.
Il sorgere della teoria marxista, dice Korsch, è solo l’altra faccia del sorgere della classe proletaria. Solo se presi insieme i due lati (momenti) formano la totalità concreta del processo storico.
Questo modo di vedere dialettico, continua Korsch, permette di comprendere quattro elementi diversi 1) l’elemento rivoluzionario della borghesia; 2) la filosofia idealistica da Kant a Hegel; 3) l’elemento rivoluzionario di classe; 4) la filosofia materialistica del marxismo, come momenti di un processo unitario di sviluppo storico.
 
IV
 
Nella Rivoluzione francese, dice Hegel (Lezioni sulla filosofia della storia), il pensiero, il concetto di diritto si fece valere tutto in una volta, e la vecchia impalcatura dell’ingiustizia non poté minimamente resistere ad esso. Nell’idea del diritto fu così fondata ed edificata una costituzione, e tutto doveva basarsi d’allora in poi su questo fondamento. Da che il sole splende sul firmamento e i pianeta girano intorno ad esso, non si era ancora scorto che l’uomo si basa sulla sua testa. Contro la fede nell’autorità fu posto il dominio del soggetto su se stesso e le leggi di natura furono riconosciute come l’unico nesso dell’esteriore con l’interiore. La Rivoluzione Francese fu il rifiuto di riconoscere il diritto e la moralità in un comandamento estraneo alla ragione dell’uomo, fu il rifiuto di ogni alienazione. In quanto rifiuto di ogni etero-determinazione la ragione si riconobbe come pura negatività. La forma si separò dal contenuto, e il contenuto venne negato come altro dalla forma. Fu così che la fede diventò il regno delle tenebre e la via dell’errore (cfr. qui e in seguito, Hyppolite, Genesi e struttura della Fenomenologia, parte V).
Nella massa l’errore era soltanto la debolezza dello spirito, un’assenza di riflessione. A tale ingenuità faceva da riscontro la cattiva intenzione dei preti che ingannavano la massa per mantenere il loro prestigio. Alla massa e al clero si aggiungevano infine i despoti che avevano la stupidità della massa ma si avvalevano del clero bugiardo in vista del proprio godimento. Ecco il mondo dell’errore che l’Illuminismo rivelò proponendosi al contempo di liberare l’uomo abbattendo questo mondo.
L’Illuminismo si diffuse in tutto il corpo sociale senza incontrare resistenze. Ogni pregiudizio e ogni superstizione vennero messe al bando. Che restò allora?
Niente.
Tutte le cose del mondo vennero spogliate di ogni rimando trascendente, ogni contenuto si presentò come una determinazione finita: il legno come legno, la pietra come pietra. Queste cose finite, spogliate di ogni senso superiore, si presentarono ad una coscienza vuota. Tutte le rappresentazioni che l’uomo aveva dell’essere assoluto sfociarono in una purificazione. Alla fine restò soltanto l’astrazione di questa negazione, eretta a essere. Restò la libertà che l’illuminismo cercava e che la Rivoluzione tentò di rendere effettiva. Ma la volontà generale così purificata diventò Terrore.
Nel Terrore la Rivoluzione fallì il suo obiettivo.
Fallì, dice Hegel, non perché il suo principio fosse erroneo ma perché essa pretese di realizzarlo immediatamente, e dunque astrattamente. L’autocoscienza non si può attuare immediatamente, deve alienarsi, deve svilupparsi opponendosi a sé, altrimenti non sfocia in alcuna opera positiva, in nessun mondo.
 
