Il Tempo è Denaro

Moneta e divaolo

I

Le persone che nell’Occidente medievale, tra il XII e il XV secolo, possedevano un cultura rimproveravano al mercante che il suo guadagno presupponeva un’ipoteca sul tempo che appartiene solo a Dio.
Guglielmo d’Auxerre, nella sua Summa aurea, composta tra il 1215 e il 1220, dice che l’usuraio agisce contro la legge naturale universale, perché vende il tempo che è comune a tutte le creature. Agostino dice che ogni creatura è obbligata a far dono di sé. Il sole è obbligato a far dono di sé per illuminare. La terra è obbligata a far dono di tutto ciò che può produrre, e lo stesso l’acqua. Ma niente più del tempo fa dono di sé in maniera più conforme alla natura. Volente o nolente, dice Guglielmo d’Auxerre, le cose hanno il tempo. Poiché dunque l’usuraio vende ciò che appartiene necessariamente a tutte le creature, egli lede tutte le creature in generale, anche le pietre, da dove risulta che, anche se gli uomini tacessero davanti agli usurai, le pietre griderebbero se potessero. Ed è una delle ragioni per le quali la Chiesa perseguita gli usurai. È contro di loro che Dio dice: «Quando riprenderò il tempo, cioè quando il tempo sarà in mia mano in modo tale che un usuraio non potrà venderlo, allora giudicherò conformemente alla giustizia».
Stefano di Borbone,
uno dei primi inquisitori, tra il 1223 e il 1250 scrisse una Tabula Exemplorum, ripresa da Bernardo Gui nel suo Manuale dell’inquisitore, dove dell’usuraio si dice che non vende che la speranza del denaro, cioè il tempo, vende il giorno e la notte. Ma il giorno, dice, è il tempo della luce, e la notte il tempo del riposo. Vende dunque la luce e il riposo. Perciò non sarebbe giusto che godesse della luce e del riposo eterni.
N
el medioevo, dunque, il denaro, il commercio e l’usura sono messi direttamente in relazione con il tempo.
Il mercante, dice Jacques Le Goff (Tempo della chiesa e tempo del mercante), scopre il prezzo del tempo nello stesso momento in cui esplora lo spazio: per lui la durata essenziale è quella di un tragitto. Ora, per la tradizione cristiana, il tempo non era, come diventerà invece per il mercante, «una sorta di sdoppiamento dello spazio».
Dallo sdoppiamento dello spazio in unità discrete deriva il tempo, posto che il tempo, come dice Aristotele, è il numero – cioè la misura – del movimento.
Ogni cosa ha una misura e un movimento naturale, dati da Dio.
Il mercante interviene in questi rapporti alterandoli, sottoponendoli a relazioni contro-natura.
Con la ruota
l’uomo inganna il movimento naturale delle gambe e altera il rapporto tra le distanze, che diventano più vicine. Con la barca, i remi e la vela inganna il moto delle braccia e delle gambe. Con il denaro inganna il tempo stesso.

II

Il tempo della Chiesa, dice Le Goff, è innanzitutto un tempo teologico. Esso comincia con Dio ed è dominato da Dio. L’apparizione di Cristo segna il passaggio a un tempo storico. Questa passaggio fissa, con l’incarnazione, un centro, rispetto al quale, il tempo dalla creazione fino a Cristo fa già parte della storia della salvezza. Questo tempo che ha ora un centro, dunque un punto di partenza, ha anche un fine o una fine, ovvero un telos, che dà un senso a tutta la storia: la Caduta dell’uomo, l’Incarnazione di Dio, la Pentecoste, la Parusia.
Cristo, dice Le Goff, modifica o abolisce l’escatologia, apportando
la certezza della salvezza. La parusia è già cominciata, deve essere compiuta con l’aiuto della Chiesa. Cristo, dice, ha apportato la certezza dell’avvento della salvezza. Resta compito della storia collettiva e della storia individuale compierla.
Per compiere la salvezza il cristiano deve rinunciare al mondo, dimora transitoria. Ma, allo stesso tempo, deve trasformarlo, perché il mondo è il cantiere in cui la salvezza si costruisce.
Il tempo della prova e del riscatto
è lineare, ha un senso, avanza per gradi, è misurabile, tende verso Dio. Ma quando esso tornerà nelle mani di Dio cesserà di essere un tempo storico numerabile.
La trasformazione del mondo non deve pervertire la nature delle cose. Ogni perversione impedisce al cammino di compiersi. Di più, precipita il cristiano nei recessi più profondi e infuocati del mondo, lo condanna a subire la cattiva infinità dell’inferno, fatta di un progresso inarrestabile di pene.
Tutto ciò ha a che fare con chi ha posto le cose del mondo nel loro essere – Dio –
e con l’alterazione di questa posizione.

