Non c’è Alienazione. Althusser, Per Marx

Althusser

In una nota (7) all’ultimo capitolo (1963) di Per Marx Althusser chiama finalmente in causa, neanche direttamente, György Lukács e il suo fortunatissimo libro, pubblicato nel 1922, Storia e coscienza di classe. Tutta la teoria, oggi in gran voga, della «reificazione», scrive Althusser nella nota, poggia sulla proiezione della teoria dell’alienazione dei testi giovanili (e particolarmente dei Manoscritti del ’44), sulla teoria del «feticismo» del Capitale. Nei Manoscritti del ’44 l’oggettivazione dell’essenza umana è affermata come la premessa indispensabile alla riappropriazione dell’essenza umana da parte dell’uomo. Durante tutto il processo d’oggettivazione, l’uomo non esiste che nella forma di una oggettività in cui incontra la propria essenza sotto l’apparenza d’una essenza estranea, non umana. Questa «oggettivazione» non è definita «reificazione» benché sia definita «disumana».
Al tempo della stesura di Storia e Coscienza di classe i Manoscritti del ‘44 non erano ancora noti a Lukács. Ne verrà a conoscenza solo nei primi anni Trenta, una volta diventato collaboratore dell’Istituto Marx-Engels di Mosca. Dunque, non si può sostenere che Lukács abbia proiettato la teoria dell’alienazione dei Manoscritti sulla teoria del feticismo del Capitale. In effetti Althusser non attribuisce questa operazione direttamente a Lukács, ma ai suoi numerosi allievi, attivi negli anni Sessanta.
In più, nel 1967, Lukács scrive una Prefazione nella quale rinnega il tema della reificazione. La reificazione, dice Lukács, così come è stata da me trattata in Storia e Coscienza di classe, puzza di idealismo. Solo dopo aver letto i Manoscritti mi sono reso conto dell’errore. Errore, continua Lukács, che avrei potuto evitare leggendo attentamente anche i testi di Marx già pubblicati. È tuttavia un fatto che ciò non accadde, palesemente perché, continua Lukács, lessi queste opere secondo un’interpretazione hegeliana.
Storia e coscienza di classe, soprattutto la Reificazione, risente di una interpretazione hegeliana di Marx. Dopo la lettura dei Manoscritti, la Reificazione viene sottoposta ad una revisione, attraverso le lenti marxiste dei Manoscritti del ‘44. Senonché, dice Althusser, Marx diventa marxista solo nel 1845. Fino al 1844, fino alla stesura dei Manoscritti, anzi, per la precisione, dal 1842, visto che prima del 42 Marx è dominato da un umanismo razionalista liberale vicino a Kant e a Fichte, dal 1842 al 1845 Marx è immerso dalla testa ai piedi nell’umanismo «comunitario» di Feuerbach. All’epoca dei Manoscritti Marx è un feuerbachiano. Pertanto, dando per buona la lettura di Althusser, Lukács avrebbe dapprima commesso l’errore di leggere Marx con le lenti di Hegel, e poi, accortosi dell’errore, avrebbe sostituito le lenti di Hegel con quelle di Feuerbach.
Althusser sostiene non solo che all’epoca dei Manoscritti Marx era un Feuerbachiano, ma che lo stesso Feuerbach, nonostante l’opposizione a Hegel, rimase a tutti gli effetti ancora un hegeliano. Dunque, Lukács sarebbe rimasto sempre – anche nell’autocritica – ostaggio dell’hegelismo.
Non è sufficiente sostituire l’idealismo con il materialismo, Dio con l’uomo, lo Stato con la Comunità, eccetera, per rimettere con la testa in su l’idealismo.
In un sistema strutturale ciò che conta non sono gli elementi singoli. Non sono nemmeno le dichiarazioni singole, le singole prese di posizione, le affermazioni o le prese di distanza. Nemmeno quando queste dichiarazioni o prese di posizione si riferiscono o si indirizzano verso le cose effettivamente designate, quando, per esempio, invocano la rivoluzione e indicano le armi. Nemmeno in questo caso la rivoluzione e le armi assumono di per sé, prese al di fuori della struttura, il significato inteso.