V
 
C’è un parallelismo in Hegel tra la costituzione dell’autocoscienza e la costituzione della società politica.
Nel lavoro, la coscienza servile (asservita al sé alienato (Entäusserung) e estraniato (Entfremdung)) giunge ad esteriorizzarsi. Formando le cose forma se stessa, rinuncia al suo sé naturale (posticipa la consumazione della cosa, la lavora, e lavorandola si fissa nella cosa, si esternalizza, e la cosa esternalizzata, il prodotto del lavoro, si ripresenta come una cosa estranea, contrapposta, che nega chi l’ha posta), rinuncia al sé naturale schiavo dell’appetire e dell’essere vitale, e per questa via guadagna il sé autentico, il sé ritornato in sé, più la storia di questo ritorno. Senza questa esposizione (alienazione e estraniazione) non ci sarebbe storia del sé.
Hegel ha mostrato come la coscienza si elevi all’universalità mediante l’alienazione. L’individuo si forma all’essenzialità appunto con l’alienazione del suo essere naturale. Per Hegel, dice Hyppolite, la cultura (Bilding) del sé è concepibile solo nella mediazione dell’alienazione o della estraneazione.
Il termine estraneazione (Entfremdung), precisa Hyppolite, dice di più che alienazione (Entäusserung). L’estraneazione non implica soltanto che il Sé naturale rinunci a sé, si alieni, ma ancora che si faccia estraneo a sé. Per parlare dell’opposizione del bene e del male Hegel usa sempre il termine estraneazione.
Coltivarsi (Bildung) non significa svilupparsi armonicamente come un crescere organico: significa opporsi a sé, ritrovare se stesi attraverso una lacerazione e una mediazione. La vita si sviluppa solo nell’opporsi a sé. Parte dall’unità ingenua e ritrova se stessa solo dopo un momento di separazione e di opposizione. Siffatto movimento circolare, questo perseguire sé, è la vita del Sé, il fondamento dello schema dialettico hegeliano. Il primo momento è sempre quello dell’immediatezza, della natura che si deve negare. In questa immediatezza il Sé è in realtà fuori di sé: è ma deve ancora divenire ciò che esso è, e perciò opporsi a se stesso; il sé può riconquistare la sua universalità soltanto attraverso questa opposizione, questa alienazione che è cultura. Qui la cultura (bildung) ha un significato molto generale – dice Hyppolite. Risulta da una alienazione dell’essere naturale. La cultura si forma, e dunque l’uomo sociale si coltiva, mediante un’alienazione dell’essere naturale. L’individuo rinuncia al suo diritto naturale, al suo Sé immediato dello stato di natura. Uno stato in cui, nell’immediatezza dell’indistinzione generale, l’appetito non ha freni. Per nascere come cittadino, l’essere naturale deve trattenere questo appetito. Il trattenimento pone la cosa desiderata come riserva, come proprietà intangibile, e pone il diritto come espressione astratta di questa intangibilità. L’alienazione del Sé naturale è l’organizzazione politica e sociale. Questa organizzazione politica, risultato dell’alienazione del Sé naturale, risulterà al Sé individuale come un’effettualità estranea.
Il termine Alienazione, dice Hyppolite, ricorreva già in Hobbes, Locke e Rousseau, i quali, in forme diverse, hanno tutti e tre affrontano il tema dell’alienazione del sé naturale.
In che modo la persona rinuncia a tutti o ad alcuni dei suoi diritti naturali, considerato che questa rinuncia è una condizione della vita sociale?
La formula di Rousseau è chiara. Tutte le clausole del contratto sociale si riducono ad una sola: l’alienazione totale di ciascun associato e di tutti i suoi diritti a tutta la comunità. In Hobbes l’alienazione dei diritti naturali è a favore non della comunità ma del sovrano.
È evidente, dice Hyppolite, che Hegel, per costituire la comunità, abbia pensato a questa alienazione. Anche se la procedura di tutti i contrattualisti gli appare problematica.
Ci si rappresenta il costituirsi della volontà generale – dice Hegel – come se tutti i cittadini si radunassero, deliberassero, e come se la molteplicità delle voci fosse la volontà generale. In questa forma immaginaria, continua Hegel, si pensa il movimento necessario, quello con cui l’individuo si innalza all’universale. Ma se i contrattualisti presentano in modo figurato – immaginario – l’apparire dell’universale, come avviene effettivamente questa alienazione, come avviene il passaggio dal singolare all’universale?
Il passaggio avviene grazie ad una rinuncia, come evidenziano bene i contrattualisti, avviene tramite una negazione di sé. Senonché, dice Hegel, nella storia l’alienazione non si compie tanto semplicemente.
In un primo momento, la volontà generale appare all’individuo come ciò che gli è estraneo, che è altro. Questa volontà generale è l’in-sé dell’individuo e ciò che egli deve diventare. E quindi non può trattarsi di un contratto, sia pure tacito, costituente come tale la volontà generale. Il tutto è anteriore alle parti – dice Hegel. Nel contratto i contraenti sono immaginati come separati gli uni dagli altri, come elementi autonomi, staccati dal tutto. Solo dopo la firma del contratto possono considerarsi, a partire dalla volontà generale, come un unico corpo.
Tuttavia, la volontà generale deve divenire, e se deve divenire, come può essere oggetto di un contratto? Come è possibile riunire il tutto se il tutto è riunito dalla volontà generale?
La volontà generale, dice Hegel, dapprima deve essere istituita dalla volontà dagli individui, cosicché la volontà individuale sembra essere il principio e l’elemento proprio, ma invece è la volontà generale ad essere il termine primo e l’essenza. L’unità sta all’inizio del processo, così come sta alla fine del processo – in circolo.
 
