Lucio Colletti: marxismo e Lotta di classe

lucio colletti

Lucio Colletti è stato uno dei più raffinati marxisti italiani. La sua conoscenza di Hegel era pari a quella di Jean Hyppolite. Ma a differenza di quest’ultimo, il quale ebbe come allievi (diretti e indiretti) Deleuze, Derrida, Foucault, Balibar e Althusser, Colletti lasciò poche tracce del suo passaggio, se si escludono le influenze su Napoleoni e Orlando Tambosi. La sua posizione mediana era incuneata tra i computisti neo-ricardiani partoriti da Sraffa, e gli operaisti legati a Marcuse, Schmitt, Heidegger, Lukács, Korsch e compagnia bella.
Insegnava filosofia teoretica all’università di Roma, era iscritto al Partito Comunista Italiano (PCI), e collaborò con la rivista del Partito «Società» fino al 1962, anno in cui il PCI, impaurito dalla linea troppo leninista e marxista della rivista, ne decise la chiusura. Nel 1964 uscì anche dal PCI.
Mi trovai sempre più emarginato all’interno del partito – disse nel 1974, nella famosa intervista alla New Left Review (Intervista politico-filosofica) -, mi si permetteva quasi soltanto di pagare la tessera. La militanza nel PCI non ebbe più senso per me, e lasciai il partito in silenzio.
Colletti sarebbe potuto diventare una Star della filosofia europea, e avere una caterva di discepoli e seguaci, se non si fosse incaponito nella demolizione del Diamat, combattendo una guerra solitaria e inutile che lo allontanò da Hegel e dai nuovi e giovani marxisti. Il disgusto per il Diamat lo portò ad abbandonare Hegel e ad arretrare verso Kant e l’empirismo. Da un punto di vista strettamente epistemologico, disse, c’è solo un grande pensatore moderno che può aiutarci, ed è Kant.
Sarebbe utile analizzare in profondità la bellissima lettura di Hegel contenuta nell’Introduzione ai Quaderni filosofici di Lenin, pubblicati nel 1958 da Feltrinelli. Oppure rileggere lentamente il saggio Marxismo e dialettica pubblicato in appendice all’Intervista. Qui, tuttavia, ci si accontenterà di alcuni fugaci cenni.
Il marxismo italiano era egemonizzato dal PCI. Tra il 1945 e il 1955, dice Colletti, era quasi interamente assorbito dal marxismo dialettico sovietico. Toglietti cercò di sostituire all’ortodossia sovietica un’interpretazione del marxismo come erede nazionale dello storicismo di Vico e Croce. Il risultato fu che, fino al 1955-56, l’opera di Marx, e soprattutto Il Capitale, ebbe una diffusione assai limitata.
La mia lettura di Marx, dice Colletti (Marxismo e dialettica), non risentì né del Diamat sovietico né dello storicismo italiano. Ero stato Allievo di Della Volpe, il quale teneva a una lettura di Marx come scienziato. In lui, dice, si ripeteva una costante nella storia dell’interpretazione di Marx, già verificatasi con Kautsky, con Hilferding, con Lenin, con Bucharin, ecc.: che muovendo dalla valutazione di Marx come scienziato, diventava impossibile recuperare e dar voce a quell’altro aspetto del suo pensiero (pur così profondamente radicato nell’opera stessa della maturità) che è la teoria dell’alienazione e del feticismo. Non a caso, del resto, Althusser, dice Colletti, che considera questa teoria un retaggio feuerbachiano e giovanile, trovandosela poi tra i piedi non solo nei Manoscritti del ‘44 ma in tutto il seguito dell’opera di Marx, è stato costretto a spostare la data della coupure sempre più avanti, fino al punto di salvare, di tutta l’opera di Marx, solo quelle poche paginette, scritte prima di morire, che vanno sotto il titolo di Glosse a Wagner.
In Marx, dice Colletti, il tema dell’alienazione è strettamente legato al tema della scienza, ed è presente non solo nelle opere giovanili, ma anche nelle più importanti opere della maturità, quali il Capitale e le Teorie sul plusvalore.