Gli elementi di una struttura, dice Deleuze (Lo strutturalismo), non hanno né designazione estrinseca né significato intrinseco. Cosa rimane? Gli elementi non hanno null’altro che un senso: un senso che è necessariamente e unicamente di «posizione». Gli elementi occupano un posto, il senso deriva dal posto, più che dall’elemento stesso. Non si tratta di un posto in un’estensione reale, né di luoghi in estensioni immaginarie, bensì di posti e luoghi in uno spazio propriamente strutturale, ossia topologico. In breve, dice Deleuze, i posti in uno spazio strutturale sono primi rispetto alle cose e agli esseri reali che vengono a occuparli, e primi anche in rapporto ai ruoli e agli eventi sempre un po’ immaginari che appaiono necessariamente quando essi sono occupati.
Quando Althusser parla di struttura economica, dice Deleuze, precisa che i veri «soggetti» non sono coloro che vengono a occuparne i posti, individui concreti o uomini reali, come i veri oggetti non sono né gli eventi che vi si producono, ma anzitutto i posti in uno spazio topologico e strutturale definito da rapporti di produzione. I posti prevalgono su ciò che li occupa. Padre, madre, ecc., sono prima di tutto luoghi in una struttura, e solo accidentalmente sono occupati da questa madre o da questo padre.
Da questo criterio locale o posizionale, dice Deleuze, derivano molte conseguenze. Se gli elementi non hanno designazione estrinseca né significato intrinseco, ma solo un senso di posizione, bisogna porre in principio che il senso risulta sempre dalla combinazione di elementi che non sono di per sé significanti. Il senso è sempre un risultato, un effetto: non solo un effetto come prodotto, ma anche un effetto ottico, un effetto di linguaggio, un effetto di posizione. Se il posto è primo in rapporto a ciò che lo occupa, non sarà certo sufficiente mettere l’uomo al posto di Dio per cambiare struttura – come pretende di fare Feuerbach, il quale, nonostante l’ostentato materialismo, rimane strutturalmente legato all’idealismo.
Questo stesso criterio strutturale deve essere applicato alla lettura di Marx. Non è sufficiente rinvenire nei Manoscritti gli stessi termini riscontrati nel Capitale per dire che gli appunti inediti del 44 sono un’anticipazione dell’opera maggiore. Non è dagli elementi stessi che si può sperare in una risposta – dice Althusser. L’oggetto del discorso non qualifica il pensiero direttamente. Che io sappia – continua Althusser – non tutti gli autori che hanno parlato delle classi sociali, anzi della lotta delle classi, prima di Marx, sono stati considerati marxisti per il semplice fatto che trattavano di oggetti sui quali si sarebbe un giorno fermata la riflessione marxista. Non è la materia della riflessione a connotare e a qualificare la riflessione, ma, a questo livello, la modalità della riflessione, il rapporto effettivo che la riflessione instaura con i suoi oggetti, ossia la problematica di fondo da cui prende le mosse il pensiero che pensa questi oggetti.
Termini identici, concetti identici, parole d’ordine identiche, formule pressoché simili, innestate in strutture diverse, assumono un senso del tutto differente.
Nei Manoscritti, dice Althusser, troviamo parole chiavi quali: proprietà privata, capitale, denaro, divisione del lavoro, alienazione del lavoratore, emancipazione del proletariato e umanismo che ne costituisce la terra promessa. Parole o concetti che si ritrovano tutti, o quasi, nel Capitale e che si possono perciò accettare come anticipazioni del Capitale, anzi come Il capitale in progetto, meglio ancora come II capitale en pointillé già disegnato, ma a tratteggio, senza la pienezza, pur avendone la genialità, dell’opera compiuta.
Ma le cose non stanno così, e la distanza tra i Manoscritti e il Capitale è enorme. Un giorno, dice Althusser, bisognerà interrogarsi sullo statuto teorico e sulla funzione teorica assegnati al concetto chiave di lavoro alienato, esaminare il campo concettuale di questa nozione, riconoscere che serve bene alla funzione che Marx le assegna nei Manoscritti: la funzione di fondamento originario, ma che non può esercitare questa funzione se non a condizione di riceverla come mandato e come missione da tutta una concezione dell’Uomo che attinge nell’essenza dell’uomo la necessità e il contenuto dei concetti economici che ci sono familiari. Bisognerà insomma, dice Althusser, scoprire sotto parole votate all’imminenza di un senso futuro, il senso che le mantiene ancora prigioniere di un idealismo che esercita su di esse la sua ultima suggestione e i suoi ultimi poteri. E direi che, continua Althusser, sotto questo rapporto, ossia sotto il rapporto di questa radicale predominanza dell’idealismo su un contenuto che ne diverrà ben presto radicalmente indipendente, il Marx più lontano da Marx è proprio questo Marx qui.
