Centri sociali contro legge del valore-lavoro. Una storia triste

Un stimma

I

Per il Romanticismo di Jena (Friedrich Schlegel, Frammento 70) tutta l’arte deve diventare scienza, e tutta la scienza deve diventare arte; poesia e filosofia devono essere unificate. L’arte e la scienza, la scienza e la vita, non sono l’una fuori dall’altra. Non sono generi diversi, o stili diversi di un supposto sapere umano che li porrebbe come forme nelle quali racchiudere il contenuto umano. Non c’è nessuna forma, nessun genere, nessun metodo che preceda l’umano, e non c’è alcun umano al di fuori di una forma. Forma e contenuto sono l’una il riflesso dell’altro, sono l’una nell’altro: unità di teoria e prassi, di cosa estesa e di cosa pensante (Spinoza).
L’arte non è distinta dal mondo, gli artisti o gli intellettuali non sono una categoria separata che si propone di riformare il mondo. L’attività artistica (o politica – non fa differenza) è immediatamente trasformazione del mondo.
Dal Romanticismo di Jena emergono due tendenze.
Una tendenza progressiva, attivistica, pragmatistica, filo-tecnologica (che include Marx, e soprattutto Lenin) che vede nella tecnologia la possibilità di trasformazione positiva del mondo. Un’opportunità di liberazione (elettricità + soviet) che, tuttavia, corre il rischio che il mondo si rimangi la promessa (o che il capitalismo tecnologico si rimangi l’istanza libertaria). Oggi questa prospettiva sembra incarnata dalla Cina.
Una tendenza regressiva, conservatrice, che vede nella tecnologia un tentativo di cancellare quei momenti di diversità, di intimità, di quotidianità altra rispetto alla quotidianità borghese (temi dell’inconscio, della natura, dell’interiorità, etc). Baudelaire (insieme a Mallarmé, Rilke, Blanchot, Proust, etc) è rappresentativo di questa tendenza intimista e regressiva.
L’artista mette in contatto il mondo borghese inautentico con un mondo di valori positivi che esso nasconde o soffoca o reprime (la bellezza selvaggia della natura, la seduzione dei sensi, l’elemento orgiastico, etc).
In questo caso la trasformazione del mondo passa per un’esperienza radicalmente altra che comanda una prassi del tutto diversa.
Questa linea del romanticismo scarta l’idea di una trasformazione infinita (investimenti + produttività) del mondo.
Non è raro che queste due tendenze si presentino mischiate, o che vengano alternate, permettendo di passare da una fase di entusiasmo a una di negazione e lutto.
In questo quadro si inserisce il dibattito intorno a internet, avviato in Italia sul finire degli anni Ottanta.