III

Secondo Aristotele le cose mondane (fisiche, naturali) sono state di volta in volta viste secondo la necessità (causae efficientes) e secondo la finalità (causae finales).
La causa efficiente – o necessità esteriore – si identifica con il caso. Si ammette che i fatti della natura vengono determinati esteriormente da cause naturali.
La causa finale si identifica con la teleologia. La finalità può essere interna o esterna.
Quest’ultima, dice Hegel (Lezioni sulla storia della filosofia), ha dominato a lungo la cultura moderna. E così, dice, si brancola alla ricerca di cause esterne, e ci si trastulla con la forma della teleologia esteriore che pone il fine aldilà della natura.
Aristotele, dice Hegel, ha conosciuto queste distinzioni, e la sua concezione della natura è superiore a quella moderna, e lo è in quanto la sua fisica contiene ancora un po’ di metafisica.
I fisici moderni (empiristi), invece, hanno tenuto a distanza la metafisica, convinti che la schietta verità possa passare dalle mani della natura nelle loro mani e nei loro occhi.
Il fatto è che, dice Hegel, essi non si possono liberare del concetto. Con un tacito sottinteso continuano a servirsi di certi concetti, come Consistere di parti, Le Forze ecc., e li adoperano senza sapere affatto se questi concetti hanno una verità e in quale modo hanno la verità. Mentre Aristotele, come d’altronde gli antichi, non manca di interrogarsi sugli universali, ovvero sui principi.
P
er Aristotele ciò che più importa nella natura è determinare il fine come interiore determinazione della stessa cosa naturale. A questo proposito, dice Hegel, egli ha inteso la natura come vita, ovvero come ciò che – scopo in sé e unità con sé – non trapassa in altro, ma grazie a questo principio dell’attività determina i mutamenti in maniera conforme al suo particolare contenuto, e così si conserva in essi.
In questa formula, dice Hegel, Aristotele ha in vista la finalità interna o immanente. Determina la natura come la causa finale, che si deve distinguere da ciò che è fortuna e caso.
Nella
Fisica di Aristotele il concetto di finalità si presenta come momento ideale della sostanza. Si comincia (Fisica II, 8) con l’affermare che il naturale è ciò che si conserva, e che ogni verità, dice Hegel, sta proprio nel capire questa cosa.
Emerge anzitutto il dubbio, si legge nella
Fisica, su cosa impedisca alla natura di operare non secondo uno scopo e secondo ciò che è meglio, ma di comportarsi piuttosto così, dice, come Zeus manda la pioggia, non perché i cereali crescano, ma per necessità, ovvero per la conseguenza, per così dire meccanica e casuale di forze e di resistenze. Il vapore, dice, spinto in alto si raffredda, e l’acqua raffreddata precipita in pioggia. Ed è un caso che, dice, in tal modo prosperino le messi. Parimenti, dice, allorché a qualcuno si infracidiscono le colture, non piove già perché avvenga questo danno – non c’è un progetto, uno scopo che determina il danno – la cosa avviene a caso. Cioè, commenta Hegel, vi è un nesso di necessità, ma esso è un rapporto estrinseco. In ciò sta appunto l’accidentalità della causa come dell’effetto. Che la siccità sia accaduta adesso, e che adesso le piante abbiano bisogno di acqua, è fortuito, non era scritto da nessuna parte e in nessun progetto che le piante dovessero vivere o morire – sono morte (o vissute) per niente, senza motivo, senza scopo, senza indirizzo.
A
questo punto, si domanda Aristotele, cosa impedisce che le parti – per esempio le parti di un animale – non possano secondo natura comportarsi a caso? Che, per esempio, i denti anteriori siano acuminati e adatti a lacerare, e invece i molari siano larghi e buoni a triturare il cibo, può dunque avvenire a caso, senza che questi denti siano necessariamente così fatti a quel fine. La stessa cosa può dirsi per le altre parti del corpo – gli occhi, le orecchie, le gambe, etc. – nelle quali sembra esserci implicito uno scopo: in quell’ambito, in cui tutte le realtà si direbbero generate in vista di uno scopo, queste si sono levate casualmente connettendosi le une alle altre nella maniera adatta.
L’argomento secondo cui la natura ha messo insieme a casaccio le composizioni più strambe e a sopravvivere siano stati i più adatti è stata formulata da Empedocle a proposito dei buoi dal volto umano. E noi stessi, aggiunge Hegel, senza pensare ai favolosi mostri degli antichi, conosciamo una quantità di specie animali, che sono scomparse, perché non potevano sopravvivere. Le prime produzioni naturali, dice, erano dei tentativi, fra i quali non potevano sopravvivere quelli che non si mostravano rispondenti a un fine, quelli che non erano adatti.
La risposata all’argomento di Empedocle è la seguente. Questo modo di vedere, dice Aristotele,
non regge. Tutte le cose naturali si ripetono sempre o per lo più allo stesso modo. Un ulivo ritorna sempre identico nelle generazioni, così una mucca, la pioggia, le onde, il sole, il giorno, la notte, eccetera. Mentre ciò non avviene per gli eventi dovuti al caso o alla fortuna. Se una mucca si rigenera in quanto mucca, ciò vuol dire che la sua fine – ciò che essa diventa in quanto mucca – è guidata dal suo inizio. Ciò in cui c’è uno scopo (télos), è fatto in conformità a questo stesso scopo, sia in ciò che precede, sia in ciò che segue. Dunque, dice, in tutto quello che è o che si genera nel mondo della natura è presente una finalità: ogni cosa è fatta secondo la sua natura.
Natura, commenta Hegel, significa appunto che una cosa diviene ciò che era
già in lei sin dal principio: è questa interna universalità e finalità che si realizza. Sicché, dice, causa ed effetto sono identici, in quanto tutti i singoli membri sono relativi all’unità di un fine.
Operiamo in vista di qualcosa? – si chiede Aristotele.
Ebbene, risponde, in vista di qualcosa si verifica pure le generazione naturale.
Per esempio, dice, se una casa fosse un prodotto naturale, si costruirebbe esattamente come è ora che è prodotta dalla tecnica. E gli esseri che ora sono per natura fossero non solo per natura, ma anche prodotti d’arte si formerebbero né più né meno di come sono formati per natura.
Questo finalismo è particolarmente evidente negli altri viventi che non agiscono ispirandosi a un’arte, né compiendo una ricerca, né a seguito di una decisione meditata.
Sono per natura quelle realtà che, mosse da un principio intrinseco, giungono
per movimento continuo a un certo fine.
In questa affermazione di Aristotele, dice Hegel, c’è tutto il vero e profondo concetto del vivente, che deve considerarsi come fine autonomo in sé: un che di identico a sé, che si stacca da se stesso, e nel suo estrinsecarsi rimane identico col suo concetto – in una parola, dice Hegel, l’idea che realizza se stessa. Così foglie, gemme, radici producono la pianta e tornano a lei. E ciò che esse producono preesiste già, il seme, da cui esse anche sono nate.
Nella concezione moderna di concepire la natura, dice Hegel, questo approccio di Aristotele è andato smarrito o a opera di una filosofia meccanicistica o a opera
di una fisica teologica.
Il meccanicismo mette a fondamento la pressione, l’urto, i rapporti chimici, le forze, in ogni caso sempre le relazioni esteriori e in generale tutte quelle cose che sono immanenti alla natura, ma non sembrano scaturire dalla natura del corpo, ma sono un dato a esso esteriore, tutt’al più un’appendice, come il colore di un liquido.
Per la fisica teologica, dice Hegel, le cause originarie sono pensieri di una mente extra-mondana.

