Tempo e Denaro. Risguardi. Franco Piperno interprete di Marx

bilancia

1. Nel periodo in cui ho vissuto nel campus dell’Università della Calabria accadeva, molto spesso, cosi come accadeva con i vecchi compagni di strada, nel piccolo borgo silano, di accostarsi alla teoria del valore-lavoro di Marx con un approccio intriso di curiosità, interesse, sete di conoscenza unita a un’attitudine a riconoscere la complessità del pensiero. Tutto ciò ci portava a percepire, inconsapevolmente, le complicate interpretazioni a cui questa teoria era stata sottoposta, finendo per farci abbandonare il campo. Anche perché si arrivava alla conclusione che bisognava continuare ad indagare, a studiare ed approfondire non solo l’opera del pensatore tedesco, ma anche tutte quelle opere i cui autori si erano cimentati, misurati con la coerenza della cosiddetta legge del valore-lavoro. Paradossalmente, è stato proprio quest’atto di uscir fuori dallo schema, di non seguire un programma lineare, che ha fatto riemergere il bisogno di riprendere quel cammino, in realtà mai interrotto completamente, e ricco di linfa vitale.
Complice di questo nuovo desiderio, di continuare ad indagare una teoria che ha dato luogo a molte controversie, in quella che viene definita una vera e propria «Babele del marxismo», nei suoi numerosi attacchi per scuotere la validità e quindi le fondamenta dell’intero impianto teorico che si regge su quella scoperta, è stato proprio un articolo di una delle menti più brillanti di quell’ateneo che, in qualche modo, mi ha colto in contropiede. L’articolo in questione è «Lavoro e tempo di lavoro in Marx», di F. Piperno, una persona che ha messo a disposizione del movimento operaio tutta la sua conoscenza scientifica. Piperno ha saputo guardare lontano ed è riuscito ad incidere nella politica, pagando un prezzo molto elevato. Quando nell’Università della Calabria fecero irruzione i gendarmi, sequestrarono e distrussero libri come «La rivoluzione terrestre». Egli, com’è noto, riuscì a rifugiarsi in Francia, evitando le maglie della rete del Teorema del 7 aprile.
L’errore cardinale di Marx, scrive Piperno, consiste nel ridurre il lavoro al tempo. Si tratta di lavoro produttivo, cioè di lavoro che accresce il valore delle merci. Lo scorrere del tempo uniforme, i giorni, le ore e i minuti diventano la misura del valore. Se la sostanza del valore è misurata dal tempo di lavoro incorporato in una merce, dal tempo scandito dall’orologio, continua Piperno, allora si verificherebbe una mutilazione semantica, poiché si ridurrebbe il tempo sociale a quello cronologico o fisico, mettendo sullo stesso piano concetti tra di loro incommensurabili, in quanto poggiano su «triadi» completamente diverse: passato, presente e futuro il primo; simultaneità, successione e durata il secondo. Ecco la sintesi a cui approda Piperno, per enucleare che i due ordini sono tra di loro inconciliabili: «il tempo fisico è l’ordine immutabile che l’osservatore vede tra gli eventi; mentre il tempo sociale è l’ordine che l’agire collettivo istituisce tra gli avvenimenti significativi; ed i due ordini sono tra di loro irriducibili». (1) Ancor prima di entrare nei dettagli della questione, dovrebbe essere evidente che la misura del tempo di una giornata lavorativa, secondo quest’ultimo approccio, rientrerebbe nell’ordine del tempo fisico, inteso come tempo assoluto di matrice newtoniana, e che Marx utilizzerebbe come paradigma scientifico implicito.

2. Ma chi ha stabilito che la durata di una giornata lavorativa negli opifici inglesi, agli inizi del 1800, dovesse durare 14 ore? Chi ha imposto che l’orario d’entrata e d’uscita da un ufficio pubblico ai nostri giorni venga registrato mediante un tesserino magnetico (badge) e poi rilevato da un terminale che controlla la presenza dell’impiegato? E a maggior ragione, com’è possibile osservare in questi ultimi due mesi, chi ha deciso che la presenza del tele-lavoro venga segnalata mediante un pallino rosso nella conversazione della piattaforma e che quindi il lavoratore dipendente non possa sottrarsi ai tempi di lavoro previsti dagli accordi contrattuali?  