II

Nel 1990 nasce in Italia European Counter Network (E.C.N.) e Cybernet, e nel 1991 nasce PeaceLink. Il www non è ancora arrivato, internet è una riserva per università e grossi centri di ricerca, e tra gli smanettoni spopolano le BBS.
Le BBS sono formate da un insieme di computer collegati tra loro tramite la rete telefonica, e gestiti con software dedicato. Permettono la pubblicazione di messaggi su bacheche elettroniche e lo scambio di file e mail.
Esemplificativo del clima di entusiasmo per le possibilità offerte dalla coppia telefono e computer può essere considerato il dibattito promosso dalla rivista Decoder, e riassunto in un articolo apparso su Decoder 5, dal titolo «Rete informatica alternativa», il quale ripropone i temi di un dibattito avviato sicuramente l’anno prima. Partecipai a una riunione del collettivo Damsterdamned del Dams Bologna nell’89, dove veniva appunto presentata questa proposta.
Il titolo illustra bene la situazione. Bisogna costruire una rete alternativa.
Alternativa a cosa?
Il contesto in cui la proposta emerge è quello dei centri sociali.
«Quattro ordini di considerazioni emergono dal dibattito nei centri sociali intorno alla comunicazione. In primo luogo la necessità, chiaramente avvertita da tutti i centri sociali di dover contare su una informazione affidabile, chiara, esaustiva e tempestiva». Questi 4 aggettivi indicano benissimo l’indirizzo scelto, e insieme danno il senso al titolo, e chiariscono l’aggettivo «alternativo».
L’informatica deve essere alternativa, ovvero deve contrapporsi alla comunicazione mainstream (inizia la produzione incessante di termini che possano prendere il posto di Capitalismo). La comunicazione ufficiale non è affidabile. In primo luogo perché non è tempestiva. In secondo luogo perché taglia fuori dal suo ambito fasce consistenti di popolazione (il tema del digital divide). In terzo luogo perché lascia aperta la possibilità di manipolazione del contenuto, e ciò a causa del tempo di latenza. In questo tempo mediano il contenuto può essere tagliato, montato, manipolato, alterato. Quando si affida a un mezzo che, come il denaro, intermedia o interfaccia i due locutori, la comunicazione non è affidabile, non è chiara, non è esaustiva. Infine, il mezzo, per la sua natura di stampo, appiattisce i contenuti, li rende compatibili con il suo codice di trasmissione.
L’idea è che una comunicazione alternativa – tempestiva – sia in grado di eliminare il tempo di latenza, e con esso ogni intermediazione. Il rapporto deve essere diretto. Solo il rapporto diretto, viso a viso, può garantire la trasparenza, la chiarezza, l’esaustività.
Nella struttura di comunicazione tradizionale (broadcasting – televisione) esiste un centro (di controllo) che consente la commutazione dei messaggi. L’immagine è quella della centralina telefonica con l’operatrice che accetta le richieste e le smista, oppure del conduttore radiofonico o televisivo che parla e ascolta mentre il pubblico può solo ascoltare.
Nel sistema di Marx, il valore-lavoro, ponendosi al centro, permette di rapportare e commutare tra loro le singole e diverse prestazione e di tradurle le une nelle altre. Allo stesso modo, nel sistema di broadcasting, il centro di produzione o il mezzo stesso, riduce ogni messaggio allo schema tecnico disponibile rendendo omogenea la trasmissione e la fruizione – il mezzo diventa il messaggio.
«Dobbiamo promuovere un’iniziativa – si legge su Decoder 5 – che spinga verso un’informazione non mediata da alcun organismo “verticistico” o “partitico”. Progetto di una rete informatica che colleghi in tempo reale tutti, nessuno escluso – senza esclusioni di carattere ideologico. La rete deve essere pensata non solo il più aperta possibile, ma anche la più democratica possibile. Senza cioè luoghi privilegiati di trattamento dell’informazione, e quindi il più decentrata possibile. Essa deve permettere, a chi vi entra, di mantenere la propria alterità sociale [tema del cyber-punk e del «junk-modernity»].
Non è difficile leggere in questo progetto le critiche degli anni Sessanta al partito comunista, soprattutto sovietico, allo stalinismo, allo Stato sovietico, allo Statalismo, eccetera. Come non è difficile leggervi la critica alll’Eurocentrismo a favore del terzomondismo, etc. Tema della perdita di centralità dell’Europa – perdita di centralità che non deve aspettare l’Euro, l’unificazione della Germania, etc, ma che inizia con lo Strutturalismo, ovvero con l’idea che non esiste un significato privilegiato, che non esiste un’origine del significato, un centro a partire dal quale la serie si produce e acquista un senso.