VI
 
Nella Città antica, dice Hegel, l’uomo era un cittadino. La sua vita si identificava con la vita della Città. La sua volontà era immediatamente volontà generale. Nel periodo della Roma imperiale, e poi nell’epoca moderna, questa immediatezza si spezzò. Nell’impero romano l’individuo finì per distaccarsi dalla Città e per ripiegarsi su se stesso, sulla proprietà privata, sul suo lavoro particolare, sul suo dominio ristretto e finito. Lo Stato – l’universale – gli divenne una forza estranea, una forma di alienazione. All’alienazione politica corrispose un’alienazione religiosa. Non potendo più trovare il senso della sua vita nella Città, l’individuo lo cercò in una essenza eterna posta aldilà di sé. Alienazione politica e alienazione religiosa si svilupparono nello stesso tempo. La Rivoluzione francese pretenderà di sopprime tutte e due queste forme di alienazione, facendo tornare l’uomo privato integralmente cittadino, conciliando vita privata e interesse generale. Ma la Rivoluzione fallì. Non riuscì a sopprimere la borghesia, e a eliminare la divisione tra società civile e Stato, tra individuo privato e cittadino, tra interesse particolare borghese e interesse generale dello Stato. L’alienazione non venne eliminata, e nemmeno poteva essere eliminata col Terrore.
Il circolo che la rivoluzione voleva chiudere – Città greca (unità), Società civile vs Stato (lacerazione, sdoppiamento, contraddizione e alienazione), Terrore (eliminazione dell’alienazione, non Aufhebung ma annullamento) – non poté essere chiuso, perché il Terrore, nel quale la rivoluzione terminò, pretendeva di fare tabula rasa. Dunque, l’abolizione (Aufhebung) della società civile si rivelò impossibile, e lo Stato moderno dovette mostrarsi abbastanza potente da lasciar sussistere il suo proprio fenomeno nel liberalismo economico, mentre l’Idea doveva trovare un accomodamento nella Costituzione e nel Sovrano.
La divisione tra società civile (interesse particolare) e Stato (volontà generale) rimanese intatta.
Nel periodo di Jena Hegel era sicuro di aver trovato la soluzione a questo problema.
Bisognava porre una entità che fosse allo stesso tempo uno stato particolare ma capace di incarnare l’interesse generale. Dapprima, dice Hyppolite, Hegel aveva creduto di poterlo scoprire nella vecchia nobiltà ereditaria che sacrificava la sua vita per il bene dello Stato. Poi aveva optato per la burocrazia moderna, ovvero per un corpo di grandi funzionari, reclutati per concorso nella classe media, incaricati di pensare l’interesse dello Stato e di eseguire l’interesse comune.
Il funzionario moderno, nelle speranze di Hegel, si prestava bene ad assolvere il compito di far coincidere l’interesse particolare con l’interesse generale. Chi meglio del funzionario poteva rappresentare perfettamente la condizione della società civile, provenendo proprio da essa, e chi meglio di lui poteva sentire il proprio destino legato strettamente a quello dello Stato! Tuttavia la separazione rimaneva, l’interesse particolare poteva in ogni momento prendere il sopravvento sull’interesse comune. Senonché, Hegel pensò bene di rafforzare l’idea che animava questa trovata, pungolando di tanto in tanto l’interesse privato, l’interesse delle masse, affinché non prendesse il sopravvento sull’obiettivo comune. Perché a guardar bene, l’unità del popolo come principio supremo dello Stato, dice Hegel, non si avvera nei buoni propositi dei funzionari pubblici, ma si realizza veramente solo nei momenti di angustia interna o di pericolo esterno. L’unità del popolo – l’interesse generale – come negazione della negazione (come negazione dell’interesse particolare che nasce dalla dilacerazione dell’unità originaria della Città), torna a trasparire nel Terrore, nelle guerre tra nazioni. Il terrore e le guerre sono momenti inevitabili nella storia del mondo, e tali momenti tornano continuamente perché in essi si manifesta la Vita assoluta. La salute morale dei popoli – scrive Hegel – viene mantenuta dalla guerra. I popoli che perdono la loro indipendenza nel corso della storia, meritavano di perderla perché la loro libertà era morta per la loro paura di morire.

