Il manovale non pensa. Sohn-Rethel: Lavoro intellettuale e lavoro manuale

Leonardo da vinci ritratto

Alfred Sohn-Rethel impiegò circa 50 anni prima di riuscire a pubblicare il suo primo importante libro. Molte furono le vicende che ne rallentarono la pubblicazione, non ultime la guerra e l’emigrazione. Nel 1924, per sfuggire all’inflazione, si trasferì a Capri e visse con lo stipendio elargito dell’editore Venzky come anticipo per la scrittura di un libro sulla filosofia della cultura. In Campania conobbe Ernst Bloch, Walter Benjamin, Adorno e Kracauer. Questi primi studi, sotto l’influenza delle opere di Lukács, Horkheimer e Marcuse, costituiranno la base di Lavoro intellettuale e lavoro manuale, pubblicato per la prima volta nel 1970.
Il libro si occupa di quella parte della teoria di Marx generalmente considerata come il suo pilastro inattaccabile: la cosiddetta teoria del valore-lavoro. Questa teoria non è solida come appare. Sohn-Rethel ne mostra il punto debole.
Nel 1918, dopo la guerra, Sohn-Rethel si trasferì a Berlino e seguì i corsi di Cassirer (neo-kantiano). Nel 1928, dopo un lungo periodo di lavoro a Berlino (nel frattempo si sposò e ebbe anche una figlia), ritornò ad Heidelberg e discusse la tesi con Emile Lederer. Qui seguì anche i corsi di Rickert (un altro neo-kantiano). Iniziò a leggere Marx al liceo, e mentre la guerra contava le sue vittime partecipò ai movimenti pacifisti studenteschi.
Per noi, disse, il mondo sarebbe potuto crollare, purché Marx fosse rimasto in piedi. Ma in seguito tutto fallì, la rivoluzione andò avanti e indietro e alla fine si restò a mani vuote, mentre la Russia di Lenin si ritirava sempre più lontano.
All’università, scrive Sohn-Rethel (Prefazione), imparavamo che Marx sbagliava anche teoricamente, che la teoria marginalista aveva molte frecce al suo arco, e anche Max Weber escogitava antidoti borghesi ben riusciti.
Nel 1937 si trasferì in Inghilterra e nel 1951, il vasto manoscritto dal titolo Intellectual and Manual Labour, Critique of Idealistic epistemology non trovò editore, perché, dice Sohn-Rethel, le sue tesi erano troppo poco ortodosse per l’editore di partito e troppo militantly marxist per gli altri editori.
L’analisi delle merci di Marx non è né completa né inattaccabile. Nelle appendici A e B del libro è esposta una revoca precisa dell’analisi che Marx ha svolto nella Critica del 1859 e nel Capitale. Il difetto di queste opere è collegato alla mancanza (all’ignoranza) di una teoria della conoscenza, mancanza ereditata insieme alla dialettica di Hegel. Demolendo ogni separazione tra teoria e pratica Hegel ostruì l’accesso ad un Discorso sul metodo. Un ritorno a Kant, una rilettura di Marx alla luce della filosofia Critica, può emendare il marxismo di questo difetto. La formulazione kantiana della domanda circa i Giudizi sintetici a priori, dice Sohn-Rethel, mantiene ancora il significato legittimo di possibilità di una conoscenza solida.
Ad influenzare Sohn-Rethel ci sono da parte il neo-kantismo, dall’altra ci sono gli economisti austriaci neo-classici, e in mezzo ci sono Weber e la scuola di Francoforte. Nonostante questo accrocchio del tutto originale Sohn-Rethel si dichiara discepolo di Marx e chiama la sua filosofia materialismo storico.
 