IV

Le creature – la natura – procedono verso il loro fine a un ritmo, dunque con un tempo, dettato da Dio. Il contadino, dice Le Goff, è sottoposto al tempo meteorologico, al ciclo delle stagioni, alle intemperie e ai cataclismi naturali che tutti insieme segnano il ritmo, dunque il passaggio dalla vita mondana alla vita ultra-mondana. A lungo, in questo campo, non c’è stato che necessità di sottomissione all’ordine della natura e di Dio, e come mezzo d’azione la preghiera e le pratiche superstiziose. Ma quando una rete commerciale si organizza, dice Le Goff, il tempo viene preso in consegna dall’uomo e alterato tecnicamente – l’ordine dato da Dio viene trasgredito. Il denaro è uno dei più potenti strumenti di questa alterazione e inganno.
La durata di un viaggio per mare o per terra da un luogo all’altro, dice Le Goff,
il problema dei prezzi che, nel corso di una stessa operazione commerciale, tanto più se il circuito si complica, salgono o scendono, facendo aumentare o diminuire i guadagni, la durata del lavoro artigianale e operaio, per questo mercante che è quasi sempre anche un datore di lavoro, tutto ciò s’impone sempre più alla sua attenzione, diviene oggetto di regolamentazione sempre più precisa.
La misurazione è già un’alterazione del ritmo naturale. Ciò che importa al mercante non è solo misurare il tempo, calcolare la mera distanza tra due punti. Ciò che gli frega è, per esempio, far arrivare in anticipo le sue navi, far in modo che i suoi operai, nello stesso arco di tempo, producano, grazie a qualche marchingegno, un numero maggiore di merci. Ciò che gli frega è far in modo che il suo terreno, sottomettendo buoi e cavalli a compiti che esulano i fini per il quali sono stati creati, figli più messi. Ciò che gli frega è incrociare gli animali, selezionare le sementi, alterare il DNA e avere più raccolti nello stesso ann
o, più latte nello stesso tempo, più occasioni di percorrere il tragitto che porta alla parusia, aggirando gli ostacoli e le prove posti dalla divina provvidenza lungo il cammino.
T
utte queste fregature ordite ai danni della provvidenza hanno a che fare con la scrittura, in particolare con la scrittura contabile. La scrittura è la prima e la più formidabile delle tecniche per ingannare il tempo.
Prendiamo la scrittura cinematografica, dove l’evidenza di questo inganno è più lampante. Con essa posso rendere presente, posso trasportare qui chi si trova in tutt’altro luogo, e possono farlo azzerando
la distanza, dunque azzerando il tempo. Il cinematografo azzera quelle distanze naturali, dunque anche quel ritmo imposto alle cose da Dio. In quanto tele-trasporto o tele-comunicazione il cinematografo trasgredisce l’ordine naturale, perverte il ritmo del mondo. In più, e questo è l’inganno degli inganni, il cinematografo è in grado di rendere presente anche il morto – soprattutto il morto. Anche il morto può ancora parlare e produrre effetti concreti. Pensiamo al valore giuridico di una lettera di cambio firmata da una persona successivamente morta, oppure, esempio perfetto, al testamento.
B
isogna ponderare attentamente il legame tra questa concezione della natura come ciò che avanza con un ritmo dettato da Dio e tutti gli anatemi contro la tele-tecnica o la tecnica in generale, in quanto non c’è tecnica propriamente detta che non sia anche una tele-tecnica.
I
l libro – di carta, digitale, eccetera – mette in opera la più terrificante delle violazione, fa parlare i morti, resuscita i morti, si arroga un potere che è di Dio.