III

Nel Pensiero selvaggio Claude Lévi-Strauss non parla più di primitivi. Tutto ciò diventa possibile nel momento in cui si compie un decentramento della cultura europea. La cultura europea viene scardinata, viene scacciata dal suo posto e costretta a non considerarsi più come cultura di riferimento. Questo avvenimento non riguarda la filosofia o la cultura. Non si tratta di un cambiamento di idee, di un rivolgimento nel pensiero, di una riconsiderazione delle posizioni, per così dire, teoriche. Questo avvenimento – che riguarda anche le scienze e la cultura in generale – è un avvenimento politico ed economico. Corrisponde ad un cambiamento di vasta portata nella geografia politica.
Il primitivo è considerato tale rispetto ad un centro che, sincronicamente e diacronicamente, gerarchizza le posizioni: livello primitivo di un esemplare evoluto e istanza periferica di un centro regolatore. Quando l’Europa cessa di essere il centro del mondo, anche l’idea stessa di centro viene revocata. Se il centro è dappertutto, se il mondo è un rizoma, non ha più alcun senso parlare di primitivi.
Questo decentramento dell’Europa ha la stessa età del capitalismo.
Per ciò che riguarda lo Strutturalismo è la linguistica di Saussure ad avere dettato la linea. In un piano strutturale il significato si produce per differenza. Il significato non promana da una fonte – è il concetto stesso di fonte che viene messo in discussione. Su una scacchiera il valore di un pedone non è determinato né dal suo status, incardinato in una gerarchia, né dalla sua posizione originaria o di ingresso. Il suo valore è determinato dalla posizione relativa di tutti gli altri pezzi, e varia al variare della posizione di ciascuno – non ci sono posizioni di privilegio – soprattutto non c’è una fonte unica da cui il valore promana – il valore si forma dal concorso di tutti gli elementi.
Il valore è differenziale. Qui assume una nuova importanza il concetto di gioco e di forze, il valore coincide con il gioco delle forze, si produce per differenza e a partire dalle differenze. I pedoni, o i pezzi in genere, non trasportano un valore da una posizione ad un’altra, non sono mezzi di comunicazione, rispetto ai quali si differenzia un contenuto che, nonostante la posizione, si mantiene uguale. È la posizione del mezzo-pezzo che produce il contenuto – il medium è il messaggio – non c’è possibilità di distinguere tra contenuto e contenitore, tra senso e forma, tra corpo e mente: sono l’uno il riflesso dell’altra.
Tutto il blaterare su geopolitica e simili deriva da questa assunzione. Tutto il blaterare sulla differenza (di genere, biodiversità, di cultura, etc, di medicina alternativa, etc) derida da questa assunzione. Il valore dell’uno deriva dal valore del due e del tre… L’identità si forma a partire dalla non identità. La presenza assume consistenza a partire dall’assenza. Eliminare o recuperare o superare la differenza significa eliminare il processo di valorizzazione, il quale coincide esattamente con la differenza stessa. È il concetto di differenza a diventare centrale. Eliminare l’altro, significa eliminare la differenza, ed eliminare la differenza significa far cadere tutto nel niente.
Valorizzare l’altro (il diverso, l’esotico, l’estraneo e lo straniero, il migrante, il trans, la cultura altra, i saperi minori, le pratiche esotiche e esoteriche, i saperi tradizionali, persino le colture tradizionali, etc) significa valorizzare se stessi: la differenza coincide con il processo di valorizzazione.
È notevole la vicinanza di questo razionalismo con l’empirismo e con il pragmatismo e la scuola economica austriaca (o liberismo), dove il valore emerge nel mercato dalla differenza degli attori in campo, ed è incostante, variabile, mai espressione del valore-uso – dove anche il valore-uso è un effetto e mai una proprietà di una sostanza, di un sostrato cosiddetto naturale  – la materia (sostanza) del materialismo (Baudrillard).
Questo quadro strutturale è in netta opposizione con il quadro hegeliano, dove è il medesimo che si sdoppia e si aliena e si oppone e ritorna al punto di origine, arricchito dell’esperienza mondana. La contraddizione muove il mondo, ma il mondo ritorna sui propri passi. Il padre pianta il seme dal quale nasce il figlio e nel quale ritorna il padre. Il lavoratore, nel suo travaglio, si sdoppia, e nel prodotto compare, alienato o reificato, il suo valore – la sostanza o il fondo del valore – che lui si riprende riappropriandosi dei mezzi di produzione. Solo alienandosi e entrando in contraddizione con questa alienazione l’operaio riesce a modificare il mondo. La contraddizione muove il mondo, ma il mondo ritorna alla prima base, eliminando la differenza che vedeva contrapposti il lavoratore e il suo prodotto alienato. Tutto rientra sotto la legge del padre.
Ciò che il post-strutturalismo intravvede nello strutturalismo è proprio il rischio di prestare il fianco all’empirismo, di trasformarsi in un empirismo, e dunque in uno scetticismo.
Lo strutturalismo ha un impatto forte anche sul marxismo. Ciò che non è più sostenibile, perché si inquadra nell’hegelismo, è la teoria del valore. Il valore non deriva da una fonte – il lavoro. Non c’è alcun autore del valore, alcuna fonte del valore. Un certo spostamento del conflitto verso la finanza e la moneta deriva proprio dalla cancellazione della contraddizione tra capitale e lavoro.
Böhm-Bawerk, nella sua critica alla teoria del valore-lavoro, dirà proprio che in Marx il valore-lavoro funziona come sostanza.
In un quadro strutturale (come nel mercato) non c’è una sostanza del valore. Il valore è differenziale, non deriva da una fonte, da un’origine, da una classe. Il valore coincide con il prezzo. E il prezzo è il differenziale tra domanda e offerta – in quiete, ma risultato del movimento, e esso stesso movimento, sino al punto che anche l’inflazione (l’interesse) finisce per essere convenzione, dando la stura allo scetticismo, tale per cui ogni prezzo (ogni pagamento, ogni ingaggio) e ogni interesse, ogni inflazione è ingiustificato (o giustificato, non fa differenza), e dunque contestabile, variabile, instabile, alterabile, performabile – in soldoni, Insindacabile.