II
 
In Kant giunge a compimento il lungo processo della filosofia moderna, la quale, con l’empirismo e il razionalismo, aveva spostato la sua attenzione dal cosmo verso il soggetto della conoscenza. I risultati a cui queste due scuole erano arrivati – scetticismo (Hume) e dogmatismo (Wolff) – non erano pienamente soddisfacenti, pertanto vennero criticati da Kant.
L’empirismo voleva fondare la filosofia sulla conoscenza sensibile, sulla conoscenza del mondo là fuori, seguendo la via più diretta, quella dei sensi. Tuttavia, seguendo questa strada, l’empirismo si era trasformato nel suo contrario, ovvero in scetticismo, nella messa in discussione della validità universale e necessaria di ogni conoscenza sensibile. Tutto ciò che è appreso con i sensi è opinabile, se si raggiunge la verità, questa verità è frutto di una convenzione, di un abitudine, eccetera. Sull’altro versante il razionalismo era riuscito nel compito di elaborare leggi universali e necessarie, tuttavia non era stato in grado, a partire da queste leggi apriori (apriori dall’esperienza), non era stato in grado di estendere questi principi all’esperienza, tale da produrre una dimostrazione della loro validità. I principi universali e necessari apriori dovevano essere ammessi come dogmi inverificabili.
Salendo per induzione dal singolare all’universale l’empirismo sensista produceva giudizi sintetici aposteriori.
Un giudizio è il legame del soggetto con un predicato. Nella sua forma elementare è la manifestazione della produzione scientifica. Si parla di giudizio sintetico quando il giudizio unisce due termini che non necessariamente sono uniti tra loro. Infine, si parla di giudizi aposteriori perché solo dopo aver sperimentato la realtà della cose con i sensi si può sostenere il legame non necessario e formulare il giudizio.
Il giudizio sintetico è produttivo di nuova conoscenza, perché dice qualcosa del soggetto che si ignorava prima che se ne facesse esperienza, conoscenza che non è contenuta nel soggetto. Nel giudizio La penna è blu, il concetto penna non contiene necessariamente il concetto blu. Il blu e la penna non hanno alcun vincolo necessario. Solo dopo l’esperienza, e legando i due concetti, si può produrre una nuova conoscenza nel giudizio la penna è blu. Il giudizio degli empiristi è produttivo di nuova conoscenza. Il risvolto della medaglia sta in ciò, che ogni giudizio fondato sui sensi dipende dal sensorio di chi percepisce l’oggetto, e siccome ogni individuo ha un sensorio diverso, il quale oscilla a seconda delle condizioni di spazio e di tempo, si producono tanti giudizi diversi quanti sono gli individui, moltiplicato per i luoghi e i tempi possibili – un’infinità di varianti di giudizi, altro che universalità e necessità!
Scendendo per deduzione dall’universale al singolare il razionalismo produceva giudizi analitici a priori.
Il giudizio analitico divide (analizza) il concetto nelle sue componenti. Nel giudizio Il corpo è esteso, si divide il soggetto corpo nei suoi elementi e si trova necessariamente l’estensione. Nel concetto di corpo è compresa necessariamente l’estensione. Non può darsi un corpo che non sia anche esteso. Il giudizio è analitico perché analizzando il soggetto si trova anche il predicato, ed è apriori perché si trova il predicato senza bisogno di alcuna verifica. Si apprende che un corpo è esteso a prescindere (apriori) da ogni esperienza, avvalendosi del solo ragionamento, senza bisogno di alcuna esperienza. Il pregio di questo giudizio è che esso è necessario e universale, vale per ogni corpo e in ogni circostanza di tempo e di spazio. Il risvolto negativo del giudizio analitico apriori è che esso non è produttivo di nuova conoscenza. Quando analizzo il corpo e mi accerto che il soggetto conteneva il predicato non ho acquisito nessuna conoscenza che non fosse già compresa nel soggetto. Ho solo sottolineato un aspetto che era già compreso in ciò che conoscevo sin dall’inizio. Se la scienza è produzione di nuova conoscenza, allora il giudizio analitico non è utile alla scienza.
Kant raccoglie gli elementi positivi dell’empirismo e del razionalismo e tralascia gli aspetti negativi, proponendo di adottare e dimostrare la necessità per la scienza di giudizi sintetici apriori. I giudizi sono sintetici, quindi produttivi di nuova conoscenza, in più sono apriori, dunque universali e necessari.
La dimostrazione della necessità di giudizi sintetici apriori porta Kant alla cosiddetta rivoluzione copernicana. In cosa consiste questa rivoluzione? Prima di essa si riteneva che il cosmo, il mondo là fuori, contenesse delle leggi sue proprie e che la conoscenza (empirista o razionalista) dovesse ingegnarsi per carpire al cosmo queste leggi. Kant ribalta questo schema. Non è il cosmo a contenere delle leggi, ma è il soggetto che proietta sul cosmo le leggi che esso stesso contiene in sé. La conoscenza del soggetto si esplica attraverso leggi che il soggetto proietta sulla realtà. Le leggi non sono nella realtà, non vanno cercate nella realtà, sono invece nel soggetto. Compito della scienza è criticare e vagliare queste leggi che nel soggetto permettono la conoscenza della realtà. Queste leggi sono indipendenti dalla realtà, dunque l’esame critico non si interessa della realtà, ma solo del modo in cui questa realtà è conosciuta dal soggetto. La conoscenza di queste leggi è pura, purificata da ogni contenuto determinato. La separazione tra contenuto e forma è da adesso acquisita. La conoscenza del cosmo non può prescindere dalle forme in cui le cose sono conosciute. La conoscenza imprime alle cose la sua forma. La cosa così come è, a prescindere dalla conoscenza che la conosce, la cosa in sé, non può essere raggiunta. Non si conoscono mai le cose come sono in sé stesse, al di fuori della conoscenza. Ciò che si conosce sono le cose così come appaiono alla ragione che le conosce. Si conoscono solo fenomeni (ciò che appare alla conoscenza). E non possono conoscersi che fenomeni. La conoscenza non può accostarsi ad una cosa evitando di imprimerle una forma. Tutto ciò che viene in contatto con la ragione prende necessariamente la sua forma. Non si può prescindere dal soggetto che conosce e andare verso le cose stesse.
Seguendo questo indirizzo si rischia di cadere nello scetticismo. Se la conoscenza è soggettiva, ogni soggetto avrà del mondo una visione tarata sul proprio punto di vista. Kant supera questo scoglio sostenendo che la ragione è identica in ogni soggetto conoscente, ogni individuo dà forma al mondo allo stesso mondo. La ragione è identica in ogni individuo, e produce risultati identici. L’universalità che era situata dal lato dell’oggetto, del mondo esterno con le sue leggi invarianti, è recuperata dal lato del soggetto. È il soggetto l’elemento invariante – universale – della conoscenza. La conoscenza così intesa vira verso il razionalismo. Sembra che il mondo dell’esperienza non conti nulla ai fini della conoscenza. Ma le cose non stanno in questi termini. Kant chiama il suo apriori trascendentale. Con questo termine vuole trovare una via di mezzo tra empirismo e razionalismo. Il trascendentale non è qualcosa che si dà empiricamente, ma non è neanche qualcosa che si trova nella mente come un’idea innata. Il trascendentale si produce dall’incontro tra il soggetto e l’oggetto. Lo spazio, ad esempio, non è, come l’intendeva Newton, un contenitore vuoto nel quale si produce il moto della fisica. E non è nemmeno un’idea innata. Lo spazio si spazializza quando il soggetto fa esperienza del mondo, quando il soggetto incontra l’oggetto. Dunque, senza esperienza non si produce conoscenza, anche se l’esperienza, di per sé, non contiene questa conoscenza. La stimola, ma non la contiene. Lo spazio non è un oggetto di esperienza, anche se senza esperienza non potrebbe apparire alcuno spazio.
Tra gli oggetti trascendentali bisogna includere anche le categorie. Non si tratta di concetti astratti, non sono ciò che vi è di più raffinato e puro quando si sale dal singolare all’universale. Non appartengono alla natura delle cose. Sono oggetti dell’intelletto. Ma non sono oggetti produttivi. Si attivano quanto l’intelletto viene a contatto con le sensazioni prodotte dal mondo esterno. Sono funzioni che collegano il soggetto al predicato (unità, pluralità, totalità, realtà, negazione, limitazione, inerzia e sussistenza, causa ed effetto, reciprocità, possibilità e impossibilità, esistenza e inesistenza, necessità e contingenza). Sono oggetti apriori del pensiero che inquadrano la realtà secondo schemi, e che diventano operativi una volta che l’intelletto viene attivato da una esperienza. Non sono idee o pensieri autonomi. Sono forme di inquadramento della realtà. Funzioni di collegamento. Il termine di collegamento tra le categorie e il dato sensibile intuito (il fenomeno) è il tempo.
 
III
 
Nei Principi di economia politica Menger sostiene che i beni non hanno un valore intrinseco. Per gli economisti classici i beni avevano un valore d’uso e un valore di scambio. Per Adam Smith il valore d’uso esprime l’utilità di un particolare bene, mentre il valore di scambio esprime il potere di acquistare altri beni che il possesso dell’oggetto conferisce al possessore[Ricchezza, Utet 109]. Nei Principi Ricardo riprende esplicitamente la definizione di Smith e aggiunge che l’utilità non è la misura del valore di scambio, sebbene a tale valore sia assolutamente essenziale. Se una merce non fosse affatto utile, se non potesse in alcun modo contribuire alla soddisfazione di un bisogno, sarebbe priva di valore di scambio [Ricardo, Principi, Utet 170]. Nel Capitale Marx aggiunge un importante elemento alla definizione. Il valore d’uso è prima di tutto un corpo che soddisfa bisogni. Non importa il tipi di bisogni che soddisfa. Non importa che il bisogno sia soddisfatto direttamente col consumo o sia soddisfatto indirettamente utilizzando il bene come mezzo di produzione. L’utilità di una cosa fa di essa un valore d’uso. Ma questa utilità non galleggia in aria. Determinata dalle proprietà del corpo della merce, non esiste senza di esso. Il corpo stesso della merce è un valore d’uso. In più, questo corpo è nello stesso tempo il depositario materiale del valore di scambio. Il valore di scambio, dice Marx, appare in primo luogo come il rapporto quantitativo, la proporzione, in cui valori d’uso di un genere dato si scambiano con valori d’uso di un genere diverso, un rapporto che varia costantemente col variare dei tempi e dei luoghi. Il valore di scambio appare quindi come un alcunché di casuale e puramente relativo; un valore di scambio intrinseco, immanente alla merce (valeur intrinseque), è una contraddizione in termini, come un ferro di legno.
Sia il valore d’uso sia il valore di scambio sono entrambi relativi e si presentano sotto lati diversi a seconda delle circostanze di spazio e di tempo. Spetta alla storia, dice Marx, rilevarne di volte in volta le occorrenze. Il valore d’uso non è fisso, varia a seconda delle circostanze di spazio e di tempo, dunque non può costituire una base per il valore di scambio. Pertanto, dice Marx, il valore di scambio non contiene neppure un atomo di valore d’uso. D’altra parte, anche il valore di scambio non è fisso, e varia al variare delle circostanze, dunque neanche esso può costituire una base universale e necessaria del valore. Il valore d’uso e il valore di scambio così intesi rimangono legati all’elemento empirico, ed ogni esame che segua l’empiria incappa in tutte le pecche dell’empirismo filosofico. Pertanto, la base (la sostanza) del valore va cercata da tutt’altra parte. Se dal corpo della merce si escludono tutte le proprietà del valore d’uso, dice Marx, non resta che una proprietà: quella di essere prodotto del lavoro. Ma lo stesso prodotto del lavoro si trasforma già nelle mani. Anche il lavoro è una prestazione empirica, e pertanto cambia a seconda delle circostanze di luogo e di tempo. Ogni prestazione è differente da ogni altra, non solo quelle erogate da persone diverse, ma anche quelle erogate dalla stessa persona in periodi differenti. Se si astrae dal valore d’uso di un bene, dice Marx, si astrae anche dalle parti componenti, e dalle forme materiali, corporee, che lo rendono valore d’uso. Tutte le sue qualità sensibili sono cancellate. Esso non è nemmeno più il prodotto del lavoro del falegname o del muratore o del filatore, o di qualunque altro lavoro produttivo. Con il carattere utile dei prodotti del lavoro, svanisce anche il carattere utile dei lavori in essi rappresentati; svaniscono perciò anche le diverse forme concrete di questi lavori; essi non si distinguono più, ma sono ridotti tutti insieme a lavoro umano eguale, lavoro astrattamente umano. Insomma, dice Marx, se noi mettiamo da parte tutte le caratteristiche sensibili della cosa non appare il valore di scambio, visto che il valore di scambio è una variabile empirica, appare il valore, il quale rimanda al lavoro, ma non al lavoro effettivamente prestato, ma alla prestazione, una volta che da essa sia sottratto ogni traccia della realtà effettiva.
Da una parte abbiamo il singolare, l’empirico – valore d’uso, valore di scambio, lavoro effettivo – dall’altra abbiamo l’universale, il razionale – valore, lavoro in generale. Ma come si sale dal singolare all’universale, o come si scende dall’universale al singolare?
Anche per Menger il valore d’uso e il valore di scambio sono due concetti derivanti dal concetto di valore in generale [nota d, Principi, cap V, Teorie del valore]. Il valore dei beni nasce da una relazione tra i beni e il nostro fabbisogno. Il fenomeno del valore, dice Menger, ha la stessa origine del carattere economico dei beni: nasce dal rapporto quantitativo tra fabbisogno e quantità di beni disponibili, nasce dal rapporto tra domanda e offerta del bene. Il valore, perciò, non è inerente ai beni, non è una loro qualità e neppure un’entità indipendente che esiste per sé stessa. Esso è l’importanza che i beni concreti acquistano per gli uomini quando questi si rendono conto di dipendere dalla disponibilità di tali beni per la soddisfazione dei loro bisogni: senza tale consapevolezza dell’uomo il valore non esiste. La base del valore è lo scambio. Nello scambio il valore del bene non è invariante, non è universale e necessario. Varia a seconda di circostanze soggettive e oggettive. Come stabilire allora il valore di un bene, visto e considerato che le circostanze che ne determinano la fluttuazione si estendono all’infinito? Per quanto riguarda le condizioni soggettive e oggettive si può approntare una matrice di utilità decrescente la quale permette di definire un punto di equilibro dove la variazione bilanciandosi si arresta.
 