In quest’ultima opera, ad esempio, l’alienazione è legata al tema della possibilità della crisi economica. La possibilità della crisi, com’è noto, dice Colletti, insorge già con la separazione di merce (M) e denaro (D). Non appena il denaro fa la sua comparsa, compera e vendita possono separarsi nel tempo e nello spazio.
Già qui, lo noto di sfuggita, fa capolino la lettura kantiana di Colletti. La separazione, la scissione, secondo Colletti, avvengono in un quadro precostituito di tipo kantiano, in cui lo spazio e il tempo, come spazio e tempo puri, sono già dati al soggetto trascendentale. Se è pur vero che per Kant l’oggetto si spazializza, e che dunque non si cala in uno spazio empirico o ideale vuoto, ma conquista il suo spazio, è parimenti vero che questo spazio di conquista è istituito da una facoltà spazializzatrice del soggetto trascendentale. Al contrario, nella logica hegeliana, non sono M e D che si separano nello spazio e nel tempo, un tempo e uno spazio vuoti e in attesa di accoglierli, ma sono M e D che, separandosi, spazializzano e temporalizzano. È la scissione che spazializza e temporalizza in M e D.
La separazione di M e D è all’origine della possibilità – ma solo della possibilità – della crisi. Se vi sarà una crisi ciò sarà possibile perché c’è stata separazione, perché M si è scissa, si è differita in D. Differenza non recuperabile (aufhebung), differenza tra D e (MD), perché D – lo sanno pure le pietre – può essere tale solo e fintanto che è anche M. Questo D, differimento di M, che è esso stesso anche M – momento che sta per il tutto – è la dialettica. Se ci sarà una crisi – possibilità di crisi – lo si deve al fatto che questo D è anche M. Se D fosse solo D, e non anche M, non potrebbe andare in giro e perdersi, svalutarsi o rivalutarsi, non potrebbe, insomma, spazializzarsi e temporalizzarsi. La spazializzazione e la temporalizzazione di M si avvertono nella deflazione e nell’inflazione di D(M). Se si riuscisse a togliere a D la sua livrea M, si troverebbe la pietra filosofale e si risolverebbero tutti i problemi di crisi, di alienazione e di feticismo.
Perché la crisi è solo possibile?
Colletti dice che la crisi è possibile perché è Astratta – possibilità astratta della crisi. Poi riporta un passo del Capitale dove Marx parla appunto di questa possibilità, e in cui dice che la compra-vendita scinde l’identità immediata: ora l’unità interna si muove in opposizioni esterne. L’opposizione interna tra valore-uso e valore si duplica in opposizione tra lavoro-privato e lavoro-sociale, tra lavoro-concreto e lavoro-astratto-generale, tra personificazione-dell’oggetto e oggettivazione-della-persona (reificazione); questa unità interna diventa esterna. Il diventare esterna porta la possibilità della crisi. Questa possibilità non corrisponde ad una semplice attualizzazione di ciò che era in potenza. Non si tratta di un semplice passaggio all’atto. Un passaggio dalla teoria alla pratica – per esempio.
Questo passo del capitale è molto oscuro, ammette Colletti. L’opposizione interna ad M tra valore-uso e valore, dice, si estrinseca nell’opposizione tra M e D. Ciò che in M era interno, ovvero il valore, diventa esterno, si reifica in D, si fa cosa. D, una cosa, dunque un valore-uso, diventa il corpo che spazializza il valore. Questo valore spazializzato e temporalizzato in D, proprio in quanto spazializzato e temporalizzato, è passibile all’alea del tempo e dello spazio – cade nel cattivo infinito – e nulla garantisce che esso ritorni (aufhebung) tale e quale era, internamente, all’inizio del processo. La sua sortita nel mondo affida ad una possibilità – su infinite possibilità – il ritorno a quell’unità da cui il processo era partito. Qui il ciclo della dialettica prende una china irrecuperabile – quasi irrecuperabile: dialettica con aufhebung solo probabile.
