Il prezzo. Iliénkov e Marx

copertina

 

I

 

Nella Critica dell’economia politica Marx presenta una serie di equazioni (1Q di ferro = 2 di oro; 1x di caffé = 1 di oro; eccetera), e dice che in questa serie, il ferro, il caffè, eccetera, appaiono l’uno all’altro come materializzazioni di lavoro uniforme, cioè di lavoro materializzato in oro, lavoro in cui siano cancellate (ausgelöscht) in pieno tutte le particolarità dei reali lavori. Come materializzazione uniforme dello stesso lavoro manifestano una sola differenza, di carattere quantitativo, ossia appaiono come grandezze di valore differenti.

È evidente che le differenze dei lavori effettivi che fanno del caffè e del ferro valori-uso apprezzabili non possono essere cancellate, non possono essere spazzate via. Queste differenze devono essere negate, ma allo stesso tempo mantenute.

Il valore-scambio delle merci, dice Marx, espresso in tal modo come equivalente generale e allo stesso tempo come grado di questa equivalenza in una merce specifica, oppure in un’unica equazione fra le merci e una merce specifica, è il prezzo.

Il prezzo esprime sia l’equivalente generale, sia il grado dell’equivalenza. L’equivalente generale è ciò che è comune sia al caffè sia al ferro. Questo comunità, dice Iliénkov, non è quella della classe o dell’universale.

L’universale, dice Iliénkov, nel senso stretto della parola, è ciò che è comune a tutte le merci. Tutte hanno in comune di rappresentarsi in oro – in una quantità determinata di oro. Tuttavia, dice, l’universale non è affatto la reiterata ripetizione, in ogni singolo oggetto, preso separatamente, di una somiglianza che si presenta come connotato comune ed è fissata da un segno. È anzitutto la connessione regolare tra due (o più) individui particolari, che li trasforma in momenti di una stessa unità concreta, reale. Ed è molto più ragionevole rappresentare questa unità come l’insieme di diversi momenti particolari, anziché come una quantità indeterminata di unità indifferenti l’una verso l’altra. L’universale appare qui come la legge o il principio che collega tali particolari in un certo intero: in una totalità, come preferiva, seguendo Hegel, esprimersi Marx.

Perciò i fenomeni omogenei non possiedono affatto immancabilmente una «somiglianza di famiglia» come unico motivo per annoverarli in un solo genere. In essi l’universale può manifestarsi esteriormente anche nell’aspetto di differenze, persino di contrapposizioni, che fanno di fenomeni particolari le componenti di un tutto che si completano a vicenda, di un certo «complesso» pienamente reale, di una «totalità organica», e non di una quantità amorfa di unità, qui registrate sulla base di un contrassegno più o meno occasionale.

D’altro canto, dice, l’universale che si manifesta appunto nei particolari, nelle caratteristiche individuali di tutte, senza eccezione, le componenti di un intero, esiste anche di per se stesso come individuo particolare insieme agli altri individui particolari, da esso prodotti.

È in base a queste delucidazioni che va inteso il passo del Capitale dove Marx propone una definizione di prezzo.

Il prezzo, dice Marx, ossia la forma di denaro delle merci, è, come la loro forma di valore in generale, una forma distinta dalla loro forma corporea tangibilmente reale, quindi è solo forma ideale, ossia rappresentata.

Il prezzo è distinto dalle merci. È una rappresentazione ideale. Tutto ciò potrebbe lasciare intendere che il prezzo sia una convenzione – un segno -, uno strumento logico che esiste solo nell’immaginazione.

Già nella Critica Marx aveva detto che il prezzo non è un segno convenzionale, ma è espresso in una merce particolare. È rappresentato, cioè espresso, dichiarato, non immediatamente, ma solo attraverso un’altra merce, mediante il suo rapporto con la merce-denaro, con l’oro. In altre parole, dice Iliénkov, il valore è rappresentato non nella testa, ma nell’oro. Il prezzo è il valore del caffè in ferro, rappresentato in una certa quantità di oro, espresso mediante l’equiparazione con l’oro, dichiarato attraverso il rapporto con esso. Questa rappresentazione, dice, è chiamata in Marx «ideale o rappresentata» (ideelle oder vorgestellte). La parola tedesca «rappresentata» figura qui non in senso psicologico-soggettivo, ma nel significato di «rappresentante», come quando si dice che Tizio si è presentato in rappresentanza di Caio, che sta al posto di Caio, il quale non può essere presente, se non nelle vesti di un supplente. Il supplente, il rappresentante, presenta colui che è assente.