Riassumendo, il Marx dei Manoscritti è feuerbachiano dalla testa ai piedi, e tutti i concetti investiti nei Manoscritti sono leggibili, acquistano senso, solo alla luce della problematica di fondo operante nel discorso di Feuerbach. Ciò che opera in questa struttura, e che si riversa pari pari nei Manoscritti, è un umanismo in tutto simile all’idealismo di Hegel.
Bisogna leggere Feuerbach, dice Althusser, per capire i testi dei Giovani hegeliani tra il 1841 e il 1845. In particolare ci si può accorgere di quanto le opere giovanili di Marx siano impregnate del pensiero di Feuerbach. Non soltanto la terminologia marxiana degli anni 1842-44 è feuerbachiana (l’alienazione, l’uomo generico, l’uomo totale, il «rovesciamento» del soggetto in predicato, ecc.), ma, cosa senza dubbio più importante, è feuerbachiano il fondo stesso della problematica filosofica. Articoli come Sulla questione ebraica o la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, dice Althusser, non sono intellegibili che nel contesto della problematica feuerbachiana. Certo i temi della riflessione marxiana superano le preoccupazioni immediate di Feuerbach, ma gli schemi e la problematica teorica sono gli stessi. Marx non «liquidò» veramente, per usare la sua espressione, questa problematica che nel 1845. L’Ideologia tedesca è il primo testo che segni la rottura cosciente e definitiva con la filosofia e con l’influsso di Feuerbach.
Lo studio comparato dei testi di Feuerbach e delle opere giovanili di Marx, dice ancora Althusser, può quindi permettere una lettura storica dei testi marxiani e una migliore comprensione della sua evoluzione.
Tutte le formule dell’«umanismo» idealista di Marx sono formule feuerbachiane – dice Althusser. E indubbiamente Marx non ha fatto che citare, riprendere o ripetere Feuerbach, il quale ha sempre in mente la politica, ma non ne parla quasi mai. Per lui la chiave è sempre nella critica della religione, della teologia, e in quel travestimento profano della teologia che è la filosofia speculativa hegeliana. Il giovane Marx, invece, è ossessionato dalla politica, e dalla realtà di cui la politica non è che il «cielo»: la vita concreta degli uomini alienati. Tuttavia, dice Althusser, nella Questione ebraica, nella Filosofia hegeliana del diritto pubblico, ecc., e il più delle volte anche nella Sacra famiglia, Marx resta solo un feuerbachiano d’avanguardia che applica una problematica etica all’intelligenza della storia umana. Si potrebbe dire che Marx in quel frattempo non fece altro che applicare la teoria dell’alienazione, ossia della «natura umana» feuerbachiana, alla politica e all’attività concreta degli uomini, prima di estenderla, nei Manoscritti, all’economia politica. È importante stabilire chiaramente l’origine di questi concetti feuerbachiani, dice Althusser, non per sistemare tutto con un accertamento di proprietà (questo appartiene a F., questo appartiene a M.), ma per non attribuire a Marx l’invenzione di concetti e di una problematica che egli invece non fa che mutuare altrove. E, più importante ancora, dice ancora Althusser, è riconoscere che questi concetti non suoi non sono stati da lui assunti uno alla volta e separatamente, bensì in blocco, come un tutto: un tutto che è appunto la problematica di Feuerbach. Una problematica che Feuerbach eredita da Hegel e che capovolge. Ma non è sufficiente sostituire l’idealismo con il materialismo, Dio con l’Uomo, lo Stato con la Comunità, eccetera, per rimettere con la testa in su l’idealismo. Se la problematica rimane la stessa in entrambi i discorsi, e tutti i concetti dispiegati occupano le medesima caselle nella stessa logica strutturale, si riproduce il medesimo senso.
La problematica di Feuerbach-Marx è identica a quella di Hegel.
Perché?
E cos’è una problematica?
 
II
 
Hegel, dice Althusser, prende il concetto universale che figura all’inizio del processo – il concetto di «essere» nella Logica, ad esempio – per l’essenza e il motore di questo processo, per «il concetto che genera se stesso».
In che modo avviene questa auto-generazione?