IV

Dal punto di vista sociologico (o politico) lo strutturalismo si esprime nella proposta della città fabbrica. Poiché il valore non deriva da una fonte privilegiata (il lavoro e la fabbrica), ma deriva dalla differenza per opposizione, ciò che conta è appunto la contestazione, l’alternativa, la differenza, l’alterità, il ribellismo. Senza alterità si avrebbe inerzia, indifferenza. Solo dal movimento (movimento studentesco, movimento politico, etc) e non dal partito (identificato come fonte o garanzia della dottrina) si genera valore sociale. A questo punto acquista valenza ogni conflitto: confitto generazionale, conflitto sessuale, conflitto sportivo, etc. il proletario lascia il post al gay, al tossico, al tifoso, al maraglio, etc.
Anche il valore economico non è più il frutto del cosiddetto lavoro produttivo. La distinzione tra lavoro produttivo di capitale e lavoro improduttivo non ha più alcuna consistenza. A produrre valore è l’intera società. Produce valore sia chi lavora, sia chi non lavora, sia chi fatica dalla mattina alla sera, sia chi medita aspettando sul ciglio della strada, sia chi guida il tram, sia chi fa il passeggero, sia la commessa che passa i prodotti allo scanner della cassa, sia il consumatore che striscia la tessera dei punti; produce valore il programmatore di Google e produce valore chi si diverte a fare scherzi inviando spam; producono valore i server di Facebook e produce valore il mio telefono quando invio meme per riderne con gli amici.
Perde di consistenza il concetto stesso di capitale e di lavoratore. I due nomi sono inscritti in uno schema differenziale. Il capitale diventa l’antagonista del lavatore. Tra essi si misura quella differenza radicale e esistenziale dalla quale deriva il valore politico.
La rivendicazione di un basic income matura proprio in questo clima. Poiché il valore è prodotto dalla società nel suo complesso, senza distinzione tra lavoratori produttivi e lavoratori improduttivi, tutti hanno diritto a una fetta della torta, purché si mantengano nella loro differenza. Non si può amare il lavoro e volerlo al contempo superare. Questa confusione hegeliana non è ammissibile. L’orgoglio per il lavoro lascia il posto al rifiuto del lavoro. Prende piede l’aristocraticismo promosso da personaggi come Oscar Wilde (L’anima dell’Umo sotto il socialismo).
La stimma che porta a vergognarsi del lavoro manuale e di fabbrica o di far parte del sindacato nasce anche in questo clima. Il sindacato, oltre ad essere un intermediario tra i differenti (il Capitale e il suo Antagonista), e dunque a parassitare le energie dell’uno e dell’altro, e ad assumere quella odiata posizione hegeliana di universale concreto, dunque ad avere le mani segnate al sudore dell’uno e dai soldi dell’altro, si propone come interprete di una supposta dottrina laburista.
Il fascino movimentista che suscita lo strutturalismo si è mostrato nella fuga verso forme di organizzazione sempre più estemporanee, con strutture sempre meno evidenti, fino a confondersi con il movimentismo di piazza, con il ribellismo anarcoide. Ciò che conta sono i nodi, in una struttura decentrata, dove il collante è il conflitto, l’opposizione, il gioco di presenza-assenza, la continua ricerca della differenza politica, stilistica, lessicale, terminologica, fatta di slogan, vestiti, moda, estremismo, esagerazione, altrovismo, spostamento continuo, sperimentalismo, ricerca dell’effetto, etc.
Il valore politico si produce direttamente dallo scontro. Non c’è bisogno di passare da un centro regolatore. Non c’è bisogno di un selettore e di un interprete o di una traduzione. L’idea che il centro è dappertutto destituisce di ogni pretesa il sindacalista e il politico di professione. Il politico e il sindacalista devono essere come noi, devono essere invischiati nelle cose del mondo, devono essere tutt’uno col mondo. Non possono presentarsi come coloro che, occupando una posizione di privilegio, possono interpretare il mondo, possono fornire senso alle cose che, in se stesse, non hanno alcun senso. Il senso non si produce a partire da un centro, ma si genera nella differenza e per differenza, per scissione e contrapposizione, in una logica dell’alternativa e dell’alternanza.
Nel numero 20 (anno II) del 12 novembre 1970 del quindicinale Lotta Continua si può leggere un’accusa forte e chiara contro il sindacato.
Innanzitutto, si chiarisce su Lotta Continua, bisogna «lottare contro ogni delega». La delega non va bene. È contro l’iniziativa diretta.
L’iniziativa diretta, la presa diretta, la trasmissione diretta, è importante, perché solo chi è invischiato nei processi che contesta, può averne una conoscenza appropriata.
Il delegato, invece, rispetto al mondo della vita e del lavoro effettivo, è sempre fuori contesto. La sua visione è sempre dedotta da un protocollo redatto nelle segreterie, e sempre a cose fatte. O deriva da un piano teorico, rispetto al quale i fatti effettivi ne costituiscono la verifica o la smentita.
La lotta sindacale non può scaturire da un’intesa che si produce al di sopra dell’esistenza. Piuttosto deve assomigliare a un avvenimento storico che non cancella nessuno dei legami con i fatti che chiarisce o che contribuisce a far accadere.
Se la lotta ha alcuni lati oscuri e confusi, bisogna prendere tale oscurità o tale confusione come una caratteristica positiva dell’impegno alla lotta: quest’ultimo non è oscuro rispetto a un ideale di chiarezza, ma l’oscurità, al contrario, lo costituisce in quanto impegno militante.
I
l sindacalista non conosce «per nome e per cognome il proprio nemico». Guarda le cose dal suo punto di vista, ma questo punto rimane strutturalmente al di fuori del contesto dove i fatti accadono e le battaglie si consumano. La sua conoscenza dello stato delle cose, che ai più può apparire precisa e puntuale, priva dei vizi e degli errori di cui soffre il sapere di chi nelle lotte vi è sprofondato completamente, è una conoscenza fredda e disinteressata, che si abbatte sulle cose inquadrandole in un ordine preconfezionato. Nasce da qui la stimma negativa per il personaggio da salotto, per il radical chic, per il topo di biblioteca, per lo studioso etc.
A
nche qui ciò che viene contrastata fortemente è la trinità hegeliana. Per Hegel il senso si costituisce solo nell’esperienza che passa per tre momenti. Il momento mediano – il momento dell’alienazione, della contraddizione e dell’esperienza – è il più importante. Solo staccandosi dal padre e piantandosi nella ventre fertile, il seme, nel travaglio, può tornare a diventare uomo, arricchito dell’esperienza maturata nel tragitto.
Ricordo «Sputare su Hegel» di Carla Lonzi, dove si dice chiaramente che il conflitto uomo-donna non può essere subordinato al conflitto capitale-lavoro, etc.
In questo contesto polemologico acquistano un valore centrale le analisi di Carl Schmitt. Marx viene interpretato alla luce di Carl Schmitt. La teoria del valore, base della teoria dello sfruttamento, viene buttata nel cesso, e la contraddizione tra capitale e lavoro viene trasformata in conflitto tra capitale e lavoro. Conflitto che deve essere spostato o decentrato, ma che non è possibile eliminare. Geopolitica è un altro nome di questa decostruzione del marxismo.