Poiché gli estremi, i poli dell’opposizione in cui si sviluppa la possibilità della crisi sono, dice Colletti, merce e denaro, cioè entità che hanno esistenza reale e che esistono l’una indipendentemente dall’altra, è evidente che non possono mediarsi tra loro, ma neanche abbisognano di alcuna mediazione. Essendo di opposta natura, non hanno niente in comune l’uno con l’altro, non si richiedono l’uno con l’altro, non si integrano l’uno con l’altro. È questa, dice, la conclusione alla quale ero arrivato anch’io sulla scia di Della Volpe. Senonché, aggiunge, come i testi di Marx mostrano ad abundantiam, è evidente che la conclusione è sbagliata. Infatti, la pagina stessa del Capitale, appena citata, ci avverte, dice, che, se è vero che merce e denaro sono «esteriormente indipendenti», «internamente non sono indipendenti perché si integrano reciprocamente»: tant’è vero che, spingendosi la loro indipendenza oltre un certo punto, «l’unità si fa valere con la violenza, attraverso una crisi».
Se è vero che la separazione tra merce e denaro è, per Marx, una contraddizione dialettica di opposti che si integrano reciprocamente, e se è anche vero che questa contraddizione si sviluppa tra opposti reali, dice Colletti, è pur vero che la realtà di questi estremi è qui d’un genere affatto speciale. A pagina 559 del vol. II delle Teorie, Marx, dice, spiega che la «possibilità della crisi» è «la possibilità che momenti che sono connessi, che sono inseparabili, si separino e quindi vengano riuniti violentemente, che la loro connessione finisca col prevalere con la violenza che vien fatta alla loro indipendenza reciproca». Si noti, aggiunge Colletti: i poli della contraddizione qui sono, sì, indipendenti, separati – e tuttavia sono inseparabili, untrennbar. In quanto si sono separati, essi hanno preso realtà; ma in quanto sono inseparabili, essi sono diventati reali, indipendenti l’uno dall’altro, pur non essendolo veramente, si sono fatti reali come cose pur non essendo cose: sono, in breve, un prodotto dell’alienazione, sono entità di per sé irreali seppur reificate.
La teoria del valore e la teoria dell’alienazione, conclude Colletti, descrivono lo stesso processo. L’aspetto individuale o concreto del lavoro fa coppia con il valore-uso, mentre l’aspetto sociale fa coppia col valore. Mentre il primo esprime l’individuale, il secondo esprime il genere, il primo esprime la natura, il secondo la cultura. La separazione (Trennung) tra natura e cultura, dice Colletti, già rilevata da tutti i maggiori analisti della «società civile» borghese del ‘700, da Rousseau a Kant fino a Hegel, passa (pur con modificazioni profonde) all’interno dell’opera stessa di Marx. La società moderna, dice, è la società della divisione (alienazione). Ciò che un tempo era unito, si è ora spezzato e separato. È rotta l’«unità originaria» dell’uomo con la natura e dell’uomo con l’uomo.
Anche qui, lo noto ancora di sfuggita, emerge la difficoltà di Colletti di pensare la separazione. La separazione, come qui è presentata, è una separazione già avvenuta. L’uomo e la natura, per Colletti, si separano se sono già separati, l’uomo si separa da se stesso se è già separato, altrimenti, a separarsi, dovrebbe essere la natura che si separa da sé, che differisce, che si allunga e si protende – ma qui, lo si capisce subito, «natura» non va bene, perché la «natura» acquista il suo senso solo in quanto è separata dalla «cultura» e non è «cultura»; tuttavia, se si riuscisse per un attimo a pensare (ma non è possibile) se si riuscisse a pensare una natura che non sia l’opposto o la contraddizione, eccetera, della cultura, ebbene, allora la cultura sarebbe, a questo punto, natura differita. La separazione non sarebbe un allontanamento di ciò che, pur nella differenza, era vicino e intimo, ma pur sempre diviso. La separazione sarebbe la protensione o la ritenzione – il fort-da -, l’uscire fuori e il ritornare dentro del medesimo, il diventare estranei a se stessi di se stessi.