IV
 
Da dove deriva l’astrattezza del denaro? Come è possibile la socializzazione attraverso lo scambio delle merci? Questi problemi, dice Sohn-Rethel, ricordano più Kant che Marx. Ricordano più la Critica della Ragione pura che non la Critica dell’economia politica. Marx non ha mai affrontato direttamente queste domande, e non lo ha fatto per via del suo legame con la dialettica di Hegel. Tuttavia, la soluzione fornita da Kant non è per nulla soddisfacente. I presupposti della sua teoria, dice Sohn-Rethel, sono perfettamente corretti. Quando divide i giudizi in 1) giudizi sintetici apriori e 2) giudizi sintetici aposteriori, e dimostra che la scienza esatta non può derivare dai secondi, non fa altro che porsi sullo stesso terreno della società capitalistica. Dimostrando che l’empirismo non può fondare la scienza esatta della natura, ha dimostrato la necessità non solo di separare la forma dal contenuto, ma anche la necessità di separare il lavoro intellettuale dal lavoro manuale e il capitale dal lavoro. I presupposti della teoria kantiana, dice Sohn-Rethel, sono perfettamente corretti. Le scienze esatte sono compito del lavoro intellettuale che si svolge nei luoghi di produzione, in completa separazione e indipendenza dal lavoro manuale. Per il dominio della classe borghese questa separazione, soprattutto in relazione con la scienza naturale e la tecnologia, è indispensabile come la proprietà privata dei mezzi di produzione.
La separazione tra mano e mente è giustificata dal fatto che la mano può toccare le cose ad una ad una, e sempre in circostanze spazio temporali diverse, senza mai raggiungere un punto finale dal quale gettare luce sull’intera serie. La mano è prigioniera del mondo empirico, incapace di sollevarsi alla dignità della conoscenza universale e necessaria. La mente, al contrario, sciolta da ogni vincolo empirico, può afferrare il tutto in un’unica presa e tenerlo in pugno.
La teoria della matematica pura e della scienza pura della natura, dice Sohn-Rethel, trionfa perché in essa non viene mai nominato il lavoro manuale. È una conoscenza su basi puramente intellettuali. Pertanto, continua Sohn-Rethel, concordo con Kant sul fatto che i principi su cui si fondano le scienze quantificatrici della natura non sono deducibili dalle facoltà fisiche e fisiologiche (e nemmeno psicologiche – aggiungo io): non derivano dalla mano.
I giudizi sintetici apriori non derivano dalla mano. Di più, questi giudizi, per essere puri, ovvero universali e necessari, devono astrarre da tutte le condizioni empiriche, in essi (e qui si cita a sostegno il Capitale) non deve entrare nemmeno un atomo di materia naturale. Tutto ciò che è astratto, dice Sohn-Rethel, non è empirico. L’astrazione è la via che conduce alla separazione di Forma e Contenuto, di Mano e Mente, di lavoro Intellettuale e lavoro Manuale, di Capitale e Lavoro, eccetera. Se Hegel non fosse hegeliano si potrebbe dire che Hegel contesta – critica – questa separazione. Invece, Hegel non la critica, raccoglie i suoi limiti e li attribuisce all’Intelletto riflettente. L’intelletto riflettente è limitato in quanto si ferma al singolo elemento, considera il singolo elemento come portatore di senso. Stacca il singolo elemento dalla struttura nella quale è inserito e che sola può fornire una significazione. L’intelletto riflettente presenta i singoli elementi del processo come isolati, come separati gli uni dagli altri. Non riuscendo o non volendo afferrare la totalità, snatura i singoli elementi, li sottrae alla totalità, li considera come entità a sé stanti, presenta ogni elemento finito come separato da ogni altro elemento finito. Per questo motivo, a proposito dell’intelletto riflettente, Hegel parla di concetti astratti. Gli illuministi e Kant sono astratti (tratti fuori) perché pretendono di cogliere il singolo elemento in se stesso, senza cogliere il tutto a cui il singolo è connesso. In Hegel astrazione ha un significato diverso. Ma Hegel non critica l’astrazione (in Hegel la critica distruttrice non ha alcun senso), la considera un momento del tutto. Al contrario, gli illuministi e Kant (e con essi Sohn-Rethel) la considerano equivalente al tutto. Solo mediante l’astrazione si ha una presa sul tutto.
Nonostante Hegel abbia inglobato Kant nella sua filosofia, e abbia superato la divisione pura tra Mano e Mente, Sohn-Rethel ritiene incontestabile – non superabile (niente Aufhebung) – questa separazione. Ciò che invece gli appare contestabile è la spiegazione dell’origine della Forma, dell’origine dei giudizi sintetici apriori. Kant, e con lui tutti i pensatori borghesi, dice Sohn-Rethel, non sono in grado di risolvere il problema dell’origine o semplicemente di sostenerlo o di porlo. Kant lo tocca nelle prime righe dell’Introduzione alla seconda edizione della Critica, ma poi lo abbandona definitivamente.
 