VII
 
Ciascuno di noi, dice Rousseau, mette in comune la sua persona e ogni suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale, in cambio, ogni membro diventa parte indivisibile del tutto. La Società è opera di tutti, e in quest’opera tutti devono essere coscienti per se stessi. Ecco la libertà assoluta, il partecipare direttamente all’opera comune, e non più la limitazione della coscienza ad un compito circoscritto, a un lavoro determinato all’interno del tutto, il cui rapporto col tutto non sia pensato immediatamente. Nella storia moderna si dovette superare quell’alienazione particolare (la fissazione in un cosa determinata, in un ruolo determinato; dovette sparire la vita privata, l’uomo civile, e dovette apparire il cittadino, l’uomo spogliato di ogni differenza, l’uomo qualunque), si dovette superare quell’alienazione particolare che rendeva l’uomo schiavo di una realtà per lui estranea. Fino a prima della Rivoluzione e dell’Illuminismo la società era divisa, come un organismo biologico, in masse spirituali particolari. La vita era regolata da una legge di differenziazione, e così ogni individualità si trovava esclusa dall’universale mediante il suo legame concreto a una parte limitata della vita sociale. Vi erano corpi costituiti, corporazioni, stati nello Stato. Ogni elemento era connesso con tutti gli altri, in un ordine che non permetteva alcuna via di fuga. Tutto era concatenato e bloccato, il proprio destino era legato alla propria posizione. Si nasceva nella casa del contadino e si moriva contadini, si nasceva nella casa del nobile e si moriva nobili, non c’era mobilità sociale, non c’era mobilità sessuale, non c’era mobilità generazionale, la società era come il gioco del quindici, ma privo della casella vuota. L’illuminismo azzerò questi legami, creò la casella vuota, la pura forma, nella quale tutti poterono transitare, e transitandovi cambiare l’ordinamento sociale, imponendo ad una cardinalità supposta naturale una dose massiccia di arbitrarietà. L’ultimo poteva diventare il primo, e il primo occupare il posto dell’ultimo. L’ascensore sociale era attivato. Il meccanismo poteva diventare operativo. Ma che cosa rappresentava la casella vuota? E cosa succedeva a chi vi transitava?
La borghesia, scrive Marx nel Manifesto, ebbe nella storia una parte essenzialmente rivoluzionaria. Dovunque arrivò al potere, distrusse le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliache. Essa distrusse senza pietà tutti quei legami multicolori che nel regime feudale stringevano gli uomini ai loro naturali superiori, e non lasciò fra uomo e uomo altro vincolo. Essa spense i santi timori dell’estasi religiosa, l’entusiasmo cavalleresco, la sentimentalità del piccolo borghese dalle limitate abitudini, immergendo tutto nell’acqua gelida del calcolo. La borghesia spogliò della loro aureola le professioni che fino ad allora erano considerate degne di onore e di rispetto. Essa fece del medico, del giurista, del prete, del poeta, dello scienziato i suoi salariati. La borghesia strappò il velo di commovente sentimentalismo che ricopriva i rapporti familiari. La borghesia mise in chiaro come la brutale manifestazione della forza, che i nostri reazionari ammiravano nel Medioevo, avesse il suo appropriato complemento nella più dozzinale poltroneria. Essa per prima dimostrò cosa può l’attività umana. Essa creò ben altre meraviglie, che non le piramidi egiziane, gli acquedotti romani e le cattedrali gotiche; essa condusse ben altre imprese che non le migrazioni dei barbari o le crociate. Tutti gli antichi e arrugginiti rapporti della vita, con tutto il loro seguito di opinioni e credenze ricevute e venerate per tradizione, si dissolsero; e i nuovi rapporti che subentrano invecchiarono ancor prima di aver avuto il tempo di fissarsi e di consolidarsi. Tutto ciò che aveva avuto carattere stabile e che aveva risposto alla gerarchia dei ceti svanì, tutto ciò che era stato sacro venne profanato, e gli uomini si trovarono alla fine a dover considerare le loro condizioni di esistenza con occhi liberi da ogni illusione Ai vecchi bisogni, a soddisfare i quali bastavano un tempo i prodotti nazionali, ne succedettero ora dei nuovi che esigevano i prodotti dei climi e paesi più remoti. Al posto dell’isolamento locale e nazionale, per cui ciascun paese si era accontentato di se stesso, subentrò un commercio universale, per cui le nazioni entrarono in una condizione di interdipendenza. E come per i prodotti materiali, così accadde anche per quelli intellettuali. I prodotti intellettuali di ogni singola nazione diventarono proprietà comune di tutte. La connotazione nazionale divenne sempre più impossibile, e dalle molte letterature nazionali e locali nacque una nuova letteratura mondiale. Come i mezzi che fecero da fondamento allo sviluppo della borghesia, furono prodotti all’interno della società feudale, così i mezzi che avrebbero fatto il fondamento del mondo socialista furono prodotti dalla società borghese, e questi mezzi erano il proletariato. La moderna società borghese assomigliava allo stregone che si scopriva impotente a dominare le potenze sotterranee da lui stesso evocate. Le forze produttive di cui