D è M estraniato, D è M differito. Ma per la stessa ragione per cui D è M differito, anche M è D differito. Dunque, l’alienazione è più arcaica della separazione di cui parla Colletti. M è già da sempre, in sé, fuori di sé – è valore d’uso e valore. Bisogna abituarsi a pensare questo valore non come un’entità logica e iperuranica, oppure come una entità sociale, mentale, culturale, astratta, eccetera. Il valore è valore-uso differito, natura differita. Il denaro è quantità pura e numerario, contemporaneamente, se fosse solo quantità pura e non anche contemporaneamente numerario, non potrebbe misurare alcunché. Ma può essere numerario solo in quanto e fintanto che è anche merce. E viceversa. Se non fosse quantità pura, non potrebbe numerare niente. Non si tratta di arcani e di cose esoteriche. Sono cose note al consumatore comune. Prendiamo il denaro, esso ha un valore facciale e un potere d’acquisto. Se il denaro potesse avere (ma non può) solo il valore facciale, come hanno sognato tutti gli economisti austriaci, da Menger ad Hayek; se si potesse neutralizzare il potere d’acquisto (ma non si può); se il denaro non fosse anche una merce, allora si potrebbe neutralizzare il potere di acquisto e ottenere la moneta perfetta, il numerario perfetto. Ma ciò non è possibile, non perché non si è ancora trovato un metodo o una tecnica per esprimere il valore facciale senza fissarlo, ma perché, di diritto, il valore facciale, deve accadere, deve esserci, deve dirsi o darsi qui e adesso a qualcuno. Nel momento in cui esso si dice, allora si attacca alla cosa, si reifica. Un kg di bistecche è misurato dal denaro. Nel mondo empirico, sia il kg di bistecche sia il denaro che lo misura, oscillano continuamente, si muovono in una continua differenziazione. La quiete – o lo stato di equilibrio, come lo chiamano i neoclassici –  è una finzione con effetto retroattivo, attraverso la quale ciò che si muove è ritenuto fermo e misurabile. Allo stesso modo si finge (retroattivamente) che un kg di bistecche di stamattina, quando il macellaio del supermercato lo ha tagliato, prezzato e deposto nella vaschetta, sia lo stesso che compro la sera quando esco dal lavoro. E, parimenti, i venti euro che consegno alla cassa (valore facciale) siano uguali ai venti euro (valore facciale) impressi sull’etichetta. E invece, nel frattempo, nel tempo che intercorre tra la prezzatura, l’acquisto e il pagamento dei venti euro, sia la carne, sia i venti euro, hanno subito oscillazioni costanti rispetto al loro valore facciale o promesso, tale per cui la carne può essersi deteriorata e svalutata, oppure, per una repentina moria di vacche alla Totò, essersi apprezzata, e idem il denaro. Ora, se volessimo attenerci al mero fatto empirico, non potremmo mai e poi mai scambiare la carne con il denaro. Dobbiamo fingere, ma con effetto retroattivo, il che leva ogni alibi soggettivo alla finzione stessa, dobbiamo fingere un prezzo di equilibrio – fissare un prezzo -, e supporre una moneta che non ha potere (una quantità pura), se vogliamo che lo scambio si perfezioni. Queste finzioni si originano decine di volte ogni giorno. Ogni volta che guardiamo un cartellino del prezzo affisso ad una merce fingiamo (anche quando sappiamo benissimo che non è vero) che i venti euro del mattino sono uguali ai venti euro del pomeriggio – ma non è così. Eppure, ci conviene pensare che sia così, altrimenti cadremmo in una forma di autismo, per il quale tutto sarebbe puntuale, e nulla si convertirebbe in nulla, dove il pane non potrebbe entrare nell’oro, né tanto meno nella carta moneta. Infine, anche la finzione si installa in un quadro che non domina. Non è il frutto di una convenzione, di un’abitudine, di una contrattazione o di una programmazione.