Dunque, chiarisce Iliénkov, il prezzo non è un qualcosa di psicofisiologico. Non è, per esempio, l’indice dell’utilità che il compratore attribuisce alla merce. Non è il nome sul quale compratore e venditore convengono e contrattano. Il prezzo, dice Iliénkov, è una categoria oggettiva, è un’unità pratica, una posizione assoluta. Non è un fenomeno psicofisiologico. Proprio in ciò, dice, consiste il materialismo della concezione marxista del prezzo. L’idealismo, al contrario, consiste nell’affermazione che il prezzo, in quanto è una forma soltanto ideale, esiste solo come fenomeno psico-soggettivo. Quest’ultima interpretazione del prezzo fu data da Berkeley.

Il prezzo, dice Iliénkov, è il valore di x espresso in una quantità di un’altra cosa, ad esempio oro. Ma l’oro di per sé, per natura, non è denaro. L’oro nel processo di circolazione, restando se stesso, risulta nondimeno il rappresentante (Dasein) di qualcosa d’«altro», rappresenta e sostituisce nel processo di circolazione monetaria e delle merci questo «altro», essendone la metamorfosi.

L’oro di per sé (ammesso che ve ne sia) non è denaro. Deve aspettare di diventare denaro. Ma ciò non avviene all’interno della testa, pur se non senza l’aiuto della testa. L’oro, dice Iliénkov, deve ricevere l’ideale. E lo riceve dall’attività oggettivamente pratica, e non da convenzioni. E ciò nasce dal fatto che (Iliénkov cita la Critica) le merci come prezzi sono trasformate in oro solo idealmente e quindi l’oro è trasformato solo idealmente in denaro. Ciò ha dato origine alla teoria della unità di misura ideale del denaro. Siccome nella determinazione del prezzo funzionano solo oro o argento immaginari, e l’oro e l’argento funzionano solo come moneta di conto, è stato affermato che le denominazioni di sterlina, scellino, pence, tallero, franco, ecc., invece di designare parti di peso d’oro o d’argento o un lavoro oggettivato comunque sia, designano piuttosto atomi ideali di valore. Da ciò, dice Iliénkov, si giunse alla conclusione secondo cui i prezzi delle merci sono semplicemente denominazioni di rapporti o di proporzioni, puri segni. In tal modo, i fenomeni economici oggettivi si trasformano in semplici segni, dietro i quali si cela la volontà come loro sostanza, la rappresentazione come «emozione interiore» dell’Io individuale, interpretato nello spirito di Hume e di Berkeley. Esattamente secondo questo schema, dice, gli idealisti contemporanei nella logica trasformano i termini e le enunciazioni (l’involucro verbale dell’immagine ideale dell’oggetto) in semplici denominazioni di rapporti, nei quali sta l‘«emozione» del singolo uomo, che simbolizza l’attività del linguaggio. I rapporti logici (ontologici) si trasformano semplicemente in denominazioni di nessi – in semiologia.

Bisogna prestare attenzione a questi passaggi di Iliénkov. Non sta pronunciando un anatema contro l’idealismo. Non vuole dire, Ecco, signori idealisti, con voi va a finire sempre allo stesso modo, cioè con una svalutazione dell’aldiqua a favore dell’aldilà. Non lancia quest’accusa. E non la lancia perché ci tiene al momento ideale.

L’interrogativo che percorre tutto il libro Logica dialettica riguarda proprio l’ideale, il rapporto tra il sensibile e l’intelligibile, tra la res cogitans e la res extensa. La logica formale, il nominalismo, la semiologia, eccetera, presentano segni dietro i quali si cela la volontà come loro sostanza. Il segno è uno mezzo (signans) che trasporta una sostanza (signatum); una sostanza (un significato) che rimane inalterata, che ha col signans un rapporto arbitrario.