V
 
L’Io penso di Kant è il fondamento dell’identità con se stesso. Cosa vuol dire?
Ogni manifestazione dell’Io, ogni suo atto, è saputo dall’Io stesso. Quando io giudico, quando io amo, quando io agisco, quando io percepisco, l’Io penso deve poter accompagnare tutte queste mie rappresentazioni (qui e in seguito cfr. Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia). Ciò non vuol dire che ogni volta che penso, penso anche l’Io penso, che ogni pensiero sia sempre accompagnato anche dal pensiero dell’Io penso. Significa soltanto che io sono cosciente del collegamento di ogni mio pensiero con il mio io. Sono consapevole del fatto che la loro molteplicità si basa sul mio Io. L’Io è, rispetto a questa molteplicità, il soggetto. Soggetto qui significa propriamente ciò che sta sotto – la sostanza – la base, il fondamento, ciò che riunisce e tiene insieme. Da ciò risulta che solo sulla base dell’Io penso può essere data una molteplicità. Se non ci fosse questa base la molteplicità rimarrebbe dispersa. In questo senso l’Io penso può essere considerato unificante, sintetico. E sintetizza ogni propria esperienza perché in ognuna di esse, oltre a pensare l’esperienza, pensa insieme anche se stesso. Pensando penso anche me stesso, non afferro solo ciò che penso (il pensato e il rappresentato), in ogni pensiero penso anche me stesso – appercepisco. L’unità sintetica dell’appercezione è per Kant la personalità trascendentale. L’io (dell’Io penso), in quanto trascendentale, non è una rappresentazione, non è un oggetto rappresentato, non è una entità empirica, non è in io psicologico. È il fondamento di ogni percezione, di ogni rappresentazione. Bisogna distinguere l’autocoscienza pura (io trascendentale) dall’autocoscienza empirica della percezione, dall’esperienza della realtà effettiva, dall’io empirico, dotato di sensorio e di processi psichici compiuti grazie al senso interno. L’io puro, l’io dell’appercezione, l’io trascendentale, non è un fatto empirico. Ciononostante, ogni esperienza empirica è resa possibile proprio da questo io puro. L’io puro è soggetto (sta alla base – sostanza) di ogni esperienza possibile. Non ci sarebbe esperienza senza questo io puro. Invece, l’io in quanto personalità empirica, in quanto personalità psicologica, è sempre l’oggetto, la cosa posta innanzi, empirica e volubile, sostenuta dall’io trascendentale. Per ciò che riguarda questo io trascendentale – non empirico e non psicologico – Kant afferma soltanto che esso è. Di questo ente non possiamo dire altro se non che esso è. Il pensiero Io sono cosciente di me stesso, contiene già il doppio io, l’io come soggetto e l’io come oggetto. Seppure questo sdoppiamento è un fatto indubitabile rimane da chiedersi come esso sia possibile. Per Kant, dice Heidegger, quest’io risulta problematico, in generale indeterminabile, e in ogni caso non può essere affatto determinato con gli strumenti della psicologia. La personalitas psychologica presuppone la personalitas trascendentalis.
 