Forse, il servo della gleba godeva di ritmi meno pressanti, per ciò che concerne l’organizzazione del proprio lavoro, ma era pur sempre vincolato da tempi definiti dall’alternarsi delle stagioni e del giorno e della notte, al massimo poteva sfruttare i periodi di luna piena, per svolgere determinate attività, in fin dei conti doveva dare una parte del proprio prodotto al suo padrone.
Ora, per quanto un contadino della Macchia mediterranea del litorale romano del XVIII, che versa la Decima alla Stato della Chiesa, possa sembrare più vicino alla natura di quanto non lo sia un’operaia delle filande piemontesi alla fine del XIX secolo, è vero che entrambi soggiacciono a diverse forme di organizzazioni sociali che impongono modalità pratiche per l’organizzazione dei tempi in cui il lavoro dev’essere scandito.
Quindi, ha senso criticare quelle interpretazioni teoriche che vedono la storia come lo scorrere del tempo in una sola direzione, un tempo inesorabile che «anticipa ciò che avverrà»(2)  mediante la rivoluzione, ma questa visione non trova riscontro nella fissazione della durata temporale di una giornata lavorativa che è, invece, il risultato di un processo storico.
Nella vendita della sua forza lavoro, il salariato si vede attribuito un prezzo che non è equivalente alla quantità di lavoro svolto, il salario è misurato in ore ed esso dipende, inoltre, dal periodo storico e dall’ordinamento legislativo in vigore, dalle contingenze del mercato e dal variare del potere contrattuale delle forze antagoniste  Nei periodi di crisi, per esempio, là dove la percentuale dei disoccupati è molto elevata, la paga oraria tende a diminuire in modo consistente. Un muratore italiano, sul finire del XIX secolo, percepisce un salario che gli consente di condurre una vita miserevole, sebbene lavori per molte ore al giorno.
Marx prende atto del come gli operai ingaggino una lotta molto dura per liberarsi del tempo di lavoro aggiuntivo che sono costretti ad erogare, per conto e a favore dei loro acquirenti. Ma la durata cronologica della giornata lavorativa non cade dal cielo, essa è parte integrante della nuova formazione sociale che spazza via i legami feudali, cosicché nel nuovo contesto produttivo è il capitalista che computa nei costi di produzione il tempo di lavoro socialmente necessario alla fabbricazione di un determinato oggetto, aggiungendo alla configurazione di costo complessivo: il costo delle materie prime, i costi indiretti di produzione, la remunerazione del capitale fisso e gli oneri figurativi come stipendi direzionali, interessi di computo e compensi collegati ai rischi che si accollano gli imprenditori.
Questo è ciò che avviene sul piano concreto, nel corso dell’affermazione dei rapporti sociali che caratterizzano il modo di produzione capitalistico, e in ogni istante della vita attuale, quando gli imprenditori avviano un determinato processo produttivo. Mentre il concetto di   quantità di lavoro che viene utilizzata, nella produzione di un determinato bene, e che viene misurata mediante il tempo a cui corrisponde un’espressione monetaria, richiede un necessario approfondimento.

3. In base alle mie conoscenze, la teoria del valore-lavoro è parte integrante della più complessa teoria di merce e denaro. Il punto di partenza dell’analisi di Marx non è il valore ma la merce. Se non si capisce il concetto di merce, non si capisce il concetto di valore. Ogni merce ha un valore d’uso e un valore di scambio. L’utilità di una cosa è una condizione necessaria per essere una merce ma non è sufficiente, per diventare merce deve esprimere un valore di scambio. Un’azienda può produrre una macchina agricola destinata alla mietitura del grano, la sua utilità si manifesta nei campi agricoli, ma se non c’è un acquirente, allora non è una merce.