Come mezzo di trasporto del signans, si presta bene tanto l’oro quanto la carta. In quanto mezzo, l’oro trasporta solo atomi ideali di valore, oro o argento immaginari, e in cui l’oro e l’argento funzionano solo come moneta di conto. È stato affermato che le denominazioni di sterlina, scellino, pence, tallero, franco, ecc., invece di designare parti di peso d’oro o d’argento designano piuttosto atomi ideali di valore.

Il signans è il corpo mortale, affetto dalla storia, mentre il signatum è l’anima, immune all trascorrere degli eventi. Il signans è dunque il corpo nel quale il signatum si incarna. Senza questa incarnazione, senza esperienza – e qui sta lo splendore di Hegel – non si produce (produce) alcuna significazione. Il signatum deve avverarsi e ripetersi in un corpo, deve trovare il tempo di incarnarsi, e il tempo lo trova ripetendosi, replicandosi. E può incarnarsi solo in una cosa singolare, esistente, estesa, la quale sta qui, adesso, per se stessa e per il tutto, significa se stessa (in quanto oro), e significa ogni altra merce, e può significare ogni altra merce solo e fintanto che significa se stessa. Questa cosa qui rimane nella sua singolarità, è se stessa, ma è insieme (fa segno) a tutte le altre cose, all’universale.

Ecco la macchina.

Nel § 453 dell’Enciclopedia, Hegel scrive appunto che cogliere questo processo è come cogliere il seme come contenente affermativamente, in una possibilità virtuale, tutte le determinatezze che vengono all’esistenza soltanto nello sviluppo dell’albero.

Una della cose percepite (empiriche), senza cessare di funzionare come singolo corpo sensibilmente percepito, dice Iliénkov, si trasforma in rappresentante di qualsiasi altro corpo, in corpo sensibilmente percepito dell’immagine ideale – sensibilmente sovrasensibile. In altre parole, dice, essa è l’incarnazione esteriore di un’altra cosa, ma non della sua apparenza sensibilmente percepita, bensì della sua essenza, cioè della legge della sua esistenza entro il sistema che in genere crea la situazione analizzata. Sicché, dice, una data cosa si trasforma in un simbolo, il cui significato resta sempre al di fuori della sua apparenza immediatamente percepita, in altre cose sensibilmente percepite e si manifesta soltanto attraverso tutto il sistema dei rapporti delle altre cose con quella data cosa o, viceversa, di quella data cosa con tutte le altre. Se poi si sottrae questa cosa al sistema, ovvero alla struttura di rimandi in cui è inserita, essa perde il suo ruolo – perde il significato; dunque, diventa astratta. Dove astratta significa appunto tratta fuori dalla struttura di rimandi. È questa struttura di rimandi ciò che si chiama materialismo, e non il fatto che il segno si riferisca a un referente esterno, tangibile o meno.

Pertanto, dice Iliénkov, la sua esistenza ed il suo funzionamento in qualità di simbolo non appartenevano ad essa come tale, ma soltanto al sistema entro il quale essa acquista le sue proprietà. Le proprietà che le appartengono per natura non hanno perciò alcun rapporto col suo essere in qualità di simbolo. L’involucro corporeo sensibilmente percepito, il «corpo» del simbolo (il corpo della cosa che è stata trasformata in simbolo) per il suo essere in qualità di simbolo è qualcosa di assolutamente inesistente, fugace, provvisorio; «l’esistenza funzionale» di una tal cosa assorbe completamente, come si esprime Marx, la sua «esistenza materiale». Ed ancora: il corpo materiale della cosa si comporta in accordo con le sue funzioni. Ne consegue che il simbolo si trasforma in segno, cioè in oggetto che di per sé non significa più nulla, ma soltanto rappresenta, esprime un altro oggetto con il quale non ha niente in comune (come la denominazione della cosa con la cosa stessa). In pieno accordo con Hegel, Ilienkov rileva il simbolo nel segno. Ci sarà motivo di cogliere in questo rilevamento tutte le premure di Monsieur le Capital.

II

Iliénkov segue la semiologia che Hegel formula in modo chiaro e pertinente nei paragrafi 453 e seguenti dell’Enciclopedia e nell’Introduzione dell’Estetica, dove descrive ciò che in seguito sarà chiamato Arbitrarietà del segno.

La dialettica della trasformazione della cosa in simbolo, e del simbolo in segno, dice Iliénkov, è osservata nel Capitale sull’esempio dell’origine e dell’evoluzione della forma monetaria del valore.