VI
 
Dove ha origina l’io trascendentale?
Per rispondere al quesito, dice Sohn-Rethel, il tema posto da Kant deve essere trasposto sul terreno del materialismo storico indotto da Hegel: né Kant né Hegel quindi, ma Kant nel quadro di Hegel.
In merito al problema dell’origine dell’Io penso Kant si limita ad assicurare che qualsiasi spiegazione genetica, cioè spazio-temporale, è impossibile, e la questione è chiusa definitivamente, grazie al sigillo di uno dei più consacrati tabù della tradizione filosofica – dice Sohn-Rethel. Giustamente Nietzsche ironizza sul fatto che alla domanda Come siano possibili i giudizi sintetici a priori, Kant risponda Mediante una facoltà.
Sohn-Rethel, invece, crede che la questione dell’origine debba essere posta. E se questa questione è, per sua natura, una questione che incappa nel tempo e nello spazio, bisogna trovare una via, percorsa la quale, la purezza dell’intelletto astratto rimanga intatta, non contaminata da alcun elemento empirico.
Per porre correttamente il problema dell’origine bisogna abbandonare Marx – perlomeno il suo tema del valore-lavoro.
Il pensiero di Marx, dice Sohn-Rethel (Appendice A), mette in rilievo principalmente due punti: 1) il lavoro e 2) l’universalizzazione. L’universalizzazione si annida nel tema del valore, e il tema del valore rimanda al tema del lavoro.
Intendere il lavoro, dice Sohn-Rethel, come portatore dell’universale, spirito hegeliano rovesciato, consente la straordinaria realizzazione e soluzione dei problemi dell’umanità.
Bisogna però verificare se questo tema è fondato – dice Sohn-Rethel.
L’unione di valore e lavoro appare nel Capitale all’inizio dell’analisi delle merci, quando Marx pone la tesi della commensurabilità. L’elemento comune che permette lo scambio di merci diverse è il lavoro impiegato nella loro produzione, ma non il lavoro effettivamente impiegato e produttrice del valore d’uso, ma il lavoro astrattamente umano. Questa analisi delle merci, dice Sohn-Rethel, è incompleta e insoddisfacente. Marx pone l’equazione di scambio o di equivalenza, e quindi la stessa categoria di valore, senza tuttavia fare la genesi di tali forme. Poi riconduce il valore al lavoro e sostiene che è il lavoro a offrire la misura del valore. Ma il lavoro, obietta Sohn-Rethel (n. 3 Appendice A), può essere impiegato come misura delle grandezze di valore, solo se si ammette che esso sia quantificabile. Ma il lavoro è veramente quantificabile in sé? La risposta di Marx non si fa attendere: La quantità del lavoro si misura con la sua durata temporale (Capitale, 51). Ma ciò, obietta Sohn-Rethel, vale soltanto per un lavoro quantitativamente omogeneo, cioè solo se si astrae da tutte le differenze qualitative materiali e personali del lavoro, se si astrae da ogni condizione spazio-temporale. Ma questa astrazione avviene effettivamente solo nello scambio, dove si equiparando le merci in quanto valori. Per considerare il lavoro come lavoro qualitativamente indifferente il valore deve essere presupposto. Dunque, il lavoro non può costituire la base del valore. La base del valore va cercata nello scambio. Nella teoria delle merci Marx pone questo formalismo mal digerito, dice Sohn-Rethel, produce inevitabilmente un feticismo dell’essenza, perché l’analisi non penetra nella problematica dell’origine. Marx fonda la sintesi sul lavoro. Al contrario, Sohn-Rethel fonda la sintesi sullo scambio delle merci. Marx non indaga lo scambio delle merci, il carattere particolare dell’astrazione propria allo scambio viene attribuito al lavoro e alla sua riduzione a lavoro astrattamente umano. Tale riduzione, dice Sohn-Rethel, simula come data una soluzione che non vi è contenuta.
A questo punto, dimostrata l’inconsistenza della teoria di Marx, Sohn-Rethel spalanca le porte ai temi del liberismo neo-classico.
Ciò che il liberismo deve fornire è la dimostrazione che sia il valore del valore d’uso sia il valore del valore di scambio sono dei trascendentali, non hanno in sé nemmeno un grammo di materia empirica, e che nonostante ciò sono storici. Una volta ottenuta questa dimostrazione il materialismo storico può finalmente poggiare su un fondamento certo.
In Teoria della moneta (1924) Mises dice che ogni transazione economica presuppone una comparazione di valori e la comparazione una misurazione. La questione della misurazione non può essere posta nell’ambito del soggetto che valuta. Gli atti soggettivi di valutazione non sono suscettibili di alcuna misurazione, o, detto al contrario, l’unità di misura non è un’unità prodotta dal soggetto empirico valutante. Ognuno, dice Mises, è in condizioni di compilare una lista infinita di valori comparati, lista che sarebbe valida solo per un determinato momento, dato che deve presupporre una combinazione data di bisogni e di merci. Se cambia la situazione dell’individuo, cambia anche la sua scala di valori. La valutazione soggettiva, che è il perno di ogni attività economica, si limita a ordinare le merci secondo la loro importanza. Ma non misura questa importanza. Se è impossibile misurare il valore d’uso oggettivo (ciò che il bene effettivo significa per me), ne consegue direttamente che è impossibile quantificarlo. Il problema della misurazione del valore d’uso oggettivo (del bene effettivo che ho tra le mani), dice Mises (17), non è un problema economico.
Non è nemmeno misurabile il valore di scambio oggettivo, poiché anch’esso, dice Mises, è il risultato della comparazione derivante dalle valutazioni degli individui. Il valore di scambio oggettivo di una data unità di un bene potrebbe essere espresso nelle unità di ogni altro tipo di prodotto.
L’individuo concreto – empirico – non può fornire una misura esatta del valore. Non può fornire una misura tout-court, visto che la misura o è esatta o non è una misura. Tuttavia, Mises non vuole rinunciare al mondo dell’esperienza e accettare come base della misurazione del valore una qualche entità sovrasensibile.
Si può parlare correttamente del valore, dice Mises, soltanto in riferimento ad atti di valutazione concreti. Il valore esiste solo in tali contesti. Non c’è nessun valore al di fuori del processo di valutazione. Non esiste qualcosa come un valore astratto (nel senso di sovrasensibile, non empirico, non effettivo). Il valore non è soggettivo, e tuttavia non è trascendente, è immanente, è storico, è materiale (come dice Sohn-Rethel). Ma siccome non è soggettivo, non è posto dal soggetto, deve mostrarsi autonomamente, anonimamente.
L’individuo psicologico non è in grado di dominare la molteplicità delle possibilità effettive reali. Nemmeno quando si avvale della potenza di previsione fornita dal database e dal computer. Ogni database, per quanto grande, non è mai abbastanza grande per accogliere l’ultima evenienza, e i sistemi di calcolo, pur elaborando il dato in tempi velocissimi, non possiedono una velocità abbastanza veloce per elaborare l’ultima occorrenza.
Nel mondo empirico la posizione dei beni nella scala dei valori individuali, dice Mises, non è determinata solo dal loro valore d’uso soggettivo, ma anche dal valore soggettivo dei beni che si possono ottenere in cambio. Se vuole ottenere il massimo dall’utilità delle sue risorse l’individuo deve acquisire dimestichezza con tutti i prezzi del mercato. Sarebbe impossibile per l’individuo, continua Mises, anche se fosse espertissimo in materia di commercio, seguire ogni cambiamento nelle condizioni del mercato e apportare le conseguenti modifiche alle sue scale dei valori d’uso e dei valori di scambio, a meno di scegliere un qualche denominatore comune cui poter ridurre ogni rapporto di scambio. Poiché il mercato pone ogni bene in condizioni di essere trasformato in moneta e viceversa, il valore di scambio oggettivo viene espresso in termini di moneta. Così, continua Mises, la moneta, come aveva notato Menger, diventa un indice dei prezzi. L’intera struttura dei calcoli dell’imprenditore e del consumatore si regge sul processo di valutazione dei beni in moneta. La moneta è quindi diventata un ausilio di cui la mente non è più in grado di fare a meno nei calcoli.
La moneta, per misurare in modo giusto, a sua volta, deve sottrarsi ad ogni empiria, ad ogni condizione di spazio e di tempo, in essa non deva trapassare nemmeno un atomo del mondo empirico, altrimenti la sua misurazione sarebbe soggetta alla stessa alea a cui sono soggette le valutazioni individuali. Si tratta della ricerca della moneta perfetta – pura – ricerca iniziata da Menger (La moneta, 1892) e diventata l’ossessione del liberismo (e del socialismo scientifico).
Proprio in questo punto, e per risolvere questo impiccio, si innesta la testi di Sohn-Rethel.
Sohn-Rethel non vuole assolutamente rinunciare al piano della realtà effettiva. La soluzione deve essere cercata sul piano del materialismo storico, ovvero sul piano della realtà effettiva. Ma la realtà effettiva è mutevole – è storica, appunto! Come può nella storia apparire qualcosa che non sia affetto dalla storia, che sia fisso, invariante, puro, che abbia le stesse caratteristiche dei giudizi sintetici apriori, ma che abbia, allo stesso tempo, un’origine empirica storico-spaziale? Si tratta dello stesso problema che Husserl pose nel famosissimo saggio sull’Origine della Geometria, saggio consigliato per la lettura da Foucault a Derrida.
 
VII
 
Chi fu il Battista di Marx, Hegel o Kant? La risposta, dice Sohn-Rethel, è meno semplice di quanto generalmente non si ammetta.
Kant si chiede come sia possibile l’esperienza, come sia possibile per noi conoscere gli oggetti. Pone correttamente la questione della conoscenza, ma la pone su un piano non storico – dice Sohn-Rethel. Si tratta di trasportare questa questione sul piano storico, sul piano della storia effettiva, sul piano materialista, senza però cadere nelle trame della dialettica hegeliana. Bisogna prendere da Hegel il tema di una conoscenza che ha un’origine nella storia, senza lasciarsi tentare dall’abbraccio mortale della dialettica. Bisogna acquisire la separazione storica tra mano e mente, tra scienza pura e manovalanza bruta, come una separazione che ha avuto un’origine.
Senza sapere come la scienza e la tecnica scientifica si inseriscano nella storia, quale sia la loro origine, quale natura e quale genesi abbia la loro forma concettuale, non si capirà mai come la società debba dominare lo sviluppo della scienza, invece di esserne controllata e sopraffatta. Solo pensando un inizio della separazione si può anche pensare una fine. Al contrario, se si pensa che questa separazione è astorica, la si pensa come ineliminabile.
Le teorie della conoscenza vigenti, dice Sohn-Rethel, non concepiscono le forme intellettuali della ricerca scientifica e filosofica come fenomeni storici. Il pensiero scientifico si distingue per la sua atemporalità storica. Questa atemporalità viene accettata come condizione data, mentre l’idea di una spiegazione storica della sua origine non solo viene dichiarata impossibile, ma non viene nemmeno presa in considerazione.
Per Marx la forma è determinata dal tempo e in esso nasce, passa e muta – dice Sohn-Rethel. Intendere la forma in connessione con il tempo è caratteristico della dialettica di Hegel. Ma Hegel riduce tutto al pensiero. Marx, invece, intende il tempo che domina la genesi e il mutamento delle forme come tempo storico, come tempo naturale, come tempo della storia umana, pertanto non è possibile, continua Sohn-Rethel, determinare in anticipo le forme. Eppure senza le forme la conoscenza non è possibile. Dunque, dice Sohn-Rethel, se ci poniamo sul terreno del materialismo storico, e consideriamo la genesi delle forme della coscienza, non possiamo trascurare i processi di astrazione che vi agiscono sin dall’inizio. L’astrazione equivale al laboratorio della formazione concettuale.
Per il pensiero tradizionale, per il quale l’astrazione del pensiero teoretico costituisce indubbiamente l’attività autentica e l’esclusivo privilegio del pensiero, è inammissibile intendere l’astrazione se non come astrazione astorica. Si tratta, invece, di porre l’astrazione sul piano della realtà effettiva e non del mero pensiero teorico.
Benché qui Sohn-Rethel alluda a Kant e all’intelletto riflettente, la sua dimostrazione, il tentativo di porre la questione dell’origine dell’astrazione (la questione della misura del valore) sulla terra e nella storia, pagherà un dazio pesantissimo alla dialettica di Hegel. Dunque, né Kant né Marx, ma Hegel nel quadretto di Menger.
 