Il modello hegeliano, dice Althusser, richiede un «processo semplice a due contrari». Richiede un’unità originaria semplice (Assoluto, Essere) che si scinde in due contrari. È questa unità originaria a costituire l’unità dilacerata (Dialettica) dei due contrari in cui si aliena, diventando altra pur restando se stessa: questi due contrari non sono che la medesima unità, ma nella dualità, la medesima interiorità, ma nell’esteriorità (ecco perché sono, ciascuno dal proprio canto, la contraddizione e l’astrazione l’uno dell’altro, perché appunto ciascuno non è che l’astrazione dell’altro senza saperlo, essendolo già in sé), prima di ristabilire la loro unità originaria, ma arricchita (Aufhebung) della sua stessa dilacerazione, della sua alienazione, nella negazione di quell’astrazione che negava la loro unità anteriore: allora saranno di nuovo Uno, avendo ricostituito una nuova «unità» semplice, ricca del lavoro passato della loro negazione, nuova unità semplice di una totalità, prodotto della negazione della negazione. Vediamo, continua Althusser, che l’implacabile logica di questo modello hegeliano collega rigorosamente tra loro i concetti di semplicità, essenza, identità, unità, negazione, scissione, alienazione, opposti, astrazione, negazione della negazione, superamento (Aufhebung), totalità, semplicità, ecc. La dialettica hegeliana è tutta qui: ossia tutta quanta sospesa a questo presupposto radicale di un’unità semplice, che si evolve nel suo stesso seno in virtù della negatività, e non ristabilisce mai, in tutto il suo sviluppo — ogni volta nella forma di una totalità più «concreta» — che questa unità e questa semplicità originarie.
All’inizio c’è l’Uno (l’Essere in Hegel, l’Uomo in Feuerbach, il Proletario in Marx). Il Processo (la Storia) comincia con una spinta dilacerante, con una divisione (Dialettica) in cui l’Uno si divide, si scinde, diventa negativo (l’alienazione – l’Uomo che si aliena nella religione; il Proletario che si aliena nel lavoro, che diventa cosa lavorata contrapposta al lavoratore che l’ha creata), si contraddice, e si chiude con un ritorno (negazione della negazione), con un recupero (aufhebung) del sé alienato, tale da ricostituire l’unità semplice originaria, arricchita della storia della sua alienazione.
Come si può intuire, questo struttura hegeliana, anche se capovolta, come lo è in Feuerbach o nel Marx dei Manoscritti; anche quando le caselle occupate da coscienza, autocoscienza, ragione, spirito, religione, filosofia, sono capovolte e svuotate e nuovamente riempite con concetti materialisti, economici, socialisti o comunisti, questa struttura risponde alla medesima esigenza, alla stessa problematica.
 
III
 
Althusser riprende da Jacques Martin il concetto di problematica e da Gaston Bachelard il concetto di rottura epistemologica. Questi due concetti sono usati per costruire una Teoria della Storia delle formazioni teoriche. Questa Teoria della Storia dei Sistemi di Pensiero era necessaria per cogliere le differenze tra una formazione e un’altra, tra una struttura e un’altra. In particolare una tale teoria è stata utile per definire la differenza tra la struttura hegeliana e quella marxista. Senza la Teoria di una storia delle formazioni teoriche, dice Althusser, non si potrebbe in effetti cogliere e definire la differenza specifica che distingue due formazioni teoriche diverse. Il concetto di problematica designa appunto l’unità specifica di una formazione teorica e di conseguenza fissa il luogo di questa differenza specifica. Questa unità specifica non ha nulla a che vedere con la totalità hegeliana.