Il corpo è importante, senza l’esperienza empirica che passa attraverso il copro, non ci sarebbe alcuna epifania del valore.

Ma senza una forma ideale, precisa Iliénkov, l’uomo non potrebbe effettuare lo scambio di materie con la natura, e l’individuo non potrebbe operare con le cose coinvolte nel processo della produzione sociale. L’immagine ideale del pane nasce nella rappresentazione dell’uomo affamato o del fornaio. Senza un’idealizzazione degli oggetti reali, senza la loro trasformazione in ideale, e perciò stesso senza una semiotizzazione, dice Iliénkov, l’uomo non potrebbe essere il soggetto attivo della produzione sociale. L’ideale, che si forma sempre da una scissione preliminare, rimane serrato nella sua potenzialità virtuale. Diventa vero solo nell’esperienza della circolazione. Dunque, la verità non è una coincidenza tra il sensibile e l’intelligibile, non è adaequatio intellectus et rei, in cui sia l’intelletto, sia la cosa, sono già disponibili. Non è una riproposizione della cosa nell’intelletto. L’esperienza è la strada in cui sensibile e intelligibile si producono, emergono, vengono ad essere. Sensibile ed intelligibile non sono dati all’esperienza – non sono i dati dell’esperimento scientifico. Sono dati dall’esperienza.

Con la presenza di un piano ideale di attività, dice Iliénkov, l’uomo si differenzia all’animale, cessa di «fondersi» con la forma della propria attività vitale. L’animale, nel godimento, rimane prigioniero della propria singolarità, non si stacca, è un tutt’uno con la cosa goduta.

Ogni pretesa di rimanere faccia a faccia o core a core – in presenza – attaccati l’uno all’altro, insieme, è la pretesa di vivere la pura singolarità, senza pensarla o significarla. È la pretesa di voler abbracciare l’essere, pretesa che si risolve nell’abbracciare il nulla – rifiuto della mediazione. È la pretesa di vivere un puro vissuto senza mediazione, in un ritorno alla natura che non significa propriamente nulla. È la pretese di ritorno ad una esperienza empirica che finisce sempre nello scetticismo.

È proprio il processo di idealizzazione, dice Iliénkov, che distingue l’uomo dall’animale. L’ideale, dice, è soltanto là dove l’uomo può agire senza toccare e senza modificare sino ad un certo momento l’oggetto reale. L’uomo, e soltanto l’uomo, cessa di «fondersi» con le cose della propria attività vitale, le separa da sé e, ponendosele di fronte, le trasforma in rappresentazioni.

L’uomo è capace di modificare la forma della propria attività (o l’immagine ideale della cosa esterna), senza toccare sino ad un certo momento la cosa stessa. Ma soltanto perché egli può separare da sé l’immagine ideale, oggettivarla e operare con essa come con un oggetto esistente al di fuori di sé. L’ideale può stancarsi dalla testa dell’uomo. Non è legato, stampato, nella sua testa. L’uomo non è cablato.

Ecco la formulazione rigorosa dell’arbitrarietà del segno – la differenza capitale tra simbolo e segno. Differenza che Hegel traccia nella semiologia dellEnciclopedia. Ciò che distingue l’uomo dall’animale è questo: l’animale è cablato, l’animale agisce come una macchina. L’uomo è libero, non patisce la ripetizione. L’animale ripete a pappagallo, l’uomo ragiona. Non c’è bisogno qui di sottolineare l’impianto tradizionale di questa concezione, e di come essa faccia rientrare dalla finestra quell’idealismo cacciato dalla porta.

III

Kant cerca di rendere accessibile alla conoscenza (intelligibile) un essere che, al fondo, sfugge alla conoscenza. Conquista un’universalità indifferente, una somiglianza che si presenta come connotato comune ed è fissata da un segno. Il segno è un nome convenzionale, un’etichetta appiccicata alle cose. Hegel ignora questo limite assoluto. La molteplicità sensibile rinvia all’universalità dell’intelligibile che le è immanente, e si fa essa stessa significato in un essere, l’uomo, che non contempla soltanto le cose e ne è affetto, ma che insieme le determina nella negatività dell’azione. (In questa lettura di Hegel seguo passo passo Hyppolite, Logica ed esistenza).

