Braudel: l’Italia Levantina

Venezia

 

Scritto nel 1949 «Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II» è il grande trattato di geopolitica. Oggi, se non la butti in geopolitica, non sei chic. Negli anni 50 del secolo scorso la geografia politica era appannaggio di uno sparuto gruppo di strutturalisti. Dunque, aprire il libro di Braudel e leggere – alla prima riga – che questa prima parte del gran libro di storia si pone sotto la geografia è davvero sorprendente.
La geografia ha a che fare con limiti e confini. Soprattutto una geografia strutturale, dove il limite gioca il ruolo che in un quadro tradizionale di storia-battaglia gioca il centro. Il confine permette il gioco delle permutazioni, decide della strutturalista della struttura.
Il grande limite che in questo sorprendete libro di storia permette le permutazione è costituito dal Mediterraneo. Ma dove comincia, e dove finisce il Mediterraneo? Qui le cose si complicano. Questo capitolo (il terzo, I confini), dice Braudel, solleva molte difficoltà. Perché, intanto, dice, bisogna respingere i limiti abituali. Quelli dei geografi, i più familiari, i più ristretti. Per essi il Mediterraneo si estende dal limite dell’olivo al Nord a quello dei grandi palmeti al Sud. Col primo olivo incontrato venendo dal Nord si toccherebbe il Mare Interno; lo si lascerebbe, per il Sud, col primo palmeto compatto. Significa, dice, dare il primato al clima, artiere decisivo, certo, della vita degli uomini. Ma in questo gioco, dice, il nostro più Grande Mediterraneo scompare.
Non lo si vede nemmeno seguendo le linee tracciate dei geologi. Per essi il Mediterraneo è quell’interminabile fuso tirato dall’Atlantico all’Oceano Indiano, in cui, dice, si associano fratture tettoniche e corrugamenti recenti.
Per i biogeografi, invece, dice, il Mediterraneo è lo stretto dominio in cui si ritrovano certe piante e certi animali, dalle Azzorre alla lontanissima valle del Kashmir.
Per le esigenze dello storico, queste delimitazioni, dice Braudel, non sono pertinenti. Il Mediterraneo non può essere altro che una zona compatta, regolarmente prolungata aldilà delle coste e in tutte le direzioni a un tempo. Esso rievoca un campo di forze, magnetico o elettrico, o più semplicemente un fuoco luminoso la cui luce va sempre digradando senza che sia possibile indicare con una linea segnata una volta per tutte il confine tra l’ombra e la luce.
Quali frontiere tracciare, chiede Braudel, quando si tratta non più di piante o di animali, del rilievo o del clima, bensì di uomini, non fermati da nessun limite, che superano tutte le barriere? Quando sia le piante sia gli animali, sono trapiantati o innestati in altri territori, e i territori stessi sono trasformati scavando canali artificiali e tunnel, laghi, invasi, dighe, ponti, strade, reti che connettono ciò che era sconnesso e invalicabile? Il Mediterraneo (e il più Grande Mediterraneo che lo accompagna) è quale lo fanno gli uomini.
Dunque, si torna agli uomini. Gli uomini fanno la propria storia, dice Marx nel 18 Brumaio, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé. Eppure non siamo in presenza di un umanismo.
È la differenza di voltaggio a creare le correnti – dice Braudel nel capitolo precedente, a pagina 133. Quanto più grande è il dislivello tanto più le correnti sono necessarie. L’Oriente ha bisogno di associarsi alle superiorità dell’Occidente, di prenderne la sua parte, a qualsiasi costo: va alla ricerca dei metalli preziosi d’Occidente, ossia dell’argento d’America; e gli occorre seguire i progressi della tecnica europea. Reciprocamente, l’industria occidentale, che sta sviluppandosi, ha bisogno di esportare le sue eccedenze. Ogni cosa fu messa in moto e comandata da lontano proprio da questi bisogni profondi, da queste rotture e ristabilimenti d’equilibrio, da questi scambi forzati. Sono queste differenze di forza, di voltaggio, che mettono in circolazione uomini e i beni tangibili o immateriali, disegnando attorno al Mediterraneo frontiere successive, aureole. Dunque, dice Braudel, bisogna parlare di cento frontiere: alla misura le une della politica, le altre dell’economia o della civitas.