V

L’orologio fu la prima macchina di precisione prodotta dall’Occidente (Carlo M. Cipolla, Storia economica dell’Europa pre-industriale). Almeno dal secolo XIII, dice Cipolla, ci fu gente in Europa che si ruppe la testa per trovare una soluzione meccanica al problema della misurazione del tempo. Nel 1271 Roberto Anglico scriveva di questi progetti, pur ammettendo che la soluzione non era ancora stata trovata. Pochi decenni più tardi, dice, orologi meccanici battevano le ore sui campanili delle chiese di Sant’Eustorgio e di San Gottardo a Milano. Alla metà del Trecento il medico Giovanni de’ Dondi, chiamato poi maestro Giovanni dall’Orologio, produsse un capolavoro di meccanica che indicava automaticamente i giorni, i mesi, gli anni e le rivoluzioni dei pianeti.
Siamo nel Medioevo, con un piede nell’età moderna, non bisogna credere che qui si cerchi di misurare
ciò che sta lì fuori come un che di disponibile per la misurazione.
Per il Medioevo, dice Heidegger (
L’epoca dell’immagine del mondo), l’ente [il tutto] è ens creatum, il frutto dell’azione creatrice personale di Dio inteso come causa prima e suprema. Esser-ente significa allora: appartenere a un certo grado dell’ordine del creato e corrispondere, come causato, alla causa creatrice (analogia entis). Solo entro questa struttura il tempo, l’orologio, le ore e i minuti assumono il loro significato.
Nel Medioevo i
l tempo non è disponibile. Il tempo non è nelle disponibilità dell’uomo, come ciò che sta lì di fronte in quanto oggetto misurabile.
A
ffinché esso diventi un oggetto misurabile per un soggetto non solo deve essere prodotta una tecnologia in grado di misurarlo, deve anche essere prodotto un soggetto misurante per l’oggetto misurato. Per l’uomo classico il tempo non è un ente inerte e manipolabile.
Una delle manifestazioni essenziale del Mondo Moderno, dice Heidegger, è la tecnica moderna.
La tecnica meccanica è il primo frutto dell’essenza della tecnica moderna, che fa tutt’uno con l’essenza della metafisica moderna. Dunque, affinché compaia una meccanica moderna, c’è bisogno di una nuova interpretazione dell’ente, ovvero di una nuova metafisica. Non si tratta – Heidegger lo dice chiaramente – di un progresso nella conoscenza, di un avanzamento da una stadio meno evoluto verso uno stadio più evoluto del rapporto dell’uomo con il mondo.
Q
uando noi oggi parliamo di scienza, dice Heidegger, intendiamo qualcosa di assolutamente diverso dalla doctrina e dalla scientia del Medioevo e anche dalla episteme greca. La scienza greca non fu mai esatta e non lo fu perché per la sua stessa natura non lo poteva essere e non abbisognava di esserlo. Perciò non ha senso alcuno affermare che la scienza moderna è più esatta di quella antica. Allo stesso modo non si può dire che la teoria galileana della caduta dei gravi è vera e che quella aristotelica, secondo cui i copri pesanti tendono al basso, è falsa. Infatti, dice Heidegger, la visione greca della natura del corpo, del luogo, e dei loro rapporti, riposa su una diversa interpretazione dell’ente e determina analogamente una diverso modo di vedere e di indagare i processi naturali. Nessuno, dice, pretenderà che la poesia di Shakespeare sia più progredita di quella di Eschilo. Ma è ancora più assurdo dire che la concezione moderna dell’ente è più esatta di quella greca. Se vogliamo pertanto afferrare l’essenza della scienza moderna, dice Heidegger, dovremo liberarci del luogo comune che pretende di cogliere la natura della nuova scienza procedendo gradualmente dall’antica, sotto la guida dell’idea di progresso.
La meccanica nuova non è, perlomeno al suo apparire, più promettente della meccanica classica. Non si tratta appunto di un avanzamento su una linea di progresso. Si tratta di un salto strutturale, di un diverso ordine epistemico entro il quale il nuovo meccanismo trova una sua applicazione specifica e dunque un suo senso determinato.
I primi orologi, dice Cipolla, marcavano il tempo così imperfettamente che dovevano continuamente venir corretti e la correzione veniva fatta
da appositi «governatori d’orologi», i quali mandavano avanti o indietro la lancetta dell’ora (la lancetta dei minuti apparve molti più tardi) proprio sulla base di meridiane e clessidre. È evidente, dice, che è assurdo parlare dei primi orologi meccanici come di più efficienti sostituti di clessidre e meridiane, ovvero degli strumenti classici di misurazioni. Ciò che in effetti cambia non è il mero strumento tecnico, ma è la struttura complessiva in cui questi strumenti si inseriscono. Il tempo che viene misurato con gli orologi non è lo stesso tempo che veniva misurato con le clessidre. Ciò che vi è di nuovo non è lo strumento di misurazione, ma è il rapporto tra lo strumento e ciò che viene misurato. Non c’è solo un nuovo orologio per il tempo, vi è anche un nuovo tempo per l’orologio.
P
rima che gli uomini potessero sviluppare a applicare la macchina come fenomeno sociale (dice Cipolla) occorreva che gli uomini stessi diventassero meccanici. La tecnica nuova fa tutt’uno con una nuova metafisica.
Il tema dominante nella concezione del mondo sia greco-romano sia orientale, dice Cipolla, è quello di un rapporto che presupponeva nella natura forze inviolabili cui l’uomo doveva fatalmente sottomettersi. I miti di Dedalo, Prometeo e della torre di Babele erano lì a indicare il destino di chi tentasse di rovesciare il rapporto uomo-natura pretendendo di asserire il predominio dell’uomo ed è significativo, dice, che quando gli abitanti di Cnido chiesero all’oracolo di Delfi il suo giudizio sull’opportunità di scavare un canale che tagliasse l’istmo della loro penisola, l’oracolo rispose «Giove avrebbe fatto un’isola invece di una penisola se questo fosse stato il suo desiderio».
Il mondo Medievale, dice Cipolla, misteriosamente ruppe questa tradizione.
Gli uomini si davano continuamente da fare, sconfiggevano le malattie, solcavano i mari in burrasca, salvavano i raccolti dalle temperie e dalle cavallette, ammorbidivano la caduta di chi cadeva in un burrone, bloccavano gli incendi, facevano galleggiare naufraghi, dirigevano battelli pericolanti tra gli scogli. Stratagemmi e inganni di cui erano capaci anche gli antichi. Adesso, però, dominare la natura non appariva più come peccato. Anzi, dice Cipolla, era un miracolo. E credere nei miracoli è il primo passo per renderli possibili. Il culto dei santi, dice Cipolla, si inserisce in questa rottura.
I santi non sono entità ultra-mondane. Sono uomini – uomini in grazia di Dio, ma pur sempre uomini – le cui fattezze tutti vedevano sui portali o all’interno delle chiese: volti di ogni giorno, volti che la gente incontrava di continuo tra i propri simili.
Inesorabilmente, inavvertitamente, l’uomo medievale si mosse nella direzione di rendere
quei miracoli meno funzione dell’azione dei santi e più dell’azione propria.

VI

Non è la meccanica che impone il cambiamento. L’orologio è uno strumento meno preciso della meridiana e della clessidra. Non c’è un cambiamento della base tecnica o scientifica o materiale che impone un cambiamento per così dire culturale – o viceversa. Le due cose si influenzano a vicenda. Di più, sono ciò in cui il medesimo si riparte, si differenzia. Il tempo e il suo strumento di misurazione sono l’uno il differimento dell’altro, o meglio, sono il differimento del medesimo.
Nello
Sterco del diavolo Le Goff spiega come gli uomini del medioevo avevano mutuato dal latino i due significati del termine ratio, che designava sia la ragione che il calcolo. Ragionare e tenere i conti era la medesima cosa. Servirsi della ragione per discernere il vero dal falso e preparare una razione erano la medesima cosa.
Ragionare e fare di conto o tenere i libri contabili, nel medioevo sono le medesima cosa. Ragioneria e Ragionamento sono l’una il prolungamento dell’altro, l’una il differimento dell’altra. Il ragionamento nasce proprio grazie a questo differimento. Senza ragioneria nessun ragionamento.
T
utto ciò è rilevato da Le Goff.
Tuttavia quando dice che nella contea di Fiandra o nel regno di Francia, dove
le finanze urbane furono sottoposte a controlli sempre maggiori, dove Conti e Re pretesero che venissero stilati bilanci nei quali, però, quando il testo è giunto sino a noi, è difficile discernere tra riferimenti a denaro reale e semplici valutazioni monetarie; quando dice che è difficile distinguere tra moneta di conto e moneta spicciola crede di esprimere una difficoltà del ricercatore, dello storico, in verità sta esprimendo quello che stava succedendo.