L’essere dell’uomo, scrive Hegel nella Fenomenologia, è il suo operare. C’è un coinvolgimento di chi parla in ciò di cui parla. Il sapere assoluto, dice Hyppolite, è questo destino universale che dice se stesso come sé identico all’essere, e avviluppa in sé colui che parla e ciò di cui parla, la loro unità e la loro opposizione, l’unità della loro unità e della loro differenza. Non essendo solo significato dato – non essendo un nome convenzionale che sussume una classe di oggetti indifferenti -, non essendo necessario, sottolinea Hyppolite – ma significato generato, significazione di sé, il sapere assoluto presuppone quindi l’uomo che agisce – l’assoluto è soggetto.

L’esserci immediato, il sensibile, è negato, e questa prima negazione permette all’immaginazione di disporre del dato in sua assenza, di evocarlo come assenza. Nell’Enciclopedia (§453) Hegel dice: non è più la cosa stessa ad essere presente, ma io che mi ricordo della cosa e la interiorizzo. Io non vedo più, non sento più la cosa, ma l’ho vista, l’ho sentita. Lo spazio diventa tempo.

Nel §459 dell’Enciclopedia Hegel scrive: L’intuizione, che immediatamente (unmittelbar) è qualcosa di dato e spaziale, una volta impiegata come segno riceve la determinazione essenziale di essere soltanto come intuizione rimossa (aufgehobene).

Perciò la figura autentica dell’intuizione-segno è Esserci (dasein) nel Tempo.

Il tempo è il rilevamento dello spazio – è essenza dello spazio (essenza come essere stato – wesen passato – dello spazio). Il tempo (commenta Derrida, Il pozzo e la piramide), è lo spazio vero, essenziale, passato, quale esso sarà stato pensato, cioè rilevato. Ciò che avrà voluto dire lo spazio, è il tempo.

L’io, dice Hyppolite, negando il sensibile, ancora lo conserva come un’eco, si rappresenta l’assenza, si riferisce a ciò che non è presente in ciò che è presente, a ciò che è presente in ciò che non è presente.

IV

Ritorno all’arbitrarietà del segno. L’intelligibile si fissa nel sensibile. Lo spirito si incarna, si estranea in un corpo sensibile, il valore prende piede nel mondo. Il corpo del segno (oro) diviene il monumento in cui l’anima sarà racchiusa. Ma, innanzitutto, dice Hegel (Enc. §458), l’intuizione ha il valore di rappresentare qualcos’altro. Essa è un’immagine che ha ricevuto entro sé una rappresentazione autonoma dell’intelligenza come anima (Seele), che ha ricevuto, cioè, il suo significato. Questa intuizione, dice, è il segno.

Abbiamo per la prima volta, commenta Derrida, una sorta di intuizione d’assenza o, più precisamente, il mirare a un’assenza attraverso un’intuizione piena. Seguono due Osservazioni nella quali Hegel descrive la sua intera semiologia.

Il segno è una certa intuizione immediata, che rappresenta (Vorstellen) un contenuto affatto diverso da quello che ha per sé.

Derrida fa giustamente notare – lo fa anche Iliénkov – che Vorstellen viene generalmente tradotto con «rappresentare», sia nel senso più vago di rappresentazione intellettuale o psichica, sia nel senso di rappresentazione di un oggetto posto davanti, esposto allo sguardo. Vorstellen, dice Derrida, marca qui allo stesso tempo la deviazione rappresentativa, il ricorso al rappresentante, messo al posto dell’altro, delegato dell’altro e rinviante all’altro. Un’intuizione, dice, riceve qui il mandato di rappresentare, nel suo contenuto proprio, un contenuto del tutto diverso.

Il segno – scrive Hegel nell’Enciclopedia – è una certa intuizione immediata, che rappresenta un contenuto affatto diverso da quello che ha per sé; – è la piramide, nella quale è trasportata, trapiantata, tradotta e si serba un’anima straniera (eine fremde Seele).

Questa istallazione della piramide, dice Derrida, fissa alcune caratteristiche essenziali del segno. Innanzitutto, dice, ciò che si può chiamare, senza abuso né anacronismo, l’arbitrarietà del segno, l’assenza di ogni rapporto naturale di somiglianza, di partecipazione o di analogia fra il significante e il significato.