La lotta non si rappresenta. Non si delega. Non si pensa al di fuori della lotta stessa. Qui viene recuperato l’argomento centrale del romanticismo – la coincidenza di mente e corpo, di res cogitans e res extensa, di vita e mondo. L’attività politica è immediatamente trasformazione del mondo.
«La lotta fa un passo avanti – scrive Lotta Continua – quando distrugge la politica come attività separata, come specializzazione, come momento sindacale». [Qui si può leggere l’inizio dell’anti-politica, affermatasi in modo pervasivo a partire dagli anni Novanta]
Lotta Continua «significa combattere lo specialismo e il burocratismo di cui siamo oggettivamente affetti, significa cessare di misurare la nostra crescita sul metro delle riunioni – chiuse – e unirci alle masse nelle loro sedi, nelle piazze, nelle strade, nei bar, nelle case». [qui si misura l’inizio dell’odio per lo Stato, per il burocrate e il funzionario – l’inizio dell’odio verso il sindacato]
Il sindacalista si colloca al di fuori della realtà che lo riguarda. Anche rispetto a ciò con cui ha un legame più intimo, come il suo impiego o le sue passioni, adotta l’attitudine dell’uomo che guarda, che non si pone all’interno degli eventi su cui dirige il proprio sguardo.
Il sindacalista raggiunge
quella distanza critica, necessaria al pensiero, per cogliere la cosa al di fuori di ogni coinvolgimento emotivo. Opera come uno scienziato. Si preserva il potere di retrocedere, di tirarsi fuori, di non investire con le sue emozioni, trasformandolo, l’oggetto di cui si occupa.
I
l sindacalista è un piccolo burocrate, che si prende cura del lavoratore, così come lo specialista si prende cura della milza di un paziente, con la stessa logica, la stessa separazione, lo stesso trattamento seriale, come se ad essere curato non fosse il paziente, ma solo una milza, una milza in generale, una milza qualsiasi, degna di un trattamento qualsiasi, definito in un protocollo scientifico validato da un collegio di pari. [qui avanza tutta la critica contro la medicina tradizionale che porta all’olismo e al no-vax – la porta è spalancata dallo strutturalismo, che critica ogni presa di posizione a partire da verità, centro, etc. la verità è differenziale, è narrazione, racconto, favola, affabulazione].
«
Il rifiuto dello specialismo, di una politicizzazione falsa perché unilaterale, – scrive Lotta Continua – deve riflettersi anche sul modo di porre il problema dell’illegalità e della violenza. La sua organizzazione non è prerogativa di un’avanguardia trasformata in debole e patetico drappello militare, essa è parte integrante dell’esperienza di massa».
Il rifiuto degli sfratti o dei pignoramenti, l’autodifesa contro la polizia, la cosiddetta criminalità giovanile, la violenza politica che trova sfogo negli stadi o nei concerti non possono essere rappresentate. La decisione di
un lavoratore che scende in piazza e grida che ribellarsi è giusto non si rappresenta, non si delega. Non c’è avanguardia che tenga, non ci sono intellettuali e maître à penser che possano conoscere meglio di chi la vive la situazione di chi scende in piazza e si ribella contro lo stato delle cose.
I
nutile segnalare i debiti di questa impostazione con la fenomenologia, con l’esistenzialismo di Heidegger e di Sartre, con l’Intenzionalità di Husserl.
Q
uesta è la posizione di Lotta Continua. Una posizione sostenuta dal suo leader – Adriano Sofri – sin dal 1969.
Nel 1969, in un documento
di indirizzo generale dal titolo Sull’organizzazione, Sofri contesta nettamente l’idea leninista di organizzazione.
L’idea che
la scienza della rivolta possa essere insufflata nella mente della gente da un drappello di intellettuali esterni al contesto dove la rivolta può prendere piede e sfogarsi, è un’idea retrograda, inconsistente, burocratica, scientista e dirigista. E tutti quelli che si fondano, o si rifondano, come partito dei lavoratori o sindacato dei lavoratori, usano i lavoratori come cavie dei loro esperimenti teorici.
Se mai può darsi qualcosa come una avanguardia, quest’avanguardia può
assumere, al massimo, il ruolo di un coordinamento, di un nodo di una rete di relazioni che si auto-costruiscono e si autodefiniscono. Non c’è mai partito. C’è solo e sempre autonomia operaia.
—–

* Prendiamoci la città, Lotta Continua, anno II, n. 20 12 novembre 1970,.