È precisamente questo processo che Marx cerca di spiegare nel passo oscuro del Capitale. Passo che risulta meno oscuro se lo si mette a confronto non con le Teorie, e nemmeno con i Grundrisse, dove, tra l’altro, e in modo più approfondito, viene affrontato lo stesso tema, ma con Miseria della filosofia, dove Marx liquida ogni pretesa di liberarsi del numerario, dell’alienazione, della reificazione, della moneta sonante, o che dir si voglia. L’importanza di questo testo è ribadita dallo stesso Marx, il quale, sia nei Grundrisse, sia nel Capitale, quando tratta questo tema, rimanda proprio a Miseria della filosofia.  
Dove sbaglia Colletti?
Colletti non vuole ammettere la possibilità dell’inflazione o della deflazione. Rifiuta di misurarsi con l’inflazione. L’inflazione è un altro nome dell’alienazione. Immaginate come sarebbe bello il mondo se i venti euro non si svalutassero (o rivalutassero)! Non ci sarebbero quelle violente crisi di cui Marx parla nel Capitale. I conti tornerebbero sempre, e ognuno verrebbe pagato secondo le attese o le promesse. Ci sarebbe ancora plusvalore (e lotta di classe) – ma lo si potrebbe chiamare  surplus. L’economia sarebbe ancora ingarbugliata, ma si avrebbe lo strumento – la programmazione – per domarla e imbrigliarla. I politici – gli uomini che azzardano il colpo di dadi e per i quali l’avvenire è innocente – verrebbero sostituiti dagli scienziati, i quali, con i loro metri infallibili, misurerebbero, stimerebbero, programmerebbero e taglierebbero esattamente le fette che toccano ad ognuno. Le cose sarebbero lasciate libere di trovare da sé il proprio accomodamento, tutto filerebbe liscio come l’olio, e la povertà sarebbe finalmente sconfitta. Infine, una volta trovata la “caratteristica universale”, anche i politici, i parlamenti e gli scienziati verrebbero rimpiazzati da computer e macchine calcolatrici.
A scanso di equivoci, bisogna dire subito e chiaramente che in queste considerazioni non c’è niente di quell’atteggiamento anti-illuminista e antiscientifico – spesso identificato da Colletti con Hegel (Heidegger, Lukács, Adorno, eccetera) -, il quale vede nella scienza una gabbia di acciaio, un sistema totalizzante, un pensiero unico, eccetera, e nella programmazione una chiusura dell’avvenire. L’innocenza dell’avvenire non è garantita mai da una presa di posizione anti-scientifica o anti-illuminista. Nel momento in cui si volesse pensare questa innocenza come subordinata a qualcosa – anche solo l’attesa vuota – essa perderebbero proprio la sua innocenza. E  poiché l’innocenza non si sottomette ad alcun orizzonte di attesa, anzi lo rende possibile, essa non teme la programmazione, di più, la invoca.
Concludendo in modo un po’ troppo ellittico (data l’economia di tempo e spazio), bisogna riconoscere che il problema di Hegel e di Marx è proprio l’inflazione (o la deflazione).
Una volta scisso in M e D, e essendo D diventato lo specchio di M, come impedire che D restituisca una immagine cangiante di M?
La soluzione di Hegel la si conosce bene, si tratta della negazione della negazione. Una volta che M si è specchiata, ed è venuta a conoscenza della sua essenza, può benissimo liberarsi dalla dipendenza di D, e riconquistare la libertà: M-D-M.
Perché ci si deve liberare di D?
Perché D restituisce un’immagine di M sempre diversa (Cattivo infinito), e non c’è modo, di diritto, di arrestare l’alterazione permanente (inflazione, deflazione).
Lo scoglio che Hegel vuole assolutamente superare è il cattivo infinito. Se arretra da Kant a Hume, è perché, proprio in quanto tiene all’esperienza empirica e alla scienza, la soluzione proposta da Kant non gli pare sufficiente.