VII

Il margine tra una cosiddetta valuta reale (Denaro) e una valuta di conto (Moneta) diventa sempre più mobile, più incerto, più soggetto a manipolazioni. Quando Le Goff dice che è difficile capire se alle somme che trova trascritte nei registri corrisponda una identica quantità di Denaro contante coglie certamente una difficoltà della ricerca storica. Tuttavia gli sfugge di rilevare che è proprio questa distinzione che diventa problematica – necessaria, ma problematica.
P
roprio l’immissione consistente di quantità di Denaro contante stimola, si accompagna o è preceduta dall’invenzione di nuove tecniche di scrittura contabile. La stessa rinascita di interesse per l’aritmetica va di pari passo con la contabilità. Anzi, dice Le Goff, nel Medioevo l’aritmetica non è altro che Ragioneria.
L
a diffusione del denaro, dice Le Goff (Lo sterco), stimola il ricorso alla scrittura e alla contabilità, e non è un caso se nel Duecento si assiste alla proliferazione dei manuali di aritmetica.
Il denaro,
dice Le Goff (Lo sterco), si è rivelato uno stimolo fondamentale nel campo della scrittura e della tenuta dei libri contabili, nonché, di riflesso, nell’ambito del calcolo applicato alla necessità della vita quotidiana.
L’impiego
del denaro stimola la tenuta della contabilità, sia nei metodi sia per l’importanza della documentazione che produce. I grandi mercanti e le compagnie commerciali tengono libri di contabilità specializzata, in particolare il «libro segreto» che conserva il contratto tra gli associati, l’ammontare delle quote di capitale versate da ciascun socio, i dati che permettono di calcolare in ogni momento la posizione dei soci e la distribuzione dei profitti e delle perdite.
Il rapporto tra Denaro e scrittura si spinge ancora più in profondità. Con l’invenzione della Lettera di cambio, la scrittura contabile, da strumento di registrazione delle operazione economiche, si trasforma in denaro vero è proprio. Il margine tra Denaro contante – oro, argento e rame – e il
Denaro scritturale (o moneta di conto) – diventa sempre più indecidibile, soprattutto dopo l’invenzione di altri nuovi strumenti finanziari.
L’invenzione della Lettera di cambio, dice
Le Goff, oltre a essere una risposta alle inadeguatezze della quantità di moneta circolante, si spiega con la reazione dei mercanti alle variazioni stagionali del mercato del denaro. Tali oscillazioni dipendevano dalle date delle fiere, dagli andamenti dei raccolti, da arrivi e partenze dei convogli marittimi, dalle abitudini delle tesorerie dei governanti.
La Lettera era una convenzione in virtù della quale il prestatore forniva una somma di denaro al ricevitore e riceveva in cambio un impegno pagabile a termine (operazione di credito), ma in un altro luogo e in un’altra moneta (operazione di cambio). Ogni contratto di cambio generava un’operazione di credito e un’operazione di cambio tra loro intimamente connesse.
Nel momento della sua comparsa
la Lettera istituisce un sistema di credito con riserva al 100% – o quasi. Accende un credito esigibile in un’altra valuta, e con ciò apre anche un mercato dei cambi con annesse speculazioni. Quando qualche secolo dopo si introduce il sistema della girata si può a tutti gli effetti parlare di creazione di moneta bancaria.