Quando affermiamo che una merce ha un valore, che cosa significa?
Le interpretazioni rigide o chiuse della teoria del valore-lavoro, che non tengono conto del fatto che essa sia parte di un costrutto teorico più complesso, tendono ad asserire che nella merce c’è una quantità di lavoro, del tempo di lavoro oggettivato, lavoro astratto oggettivato. La sostanza di questo valore è il dispendio astratto di lavoro, ossia che sia stato speso, erogato del lavoro per produrre quella determinata merce, ma non importa la specificità del lavoro, non importa che sia il lavoro di un manovale o di un muratore, di un commesso o di un tecnico, di un operaio tessile o di un metalmeccanico, ecc. In questa determinazione astratta di valore, si isola il fatto che sia stato speso del lavoro astratto a cui corrisponde una grandezza misurata dal tempo di lavoro impiegato, dal tempo di lavoro oggettivato. In breve, il dispendio fisco di energia, muscoli, nervi e cervello si traferisce nell’oggetto.
Se si seguono gli approcci che si snodano lungo questi sentieri, è possibile rilevare che il dispendio individuale di lavoro, che si coagula nell’oggetto, possa creare valore a prescindere da un rapporto sociale.
Marx, in realtà, nel cercare di esplicare il concetto di merce, fa riferimento alla determinazione di forma di valore, quindi se si fissa il pensiero sulla grandezza di valore e sulla sua misurazione oggettiva, si finisce per trascurare il ragionamento che la determinazione del valore è una determinazione sociale, ovvero che la grandezza di valore prende forma solo se interviene uno scambio di merci. Se non c’è scambio di merci, se gli oggetti non si relazionano gli uni con gli altri come merci, la determinazione di valore non sussiste. Dunque, il valore è inteso come un rapporto sociale, ma ciò non significa che non abbia una grandezza, oltre la sostanza c’è anche la forma e quest’ultima contribuisce a determinarla.

4. In merito al concetto di merce, la prima distinzione che salta agli occhi è quella tra valore d’uso e valore di scambio. Il valore d’uso, scrive Marx, «costituisce il contenuto materiale della ricchezza, qualunque sia la forma sociale di questa» (3). Esso contraddistingue le qualità intrinseche di una cosa e serve a soddisfare un bisogno. Il falegname che realizza un mobile per la propria famiglia produce un valore d’uso, sia nel modo di produzione feudale che nel modo di produzione capitalistico. Il valore di scambio presuppone, invece, determinate relazioni sociali, ossia che gli oggetti prodotti siano destinati a soddisfare bisogni degli altri. Un determinato prodotto si valorizza solo nello scambio, altrimenti non trova un uso, non viene utilizzato.
Quindi, un prodotto diventa merce, se fornisce un valore d’uso sociale per gli altri, mediante lo scambio. Nel Medioevo, infatti, «né il grano d’obbligo né il grano della decima diventavano merce per il fatto d’essere prodotti per altri». (4)
Il valore di scambio si presenta, in primo luogo, come un rapporto quantitativo. Marx, nel cercare di dipanare la matassa, parte da una semplice equazione tra due merci, da una forma semplice di valore, per affermare che le merci, in quanto valori d’uso, sono qualitativamente differenti. Come corpi di valore hanno caratteristiche intrinseche completamente diverse, perciò scrivere che un Kg di cipolle è uguale a 2 Kg di patate, significa che tra di loro «esiste un qualcosa di comune e della stessa grandezza», cioè la  prima e la seconda merce sono «uguali a una terza cosa, che in sé e per sé non è né l’una né l’altra». (5)
Questo qualcosa di comune non può essere una qualità geometrica, fisica, chimica o altra qualità naturale delle merci. Pertanto, «se si prescinde dal valore d’uso dei corpi delle merci, rimane loro soltanto una qualità, quella di essere prodotti del lavoro» (6), e non sparisce soltanto il carattere di utilità delle merci che vengono scambiate, ma anche le forme concrete dei lavori rappresentati in esse, quindi la cosa comune non è più il lavoro del falegname o del vetraio, del muratore o del manovale, ma solo lavoro umano in astratto.