Il tema del cattivo infinito attraversa tutta la Scienza della logica, ed è la minaccia cui il pensiero è costantemente esposto nel suo procedere (Chiereghin 2012). Se Colletti non si sofferma su questo tema centrale, e riserva tutte le sue attenzioni al problema del misticismo e della ipostatizzazione, è perché la sua interpretazione di Hegel è guidata passo passo dalla lettura umanista di Hegel prodotta da Feuerbach. L’interpretazione feuerbachiana di Colletti, un po’ in ritardo sui i tempi (o in contro-tendenza), è già presente nei suoi scritti degli anni Cinquanta, per esempio nell’Introduzione a Lenin. Lo schema umanista soggetto-oggetto è comodo quando ci si vuole innestare sul terreno delle scienze positive, ma diventa un impaccio quando si vogliono cercare leggi necessarie e universali, e non semplici verità di fatto. L’assoluto – la verità scientifica – cui mira Hegel, non sussiste come conoscenza separata dal conosciuto (Heidegger 1942).
Anche in quei luoghi dei suoi testi dove Colletti si avvicina maggiormente alla questione dell’Assoluto, per esempio nell’Introduzione a Lenin, non coglie la soluzione al cattivo infinito, soluzione che pure ha tra le mani.
La grandezza di Hegel, dice Colletti (Introduzione a Lenin, p. XVII), sta nel tentativo di concepire il finito, a un tempo, come principio e risultato, come immediato e mediato; e l’infinito, all’inverso, insieme come mediazione e immediatezza. Hegel, dice, prefigura una concezione nuova di soggetto e oggetto, pensiero e essere, in cui ciascuno dei termini compaia insieme sia come relazione o unità di sé e l’altro, sia come parte soltanto di questa relazione. Si tratta dell’identità dell’identità e della non identità – M = D(M). A Colletti manca di cogliere che all’inizio – se inizio c’è – non si dà alcuna differenza tra un elemento (per esempio M) e un altro elemento (per esempio D); che la differenza tra M e D è seconda, ovvero, si potrebbe dire, se questi termini non fossero inadeguati, perché tutti segnati da una temporizzazione che si esprime solo a partire dalla differenza tra M e D, che questa differenza è successiva, derivata, eccetera.
Hegel parte dal finito della certezza sensibile, ma questa certezza, che sembra davvero cogliere la cosa nella sua differenza incommensurabile, si trasforma subito nel suo contrario. Il finito è immediatezza, essere positivo, determinazione. Ebbene, la determinazione, dice Hegel, non è altro che negazione stessa. Il finito è subito infinito. Il reale è subito ideale. Ecco l’ipostasi, dice Colletti. L’esistente contiene il non essere e solo questo è il vero, il reale è superficie, apparenza, quindi, “scorza”, “involucro”, ovvero simbolo o allegoria dell’infinito. In quanto, invece, l’essenza sta nell’immediato come “nocciolo”, l’immediatezza è l’essenza implicita, quindi “nucleo” non ancora dispiegato. Si comprende a questo punto, dice Colletti, come il movimento dal finito all’infinito, come questo “andare avanti” per cui l’immediatezza sembra “un primo da cui si cominci e che passi nella sua negazione”, sia per Hegel in realtà solo la veste esteriore di un movimento ben più profondo, che è un “retrocedere” con cui l’infinito – che si è “posto” o “presupposto” liberamente come finito – si recupera e torna a sé. Il perire del mondo, l’annullarsi delle cose, questo passaggio dal positivo al negativo, dal reale all’ideale, dal concreto all’astratto, si presenta ora come un movimento che comincia e finisce nell’infinito. In altre parole, dice Colletti, il sensibile, il determinato, che prima si presentava come ciò su cui si elevava il pensiero e quindi come un fondamento, ora – una volta compiuta l’ipostasi, una volta che sotto e dietro a esso è stato presupposto o interpolato l’infinito, l’astratto, come sua vera natura – appare solo più come “scorza”, come un “involucro” e un diaframma. L’eliminazione di questa scorza vale ora per Hegel come un liberarsi, un riaffiorare del “nucleo” fuori dal suo “involucro”, come un atto cioè con cui l’infinito si recupera dalla sua alienazione nel mondo e riemerge dal fondo delle cose. La caduta del sensibile, dice, rappresenta così l’atto con cui l’infinito nega il suo “esser posto” (das Gesetztsein),  o, il suo essere incarnato in un corpo, la sua umiliazione nel finito, dalla quale risorge liberandosi della carne. È giusto, conclude Colletti, che Hegel ritrovi dietro le cose negate ciò che dapprima vi ha messo.