Quando Goethe giunse in Italia, dice, il suo incontro con il Mediterraneo, nonostante ciò che ne disse, non avvenne soltanto al passaggio del Brennero o poi dell’Appennino toscano. Non aveva già coinciso, più a nord, con l’arrivo a Ratisbona, posto avanzato del cattolicesimo su quella grande frontiera culturale che è il Danubio? O, ancora più a nord, con la partenza da Francoforte, la città del Roemer?
La differenza crea correnti, e le correnti tracciano aureole concentriche, che non si fissano, ma digradano, si allargano, si disperdono, come cerchi formati dall’acqua al contatto con un sasso. Ecco che il Mediterraneo si allarga, assume la consistenza di queste linee mobili, si ritrova sin dove esse arrivano – tautologia meravigliosa, che dice come Goethe avrebbe potuto trovare il Mediterraneo alla fine del Mondo, sin dove avrebbe potuto posare il piede, fino al confine stesso: Mediterraneo è il nome stesso del confine, di un confine che non ha confini – sconfinato.
Il Mediterraneo, dice Braudel, è attirato verso zone desolate e a sua volta le attira: il suo paradosso, la sua originalità sta nello stendere un’enorme massa liquida al margine di un continente desertico e persino di insinuarla nella massa stessa di questo, attraverso il Mar Rosso e l’Oceano Indiano.
Il Mediterraneo, come il capitalismo, non conosce confini, anzi, è condannato a cancellare i confini che istituisce o che gli si impongono.
È la strutturalità della struttura che qui si prende gioco del confine. L’identità del Mediterraneo si forma a partire dalla non identità. La presenza dei confini assume consistenza a partire dalla non presenza: il confine, come in una progressione infinita, si sposta, non riposa, si allarga, non è mai veramente il confine, non trova mai in sé, presso di sé, ciò che è, ma sempre in qualcos’altro, nell’altro. Qui è il concetto di differenza ad assumere il controllo. E chi più del nomade, del migrante, del fuggiasco, del Queer può essere il segno, anzi, il simbolo, di questo ampio movimento che spinge dalle steppe verso il mare e poi dal mare verso il deserto?
Il nomade, chiede Braudel, non potrebbe essere una delle grandi leggi della storia mediterranea, o se si preferisce, uno dei suoi ritmi?
Ecco la parola giusta: ritmo. Mediterraneo è ritmo, movimento.
Pretendere che, dice Braudel, un certo mediterraneo globale interessi, nel secolo XVI, tanto le Azzorre o le rive del Nuovo Mondo quanto il Mare Rosso e il Golfo Persico, tanto il Baltico quanto la grande ansa del Niger, significa vederlo come uno spazio-movimento troppo estensibile. Significa, aggiungo io, perdere proprio ciò che si pretende di cogliere, oppure arrendersi a una prossimità empirica, instabile, precaria, convenzionale, relativa, inefficace, contestabile, eccetera.
In vicinanza del Mediterraneo, dice Braudel – ma dove collocare questa prossimità, come misurarla? – la linea divisoria, facile a tracciarsi – anche se, non appena la si
traccia, si sposta, avanza -, coincide con il limite nord della lunga zona puntiforme dei palmeti compatti, che corre da est a ovest, quasi senza interruzione, dal Panjab, attraverso l’Iraq, la Siria, il basso Egitto, la Tripolitania, e i vari punti meridionali dell’Atlante, fino all’Oceano Atlantico. Come limite sommario, dice Braudel, questa linea vale quanto quella che si potrebbe dedurre dagli indici di aridità. Dunque, non vale niente. È, appunto, una linea sommaria, empirica, precaria, relativa, una comodità.