In sintesi, l’elemento comune alle due merci poste in rapporto, è il lavoro inteso come dispendio d’energia, il lavoro umano indistinto, ed è proprio quest’ultimo che permette di mettere in relazione due corpi di merci che hanno differenti valori d’uso e che sono il risultato di lavori qualitativamente diversi tra di loro. Quindi, ancor prima di passare alla misura della grandezza di valore, ossia al tempo, occorre tener conto dell’elemento comune alle due merci, elemento che le fa diventare «cose di valore». Il valore si realizza perché avviene il reciproco riconoscimento di produttori privati indipendenti che sono parte di una divisione sociale del lavoro più ampia.
Per esprimere il concetto con una metafora, la formula b*h che permette di calcolare l’area del rettangolo di un campo di calcio, il monos (unica) e  nomé (legge), è qualcosa di diverso dai singoli lati che la compongono, il monomio è l’astrazione che mette in relazione i singoli e differenti  lati che compongono la figura, ancor prima di utilizzare il metro per effettuare la misurazione.
Non è facile conoscere la quantità di valore che risiede nelle singole merci, poiché quello che appare è un movimento di cose, quindi se scambiamo un litro di vino con un litro di olio non si sa quanto valore c’è dentro, il valore non appare e non si vedono le ore di lavoro.
Quest’accesso non è rappresentato dalle ore di lavoro, non è possibile misurare la grandezza di valore a livello fenomenico con le ore di lavoro. Ciò che appare a livello fenomenico è il denaro
Le ore di lavoro non vengono impresse sul cartellino delle merci, in esso viene indicato un prezzo a cui corrisponde una somma di denaro. Il denaro compare attraverso un lungo processo storico, allorquando si afferma come rappresentante universale delle merci.
Allora, come si fa a misurare il valore di una merce?
Come si è cercato di delineare, la merce è un rapporto sociale. Non può stare da sola, e di conseguenza, per misurarne il valore, dev’essere comparata con un’altra merce. Essa utilizza un’altra merce come specchio, ossia il corpo di quest’ultima rappresenta il suo equivalente. La sua corporeità fisica diventa lo specchio della grandezza di valore.
Nello sviluppo della forma semplice di valore, Marx, utilizza il lungo esempio della tela e dell’abito e introduce il concetto di forma relativa di valore e quello di forma equivalente, scrivendo che «la forma di valore relativa della tela presuppone quindi che una qualsiasi altra merce si trovi in confronto ad essa nella forma di equivalente». (6)
Affinché si realizzi un’espressione di valore, la tela non può essere equiparata a se stessa, dunque, se scrivo 1 Kg di cipolle = 1 Kg di cipolle, tale identità non costituisce un’espressione di valore, ma solo il fatto che una quantità di un corpo di una merce è uguale alla stessa quantità dello stesso corpo merce, una tautologia (7).

5. Per rendere l’idea o per meglio esplicitare il concetto di valore, Marx ricorre alla metafora della vecchia bilancia con i pesi di ferro, pertanto è necessario che il pensiero riesca ad immaginare il piatto con le patate da un lato e un oggetto di ferro dal peso di un Kg dall’altro. Qui, per quelli della mia generazione, i ricordi corrono veloci: nel porre una forma di ferro con taratura di un Kg sul braccio sinistro, il braccio destro si alza, quindi bisogna aggiungere una quantità di patate fino al punto in cui i due bracci si equivalgono. I corpi delle patate, per effetto della gravità, hanno un peso che non è visibile, di conseguenza si fa riferimento al corpo ferro per creare un rapporto che esprima la formula sintetica di ciò che è comune ad entrambi, ossia la gravità. Dunque, quantità diverse di ferro servono come misura di peso dei corpi di merci che poniamo nell’altro piatto della bilancia, pertanto queste forme di ferro dal peso prestabilito rappresentano, nei rapporti che di volta in volta si vengono a costituire, una «forma fenomenica di gravità».