Questa descrizione cristologica della dialettica finito-infinito, in cui l’infinito (Dio) s’incarna in un corpo terreno (Cristo), giusto il tempo di apparire e annunciarsi all’uomo, per poi sbarazzarsene e risorgere ritornando in cielo, è convincente, se non fosse che in Hegel l’infinito (Dio) non sta da una parte, mentre il finito (il mondo e l’uomo) sta dall’altra. Pensare il rapporto dell’infinito al finito in questi termini è errato. In quanto significa tenere l’infinito da una parte e il finito dall’altra, il che, lo aveva già mostrato Jacobi, è sbagliato.
Colletti conosce bene l’argomento di Jacobi, e sa che esso ha infiltrato la Logica di Hegel in profondità. E tuttavia, la lettura che dà di questo argomento è totalmente errata, perché viziata dalle lenti umaniste di Feuerbach che Colletti non smette mai.
Per Jacobi, dice Colletti (Hegel e Jacobi), pensare, comprendere, spiegare – al modo delle le scienze positive – è addurre le condizioni di qualcosa, la causa o il fondamento da cui la cosa stessa deriva. Ma ciò, per Jacobi, significa che noi, in quanto pensiamo, rimaniamo in una catena di condizioni condizionate, dove tutto si presenta come un che di causato e dipendente a cui si perviene muovendo da altro. Da qui l’impossibilità per il pensiero di abbracciare l’inizio o la “causa prima”. Appena il pensiero si avvicina all’origine, l’origine si sposta, si converte, perdendo ciò che dovrebbe caratterizzarla, ovvero l’incondizionatezza, l’assolutezza, la libertà, la verità. Pertanto, ogni verità colta a partire dal pensiero, ogni verità umana, è una verità parziale, condizionata, probabile: una non-verità. Per Jacobi (e per Hegel, che su questo punto lo segue), il conoscere della scienza positiva, dice Colletti, viene concepito soltanto come conoscenza del finito, come il procedere per mezzo del pensiero attraverso date serie da condizionato a condizionato, in cui ciò che era condizione riappare, a sua volta, come condizionato. Ora, dice Colletti, poiché all’origine non si può porre il pensiero accanto al pensato, perché altrimenti si cascherebbe nel cattivo infinito, allora si deve ritenere questa origine – che non è più un’origine – come un’estasi, un’estasi dell’assoluto. Dunque, l’assoluto – il vero – non solo deve risultare come termine del processo, ma anche come suo inizio. Ciò, conclude Colletti, ricorda molto da vicino l’innatismo, o la presupposizione dell’idea. Ma qui, dice, non c’è sillogismo, che sarebbe un ragionamento, qui c’è fede.
Il fatto è che anche Marx tratta il tema della conoscenza finita negli stessi identici termini.