 

L’Italia Levantina

L’Adriatico, dice Braudel, è il golfo veneziano, ma più sicuramente, nel secolo XVI, è lo spazio dell’italianità trionfante. Ciò non vuol dire che la Dalmazia sia diventata «italiana» – ma poi, cosa vuol dire «italiana» nel XVI secolo? -, tutto il retroterra, dice, è oggi di popolazione slava, e tale era nel XVI secolo.
A Ragusa (Dubrovnik),
dice Braudel, l’italiano era una comodità. Era la lingua veicolare di tutto il Mediterraneo. Ma, dice, era anche moda e snobismo. Non solo le grandi famiglie desiderano che i loro figli vadano a studiare a Padova, che i segretari della repubblica siano buoni italianisti quanto latinisti (i documenti di Ragusa sono quasi sempre in lingua italiana), ma le famiglie dominanti, padrone del commercio e della politica, si fabbricano senza esitare genealogie italiane. E ciò, dice, sebbene queste orgogliose gentes discendano da qualche Slavo della montagna, e i nomi italianizzati tradiscano origini slave, e la montagna non cessi di inviare i suoi uomini alla costa, e lo slavo sia la lingua corrente, familiare, la lingua delle donne e del popolo, e in fin dei conti della stessa élite, poiché si può leggere, ripetuto varie volte nei registri di Ragusa, l’ordine formale di parlare italiano alle assemblee dei rettori. Un po’ come succede oggi nelle università italiane dove l’inglese è diventato o sta diventando la lingua con la quale si tengono i corso e si scrivono i paper, sotto il ricatto o la pressione – la forza – di una lingua, l’inglese, che riproduce il suo speech act, impedendo al casalingo, al montanaro, al popolino caprone, di avere una dotazione nostrana di concetti con cui pensare o riprodurre la propria esistenza di stanziale. Forse aveva ragione Heidegger, quando diceva che il tedesco è la sola vera lingua filosofica, e ciò perché, ma questo Heidegger si è guardato bene dal dirlo, questa lingua ha iniziato a costruire il suo successo con Wolff, allievo di un Leibniz che amava scrivere in francese e più spesso in latino, perché i tarlùcchi tedeschi non erano e non potevano essere i suoi interlocutori. Non ci sono idee o pensieri che possano essere generati senza parole – mettetevi l’anima in pace, potete pensare sin dove arriva il vostro vocabolario!
A
Zara, a Spalato, nell’isola di Cherso, anche altrove, dice Braudel, i maestri di suola, i notai, i preti, gli uomini d’affari, persino i Giudei, sono italiani emigrati sull’altra sponda: portatori e artigiani della civitas italiana che qui mette radici.
L’
Adriatico non è solo italiano, è soprattutto la rotta del Levante, di traffici e di rapporti antichi. L’Adriatico si allunga e si sbilancia verso Oriente, pende, scivola e rischia il collo, ritorna carico di spezie e droghe.
L’Islam, invece, è
il deserto. La sua durezza ascetica, dice Braudel, la sua devozione al sole implacabile, è principio unitario di miti, vissuto nelle zone rivierasche, nei sahel, in questi margini di vita sedentaria installati di fronte al Mediterraneo, lungo il Golfo Persico, l’Oceano Indiano e il Mar Rosso, e al contatto con le regioni sudanesi. Tutto ciò è Islam, dice Braudel: una lunga strada che, dall’Atlantico al Pacifico, passa attraverso la possente e rigida massa del Vecchio Mondo. Roma non ha fatto di più, quando costituì l’unità del Mediterraneo.