* Adriano Sofri, Sull’organizzazione, 1969

V

Nel 1989, venti anni dopo, vengono riprese pari pari le tematiche strutturaliste recepite da Lotta Continua, senza tener conto delle riserve nel frattempo avanzate dal post-strutturalismo. Senza accorgersi che il partito comunista sta scivolando fuori dalla storia, che i tempi sono cambiati, che anche lo stato sociale se la passa male. Senza tener conto che le aperture dello strutturalismo potevano essere vere negli anni Sessanta e false negli anni Novanta.
A queste tematiche – anti-sindacalismo, anti-politica, democrazia diretta, ribellismo che sostituisce l’anticapitalismo, reddito universale che sostituisce appropriazione dei mezzi di produzione, etc – vengono a sommarsi le conquiste del tardo strutturalismo,
e che consistono in alcuni punti che, tra gli altri, Foucault aveva ribadito in un intervento del 1969 al Collège de France e intitolato Che cos’è un autore?
In questo
intervento, insieme alla morte dell’Uomo, Foucault certifica la morte dell’autore e dell’opera.
Che importa chi parla? – dice Foucault.
A chi importa chi parla, se non
alla Polizia, ovvero a chi vuole impiccarci a una identità?
Bisogna forse ancora ricordare, dice Foucault, che l’identità non è il centro a partire dal quale si organizza o si spiegano l’operare e l’opera di una persona? Certamente no.
D
opo la lezione strutturalista è chiaro che non si dà alcun centro – il centro è dappertutto. Il valore dell’opera, così come il valore del prodotto, deriva per differenza dallo scontro delle forze in un quadrante di lotta. Il prodotto non è mai l’opera di un singolo autore – ma è sempre il risultato collettivo di un insieme disperso di produttori, i quali, rispetto all’opera, non sono più l’autore e gli autori, non solo perché su questa opera non hanno più alcun controllo o ultima parola, non possono rivendicare alcuna archia, alcuna paternità – ma anche perché tutto il processo dal quale l’opera scaturisce mette in discussione la natura stessa di opera, di paternità e di famiglia patriarcale.
I
n una fitta rete globale di nodi significanti in movimento è impossibile dire dove l’opera cominci e dove finisca. La distinzione tra il mondo e l’opera diventa sempre più problematica.
Autore è sempre il nome di un collettivo anonimo, e l’opera
è sempre il frutto di un’azione collettiva. Qui il collettivo non è la classe, ma è il collettivo amico-nemico. Il collettivo si innesta sulla classe, per revocarla.
I
l sindacalista e il politico hanno l’aspetto del poliziotto, sono proprio coloro che producono le identità alle quali pretendono di impiccare le differenze. La mediazione che offrono è sempre una mediazione poliziesca. La pretesa di ridurre la diversità all’unità è la pretesa di voler unificare per sopprimere.
Il poliziotto indossa sempre la maschera di Hegel, vuole sempre riportare il figlio a casa, sotto la legge del padre, vuole ricongiungere il prodotto con il produttore, secondo la legge del valore,
vuole capitalizzare. Quando invece la produzione è disseminazione, dispersione, dispendio, perdita, investimento senza ritorno, bordello, effusione, contatto pelle a pelle, viso a viso, senza intermediazione, senza pellicola, senza lattice, senza mascheramenti, senza interfaccia, etc (Bataille).