VIII

Nel suo Trattato della moneta Keynes dice che bisogna partire dal concetto di Moneta di conto, e che l’origine della moneta di conto coincide con quella dei debiti che sono dei contratti di pagamento differito, e dei listini dei prezzi, che sono delle offerte per contratti di vendita o d’acquisto. Tali debiti e listini dei prezzi, dice, siano essi attestati verbalmente o dalle scritture che appaiono sulle antiche mattonelle e sui moderni registri, possono essere espressi unicamente in termini di una moneta di conto.
Correttamente Keynes fa arretrare le scritture contabili al tempo dell’invenzione stessa della scrittura.
Secondo Keynes la scrittura esprime i debiti, i prezzi e il potere d’acquisto.
È molto importante questo passaggio del
Trattato. La scrittura viene legata al potere. Anzi, Keynes, crede che il potere – il potere di acquisto, e il potere di contrarre debiti – preceda la scrittura. La scrittura – qui – è presentata come un mero strumento per esprimere un voler-dire.
Nel paragrafo successivo
Keynes chiarisce questa precedenza della Moneta di conto (Money-of-Accont) sulla Moneta stessa (Money itself), la moneta spicciola. La moneta stessa (la moneta spicciola, l’entità che si consegna, che passa di mano in mano, l’entità empirica, particolare, effettiva) quell’entità che al passaggio risolve, chiude i contratti di debito e di prezzo, e nel cui corpo (shape) è tenuta (trattenutaheld) una riserva (store) di Potere generale di acquisto, deriva il proprio carattere dai suoi rapporti con la moneta di conto, poiché (aggiunge – ecco la precedenza e l’idealismo!) i debiti e i prezzi debbono essere stati anzitutto espressi (first have been expressed) in termini di quest’ultima.
Il corpo della moneta spicciola deve trattenere, ovvero mantenere nel tempo, perché si tratta di contratti di pagamento differiti, il potere.
Ma non un potere effettivo – questo potere qui -, perché un potere effettivamente espresso si consumerebbe nella sua performance. Deve trattenere, invece, un potere che si tenga e che duri nel tempo, dunque un potere (strano potere) Generale d’acquisto – e non potrebbe essere altrimenti. E tuttavia, questo potere generale – dunque questo non-potere – deve passare da una mano ad un’altra mano, deve pertanto durare, ovvero entrare nella storia, farsi corpo e carne effettivi. E ciò è possibile con la scrittura. E non con la scrittura intesa come espressione ideale di un significato, ma con mattonelle incise (o con incisioni mnestiche).
Keynes ci offre questo strano ente che ha un corpo fisico (la mattonella) e un’iscrizione che si farebbe carico di esprimere un generico potere di acquisto.
Non siamo molto lontani da ciò che Marx scrive nel Capitale a proposito del feticcio.
Sia come sia,
Keynes sembra qui non volersi arrendere al fatto che la scrittura deve avere un corpo e che un corpo con un’iscrizione è denaro spicciolo (money itself), denaro che parla da sé, moneta con un sé, che può andare in giro con un suo voler-dire, alla stregua di un feticcio o di un fantasma.
Data la moneta ideale (la moneta di conto), dice Keynes, qualunque cosa, per il fatto di essere usata nella pratica come utile mezzo di scambio e in quanto possa rappresentare un modo per conservare il potere generale d’acquisto, può avvicinarsi ad essere moneta (si ratta di ciò che Saussure chiama l’arbitrarietà del segno).
Anche qui bisogna sottolineare la precisione di Keynes. Qualsiasi corpo può incarnare il potere generale, ma nessun corpo può avvicinarsi a questo potere fino a coincidere con esso. Deve sempre mantenersi una differenza tra Moneta (Money-of-Accont) e Denaro (Money itself). Senza questa differenza il denaro (o la moneta) non può funzionare. Se questa coincidenza si realizzasse non saremmo in un’economia monetaria, ma in un’economia di baratto. Anche su questo punto si possono avanzare molte riserve. Si può facilmente dimostrare che anche nel baratto deve agire una differenza tra l’intenzione di consegnare la cosa e la cosa stessa.
In ogni caso Keynes precisa che la moneta propriamente detta (Money-Proper in the full senso of the term) può solo esistere (only exist) in relazione alla moneta di conto. Se così non fosse non ci saremmo allontanati dal baratto.
Il baratto di cui parla qui Keynes
è un aldilà di tutti i concetti, delle idee, dei significati, eccetera. Keynes oppone l’economia monetaria, dove il concetto non solo è presente, ma è l’ente vero e proprio, e rispetto al quale la realtà effettiva è solo seconda, derivata, dipendente; oppone l’economia monetaria al baratto, ovvero oppone l’economia monetaria a un mondo dove il concetto è assente, e dove tutto si consuma nel silenzio della mano che consegna la cosa, e dove, soprattutto, non è possibile differimento, non agisce il tempo. Il baratto si realizza in un mondo libero dal concetto, libero dal tempo. L’idea di tornare a uno scambio diretto, privo di denaro, è l’idea di tornare a uno scambio (ammesso che ciò sia possibile) senza tempo, dunque senza esistenza, senza mondo, senza corruzione, senza disseminazione, senza perdita, senza morte. Tutte le varianti tecno-entusiaste – a partire da McLuhan – credono possibile una tecnica che possa ridurre a zero il tempo dello scambio, e dunque eliminare il tempo, l’esistenza, la corruzione etc.
È
evidente che questo aldilà-del-concetto non corrisponde in Keynes ad alcun momento storico, e che nel Trattato funziona per mettere in scena la differenza tra moneta e denaro. Il denaro stesso, facente parte del mondo delle cose, non ammette differimento, si esaurisce nella consegna, non mette in conto il tempo. Al contrario, la Moneta di conto, essendo ideale, non si esaurisce, può sostituirsi e ritornare e significare infinite cose. Può mettere in conto il tempo.
La distinzione tra moneta stessa e moneta di conto può essere chiarita,
scrive Keynes, dicendo che la moneta di conto è la parola (the description) o il titolo (title) e la moneta stessa è la cosa (the thing) che corrisponde alla descrizione.
Senza la messa in scena di questa
differenza tra la parola (concetto) e la cosa (referente/significante) non è possibile un’economia monetaria. Keynes, nel modo più tradizionale, gerarchizza questa differenza. Prima (first) viene la parola – il verbo –, solo a partire dal verbo può giustificarsi e apparire l’esistente – il mutevole.
K
eynes chiarisce anche un altro aspetto importante che riguarda la differenza tra parola e cosa. Se alla parola (moneta di conto), dice, corrispondesse sempre la stessa cosa (lo stesso denaro spicciolo), la distinzione non avrebbe interesse pratico, ma se la cosa può cambiare restando la sua descrizione immutata, la distinzione può assumere notevolissimo significato. E poi fa un esempio. La differenza, dice, è simile a quella tra il re d’Inghilterra (chiunque possa essere) e il re Giorgio. Un impegno contrattuale a pagare fra dieci anni un peso d’oro uguale al peso del re d’Inghilterra non è la stessa cosa di un impegno contrattuale a pagare un peso d’oro uguale al peso d’oro della persona fisica attuale di re Giorgio. Nel secondo caso la parola coinciderebbe esattamente (ammesso e non concesso che ciò sia possibile, perché una parola, anche un nome proprio, di diritto, può riferirsi a cose diverse – ma, come si percepisce, muoversi in questa differenza è molto problematico), la parola coinciderebbe esattamente con questa cosa qui (re Giorgio) e non potrebbe funzionare come moneta di conto in una economia monetaria, nella quale la moneta è il controvalore di tutte le merci, nessuna esclusa.
La differenza tra il baratto – è questo ciò che cerca di spiegarci Keynes – e l’economia monetaria è tutta qui. Nel baratto la consegna della cosa estingue immediatamente il debito. Non c’è dilazione, dunque non c’è tempo. Lo scambio si realizza nel momento in cui le merci cambiano di mano – nell’immediatezza della cessione.
Nello scambio diretto e immediato di una pecora con una capra non c’è bisogno di denaro. Nello scambio non cedo una pecora qualsiasi, una pecora in generale, scambio la pecora effettiva che ho tra le mani – idem per la capra. Pecora e capra sono, nella loro individualità, insostituibili, irrappresentabili.
Questa è la scena che allestisce Keynes. Si potrebbero fare mille obiezioni e avanzare mille critiche, ma ho già riportato l’autorevole sentenza di Hegel. Non esiste alcun
o scambio empirico che escluda il concetto – nemmeno nel baratto. Dunque, anche nel baratto deve intervenire la parola, ovvero una sorta di moneta di conto.
In ogni caso ciò che qui Keynes vuole giustamente sottolineare è la cosiddetta «arbitrarietà del segno». La moneta-segno deve essere necessariamente arbitraria. Per funzionare come moneta di conto deve sganciarsi da ogni legame con la cosa significata, deve diventare potere di acquisto generale – deve sganciarsi dal potere effettivo.
Se un negoziante scrivesse un listino dei prezzi dove si dice che la Mucca Carolina si scambia con tre pecore specifiche (Fiorella, Erbetta e Mangiona), non starebbe in effetti componendo quello che oggi, in una economia monetaria, riconosciamo essere un listino dei prezzi, starebbe soltanto proponendo un baratto, ovvero lo scambio di cose singolari con cose singolari. Un listino dei prezzi, in un’economia monetaria, deve ammettere l’arbitrarietà della moneta-segno. La descrizione della Mucca Carolina deve potersi riferire a cose diverse e non solo ad un’unica precisa cosa (le tre pecore effettive). La Mucca Carolina – il singolare – non può significare un altro singolare (le tre pecore effettive), deve assumere un significato generale nel quale può transitare ogni tipo di merce singolare. Dicendo che la mucca significa 30 denari si ammette di voler scambiare la mucca con qualsiasi altra cosa.
Il problema viene rimbalzato alla teoria del valore. Non ho qui spazio per
discutere questo problema, che Keynes affronta nel capitolo successivo del Trattato. Mi limito a rilevare una ulteriore complicazione che emerge da questa descrizione.