L’Islam è
dunque quel caso storico che, dal secolo VII, ne fa l’unificatore del Vecchio Mondo. Tra le masse dense di uomini, dice Braudel, esso detiene i passaggi obbligati e vive della sua funzione vantaggiosa di intermediario. Nulla passa che esso non voglia o non tolleri. Per questo mondo solido, nel cui centro manca la flessibilità delle larghe vie marittime, l’Islam è ciò che sarà più tardi l’Europa trionfante su scala mondiale: un’economia, una civitas dominanti.
Pagherà il suo successo. L’Islam, dice Braudel, rimarrà prigioniero di quel sentimento confortevole di essere al centro del mondo. L’Europa, dislocandosi, trovando il centro dappertutto, farà del suo nomadismo capitalista la sua arma vincente, della sua debolezza o del suo pensiero debole,
del suo essere Queer, la sua forza. Perché, Braudel lo dice chiaramente, qui non bisogna sostanzializzare le forze, non ha alcun senso parlare del più forte e del più debole, il debole è tanto necessario, dunque tanto forte, quanto il forte stesso: è la differenza di voltaggio a creare le correnti. Il centro non funziona – per questo Roma cade e l’Islam perde il treno della storia.
Il giocatolo strutturalista
oscilla tra due poli – è multipolare. Dà aria al sentimento di nostalgia per il bipartitismo DC-PCI, che, secondo alcuni, è stato, appunto, il motore della democrazia italiana, o alla nostalgia per la guerra fredda, vero propulsore del Welfare state in Occidente.
Dobbiamo accontentarci di questo multipolarismo raffazzonato, ripiegato su un empirismo rozzo e ingenuo, e credere, contro ogni evidenza di ragione, che esso possa funzionare senza neanche, come diceva Nicce, la cui geografia politica è di gran lunga più raffinata,
possa funzionare senza un surrogato di centro.
I
navigatori arabi, dice Braudel, conoscono le due facce dell’Africa Nera, l’atlantica e l’indiana, essi suppongono che l’Oceano li raggiunga e non si pongono problemi. Nel XV secolo arriva l’immenso successo dei Turchi. Un secondo Islam, dice Braudel, un secondo ordine islamico, Nordico, profondamente penetrato in Europa mediante l’occupazione dei Balcani.
L’accanimento di
Istanbul a pianificare e organizzare, dice, è di stile europeo. Eppure, dice, impegna i suoi sultani in conflitti antiquati, nasconde loro i veri problemi. Nel 1529, non scavare un canale di Suez pur cominciato; nel 1538, non impegnarsi a fondo nella lotta contro il Portogallo e urtare contro la Persia in una guerra fratricida, nel vuoto dei confini; nel 1569, mancare la conquista del basso Volga e non riaprire la Via della Seta, perdersi in inutili guerre mediterranee quando il problema sta nell’uscire da quel mondo incantato: altrettante occasioni perdute!
Occasioni che si ripropongono con il corridoio russo: l’istmo russo verso il Mar Nero e il Caspio.
Nel secolo XVI, dice Braudel, l’intera Russia meridionale era deserta, traversata soltanto dalle bande nomadi dei Tartari di Crimea, che sui loro rapidi cavalli si muovevano fino al limite nord del Caucaso o sulle rive del Caspio quanto verso Mosca – che in
cendiarono nel 1571 – o nei paesi danubiani, che devastarono orribilmente. Nel XVIII secolo la colonizzazione russa doveva trovarci ancora il vuoto.
I Russi sono poco legati al sud, sotto attratti dall’attività economica del Baltico e dai paesi europei che stanno di fronte a Ovest, la Polonia e la Germania. Sono sistemati sul Caspio e tendono verso la Persia. Il Sud-est, e non il Sud orienta la loro vita.
La Russia non è ancora Europa – dice Braudel. Ma comincia in questo periodo a europeizzarsi.