In sintesi, sul piatto della bilancia patate e ferro sono la stessa cosa, ossia gravità, allo stesso modo nell’espressione di valore, la tela e l’abito sono soltanto valore.
Ma qui, continua Marx, l’analogia finisce. Nell’espressione di peso delle patate il ferro rappresenta «una proprietà naturale comune ad entrambi i corpi, la loro gravità, mentre l’abito nell’espressione di valore della tela rappresenta una proprietà sovrannaturale di entrambe le cose: il loro valore, qualcosa di puramente sociale». (8)
Se si scambiano i membri della semplice espressione di valore, se l’abito viene posto in posizione relativa e la tela in quella di equivalente, varia la proporzione quantitativa dello scambio, mentre il concetto di valore continua ad essere valido. In questa seconda ipotesi è il corpo della tela che esprime l’immediata scambiabilità con l’abito.
Ora, tela e abito, che formano la semplice espressione di valore, si distinguono, non solo per il fatto di essere prodotti con caratteristiche diverse e quindi con valori d’uso diversi, ma anche per essere il risultato di lavori specifici differenti, mentre ciò che li accomuna è il lavoro generale e astratto. Il reciproco riconoscimento del valore nella tela e nell’abito segue un percorso tortuoso, assume un aspetto ingarbugliato, in quanto il dispendio di lavoro umano indistinto, che entra in azione mediante la tessitura, trova una conferma nel lavoro concreto, tangibile della sartoria. In altri termini, come scrive Marx, nella forma di equivalente, il lavoro concreto di sartoria «diventa forma fenomenica del suo opposto, di lavoro astrattamente umano». (9)
Dall’altra parte, però, il prodotto abito è immediatamente scambiabile con la tela, in quanto il lavoro umano indistinto in essa realizzato, il dispendio di energia, muscoli e cervello, e che si presenta come lavoro privato, si riconosce, non solo nella stessa tipologia di lavoro astratto presente nella tela, ma in tutti quei lavori che producono merci.
Dunque, prodotti che hanno valori d’uso diversi, con caratteristiche fisiche completamente diverse e che sono il risultato di lavori concreti differenti, diventano immediatamente scambiabili tra di loro, poiché è possibile rilevare che nella più semplice espressione di valore, l’equivalenza dell’abito si esprime attraverso il lavoro in forma immediatamente sociale.
L’enigma della forma di equivalente delle merci, che si annida nella più semplice espressione di valore, sfugge ai teorici dell’economia borghese del suo tempo, i quali si vengono a trovare abbagliati dalla forma «bell’e pronta del denaro». (10)
Prima di arrivare al denaro come forma di equivalente generale, ossia prima di approdare al luccichio dell’oro, intervengono altri due passaggi essenziali da comprendere e che sono esplicati da Marx nella forma totale o dispiegata del valore e nella forma generale del valore. Tuttavia, in questa sede, per ragioni di spazio, non si prenderanno in esame la II, la III e la IV forma di valore.
Il punto al quale siamo pervenuti, nel procedere dell’analisi, partendo dalla triade valore-lavoro-tempo rielaborata da Piperno, è che il leader di Potere operaio abbia commesso un errore metodologico grossolano, nel senso che pretende di trovare il valore all’interno della singola merce, ricorrendo all’isolamento della stessa. Infatti, si avventura in un tentativo di attribuzione del valore, costruendo tre esempi completamente sconnessi tra di loro: non si rende conto, per esempio, che il valore della sedia prodotta dal falegname delle Serre calabresi non emerge, se non viene messo in relazione al bisogno dell’impiegato del locale ufficio postale. Il diventare sedia, in seguito al lavoro del falegname, non significa che il prodotto venga valorizzato, esso può rimanere un prodotto potenziale, se non trova un uso, se non si verifica lo scambio che riconosce la determinazione concreta di quel lavoro, ma soprattutto se non interviene quel denominatore comune, costituito dal lavoro astratto, che consente alla sedia di divenire una merce, il cui valore relativo trova una conferma, ai nostri giorni, nella forma di  equivalenza generale del denaro.