IX

La differenza tra moneta di conto e moneta spicciola o denaro è importante, indispensabile per passare dal baratto all’economia vera e propria. Senza la moneta-segno non ci sarebbe possibilità di esprimere un bene nei termini di un altro o di altri beni.
L’era della moneta, dice Keynes, seguì così all’era del baratto non appena l’uomo adottò una moneta di conto. Con molt
a leggerezza Keynes trasferisce su un piano storico un’esigenza strutturale – l’arbitrarietà del segno. Senza arbitrarietà lo scambio non sarebbe possibile.
Lo schema di questa arbitrarietà
comprende un ente – la moneta di conto – che funziona in modo universale e necessario, e che pertanto non può essere un concetto empirico, ricavato da una esperienza, in quanto l’esperienza non può dare né universalità rigorosa, né certezza evidente (Kant, Tempo, Critica § 4). L’esperienza ci può dire come vanno le cose, ma non come devono andare. Questo ente, in quanto universale e necessario, vale in ogni circostanza e ogni tempo, prescinde dallo spazio e dal tempo, intesi come spazio e tempo empirici.
E comprende un ente – la moneta spicciola o denaro – effettivo, storico, esistente,
dunque soggetto alle condizioni di uno spazio e di un tempo empirici.
Tutti e due questi enti (1 – la Moneta di conto, 2 – il Denaro spicciolo) sono indispensabili. La Moneta permette di esprime il singolare come universale. Il Denaro permette di ri-tradurre questo universale in un singolare. Senza Moneta non potrebbe accendersi un debito, e senza Denaro non potrebbe estinguersi.

Le cose si complicano quando, nel paragrafo successivo, Keynes ammette che tutta questa distinzione (distinzione necessaria, affinché una economia monetaria possa funzionare) non regge, o, perlomeno, è difficilmente controllabile.
Abbiamo visto che, dice Keynes, l’introduzione di una moneta di conto dà origine (anche qui si usa un linguaggio che traspone la differenza su un terreno storico, anziché strutturale) a due categorie derivate: 1) offerte di contratti, contratti e riconoscimenti di debito, espressi in termini di moneta di conto; e 2) moneta propriamente detta, che vi corrisponde, la cui consegna risolve il contratto o estingue il debito.
Keynes sottolinea bene il passaggio all’atto. Senza la moneta propriamente detta (o denaro) non
si potrebbe estinguere il debito e chiudere il contratto, in quanto solo ciò che esiste ha in riserva la possibilità di estinguersi, di morire, in quanto il suo tempo è un tempo finito, e non infinito, come è invece quello di un potere generale (Moneta), universale, trascendente, eccetera.
La cancellazione deve appartenere alla struttura della moneta. Senza possibilità di cancellazione la moneta non potrebbe funzionare come tale.
Per essere cancellabile la moneta deve esistere, deve percorrere il suo tempo, deve spazializzarsi. La spazializzazione della moneta si realizza con l’iscrizione – l’iscrizione in una mattonella, per esempio.
Questa mattonella, come dicevo sopra, deve essere ben strana, in quanto,
da una parte, è soggetta al tempo, esiste – e non può essere altrimenti –, deve dunque darsi in una cosa empirica particolare, il che le impedisce di essere moneta (in quanto la moneta deve essere generale e non particolare), ma allo stesso tempo, proprio per essere moneta, deve poter offrirsi come un che di generale (altrimenti non potrebbe accendere il contratto) il che le impedisce di essere denaro. La mattonella deve tenere la contraddizione.
Questi nodi vengono al pettine
quando, qualche riga dopo, Keynes dice che i riconoscimenti di debito costituiscono essi stessi un utile sostituto della moneta propriamente detta nella funzione di effettuare pagamenti. Quando i riconoscimenti di debito, dice, sono usati in questo modo, possiamo dar loro il nome di moneta bancaria. La moneta bancaria, dice Keynes, si distingue dalla moneta propriamente detta, in quanto quest’ultima è moneta di Stato.
La differenza tra moneta bancaria e moneta di Stato
qui non ci interessa, ciò che interessa è rilevare come la distinzione tra moneta-segno o moneta di conto e moneta spicciala non è consistente. Per estinguere un debito (garantito o meno da uno Stato) si può usare sia la moneta di conto si la moneta spicciola. Per far ciò la moneta di conto deve comportarsi come una moneta spicciola, deve esistere, deve incorporare qualcosa del baratto. Alla scadenza l’estinzione deve realizzarsi con una cancellazione, con un passaggio di mano o con una riga di penna.
Qui tutte le distinzioni storiche, tutte le precedenze messe in campo da Keynes
saltano. In primo luogo salta la differenza tra moneta di conto e moneta propriamente detta. Entrambe possono estinguere debiti, dunque entrambe devono esistere, ed entrambe devono avere sia un corpo fisico (registro, metallo, mattonella, memoria di computer, etc), e, allo stesso tempo, devono esprimere un potere d’acquisto generale. In secondo luogo, salta anche la distinzione tra scambio di baratto e scambio monetario o differito. Sia nel baratto sia nello scambio differito la cancellazione del debito avviene con la consegna della cosa. Il debito si cancella solo se inscritto in un corpo. Dunque, in uno scambio monetario, così come nel baratto, il contratto si risolve solo con la consegna reciproca. Nella scambio di baratto, l’intenzione di scambiare si accende (contratto) solo se la cosa empirica che detengo può diventare l’oggetto di uno scambio possibile, di uno scambio che sopravvive nelle intenzioni di chi possiede la cosa. Dunque, la consegna vera e propria deve essere preceduta da una inscrizione (mnemonica) in cui il mio bene si esprima nei termini di un bene qualsiasi contro cui scambiarsi. Altrimenti bisognerebbe ammettere che lo scambio si realizza per caso.