L’anima depositata nella piramide, dice Hegel, è straniera (fremde). Essa non è fatta della pietra del significante. Niente nella pietra rimanda all’anima che contiene. Non c’è alcuna relazione né per la sua origine né per la sua destinazione tra la pietra e l’anima. Questa eterogeneità, dice Derrida, riporta all’irriducibilità tra anima e corpo, tra sensibile e intelligibile.

Questo rapporto di alterità assoluta tra il significato e il significante distingue il segno dal simbolo.

Noto di sfuggita che l’argomento dell’arbitrarietà del segno applicato al denaro o al valore-lavoro porta dritto alla considerazione della totale estraneità tra lavoro particolare e lavoro in generale (estraneità che si cerca di colmare in vari modi, uno dei quali rimanda alla riduzione e omogeneizzazione che la macchina opera respetto alle prestazioni effettive, eccetera), e alla precedenza accordata alla moneta in quanto unità di conto (cosa che fa Keynes e tutti i seguaci della MMT o del Circuitismo).

A differenza del segno, il simbolo ha con il simboleggiato un rapporto di continuità e partecipazione mimetica o analogica. Nel simbolo – nell’Oro come simbolo della Ricchezzale esistenze sensibili presenti hanno nella loro presenza (Dasein) proprio quel Significato per la cui rappresentazione (Darstellung) ed espressione esse sono impiegate. In questo senso, il Simbolo non è un semplice segno indifferente ma un segno che nella sua esteriorità abbraccia in sé anche il contenuto della rappresentazione (Vorstellung) che esso fa apparire. Al contempo però, dice Hegel, esso deve portare a coscienza non se stesso come questa cosa singolare concreta, ma solo quella quantità universale in sé del significato.

Nel segno, commenta Derrida, il Significato (lo spirito, l’anima, il senso, il valore, eccetera), è più indipendente e più prossimo a se stesso. Con il simbolo, al contrario, esso è un po’ più esiliato nella natura.

Ciò che qui Derrida sottolinea non è tanto l’analogia o la similitudine tra il simbolo e il simbolizzato, quanto invece il suo esilio (fremde) nella natura.

Nell’oro il valore è esiliato nella natura. Nell’Introduzione all’Estetica Hegel dice appunto che il valore (il senso, il significato, l’intelligibile) appare come idealità spaziale. E che solo quando questa idealità spazializzata viene rilevata (nello specifico Hegel parla della poesia che rileva la pittura), e la sensualità è posta negativamente, l’ideale si distacca – risorge – dalla sua prigionia terrena e corporale.

Non si fatica a riconoscere in questa cristologia il circolo di valorizzazione del capitale, il quale si scinde e si fissa in capitale costante e variabile, per poi ritornare capitale arricchito dall’esperienza mondana. Non c’è valorizzazione senza esperienza mondana. Non c’è capitale senza esperienza: D-M-D’. Bisogna far risorgere dalla merce il capitale. Il capitale iniziale, esiliato nella merce, deve staccarsi e tornare arricchito dall’esperienza del viaggio – dell’incarnazione.

Il simbolo trattiene come prigioniero il capitale, e trattenendolo rischia di pervertirlo (svalutarlo, sottovalutarlo, inflazionarlo, deflazionarlo, eccetera). L’ideale (il valore, il senso, il significato, la sostanza, eccetera), rischia di essere corrotto. Si può ricevere meno di ciò che si è investito – si può ricevere niente. Il ritorno – la resurrezione – è solo possibile, e mai necessaria.

Questo genere di simbolo, dice Derrida, non è dunque un semplice segno indifferente. Nel simbolo ne va del significato simbolizzato. Il segno promette un ritorno sicuro. Il simbolo è un po’ più esiliato nella natura, e questo esilio aumenta il rischio di non ritorno economico.

In ogni caso, dice Derrida, al contempo il simbolo deve portare a coscienza non se stesso come questa cosa singolare concreta, ma solo quella qualità universale in sé del significato. L’esigenza di una tale discontinuità tra il significante e il significato (il sensibile e l’intelligibile); l’esigenza di liberasi del corpo (M), di riconquistare la libertà perduta nell’esilio, è l’esigenza de capitale di rintronare a sé, in sé, per sé. La produzione di segni arbitrari manifesta la libertà del capitale. E si manifesta (dice Derrida) più libertà nella produzione del segno che in quella del simbolo.