VIII
 
Il denaro dei liberisti fornisce a Sohn-Rethel un importante punto di partenza. In primo luogo non si tratta di un elemento teorico e astorico. Il denaro non è un’entità trascendente, è apparso nella storia, ha un’origine, è un oggetto del materialismo storico. In secondo luogo, il denaro ha le caratteristiche di un oggetto trascendentale. In quanto misura del valore non dipende della psicologia dei soggetti economici. I soggetti economici empirici, come ha mostrato il liberismo (Mises, per esempio), non sono in grado di esprimere una misura valida. Il denaro sembra avere le caratteristiche di universalità e necessità.
L’astrazione di cui Sohn-Rethel ha bisogno è un’astrazione concreta, come il denaro, appunto. Solo che il denaro è concreto, è sonante, e come tutte le cose concrete varia a seconda delle circostanze di luogo e di tempo. Infatti, a proposito del denaro, non si parla tanto del suo valore (facciale, nominale) quanto del suo potere d’acquisto, proprio per sottolineare la sua esistenza effettiva. Il denaro, dice Sohn-Rethel, sia in moneta sia in banconota, è una cosa astratta. Tuttavia, in questa sua peculiarità costituisce una contraddizione, in quanto è anche un oggetto effettivo. In più si presenta anche come valore d’uso nello scambio a interesse.
In ogni caso, il denaro è legato alla merce, appare solo in una economia mercantile. Dunque, tutto rimanda allo scambio, e solo una fenomenologia dello scambio, dice Sohn-Rethel, può fornire la chiave di accesso al denaro.
Il lavoro – qui inizia la dimostrazione di Sohn-Rethel – non è astratto per natura. In più, la sua astrazione in Lavoro astrattamente umano (Marx) non è opera sua. Il lavoro non diventa astratto da solo. La sede dell’astrazione sta fuori del lavoro, sta nello scambio. Il valore si forma a partire dallo scambio.
Lo scambio divide ciò che nell’economia a comunismo primitivo era unito (qui comincia a far capolino Hegel). L’astrazione appare nella separazione e nella contrapposizione di Uso e Scambio (non bisogna affrettarsi a leggere qui la dialettica di Servo e Padrone). Lo scambio delle merci è astratto poiché non solo è diverso dal loro uso, ma è anche separato temporalmente dall’uso. L’azione di scambio e l’azione d’uso si escludono l’un l’altra nel tempo. Qui si potrebbe leggere il tema hegeliano del desiderio e della sublimazione: Non mangio, dunque penso. E vedervi la nascita dell’idea a partire dal rinvio (tempo) del consumo dell’oggetto d’uso. L’unità originaria che legava il gesto al consumo si spezza, l’oggetto si allontana dal soggetto, e da questa lontananza spazio-temporale rimanda l’immagine che fa dell’animale un soggetto pensante. Anche in questa circostanza il valore non è prodotto dal soggetto, ma è rimesso al soggetto dall’oggetto. Di più, la separazione – la differenza – differendo spazialmente e temporalmente ciò che era unito, fa apparire l’oggetto e il soggetto, che così costituiti, non sono altro che prodotti della differenza. Questo è Hegel. Ma siccome Sohn-Rethel si vuole più realista del re, sente l’obbligo di introdurre in questa dialettica un elemento di disturbo.
L’astrazione (il valore) appare nella separazione e nella contrapposizione. Il valore di scambio appare solo se l’uso è interdetto. Se porto al mercato un bene e voglio scambiarlo con un altro bene, non posso, prima che lo scambio si perfezioni, né consumarlo né consumare il bene contro cui voglio scambiarlo. Il desiderio deve essere represso. Dalla repressione nasce l’astrazione.
Fino a che le merci sono oggetto della contrattazione di scambio e sono sul mercato, dice Sohn-Rethel, non possono essere usate né dai venditori né dai clienti. Al mercato, nei negozi, nella vetrine, le merci sono silenziose (morte). Questo silenzio, questa morte apparente, dice Sohn-Rethel, è solo una finzione. La merce soggiace alla finzione di una piena immutabilità materiale. È come se persino la natura trattenesse il respiro nel corpo delle merci, finché il prezzo deve restare immutato. Affinché lo scambio possa perfezionarsi, e i valori d’uso passare da una mano all’altra, le merci devono restare esenti da ogni contemporaneo mutamento fisico, o devono poter essere considerate materialmente immutabili. Lo scambio è quindi astratto per tutto il tempo in cui avviene. In questo caso, astratto significa che sono stati detratti tutti i segni del possibile uso. L’astrazione non deve contenere nemmeno un grammo di realtà. Senza questa finzione lo scambio non sarebbe possibile. Se non si fingesse che l’oggetto che sto contrattando adesso – un chilo di pesce – mantenga inalterato il suo stato materiale – non puzzi – nel momento in cui lo scambio si perfeziona e la cosa mi viene consegnata, lo scambio sarebbe impossibile. Il sospetto della variazione – del deterioramento – implicherebbe una contrattazione interminabile e una prezzatura continua. Si cadrebbe nelle spire dell’empirismo. Per evitare l’empirismo e lo scetticismo bisogna fingere che il corpo non sia un corpo effettivo, ma sia un corpo fantomatico, un corpo quasi-morto, ibernato.
A creare lo scompiglio, e con esso l’esigenza della finzione, è proprio ciò che, d’altra parte, permette lo scambio, ovvero il tempo e lo spazio. Se non ci fosse separazione spazio-temporale, se non ci fosse empiria, non ci sarebbe bisogno di fingere – ma non ci sarebbe nemmeno scambio. Se lo scambio fosse istantaneo il pesce non avrebbe tempo di deteriorarsi. Ma uno scambio istantaneo non è uno scambio. Si scambia perché si è separati, e si è separati perché si dà spazio e tempo.
Per adesso – nonostante si sia scomodato il liberismo e Kant – non sono stati fatti molti passi avanti dal Marx del Capitale, il quale, secondo Sohn-Rethel, simula una riduzione del lavoro a Lavoro astrattamente umano. Simulazione necessaria per togliere al lavoro al sua affezione spazio-temporale. Pur di non cedere alla simulazione di Marx, Sohn-Rethel si arrende ad una prima finzione. Finzione che ha sempre a che fare con lo spazio-tempo empirico. Da una parte, (stando a Sohn-Rethel), Marx ha bisogno di simulare un lavoro identico, a fronte di un lavoro empirico sempre differente, dall’altra parte Sohn-Rethel ha bisogno di fingere un un valore d’uso identico, a fronte di una valore d’uso empirico sempre differente.
 