X

Queste complicazioni sono esemplificate dalla storia della Lira o Libbra, e dalle avventure economiche che, nell’area mediterranea portarono alla nascita dell’economia moderna.
L’invenzione della Lira, come racconta Cipolla, dà la misura di quanto il margine tra moneta di conto e denaro spicciol
o sia mobile.
Tra il il 781 e il 795, dice Cipolla, nel suo vasto impero Carlo Magno mise a punto una riforma monetaria, la quale stabilì il monometallismo argenteo
con una sola e unica moneta legale. Per ogni Libbra di argento puro ricevuta le zecche dovevano consegnare 240 identiche monete. Un sistema monetario con una sola moneta, senza multipli e sottomultipli era un sistema davvero rudimentale.
Disporre di un solo tipo di moneta dal valore unitario piuttosto basso, pari a 1,6 grammi di argento, creava molto difficoltà. Negli scambi, dice, tali difficoltà erano superate sostituendo il denaro con altri mezzi di pagamento come gioielli, cavalli, armi o altre merci.
Per ovvie ragioni lo
stesso metodo non poteva essere adottato dai ragionieri per la redazione delle scritture contabili. La soluzione al problema doveva per forza essere diversa. E fu prodotta in modo spontaneo, dice Cipolla. Non venne imposta, i contabili, non avendo un multiplo effettivo del denaro, trovarono comodo usare la libbra come multiplo ideale di conto. Siccome da una libbra di argento si ottenevano dalla zecca 240 denari, invece di dire «240 denari» la gente preferì dire «1 lira» e invece di dire «2163 denari» si preferì dire «9 lire e 3 denari». Così, dice Cipolla, nacquero la lira in Italia, la livre in Francia e la pound in Inghilterra. Il curioso, dice, è che nacquero come monete-fantasma e tali rimasero anche se ebbero ovviamente sempre un corrispondente metallico rappresentato dai loro sottomultipli effettivamente coniati.
L’uso della moneta-fantasma andò avanti per diversi secoli. Nel primo secolo dalla sua comparsa il denaro d’argento mantenne inalterato il suo peso e la sua lega. Nel secolo X, dice Cipolla, le cose cominciarono a cambiare.
E nel 1252, quando a Firenze comparve il Fiorino d’oro, per le moneta d’argento cominciò un lento declino. La lira di Carlo Magno era equivalente a circa 390 grammi di argento fino. Nove secoli dopo, dice Cipolla, alla fine del Cinquecento, la lira non equivaleva più che a circa 4 grammi di argento a Firenze e a Milano, a circa 3 grammi a Venezia e a circa 6 grammi a Parigi.
La moneta-fantasma non era altro che una moneta di conto, una convenzione e un sistema di notazione contabile per segnare sui registri in modo sintetico una quantità di denaro d’argento.
È evidente che la moneta di conto non può funzionare come moneta senza un riferimento a un denaro (d’oro o d’argento),
e che, essa stessa, in quanto trascrizione effettiva su un registro, eredita tutte le caratteristiche del denaro.

XII

La stipula di un contratto di pagamento differito richiede l’impiego di una Moneta, che in un tempo futuro, ritorni identica a se stessa; di una moneta, insomma, che si ripeta nel ritorno. Questa ripetizione è possibile solo se legata a un tempo omogeneo e vuoto, in cui nell’ora si ripetano e transitino, dal futuro verso il passato, istanti di tempo sempre identici a se stessi. Questo è il tempo dei mercanti e dei contratti. Un tempo omogeneamente misurabile con l’orologio e dominato dal presente degli «ora».
L
a giusta misura del tempo, dice Le Goff (Tempo della chiesa), importa sempre più al buon andamento degli affari. Per il mercante, dice, l’ambiente tecnologico sovrappone un tempo nuovo, misurabile, cioè orientato e prevedibile, al tempo insieme eternamente ricominciato e perpetuamente imprevedibile dell’ambiante naturale.
Il governatore reale dell’Artois, dice Le Goff, autorizza nel 1355 la popolazione di Aire-sur-Lys a costruire una torre campanaria, le cui campane suoneranno le ore delle transazioni commerciali e del lavoro degli operai drappieri. L’utilizzazione, a scopi professionali, di una nuova misura del tempo vi è indicata clamorosamente.
Strumento di una classe, dice Le Goff, capace di offrirci l’occasione di cogliere come l’evoluzione delle strutture mentali e delle loro espressioni materiali si inserisca profondamente nel meccanismo di dominazione economica, sociale e politica dei mercanti che reggono il comune. E, per servirli, si avverte la necessità di una misura rigorosa del tempo, perché nella drapperia (e qui Le Goff cita il testo dell’ordinanza) «è opportuno che la maggior parte degli operai giornalieri [il proletariato tessile] vadano e vengano al loro lavoro a ore fisse». Inizi dell’organizzazione del lavoro, annunci lontani del taylorismo.
Come sottolinea giustamente Le Goff, non è la mera misura tecnica del tempo che lo rende omogeneo. Sono i nuovi rapporti di classe a
determinare una nuova struttura del tempo. Non sono le macchine, non è la tecnica che producono, da sole, un tempo uniforme – meccanico, appunto. Sia le macchine, sia la tecnica, sia l’organizzazione del lavoro, vanno intese nel quadro di una nuova lotta di classe in cui lo sfruttamento è legato più al controllo della prestazione che al controllo dei confini e dei possedimenti.
Solo in questo quadro l’usura non appare più come un peccato contro natura. Solo in questa struttura il monito di San Tommaso (ripreso da Aristotele)
«nummus non parit nummos», «il denaro non partorisce denari» cade nel vuoto. Allo stesso modo, i nuovi intellettuali, che dalle università dispensano il nuovo sapere chiedendo in cambio una collecta, non sono più fustigati, come avveniva al tempo di San Bernardo, in quanto «mercanti di parole», con la motivazione che essi vendono la conoscenza che, come il tempo, appartiene a Dio.
R
eminiscenze di questo atteggiamento verso la scienza, la tecnica e il denaro si ritrovano in certe uscite romantiche, dove si proietta nel mondo l’idea di una immediatezza di rapporto e di uno scambio con le cose senza mediazione, senza concetto, senza salto, senza perdita – senza tempo, come l’amore infinito e eterno.

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J. Le Goff, Nel medioevo. Tempo della chiesa e tempo del mercante, 1960
J. Le Goff, Lo sterco del diavolo, 2010
Carlo M. Cipolla,
Storia economica dell’Europa pre-industriale, 1974
Carlo M. Cipolla,
Le avventure della lira, 1975

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