Iliénkov sorvola questa complicazione. Segue Hegel, e non problematizza il momento del simbolo, il momento dell’esperienza, del non-ritorno, del non guadagno (ROI), della perdita, della distruzione, della distruzione creatrice, della crisi, della sovrapproduzione simbolica, eccetera. Passa oltre, il simbolo è un mezzo, il lavoro è un mezzo per traghettare il capitale, per farlo avverare, eccetera.

Il processo del segno (come il processo del capitale) è un’Aufhebung. L’intelligenza, dice Derrida, è dunque il nome di quel potere che produce un segno negando la spazialità sensibile dell’intuizione. Essa è il rilevamento (Aufhebung) dell’intuizione spaziale. Ora, dice, come mostra Hegel in Enc. §254-60, il rilevamento dello spazio è tempo. Quest’ultimo è la verità di ciò che esso nega – lo spazio – in un movimento di rilevamento. Qui, la verità o l’essenza teleologica del segno come rilevamento dell’intuizione sensibile-spaziale sarà il segno come tempo, il segno nell’elemento della temporizzazione.

Perché il Dasein del tempo, chiede Derrida, è la forma più vera dell’intuizione quale essa si lascia rilevare dal segno? Perché, risponde, il tempo è il rilevamento – cioè in termini hegeliani, la verità, l’essenza (Wesen) come esser-passato (Gewesenheit) – dello spazio. Il tempo è lo spazio vero, essenziale, passato, quale esso sarà stato pensato, cioè rilevato. Ciò che avrà voluto dire lo spazio, è il tempo. Ne consegue, dice, per quanto riguarda il segno, che il contenuto dell’intuizione sensibile (il significante, M) deve cancellarsi, svanire davanti alla Bedeutung, davanti all’idealità significata, pur conservandosi e conservandola; e solamente nel tempo, o piuttosto come il tempo stesso, questo rilevamento può trovare tempo di passare. Ora, chiede ancora Derrida, qual è la sostanza significante più propria a prodursi come il tempo stesso? È il suono, il suono rilevato dalla sua naturalità e legato al rapporto a sé dello spirito – la voce.

Il linguaggio del suono – questa è la preoccupazione (che è la preoccupazione stessa di chi investe il capitale) – si determina, dice Derrida, come rapporto di espressività tra un interno e un esterno. Il linguaggio del suono, dice, la parola, portando l’interno all’esterno, non ve lo abbandona tuttavia semplicemente, come una scrittura. La scrittura non garantisce un ritorno certo (ROI).

La paura per la parola scritta, tanto più quanto essa si dissemina con mezzi telematici – anche un certo odio per la tecnica della scrittura, per la scrittura in quanto tecnica e macchina per la riproduzione del voler-dire, per il fatto che il suo voler-dire, la sua bedeutung, possa distaccarsi dalla sua fonte, dalla sua origine, e arricchire chi non ne è, o reclama di essere, il legittimo proprietario – questa paura capitale, che è paura di perdere la testa perdendo il controllo, è la stessa paura dei capitalisti di perdere l’investimento.

Nel §458 dell’Enciclopedia Hegel parla proprio di questo potere: In quanto singificatrice (Als bezeichnend) l’intelligenza dispiega un più libero arbitrio e signoria (Herrschaft) nell’adoperare l’intuizione che non come simbolizzatrice.

L’idea deve presentarsi, e non può fare a meno di incarnarsi in un corpo, ma una volta presentatasi, deve riprendere il controllo. Non può rimanere esiliata nella natura, in quanto la materialità naturale e corporea trattiene lo spirito, lo ingombra, l’obbliga a uno sforzo di memoria meccanica, lo smarrisce, in una polisemia infinita.

Si deve tornare dall’estraniazione, anche se senza estraneazione non c’è alcun ritorno. Nell’Estetica Hegel descrive la storia dell’arte come progressivo ritorno dall’estraneazione dell’idea nel mondo: architettura, scultura, pittura, poesia.