VI

Adesso esiste una tecnologia che offre l’opportunità di sommare le due anime del romanticismo, e che può realizzare una immediatezza di contatto – momento di sincerità – senza perciò dover rinunciare alla civiltà. Promette la stessa immediatezza della phonéma a distanza; consente una tele-phonia che è una tele-patia. Una telefonia immediata, senza il bisogno di passare per un terzo, per una intermediazione, per una politica, un sindacato, etc. È il sogno della democrazia diretta – sognata a occhi aperti dal movimento 5 stelle, che ha incarnato le attese millenaristiche sollecitate dallo strutturalismo e rese popolari da McLuhan con il suo villaggio globale e il suo «Gli strumenti del comunicare».
A
nche Foucault nel 69 sognava un mondo di immediatezza e di sincerità. Si può immaginare, diceva nella Conferenza al Collège, una cultura dove i discorsi circolerebbero e sarebbero ricevuti senza che la funzione-autore apparisse mai. Tutti i discorsi, qualunque sia il loro statuto, la loro forma, il loro valore e qualunque sia il trattamento che si fa subire loro, si svolgerebbero nell’anonimato del mormorio – [non siamo lontani da Facebook].
Ma
Foucault era sgamato, e sapeva che la metafisica è una compagna che ritorna e dalla quale è difficile separarsi, a meno di rinunciare a scrivere e a parlare.
Appena il sentimento si fa gesto, si fa letteratura, si inscrive per mano di un qualche autore che si adopera per far parlare questo movimento, per trovarvi “la verità denudata dell’uomo”, non appena ci si pone “all’ascolto di voci venute da molto lontano e che ci dicono, da vicino, ciò che noi siamo”[La follia l’opera assente], questo gesto e questa parola sono catturate ed appartengono interamente ad un mondo che li ha già addomesticati.
Allora il desiderio è quello di lasciare che sia il silenzio a farsi strada, perché le parole e gli scritti hanno qualcosa di minaccioso.
Ecco, dunque, la convinzione lucida e desolata che ormai non si può più mettere tra parentesi un linguaggio, quello della ragione classica e della sua incessante opera di esclusione, non c’è cavallo di troia, non c’è sospensione, parentesi o arretramento di cui ci si possa servire per introdursi nel cuore stesso del sentimento, senza ridurlo ad oggetto di un logos.
Non potendo più esprimere la sua protesta, perché tutte le proteste non sono altro che pioggerelline tropicali nella foresta della ragione, è venuto ormai il tempo per chi scrive, e per la letteratura, dice Foucault, di dimettersi della protesta e della rivoluzione. Perché è ormai passato il periodo in cui il solo atto di scrivere, di far esistere la letteratura attraverso la propria scrittura era sufficiente per esprimere una protesta nei confronti della società moderna.
Non è giunto il tempo delle azioni realmente rivoluzionarie? chiede Foucault.
Adesso che la borghesia, la società capitalistica hanno completamente spodestato la scrittura da queste azioni, il fatto di scrivere non serve unicamente a rinforzare il sistema repressivo della borghesia? Non bisogna smettere di scrivere? Quando dico questo la prego di non pensare che stia scherzando”[Follia, letteratura, società].