essa disponeva non giovavano più a favorire lo sviluppo dei rapporti di proprietà borghese; anzi, erano diventate troppo potenti per tali rapporti, che divennero per ciò degli impedimenti; e tutte le volte che queste forze superarono l’impedimento crearono disordine nell’intera società, minacciando l’esistenza della stessa proprietà borghese. La borghesia non aveva soltanto preparato le armi che le recheranno la morte; essa aveva anche prodotto gli uomini, che avrebbero usato quelle stesse armi, cioè gli operai moderni, i proletari. Nella stessa misura in cui si sviluppava la borghesia, ossia il capitale, si sviluppava anche il proletariato, ossia la classe degli operai moderni, i quali vivevano fintanto che trovavano lavoro, e trovavano lavoro fintanto che il loro lavoro accresceva il capitale. Questi operai, che erano costretti a vendersi giorno per giorno, non erano se non una merce come tutte le altre, una merce soggetta a tutte le vicende della concorrenza, e a tutte le fluttuazioni del mercato. L’operaio diventò un semplice accessorio della macchina, a cui non si chiedeva altro se non la più semplice e monotona operazione, la quale del resto si apprendeva in assai breve tempo. Il costo dell’operaio si limitava di conseguenza ai semplici mezzi di sussistenza necessari per vivere e per riprodursi. Gli operai formavano una massa incoerente dispersa e sparpagliata. Se qualche volta gli operai si raccoglievano in massa compatta, ciò non era dovuto alla loro propria e spontanea azione, ma all’azione unita della borghesia, la quale per raggiungere i propri fini politici doveva mettere in moto l’intero proletariato. In questa prima fase i proletari non combattevano i loro nemici, ma i nemici dei loro nemici, e cioè gli avanzi della monarchia assoluta, i proprietari fondiari, i borghesi non industriali, i piccoli borghesi. Tutta l’azione storica era nelle mani della borghesia, ed ogni vittoria era una sua vittoria. Gli interessi e i modi di vivere dei proletari si andarono di giorno in giorno uniformando ad un tipo comune, in quanto la macchina cancellava sempre più le differenze del lavoro e riduceva quasi dappertutto il salario allo stesso livello.
La borghesia creò l’uomo sans phrase, l’uomo qualunque, l’operaio, l’uomo sostituibile, l’uomo modulare, indifferente e fortuito, libero da ogni determinazione, astratto, generale, l’homo oeconomicus, condizione dell’economia capitalistica, al quale corrispose, sul piano della razionalità illuminista, l’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, in cui tutto lo scibile umano è raggruppato pezzo per pezzo, frammento per frammento, dove la valenza ordinale del flusso del testo è scardinata da un ordine alfabetico arbitrario. La linearità del testo tradizionale è scardinata (prima ancora dell’ipertesto e del Web); il sapere e i suoi custodi sono disgregati, frammentati, tutto si accatasta in modo puramente sommatorio.
Marx ha buon gioco nel deridere Hegel e i suoi funzionari pubblici, la cui funzione particolare è una funzione pubblica, ma che finiscono, dice Marx, per ridurre questa funzione universale in un loro affare privato.
In più Marx trova la classe particolare che può incarnare l’interesse generale, e questa classe è la classe operaia. La classe operaia non è una classe particolare in mezzo alle altre classi della società borghese, è la classe che risulta dalla scomposizione di questa società, il prodotto delle sue intime contraddizioni, un ceto che coincide con la scomposizione di tutti i ceti. Una sfera sociale che possiede carattere universale per aver subito sofferenze, perché nessuna ingiustizia particolare, ma la piena ingiustizia è stata perpetrata contro di essa. Un sfera che non può più vantare un titolo storico, ma solo il titolo umano. Una sfera infine che non si può emancipare senza emanciparsi da tutte le altre sfere della società, emancipando tutte quante, e che, in una parola, rappresenta la totale perdita dell’uomo e può quindi ritrovare se stessa col totale riscatto dell’uomo.
Nel Manifesto questa posizione verrà affinata. Qui l’operaio – l’universale concreto – apparirà non più come incarnazione dell’Idea – come in Hegel – ma come risultato della realtà effettiva. Gli operai, costretti a vendersi giorno per giorno, non sono se non una merce come tutte le altre, una merce soggetta a tutte le vicende della concorrenza, e a tutte le fluttuazioni del mercato. L’operaio diventa un semplice accessorio della macchina, a cui non si chiede altro se non la più semplice e monotona operazione, la quale del resto si apprende in assai breve tempo. L’unione del singolare e dell’universale, della società civile e della società politica, dell’interesse privato e dell’interesse generale, della volontà singola e della volontà collettiva – la pietra filosofale cercata e non trovata da Kant, cercata e quasi trovata da Hegel – viene trovata da Marx. L’universale concreto viene creato dalla borghesia, dal capitale, dal lavoro morto, dalle morte macchine. Il particolare identico ad ogni altro particolare viene fuori dagli stampi delle macchine delle fabbriche borghesi e questo universale concreto è l’operaio abbrutito dalla fabbrica moderna.
 