La pittura rileva la scultura e, rispetto ad essa, è un momento di minore estraneazione e esilio nella materia. Nella luce la natura si manifesta, si mostra, si vede e fa vedere. La luce è la prima idealità. La vista è un senso ideale. È più ideale del tatto e del gusto, i quali hanno bisogno di consumare la cosa per conoscerla. Ma la cosa consumata non ritorna. La prossimità del consumo, prossimità animalesca, non ammette rilevamento (ROI). La vista è un senso ideale. La vista lascia sussistere la cosa, non la consuma. Non consumo, dunque sono. La vista sospende il desiderio, lascia essere le cose, ne riserva o proibisce il consumo. Il visibile ha in comune con il segno, dice Hegel, il fatto che esso non si mangia.

L’udito rileva la vista. È più ideale della vista.

V

La natura alla luce si manifesta, si vede, si fa vedere e si vede essa stessa. In questa prima articolazione riflessiva, dice Derrida, l’inizio dell’idealità è nello stesso tempo inizio della soggettività, del rapporto a sé della natura. La luce, dice Hegel nell’Estetica, è la prima idealità, il primo Sé della natura. Nella luce la natura per la prima volta incomincia a diventare soggettiva.

Se la vista è ideale, l’udito lo è ancora di più. Esso rileva la vista. Gli oggetti materiali – le pitture – persistono nella loro esistenza sensibile e ostinata, aldilà della percezione. Il suono, invece, sparisce. È un’esteriorità che si sopprime nel suo sorgere con la sua stessa esistenza e sparisce in se stesso. Non espone il senso a una deriva. Profferito, ritorna indietro, dal padrone. La parola scritta, invece, non ritorna, persiste nella sua esistenza sensibile.

Una tale superiorità rilevante, spirituale e ideale della fonia fa sì che ogni linguaggio spaziale – e in generale ogni spaziamento – resti, dice Derrida, inferiore ed esterno. Dunque, il simbolo tenendo il senso legato alla sua spazialità corporea, è inferiore al segno. La sua naturalità trattiene lo spirito, lo ingombra. La naturalità del simbolo, dice Derrida, è la condizione della sua polisemia.

Qui per polisemia bisogna intendere il fatto che nella formula D-M-D (o D-M-D’) M non è un mero mezzo. Non trasporta un contenuto (Bedeutung) che transita intatto da un posto ad un altro. Il mezzo si sottrae alla Herrschaft – alla signoria – del capitale. Soggetto alla negazione determinata contesta l’idea di origine e di capitale, di capitale come origine del valore e del senso. Per questo motivo il capitale se la prende con l’estraneazione. Nell’estraneazione il capitale può riprodursi, ma dall’estraneazione bisogna riprendersi. Il sogno è un mezzo che stia in mezzo – una moneta che non esca dalla banca di emissione; una moneta istantanea, una moneta che si sopprime nel momento in cui si usa, una sorta di bitcoin che non entri mai nei portafogli, nemmeno nei portafogli telematici, degli utenti in carne e ossa. Una moneta che rimanga virtuale – una mera possibilità, un miraggio.

L’instabilità oscura del simbolo deriva dal fatto che lo spirito non è ritornato chiaramente e liberamente a sé. La materialità del «significante», dice Derrida, opera del tutto solitaria come «simbolismo incosciente».

Questa cocciuta materialità si ritrova nel simbolismo matematico. Il silenzio di questa scrittura e lo spazio di questo calcolo, dice Derrida, interromperebbero il movimento dell’Aufhebung o, in ogni caso, resisterebbero all’interiorizzazione del passato (Erinnerung), all’idealizzazione rilevante, alla storia dello spirito, alla riappropriazione del logos nella presenza a sé e nella parousia infinita.

Se il passaggio per l’astrazione matematica, per l’intelletto formale, per lo spaziamento, eccetera, continua Derrida, è un passaggio che Hegel riconosce necessario (lavoro del negativo, spoliazione del sensibile), questa necessità diventa perversione e regressione quando viene presa come modello filosofico. È l’atteggiamento inaugurato da Pitagora – dice Derrida. E quando Leibniz sembra farsi impressionare dalla caratteristica cinese, dice, non fa che riallacciarsi alla tradizione pitagorica. Il numero, non essendo fonetico – mantenendo una sua spazialità pittorica – è assolutamente estraneo al concetto, come lo intende Hegel. Esso, dice Derrida, è all’opposto del concetto.

 

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