La totalità hegeliana, dice Althusser, è lo sviluppo alienato d’una unità semplice, d’un principio semplice, esso stesso momento dello sviluppo dell’Idea: non è dunque, rigorosamente parlando, che il fenomeno, la manifestazione di sé di questo principio semplice, che persiste in tutte le sue manifestazioni, quindi anche nell’alienazione che ne prepara la ricostituzione. Quest’unità d’una essenza semplice che, continua Althusser, si manifesta nella sua alienazione, ha come risultato che tutte le differenze concrete che figurano nella totalità hegeliana, ivi comprese le «sfere» distinguibili in questa totalità (società civile, Stato, religione, filosofia, ecc.), tutte queste differenze sono negate non appena affermate, poiché non sono nient’altro che i «momenti» dell’alienazione del principio interno semplice della totalità, che si realizza negando le differenze alienate che pone; anzi queste differenze sono (in quanto alienazioni — fenomeni — del principio interno semplice) tutte ugualmente «indifferenti», ossia praticamente uguali davanti ad esso, dunque uguali tra loro, il che spiega perché in Hegel nessuna contraddizione determinata sia mai dominante. La totalità hegeliana, dice ancora Althusser, possiede un’unità di tipo «spirituale», tutte le differenze non sono poste che per essere negate (differenze indifferenti, quindi), non esistono mai per se stesse, e non avendo che l’apparenza di un’esistenza indipendente e non manifestando mai altro che l’unità del principio semplice interno che si aliena in esse, sono praticamente tutte uguali tra loro quale fenomeno alienato di questo principio. Il che significa dunque affermare che la totalità hegeliana:
1) non è realmente ma solo apparentemente articolata in «sfere»;
2) che non ha come unità la sua complessità stessa, ossia la struttura di questa complessità;
3) che essa è quindi sprovvista di quella struttura a dominante che è la condizione assoluta che consente a una complessità reale di essere unità e di essere realmente oggetto di una pratica che si proponga di trasformare questa struttura: la pratica politica.
Nella totalità hegeliana le differenze (i differenti) sono momenti del principio semplice. Non sono vere e proprie differenze, sono tutte uguali di fronte a questo principio semplice, dunque sono uguali l’una rispetto all’altra, non esistono mai per se stesse. Il principio semplice produrrà successivamente, attraverso la propria autoevoluzione, tutta la complessità del processo, senza però mai perdervisi, senza mai perdervi né la sua semplicità né la sua unità, poiché la pluralità e la complessità non saranno mai che il suo «fenomeno», destinato a manifestare la sua essenza.
Al contrario, nell’Unità strutturale ogni contraddizione lo è di un tutto complesso strutturato a dominante – dice Althusser. Non si può pensare il tutto complesso fuori delle sue contraddizioni, fuori del loro rapporto fondamentale di disuguaglianza. In altre parole, continua Althusser, ogni contraddizione, ogni articolazione fondamentale della struttura e il rapporto generale delle articolazioni nella struttura a dominante, costituiscono altrettante condizioni di esistenza del tutto complesso. Questa affermazione è di primissima importanza. Essa infatti significa che la struttura del tutto, dunque la «differenza» tra le contraddizioni essenziali e la loro struttura a dominante, è resistenza stessa del tutto; che la «differenza» tra le contraddizioni (che vi sia contraddizione principale, ecc.; e che in ogni contraddizione vi sia un aspetto principale) fa tutt’uno con le condizioni di esistenza del tutto complesso. Le contraddizioni «secondarie», dice Althusser, non sono il puro fenomeno della contraddizione «principale», la principale non rappresenta l’essenza di cui le secondarie sarebbero i fenomeni, di cui sarebbero così bene i fenomeni che praticamente la contraddizione principale potrebbe esistere senza le secondarie, o senza l’una o l’altra di esse, oppure prima o dopo. Essa implica invece che le contraddizioni secondarie sono essenziali all’esistenza stessa della contraddizione principale, che ne costituiscono realmente la condizioni d’esistenza, così come la contraddizione principale costituisce la loro condizione d’esistenza.
Gli elementi contraddittori sono forze che che si fronteggiano in campo, e il senso è un sintomo delle forze, un differenziale tra gli elementi che si fronteggiano (Nietzsche). L’essenza non è una e alienata, e di cui bisogna riappropriarsene. Non vi è una contrapposizione tra positivo e negativo. La forza non è reattiva, la forza principalmente afferma se stessa. È accidentale che essa neghi altre forze. La forza afferma la propria differenza, afferma se stessa. Quest’idea si oppone al lavoro del negativo. Una forza reattiva e conservativa comporta di avere la propria essenza non in ciò che è ma in ciò che nega.
Nell’Unità strutturale non c’è mai una sola forza, un principio unico, vi è senso poiché vi è pluralismo. Il fatto che ci sia senso vuol sempre dire che ci sono più sensi, corrispondenti alle forze chi si oppongono.
In una struttura anche l’uomo è un elemento, e come ogni elemento è situato in un angolo, e da quest’angolo non può abbracciare il tutto. Soprattutto, il tutto non è una sua emanazione, una sua alienazione.