La sedia, non esprime il suo valore isolatamente. Non si tratta di misurare la quantità di lavoro incorporato nell’oggetto. Anche perché se il falegname ci mette una settimana a produrre quella sedia, non è detto che troverà una contropartita, non è scontato che troverà un corpo in cui rispecchiarsi. In altri termini, il riconoscimento del lavoro del falegname non si verifica in modo automatico, per il solo fatto di aver egli dedicato il suo tempo e le sue abilità alla creazione di un determinato oggetto. Ovviamente, può usare egli stesso quella sedia o darla come dono ad un suo amico che fa il contadino, ma questo non significa che la sua attività di falegname gli permetta di riprodursi. Infatti, in cambio, potrebbe ottenere dei prodotti della terra di cui in quel determinato momento non ha bisogno, poiché le sue scorte alimentari sono sufficienti. Pertanto, il valore relativo della sedia non si manifesta, se il suo essere valore non s’intreccia in una rete di interscambi socialmente condivisi. Ma nel dire questo, crolla la distinzione artificiosa tra «tempo fisico» e «tempo sciale» su cui Piperno articola la sua critica alla teoria del valore lavoro. Non c’è nessuna intenzione di effettuare una critica alla critica della critica-critica, piuttosto avanzare una serie di perplessità su quelle forme di pensiero che si avvitano su se stesse e che si materializzano in sterili polemiche, per il fatto che il terreno su cui poggiano inizi a franare e di conseguenze ci si affretta a sbarazzarsi di ciò che viene considerato ingombrante.
Il punto non è di dimostrare «il vero valore» racchiuso nelle merci, ma rendere evidente che quel valore affiora solo se esiste una relazione sociale, ovvero un rapporto sociale che gli dia una forma determinata. Nel modo di produzione capitalistico il valore di un oggetto si manifesta quando esso diventa una merce scambiabile con tutte le altre merci. D’altronde, anche la connessione con il concetto di «fallacia della concretezza fuori luogo» (a fallacy of misplaced concreteness) di Whitehead, che il compagno Piperno – che è, tra l’altro, tra i fondatori della bellissima esperienza di  radio Ciroma a Cosenza – mette in atto,  mi è sembrata una forzatura, tant’è che subito dopo scrive: «il valore non è una cosa concreta che possa essere mostrata». (11)
Ma in tale affermazione si scopre, a mio avviso, come egli trascuri, forse del tutto involontariamente, sia il concetto di merce, sia la semplice espressione di valore da cui prende forma, e sorvoli, allo stesso tempo, la rappresentazione del concetto di valore a cui perviene Marx, quando dice che esso è una proprietà sovrannaturale delle merci che entrano in relazione reciproca, sulla base di un riconoscimento puramente sociale, di cui i singoli produttori privati, che credono di agire come individui indipendenti, sono quasi del tutto ignari o scarsamente consapevoli.

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(1) F. Piperno, Lavoro e tempo di lavoro in Marx, Uninomade, 2012.
(2) ibidem
(3) K. Marx, Il Capitale, Libro I, Sezione I, Capitolo 1, Editori Riuniti, Roma 1980.
(4) Ibidem
(5) Ibidem
(6) Ibidem
(7)Il valore (la sostanza) non emerge se la merce è considerata isolatamente, ma emerge sempre e soltanto, come Marx scrive ripetutamente nel primo capitolo, nel rapporto con una seconda merce, di specie differente. Leo Essen, Critica dell’economia politica del segno, Baudrilliard e Marx,07/02/2020, www.coku.it
(8) K. Marx, Il Capitale, Libro I, Sezione I, Capitolo 1, Editori Riuniti, Roma 1980.
(9) Ibidem
(10) Ibidem
(11) F. Piperno, Lavoro e tempo di lavoro in Marx, Uninomade, 2012.

 

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