X
 
La prassi dell’uso, dice Sohn-Rethel, è bandita dalla sfera pubblica del mercato, e fa parte esclusivamente dell’ambito privato (altro tema hegeliano, la separazione tra pubblico e privato e la tentazione di ridurre il privato al pubblico). Nel mercato l’uso resta pura rappresentazione. Con la formazione dei mercati – elemento genetico – l’immaginazione si separa dall’azione, la mente si separa dalla mano.
Definisco astratto, continua Sohn-Rethel, quanto non è empirico, ovvero l’uso – negato dallo scambio. L’astrazione si fonda sull’assenza di un avvenimento, si tratta di un’azione negativa. Il tempo e lo spazio sono occupati dal non avvenimento dell’uso nell’ambito dello scambio. Lo scambio è la negazione dell’uso. Ma non è, evidentemente, l’annullamento dell’uso, è la promessa dell’uso futuro. Lo scambio è l’Aufhebung dell’uso. Lo scambio, scrive Sohn-Rethel (45), è il vuoto d’uso, è sterilizzazione di ogni condizione spazio-temporale d’uso, è la sterilizzazione dello spazio e del tempo. Una sterilizzazione che, per attivarsi, ha bisogno proprio della separazione, cioè del tempo e dello spazio. Innesto poderoso di Hegel su Kant – altro che Menger!
Questa astrazione, per poter concorrere con i giudizi sintetici apriori e porsi come fondamento delle scienze esatte, deve essere trascendentale. Deve mostrarsi come una forma indipendente dal contenuto. Senza essere una rappresentazione o un oggetto rappresentato, deve essere una entità empirica, ma senza avere nulla di empirico (nemmeno un atomo). Deve essere pensiero, senza che sia un’entità psicologica.
L’azione, dice Sohn-Rethel (Hegel avrebbe detto il trieb – la spinta), differendo l’uso (il consumo, la Begierde, il desiderio di assimilare l’oggetto – del desiderio -, di farlo proprio, di farlo sé – nutrimento, sessualità), l’azione, differendo l’uso, pone lo scambio. Lo scambio realizza la socializzazione pura, la socializzazione astratta. Non ti mangio, non ti uccido, dunque ti penso.
Lo scambio – differendo il consumo – pone l’astrazione-merce. Adesso si tratta di dimostrare come si passa dall’astrazione merce all’astrazione sociale.
Kant aveva risolto questo problema affermando che le categorie della ragione e l’Io penso sono identici in ogni persona, che ogni persona, collocata nella stessa identica situazione di un’altra non può che produrre la stessa esperienza.
 
XI
 
Sulla base dello scambio i valori d’uso negati riappaiono come molteplicità di merci. Se non ci fosse una base comune, la molteplicità delle merci rimarrebbe dispersa o serrata nella propria indivisibilità.
Nel comunismo primitivo – nel dono, nel potlatch – gli oggetti, dice Sohn-Rethel, sono scambiati senza che vengano considerati equivalenti (tema dell’unità originaria, tema classico e ancora hegeliano). Nello scambio vero e proprio, dove appare la merce, i contraenti sono sperati, e anche l’azione di consumo è sperata logicamente e fisicamente dall’azione di scambio. Non c’è nessuna relazione tra lo scambio e il consumo. Mentre nella società a comunismo primitivo lo scambio e il consumo hanno sempre una relazione, tanto che chi non condivide la destinazione di consumo non può scambiare, nella società mercantile, non solo scambio e uso sono separati, ma devono essere separati affinché ci sia scambio. Quando un amico, inviato a cena, porta in dono una bottiglia di vino, non vuole certo pagare la cena con il vino, né tanto meno, portando il vino, sperare di essere esentato dall’ascoltare le chiacchiera dei commensali. Così come, al contrario, non può pensare di pagare il conto della pizzeria con una torta comprata all’Esselunga. La torta e la pizza, pur essendo entrambe delle merci, non comunicano tra di loro, e seppure siano scambiabili, non sono misurabili. Non funzionano come unità di misura l’una nei confronti dell’altro. La misura interviene e finge la loro commensurabilità.
La valutazione soggettiva, dice Mises (Teoria, 12), perno di ogni attività economica, si limita a ordinare le merci secondo la loro importanza. Ma non misura questa importanza. La misura deve trascendere le valutazioni soggettive. Se un individuo desidera fare uno scambio su base economica, deve semplicemente considerare l’importanza relativa che hanno nel suo giudizio la quantità di merci in oggetto. Una siffatta stima dei valori relativi, dice Mises, non implica in alcun modo l’idea di misurazione. Una stima è un giudizio psicologico diretto che non dipende da alcun tipo di processo intermedio o ausiliario. La stima è più che sufficiente per perfezionare lo scambio. Ma non è per nulla sufficiente a misurare le merci scambiate. Posso stimare la lunghezza di un tubo ad occhio e croce o a spanne, ma per misurarlo ho bisogno di un metro. Il metro si presenta come un criterio non soggettivo, non psicologico, effettivo, materiale, concreto e universale, valido per tutti, in ogni condizione di spazio e di tempo.
Se il lavoro, in quanto erogazione soggettiva, può essere accettato come base del valore, non può in alcun modo essere accettato come sua misura. La misura di due lavori diversi, dice Mises, richiede l’intervento di un terzo, di un medio. Il trapanare è lavorare. Ma il mio trapanare non può essere misura del trapanare di tutti i muratori. Nessuno accerterebbe il mio criterio come criterio universale. Se ciò si verificasse, sarebbe sulla base di una fiducia personale. Se a intervenire non sono la finzione o la simulazione, dovrà essere la fiducia. Siamo ben lontani dall’ottenere ciò che la scienza richiede, ovvero un criterio di misura oggettivo, ovvero necessario e universale.
Se è vero che alla base dalla scambiabilità c’è la forma-merce, questa forma non è sufficiente per misurare il valore. Tuttavia, senza forma-merce, senza valore di scambio, senza la forma pura della merce, non ci sarebbe alcuna misurazione. Ciò che nel valore d’uso è misurato è proprio una forma pura. Il valore di scambio è soggetto (sta alla base – sostanza) di ogni esperienza economica possibile. Non ci sarebbe esperienza economica senza questa forma pura della merce. Invece, il valore d’uso, in quanto entità empirica, in quanto entità utile e godibile, è sempre l’oggetto, la cosa posta innanzi, empirica e volubile, sostenuta dalla forma-merce pura trascendentale. Per ciò che riguarda questa forma merce trascendentale – non empirica e non psicologica – diversamente da Kant, Sohn-Rethel afferma che essa è in quanto deriva dalla storia, ovvero dalla spinta che porta alla separazione di valore d’uso e valore di scambio.
Il valore di scambio non galleggia nell’aria, si fa cosa, s’incarna, si reifica. Una volta reificato, a parlare sarà la cosa stessa. Ma non una cosa qualsiasi o tutte le cose insieme in una babele generale. A parlare sarà una merce sola, una merce, dice Sohn-Rethel, portatrice e cristallo della loro astrattezza, denominatore comune dei loro valori.
 