Ogni elemento proietta la sua azione in tutta la struttura. Si tratta di elementi dinamici, in un rapporto di tensione con tutti gli altri elementi dinamici: la cui essenza consiste nella loro relazione con tutti gli elementi, nel loro «agire» su di loro.
La semplicità, dice Althusser, non è dunque un universale originario: è anzi il tutto strutturato ad assegnare il suo significato alla categoria semplice e a produrre a volte, alla fine di un lungo processo e in condizioni eccezionali, l’esistenza economica di certe categorie semplici. In ogni caso siamo in un mondo estraneo ad Hegel.
Il semplice, Continua Althusser, non esiste mai se non in una struttura complessa; l’esistenza universale di una categoria semplice non è mai originaria, non appare che alla fine di un lungo processo storico, come il prodotto di una struttura sociale estremamente differenziata. Non abbiamo quindi mai a che fare, nella realtà, con l’esistenza pura della semplicità, sia essa essenza o categoria, ma con l’esistenza di « concreti », di esseri e di processi complessi e strutturati. Un principio fondamentale questo che rifiuta per sempre la matrice hegeliana della contraddizione.
Prendiamo l’esempio di quella totalità complessa strutturata che è la società – dice Althusser. I «apporti di produzione» non vi figurano come il puro fenomeno delle forze di produzione; ne sono anche la condizione di esistenza; la sovrastruttura non è il puro fenomeno della struttura, ne è anche la condizione d’esistenza. Lo si desume dal principio stesso enunciato da Marx: che in nessun luogo esiste produzione senza società, ossia senza rapporti sociali; che l’unità, oltre la quale è impossibile risalire, è quella di un tutto in cui, se i rapporti di produzione hanno appunto come condizione di esistenza la produzione stessa, la produzione ha anch’essa come condizione di esistenza la sua forma: i rapporti di produzione. Attenzione qui a non equivocare, ammonisce Althusser. Questo condizionamento di esistenza delle «contraddizioni» le une ad opera delle altre, non annulla la struttura a dominante che regna sulle contraddizioni e all’interno di esse (nella fattispecie la determinazione in ultima istanza da parte dell’economia). Questo condizionamento non sfocia, nella sua apparente circolarità, nella distruzione della struttura a dominante che costituisce la complessità del tutto e la sua unità. Al contrario, esso rappresenta nell’interno stesso della realtà delle condizioni d’esistenza di ogni contraddizione, la manifestazione di questa struttura a dominante che fa l’unità del tutto. Questo riflettersi delle condizioni d’esistenza della contraddizione nel suo interno stesso, questo riflettersi della struttura articolata a dominante, che costituisce l’unità del tutto complesso, all’interno di ogni contraddizione, è – dice Althusser – il connotato più profondo della dialettica marxista, quello che ho tentato di cogliere con il concetto di «surdeterminazione»
Ecco spiegato il perché non è dagli elementi stessi che si può sperare in una risposta. Non è analizzando i singoli elementi, uno per uno, che si può arrivare ad intenderli. Un singolo elemento, in sé, non significa niente. Quando si estraggono dai Manoscritti una serie di elementi e si verifica che questi stessi elementi sono presenti anche nel Capitale, niente autorizza a dire che questi elementi hanno lo stesso significato nei due diversi testi. L’oggetto del discorso non qualifica il pensiero direttamente. A qualificare il pensiero è la problematica. Ma la problematica di un pensiero, dice Althusser, non si limita alla cerchia degli oggetti che il suo autore ha indagato. Ecco perché l’antropologia di Feuerbach può diventare la problematica non soltanto della religione (Essenza del cristianesimo) ma anche della politica (Sulla questione ebraica, il Manoscritto del ’43) e persino della storia e dell’economia (i Manoscritti del ’44), senza smettere di restare sostanzialmente una problematica antropologica, anche quando la «lettera» di Feuerbach è abbandonata e superata.
 
IV
 
Nei Manoscritti, nonostante la lettera di Feuerbach sia abbandonata, nonostante il cosiddetto rovesciamento, nonostante la distanza da Hegel e tutto il resto, Marx non è ancora un marxista.