VIII
 
A Kant mancava l’uomo sans phrase dell’economia politica. Per questo sentiva la necessità di staccare la forma – l’universale – dal contenuto effettivo – il singolare. Rimanendo attaccato al contenuto determinato non si aveva alcuna possibilità di raggiungere una verità valida per tutti (universale) e valida in ogni circostanza e tempo. Ciò che io so si riferisce sempre a qualche cosa di estremamente limitato e, in fondo, alla mia stessa esperienza personale, e siccome ognuno ha un’esperienza personale diversa, legata alle condizioni in cui si trova a vivere, non si arriverà mai a quel grado di universalità e necessità che la verità richiede.
Da un lato bisognava mettere da parte tutti i fatti empirici, e dall’altra supporre un soggetto universale. Kant trovò il soggetto universale nell’Io penso. Le strutture soggettive – intuizione, intelletto e ragione -, sono uguali in tutti gli uomini, dunque danno luogo a conoscenze universali. L’io penso che accompagna le mie rappresentazioni deve poter accompagnare, allo stesso modo, le rappresentazione di ciascun essere razionale. In più, la pietra, il martello, per poter entrare a far parte dell’esperienza e divenire oggetti conosciuti, devono obbedire all’io penso, devono conformarsi alle sue strutture. La conoscenza non si rapporta alla realtà effettiva, la realtà effettiva rimane un aldilà inconoscibile. È invece la realtà che si conforma agli schemi della conoscenza, ai modelli tramite i quali la si percepisce.
L’Io penso è lo stampo o il cliché che toglie l’aureola alle conoscenze empiriche. Esso spoglia il differente della sua differenza, imprimendogli il tratto dell’universalità. L’Io penso è la fabbrica che opera su una materia prima che riduce e scompone in categorie semplici e parcellizzate, replicabili da ognuno senza necessità di una formazione ad hoc. In questa operazione deve sempre anche riprodurre la differenza tra l’universale (lo stampo, il capitale morto, al morte) e il singolare (il prodotto, il capitale vivo). Ogni tentativo di eliminarla è anche una sua riproduzione su scala allargata.
Il punto di vista borghese, dice Korsch, è costretto a non varcare il punto in cui deve arrestarsi nella sua prassi sociale – a meno che non intenda cessare di essere un punto di vista borghese, vale a dire non decida di auto-sopprimersi. Ciò che rende difficile la comprensione corretta del problema marxismo e filosofia, continua Korsch, consiste nel fatto che apparentemente questo travalicare i limiti del punto di vista borghese porterebbe alla soppressione della filosofia. Il marxismo ha sviluppato una sua particolare forma scientifica riallacciandosi all’idealismo tedesco, in particolare al sistema hegeliano, e non poteva essere altrimenti. La società borghese, l’illuminismo e l’idealismo hanno creato quel soggetto universale che spazzerà via la società borghese, le sue fabbriche e la sua filosofia, insieme, perché società, filosofia e fabbriche sono tre aspetti di uno stesso processo.
 

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