VII

Cosa è andato storto?
Già sul finire degli anni Novanta, dunque prima ancora che il movimento 5 stelle prendesse corpo, ci si
accorse che la riproposta, fatta a fine anni Ottanta, dei temi strutturalisti era da revisionare.
Sotto il segno del revisionismo
alcune delle assunzioni dello strutturalismo vennero revocate – ma solo nel nuovo millennio, dopo la bolla delle dot com.
Ritorno un attimo a D
ecoder 5 e al 1989. Nella prima pagina, in modo un po’ naïf, viene confermata la «radicale critica di base del concetto di artista e di arte in generale». Si dice che il Festival dei plagiaristi, tenutosi a Glasgow il 4-11 agosto del 1989, ha ribadito che «l’artista non debba essere visto quasi fosse un genere unico, e che all’idea di artista e di arte borghese bisogna contrapporre la pratica plagiarista della clonazione e del deturnamento del senso. A questo proposito è stata citata la pratica utilizzata da oltre 100 artisti di tutto il mondo di firmare con un unico nome tutti i propri lavori».
Anche qui la proposta sembra c
hiara e in linea con lo strutturalismo e con ciò che Foucault propone nel 1969 (occasione nella quale Foucault ricorda proprio l’esperienza di contestazione avviata sin dal 1935 da un collettivo di matematici sotto il nome Nicolas Bourbaki).
Cosa non ha funzionato in tutto
ciò?
In primo luogo non ha funzionato l’idea che la rete potesse
girare senza un centro – nemmeno un surrogato di centro; non ha funzionato l’idea che si potesse fare a meno del terzo – qui si registra la vendetta di Hegel e del Marxismo.
Per dirla in modo un po’ brutale, ci si è resi conto, anche in modo istintivo, che c’è una certa differenza tra produzione e finanza,
tra produzione e circolazione, tra reale e virtuale, tra presenza effettiva e presenza in trasmissione diretta, che c’è differenza tra essere seduti per otto ore a fare l’autista ed essere seduti sullo stesso pullman a fare il turista, anche se le due esperienze sono entrambe schifose.
In modo confuso si è tornati a pensare una differenza tra – lo dico ancora in modo brutale – una differenza tra struttura e sovrastruttura. Si è intuito che
nonostante la distinzione non avesse alcuna ragione per essere sostenuta o ritenuta consistente, continuasse lo stesso a funzionare, e che qualcuno aveva scoperto questa funzione e l’aveva trasformata in una macchina da sodi; che il nome collettivo faceva fare le stesse cose del nome vero e proprio, etc., che le aziende di informatica, con la scusa del nome collettivo e una miriade sterminata di lavoratori anonimi stavano facendo una barca di soldi; che stampare carta per mettere a lavoro cinesi ed europei e poi far sgonfiare tutto con una crisi finanziaria, fingendo che quella carta avesse un valore generale spendibile, funzionava davvero – lo dico in modo ellittico, bisognerebbe approfondire, ma non ho tempo.
Ci si è accorti che la sostanza, quantunque fosse da rigettare, e fosse intrisa di teologia
e sottigliezze metafisiche e tutto il resto, continuava a operare. Di più, senza di essa, cose come internet non potevano nemmeno generare un bit trasmissibile.
A
nche questa cosa l’avevano intuita, prima fra tutti a Windows, a Apple, a Oracle, a IBM, etc, e ci avevano fatto montagne di soldi. Mentre il movimento si trastullava con la differenza, e ogni volta che si faceva riferimento a una struttura generale (la Legge, per esempio), ti azzannavano alla gola. Mentre tutto ciò avveniva, la finanza, le aziende farmaceutiche, le aziende di software, etc, sfruttavano la metafisica per fare soldi – e gli alternativi reggevano il gioco, dicendo in giro, gridandolo a squarcia gola e ostracizzando i credenti nella legge del valore, che la metafisica non esisteva, che la metafisica era roba da vecchi baffoni stalinisti, che la metafisica era una roba teologica, e via discorrendo.
Qual è il rapporto del capitalismo con la metafisica? Ecco, questa è una bella domanda.
Come il capitalismo mette al lavoro la metafisica? Ecco un’altra bella domanda.
Ciò che non ha funzionato nel progetto di Decoder è l’idea che la rete funzioni in modo anarchico, come il liberismo dice che funzioni il mercato.
Quando ci si
accorse che questa anarchia faceva sistema con il business di alcune grosse aziende americane – Google, Apple, Facebook -, quando ci si accorse che la rete non era quel mondo acefalo che si credeva, che non era quel regno libero e free che si credeva che fosse, il ribaltone della prospettiva era pronto.
La rete funziona come un rizoma,
si diceva, la sua struttura non permette il brodcasting, tutti possono parlare e contestare, tutti possono dire e smentire, tutti possono fare e disfare, etc. In più, la rete mette direttamente in connessione i due punti in ascolto, la rete è peer-to-peer, etc., non c’è mediazione, non c’è politica, non c’è sindacato.
Quando ci si
accorse che la vecchia politica sfruttava la rete di più e meglio dei nuovi fricchettoni, e che il capitalismo sapeva navigare meglio dei Cyberpunk, il ribaltone era pronto.
Allora si cominciò con la nuova religione (esatto contrario della precedente):
La rete è la prigione moderna, la rete è il leviatano, la rete è il panottico, la rete e la Cina sono il nuovo stalinismo – presto arriverà anche il gulag, se non è già arrivato con il Covid. Nello smarrimento, a prendere il sopravvento è stata l’anima regressiva e contestataria del romanticismo.
N
onostante tutto il fracasso, non si riuscì a venir fuori dalla circolazione. Il quadro era ancora quello descritto da Jeremy Rifkin.
Alla
«Fine della storia», narrata da Francis Fukuyama, faceva riscontro la «Fine del Lavoro» di Rifkin. Il valore sembrava ormai potersi spremere dalla circolazione, tutto ciò che c’era da dire era stato detto e tutto ciò che c’era da produrre era stato prodotto. Il valore non si generava nella produzione, non veniva più dal profitti e perdite, veniva dallo stato patrimoniale. Era il patrimonio che, puntato sulla roulette della borsa, poteva clonarsi e duplicarsi. Era l’idea che, travestita da start-up, poteva attirare capitali dal mercato, dalla borsa e della zecca, e fare ricchi i nuovi autori. Era sempre la circolazione il luogo dove si lanciava la rete per catturare gli ignari consumatori con la promessa di felicità infinita.
Era
la vecchia fanfaluca a tornare a spiegare tutto, ovvero l’idea che il consumatore potesse essere sfruttato senza che diventasse un produttore. Era l’idea balzana che la circolazione, per magia, potesse produrre quello che una volta i lavoratori producevano nelle fabbriche.
Ora la rete era il nemico, ma questo nemico si muoveva nello stesso recinto di opposizioni e di alternative.
Il miraggio non durò a lungo – da qualche altra parte nel mondo,
un esercito di lavoratori produceva per l’occidente quello che l’occidente credeva di poter pretendere come rendita – come rendita di posizione – o di comprare per 4 spiccioli stampati freschi. Ma dall’oriente non tardò a giungere sulle sponde del mar nostro l’eco della campana a morte per i rentier.
Questa è la storia dei tecno-entusiasti, da non confondere con la storia del software libero. Che è la storia in cui è più che presente il proposito che il prodotto e gli strumenti di produzione debbono tornare nelle mani dei lavoratori, ovvero di chi li ha prodotti; che il lavoro ha un valore e che questo valore va difeso con uno strumento generale – la Legge
e il Sindacato.

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