Tutto ciò che nei Manoscritti si presenta come una critica a Hegel, dice Althusser, non è nient’altro, nei suoi principi teorici, che la ripresa, la spiegazione oppure lo sviluppo e l’ampliamento della geniale critica a Hegel formulata in vari testi da Feuerbach. È una critica della filosofia hegeliana come speculazione, come astrazione, una critica condotta in nome dei principi della problematica antropologica dell’alienazione: una critica che si appella, contro l’astratto-speculativo, al concreto-materialista, ossia una critica che resta schiava della stessa problematica idealista di cui si vuole liberare, una critica che appartiene di diritto alla problematica teorica con cui Marx romperà solo nel ’45.
Bisogna fare attenzione a questa passaggio. Perché se si assume la critica condotta nei Manoscritti come una critica effettivamente marxista, si rischia di attivare Feuerbach e di leggere tutta l’opera di Marx con la lente dell’Umanismo e del lavoro alienato. A questo punto la storia apparirà come l’estrinsecarsi dell’uomo vero nell’uomo alienato.
Nei prodotti alienati del suo lavoro (merci, Stato, religione) l’uomo, senza saperlo, realizza l’essenza dell’uomo. Questa perdita dell’uomo che produce la storia e l’uomo, suppone un’essenza preesistente definita. Come in Hegel, si parte sempre da un’essenza piena, predefinita, che si perde e che alla fine del periplo si ritrova. Al termine della storia, dice Althusser, quest’uomo predefinito, divenuto oggettività disumanizzata, non avrà che da riprendere possesso, come soggetto, della propria essenza alienata nella proprietà, nella religione e nello Stato, per diventare uomo totale, uomo vero. Alla Fine si ritrova ciò che vi era all’Inizio (Teo-teleologia). L’origine non fa altro che crescere in se stessa e produrre in sé la propria fine, attraverso la sua alienazione.
La rivoluzione, dice Althusser, non sarà più soltanto politica (riforma liberale-razionale dello Stato) ma «umana» («comunista») per restituire all’uomo la sua natura, alienata nella forma mitica del denaro, del potere e degli dèi. Questa rivoluzione sarà allora opera comune della filosofia e del proletariato, poiché nella filosofia l’uomo è affermato teoricamente, nel proletariato è negato praticamente. La penetrazione della filosofia nel proletariato sarà la rivolta cosciente dell’affermazione contro la sua negazione, la rivolta dell’uomo contro le sue condizioni disumane. Il proletariato, dice Althusser, negherà allora la sua propria negazione e prenderà possesso di sé nel comunismo. La rivoluzione è la pratica stessa della logica immanente dell’alienazione: è il momento in cui la critica, fino allora disarmata, riconosce le sue armi nel proletariato. Essa dà al proletariato la teoria di ciò che è: il proletariato le dà in cambio la sua forza armata, un’unica e medesima forza in cui ciascuno non si allea che con se stesso. L’alleanza rivoluzionaria del proletariato e della filosofia si suggella dunque, anche in questo caso, nell’essenza dell’uomo.
 
V
 
Dal 1845, dice Althusser, Marx rompe radicalmente con ogni teoria che fonda la storia e la politica su un’essenza dell’uomo. Questa rottura unica comporta tre aspetti teorici indissociabili:
 
1. Formazione di una teoria della storia e della politica fondata su concetti radicalmente nuovi, cioè su concetti quali: formazione sociale, forze produttive, rapporti di produzione, sovrastruttura, ideologie, determinazione in ultima istanza ad opera dell’economia, determinazione specifica degli altri livelli, ecc.
2. Critica radicale delle pretese teoriche di ogni umanismo filosofico.
3. Definizione dell’umanismo come ideologia.
 
Ciò che il marxismo rifiuta, dice Althusser, è la pretesa filosofica di collimare totalmente con un’«origine radicale», qualunque ne sia la forma (la tabula rasa, punto zero di un processo; lo stato di natura; il concetto di cominciamento che è per esempio in Hegel l’essere immediatamente identico al niente; la semplicità che è sempre in Hegel ciò attraverso cui [ri]comincia indefinitamente ogni processo, ciò che ricostituisce di continuo le proprie origini, ecc.); esso respinge così l’esigenza filosofica hegeliana che riconosce un’unità semplice originaria (ripetuta ad ogni momento del processo), la quale produrrà successivamente, attraverso la propria autoevoluzione, tutta la complessità del processo, senza però mai perdervisi, senza mai perdervi né la sua semplicità né la sua unità, poiché la pluralità e la complessità non saranno mai che il suo «fenomeno», destinato a manifestare la sua essenza.