Attraverso le Alpi, la Boemia e la Polonia, giungono sino a Mosca gli architetti italiani, costruttori di campanili a bulbo. Quando, nel 1558, lo Zar si impadronisce di Narva, aprendo una finestra sul Baltico, la Polonia si allarma. Le navi inglesi vengono fermate. Nel 1571 persino il duca d’Alba si mosse per mettere in guardia il Reichstag tedesco contro l’esportazione di cannoni e di materiale da guerra, destinati ad armare quei nemici della Germania e forse di tutta la cristianità.
L’interesse russo, dice Braudel, si sposta a Nord, ma il Sud-est conserva
la posizione preminente. A Mosca ci sono mercanti greci, tartari, valacchi, armeni, persiani, turchi. Esiste un traffico lungo il Volga di soldati, artiglieri e di grano verso valle; di sale e di storioni secchi, verso monte. Dopo l’occupazione russa di Kazan’ e Astrachan’, nel 1551 e nel 1556, tutto il corso del fiume è sotto controllo, e solo a tratti i traffici sono disturbati dai Cosacchi e dai Tartari Nogai.
Q
uest’antenna meridionale, dice Braudel, assicura alla Moscovia i collegamenti con i nomadi del Sud-est e con la Persia e le sue vecchie economie monetarie.
Più interessante, dice, è il tentativo inglese di collegamento, dal 1556 al 1582, non già verso il Mar Nero, bensì verso il Caspio. Si trattò di un tentativo di aggirare il Mediterraneo, non lungo una rotta marittima, com’era riuscito nel 1489 ai Portoghesi, ma lungo una via mista, continentale e marittima. Infatti, dice Braudel, verso la metà del XVI secolo dal Mediterraneo spariscono le navi inglesi e, con esse, i benefici degli scambi con l’Oriente, assicurati da quei viaggi ai mercanti inglesi, nei quali, dice, cresce
la brama di partecipare al proficuo commercio delle Indie, monopolio dei Mediterranei e degli iberici. La società dei «Mercanti avventurieri» di Londra lancia allora navi ed esploratori verso le regioni artiche, nella speranza di trovare una nuova rotta, di realizzare a nord il periplo di Magellano.
L
a «Compagnia di Moscovia», dice Braudel, si accorse che il progetto primitivo era realizzabile attraverso lo spazio russo, che si potevano raggiungere la spezie, il pepe, la seta attraverso il Caspio, eccetera. Nel 1561 giungeva in Persia un agente inglese con le sue mercanzie; e ben presto si stabilivano viaggi regolari; per alcun anni le meraviglie dell’Oriente risalirono il Volga per finire nelle stive delle navi londinesi, nella baia di San Nicola. Soltanto per alcuni anni, è vero. L’insuccesso finale fu cagionato da ragioni politiche, e anche dal fatto che, dal 1575, gli inglesi ritrovarono la via diretta del Mediterraneo. I lunghi viaggi verso il Caspio e la Persia perdettero il loro interesse.
I Russi non rinunciarono alla Persia, loro principale compagn
a orientale. Cacciati da Narva nel 1581, si interessavano di Arcangelo, l’ultima finestra che rimaneva loro nel grande Nord, e ben presto gli Olandesi vi spingevano le loro navi.
Ancora nel 1582, dice Braudel, a Londra si discuteva di un’intesa anglo-turca, che avrebbe permesso di deviare verso il
Caspio, passando per il Mar Nero il commercio delle spezie, concentrandolo a Costantinopoli. Grandioso progetto di un monopolio, progetto irrealizzabile, dice Braudel, per varie ragioni. Fatto curioso, aggiunge: verso il 1630, padre Giuseppe da Parigi, il consigliere di Richelieu, penserà anche lui di utilizzare la via russa: l’istmo russo come via verso Levante, e l’interesse che c’è, per la storia del mare, a osservare certe profondità continentali. Si pensi alla funzione di queste stesse strade russe nel Medioevo in alcuni curiosi progetti italiani anteriori al tentativo inglese, e posteriori, nel secolo XVIII; in circostanze favorevoli, erano capaci di perturbare i traffici di tutto il mare.

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