IX
 
La funzione specifica di questa merce, che funge da forma di equivalenza, diversa dalla forma naturale del suo valore d’uso e diversa dalla forma trascendentale della forma-merce, viene considerata priva di modificazioni materiali solo nel periodo in cui esplica questo ruolo di mediazione. Se si scegliesse di misurare con un metro che si accorcia e si allunga a seconda delle circostanze e del tempo, nessuno accerterebbe di scambiare le merci misurandole con un tale metro. Tuttavia, se il metro vuole misurare grandezze empiriche, non può non reificarsi (incarnarsi) in un oggetto empirico, e ogni oggetto empirico, quand’anche fosse il più idoneo, sarà sempre soggetto alle oscillazioni di spazio e di tempo. Se viene accettato universalmente e necessariamente è solo in quanto si finge che sia privo di modificazioni materiali solo nel periodo in cui esplica il suo ruolo. Infatti, dice Sohn-Rethel, la merce che serve da equivalente viene scelta in modo da corrispondergli il più possibile con la sua natura fisica. Anche se nessuna merce fisica può corrispondere esattamente con un criterio astratto.
La moneta coniata, dice Sohn-Rethel, è forma-valore diventata visibile. È un materiale naturale che porta impresso il fatto di non essere destinato all’uso ma allo scambio e alla rappresentazione di valore. Tuttavia, aggiungo io, poiché la moneta è – e non può non essere – reificazione, oggetto d’uso materiale, in quanto tale, può tornare ad essere valore d’uso, anche quando questa sua materialità si riduce al bit elettronico. Ogni volta che agiscono la spazializzazione e la temporalizzazione si producono oscillazioni, sia nel valore d’uso sia nel valore di scambio, e queste oscillazioni creano un differenziale tra i prezzi, che nel caso della moneta si chiama interesse (Nietzsche). La speranza del monetarismo è di trovare una moneta in cui gli effetti dello spazio e del tempo siano completamente sterilizzati. La speranza è di trovare una moneta ideale, la speranza è di scacciare dalla moneta reale ogni traccia della sua materialità corporale.
Ecco spiegato il perché Sohn-Rethel deve postulare (fingere) l’immutabilità dell’equivalente, immutabilità che si ottiene con un riconoscimento formale a tempo illimitato. Da questo postulato, che non è altro che un riconoscimento formale (forza di legge) – la moneta legale –, deduce l’intelligenza delle scienze fisiche e naturali.
È pure vero che, dice Sohn-Rethel, chiunque abbia in tasca delle monete debba anche avere in testa astrazioni concettuali ben determinate, ne sia o meno cosciente. Di fatto egli tratta le monete come se fossero formate da una sostanza indistruttibile e increata, su cui il tempo non ha alcun potere (il come se, la finzione, vuole nascondere il potere che agisce nella moneta e attraverso la moneta).
Nella società produttrice di merci, dice Sohn-Rethel (81), questa forma mentale è del tutto identica per il pensiero di tutti gli individui, essendo dedotta da un unico oggetto, cioè dal denaro. In questa forma il pensiero ha la procura legale intellettuale della società, pensa letteralmente per la società. Non sarebbe errato affermare che è la stessa società, la sua sintesi che pensa nelle funzioni del semplice intelletto. La sintesi sociale si stabilisce ciecamente come soggetto pensante puro o meramente intellettuale, che coincide con il Noûs (νοῦς) antico e l’ego cogito borghese. Rappresenta la nascita del soggetto da mercato. Ma siccome il mercato non si regge da sé, e non è quel soggetto anonimo e freddo che si crede sia, deve intervenire la forza legale – Sohn-Rethel finge di dimenticarlo.
Il lavoro manuale, continua Sohn-Rethel, è individuale, il lavoro intellettuale dell’intelletto separato dal lavoro manuale è sociale. Per il lavoratore manuale la partecipazione al lavoro complessivo non è mai superiore alla frazione individuale che egli realizza; invece il contributo del lavoratore intellettuale è immediatamente lavoro sociale complessivo. La ricerca di uno scienziato è infatti valida per tutti nella misura in cui è vera, ed è fatta per la società come totalità. L’unità del suo pensiero coincide con l’unità del nesso sociale attraverso la sintesi della circolazione delle merci. Questa sintesi è più astratta e si estende oltre la grammatica delle diverse lingue e l’area di circolazione delle loro monete. Essa è unica, dice Sohn-Rethel, passando per tutte le differenziazioni all’interno dello scambio delle merci, soprattutto ad opera della forma di scambiabilità delle merci; per dirla in breve, quando la forma di scambiabilità assume la forma del denaro in essa circola l’unità del mondo in una rappresentazione concreta, realizzando la sintesi sociale tra i proprietari privati. L’unitarietà funzionale e la completezza della sintesi sociale per mezzo dell’astrazione-scambio sono motivo e condizione per raggiungere l’unitarietà e la sufficiente completezza della logica dell’intelletto separato, ma assumono una forma che non permette più di riconoscere lo sfondo che la determina.
Le particolarità funzionali del lavoro intellettuale separato, continua Sohn-Rethel (82), si presentano come logica soltanto quando sono scisse dalla loro radice e non ne lasciano traccia, queste particolarità si riducono a principi astratti di generalità rigorosamente universale che si riferiscono a qualcosa di fisicamente singolo, per comprenderlo come particolarità dell’universale.
La forma pura detterà la sua legge agli uomini, i quali, avendo adesso un linguaggio comune non hanno più timore di smarrirsi nella società delle merci come nella selva incantata. Ma questo potere conquistato sulla natura è in verità un potere dalla natura sull’uomo. Non sono i prodotti che obbediscono ai loro produttori, ma invece i produttori che agiscono seguendo gli ordini dei prodotti. La forma-merce, dice Sohn-Rethel, è l’astrazione reale che ha la sua sede e la sua origine solo nello scambio, da cui si estende al lavoro e al pensiero per tutta l’ampiezza e la profondità della produzione sviluppata delle merci.
Riassumo. Finisce il comunismo primitivo, l’uomo produce per il mercato, il mercato crea la forma merce, la forma merce deve essere misurata, compare il denaro. Il denaro sintetizza il rapporto sociale di scambio tra venditori e compratori, fornisce uno strumento per farli parlare, e siccome ogni società, se vuole parlare, ha bisogno di uno strumento unico, la moneta si impone come moneta unica. D’altra parte, la moneta permette di pensare, di sintetizzare la molteplicità delle serie empiriche, e con ciò produce i concetti astratti dell’attività intellettuale, e li produce proprio in quanto non pensa più le serie empiriche nella loro diversità, ma le pensa come appartenenti ad un genere, pensa la loro generalità. Lo strumento teorico funziona proprio in quanto esclude l’elemento empirico. Dunque, la mente si costituisce come opposizione ed esclusione della mano. Mentre la mente pensa, ed ha un’idea della sintesi sociale, e della società nel suo complesso, la mano rimane confinata alla sua bestialità manesca. Tuttavia, non si può essere soddisfatti di questo stato delle cose, in quanto la mente, sebbene riesca ad andare oltre il suo naso ed avere una visone complessiva, cosa che non riesce alla mano del manovale incretinito nelle sue manovre, non è padrona a casa propria, non è sovrana di ciò che pensa, perché a dettargli ciò che pensa è ancora il mercato, è ancora la cosa, cosa prodotta dalla mano del servo (il servo diventa padrone del padrone – qualcuno vi vede Hegel?).
Il bisogno della misurazione non è niente di diverso dalla separazione tra chi misura e la cosa da misurare. Se alla base non ci fosse questa differenza e questa tensione non emergerebbe alcuna necessità di valori e di misura dei valori. La misura cerca di superare questa differenza, ma ogni tentativo di superare la differenza – il tentativo di dotarsi di un metro, di un linguaggio, di una moneta unica – non fa altro che acuire o duplicare o replicare la differenza che si vuole togliere, e ciò avviene per l’ineliminabilità del fatto empirico, della traccia corporea. L’unità di misura è un’unità relativa, ritagliata empiricamente fra unità più grandi o più piccole (Nietzsche). Questo fatto, dice Derrida (Il pozzo e la piramide) non è solamente un fatto empirico, non è un fatto che si può eliminare, un fatto contingente, è l’esempio di una legge essenziale che limita irriducibilmente la realizzazione di un ideale teleologico.
Ciò non vuol dire che non si può assolutamente produrre un metro di misura, e che dunque bisogna arrendersi allo scetticismo. La misurazione è possibile. Anche una misurazione pura è possibile. La misurazione pura opera come una traduzione. Nella traduzione da una lingua ad un’altra, anche quando tutto sembra chiaro, rimane sempre un residuo intraducibile che, eventualmente, può gettare nel panico. La resistenza alla traduzione – alla lingua universale, alla moneta unica – è la resistenza del corpo (del segno) alla traduzione. Questa resistenza può essere piegata – con il computer e con il calcolo, con le tabelle attuariali e i database – ma non può essere eliminata, senza eliminare la traduzione o la speranza di una lingua universale o di una moneta unica. Ciò che rende possibile (o pensabile) la moneta unica, la lingua universale (o il comunismo) è anche ciò che le rende impossibili.
 

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