Il rifiuto di questo presupposto non si riduce, mi rincresce dirlo ancora una volta, dice Althusser, al suo «rovesciamento». Il presupposto hegeliano non viene «rovesciato», viene soppresso: soppresso tout court (e non nel senso dell’Aufhebung che «conserva» ciò che sopprime…) e sostituito da un presupposto teorico totalmente diverso, che non ha niente a che vedere col primo. Al posto del mito ideologico di una filosofia dell’origine e dei suoi concetti organici, il marxismo stabilisce come principio il riconoscimento della struttura complessa di ogni «oggetto» concreto, struttura che condiziona lo sviluppo dell’oggetto e lo sviluppo della pratica teorica che produce la sua conoscenza. Non ci troviamo più di fronte a un’essenza originaria, dice Althusser, ma a un sempre-già-dato, che risale indietro per quanto la conoscenza può scavare nel proprio passato. Non abbiamo dunque più un’unità semplice ma un’unità complessa strutturata; non abbiamo dunque più (qualunque ne sia la forma) una unità semplice originaria, ma il sempre-già-dato d’una unità complessa strutturata. È chiaro che, se le cose stanno così, dice Althusser, la «matrice» della dialettica hegeliana è bandita, e che le sue categorie organiche, in ciò che hanno di specifico e di positivamente determinato, non possono sopravviverle a titolo teorico, in particolare quelle nelle quali «si traduce» il tema dell’unità semplice originaria, ossia la «scissione» dell’Uno, l’alienazione, l’astrazione (in senso hegeliano) che unisce gli opposti, la negazione della negazione, l’Aufhebung, ecc.
La filosofia anteriore idealista, dice Althusser, poggiava su una problematica della natura umana, per la quale 1) esiste un’essenza universale dell’uomo e 2) questa essenza è attributo dei singoli individui che ne sono i soggetti reali.
Questi due assunti, dice Althusser, sono complementari e indissociabili, e presuppongono una concezione empiristico-idealista del mondo. Affinché l’essenza dell’uomo sia attributo universale (1) bisogna che esistano i soggetti concreti come dati assoluti (2): il che implica un empirismo del soggetto. Dopodiché, affinché questi individui empirici siano uomini, bisogna che ciascuno di essi porti in se stesso, di fatto e di diritto, tutta l’essenza umana. Il che implica un idealismo dell’essenza. L’empirismo del soggetto implica dunque l’idealismo dell’essenza e viceversa. Questo rapporto può rovesciarsi nel suo «contrario»: empirismo del concetto, idealismo del soggetto. E ciononostante tale capovolgimento rispetterebbe la struttura fondamentale di questa problematica, la quale rimarrebbe fissa.
In questa struttura-tipo, dice ancora Althusser, è riconoscibile non soltanto il principio fondamentale delle teorie della società (da Hobbes a Rousseau), delle teorie dell’economia politica (da Petty a Ricardo), della morale (da Descartes a Kant), ma anche il principio stesso della «teoria» idealista e materialista (premarxista) «della conoscenza» (da Locke a Feuerbach, passando attraverso Kant). Il contenuto dell’essenza umana o dei soggetti empirici può variare (come si può vedere da Descartes a Feuerbach); il soggetto può passare dall’empirismo all’idealismo (come avviene da Locke a Kant); ma i termini che sono di fronte e il loro rapporto variano solo all’interno di una struttura-tipo invariante, che costituisce questa stessa problematica: ad un idealismo dell’essenza corrisponde sempre un empirismo del soggetto (o ad un idealismo del soggetto un empirismo dell’essenza).
Marx, continua Althusser, rifiuta tutto questo sistema organico di postulati. E bandisce le categorie filosofiche di soggetto, empirismo, essenza ideale, ecc. da tutti i campi in cui regnavano. Non soltanto dall’economia politica (rifiuto del mito dell’homo oeconomicus, ossia dell’individuo in quanto soggetto dell’economia classica, con facoltà e bisogni ben definiti); non soltanto dalla storia (rifiuto dell’atomismo sociale e dell’idealismo politico-etico); non soltanto dalla morale (rifiuto dell’idea morale kantiana), ma anche dalla filosofia stessa: il materialismo di Marx esclude infatti l’empirismo del soggetto (e il suo rovescio: il soggetto trascendentale) e l’idealismo del concetto (e il suo rovescio: l’empirismo del concetto).

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