Per svelare il segreto della forma semplice di valore, dice Frank Engster (Il Capitale e il suo punto cieco), Marx mostra che tale forma conduce a una «cattiva infinità». Il valore della merce A, che si trova nella «posizione relativa», deve essere espresso da una seconda merce B nella «forma di equivalente» (Capitale I, 3.). Tuttavia, tale necessità conduce a una serie – prolungabile a piacimento – di tutte le altre merci C, D, E, ecc., senza che il valore di una merce diventi determinabile in modo definitivo e univoco: «z merce A = u merce B, ovvero = v merce C, ovvero = w merce D, ovvero = x merce E, ovvero = ecc.» (Capitale I, 3), e così via, fino alla (cattiva) infinità. L’espressione relativa di valore della merce è incompleta, dice Marx (Capitale I, 3), perché la serie in cui essa si espone non si chiude mai. La catena rimane continuamente prolungabile da ogni altra merce che si presenti di nuovo. La cosa davvero sconcertante – Colletti se ne accorge già nell’Introduzione – è che Marx, anche se qui e là vacilla e fornisce spiegazioni di ripiego, comode per la scienza positiva, non si arrende a chiudere il cerchio così come ha fatto Hegel, né tanto meno si accontenta della soluzione umanista elaborata da Feuerbach. Chiudere il cerchio significherebbe far tornare i conti; ma far tornare i conti significherebbe rinunciare al Plusvalore. Ma ciò non è ammissibile. Rinunciare al Plusvalore – Colletti lo sa benissimo – significa rinunciare alla lotta di classe.
Lo schema del Plusvalore di Marx, dice Colletti (Rinascita, 5 maggio 1978), è elementare ma eloquente. Esso ci dà l’anatomia della società borghese moderna. Ci spiega quali siano le classi fondamentali di questa società, come si riproducano e di che vivano. Produttore di valore è solo il lavoro, il lavoro salariato. Ma una parte di questo valore prodotto – il Plusvalore – è sottratta, estorta. Dal plusvalore, dice, derivano poi profitto, rendita e interesse. Ecco, d’un colpo, spiegato, dunque, il meccanismo fondamentale della società. Una classe produce per tutti. I redditi di cui vivono le altre, dice, sono “detrazioni”, “deduzioni”, dal valore aggiunto dal lavoro alla materia prima. Struttura delle classi e dinamica della lotta di classe, dice, sono già iscritte qui: nella teoria del valore. E qui è iscritto anche il ruolo e la funzione che, nel discorso di Marx, ha la classe operaia. Garegnani sostiene che si può togliere all’opera di Marx la teoria del valore senza che quest’opera abbia a soffrirne. Non capisco, dice, come si possa sostenere questa tesi seriamente. Senza il concetto di “valore”, non si può definire in Marx neppure quello di “denaro”, di “capitale”. Garegnani propone di lasciar cadere il Primo libro del Capitale (il che significa anche i Grundrisse e buona parte delle Teorie sul plusvalore). L’intenzione di Garegnani, dice, è di far digerire Sraffa ai marxisti. La teoria dello sfruttamento, in Marx, è organicamente dipendente dalla teoria del valore. Lasciar cadere la teoria del valore e del plusvalore e continuare a parlare di sfruttamento è, dice, assai problematico. Garegnani, che lascia cadere valore e plusvalore, crede che, per parlare di sfruttamento, basti il concetto di “sovrappiù” di Sraffa e la relazione lineare inversa che questi stabilisce tra profitto e salario.
Siccome Colletti tiene sopra ogni cosa alla lotta di classe, e non saprebbe che farsene di una teoria economica che rinunci a questa lotta; e siccome la lotta di classe poggia interamente sulla teoria del Plusvalore, e questa sulla teoria del valore, quando apre il Capitale e legge, con sorpresa e scandalo, che il tavolo, quando si presenta come merce, “non solo sta con i piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciassero spontaneamente a ballare”; e poi legge: “il carattere mistico della merce”, oppure “tutto il misticismo del carattere mistico delle merci, tutto l’incantesimo del mondo delle merci, tutto l’incantesimo e la stregoneria che circondano di nebbia i prodotti del lavoro sulla base della produzione di merci”; o, infine, che “il mistico velo di nebbia”  non è un’aggiunta degli interpreti borghesi “del processo vitale sociale, cioè del processo materiale di produzione”, ma appartiene propria a questo processo, il quale anzi appare alla metafisica, all’economia politica, per quello che è; quando, insomma, trova che non si dice più solo della filosofia ma direttamente della realtà, delle cose, che sono “sensibilmente sovrasensibili”, cioè mistiche, ossia testa all’ingiù; o, inversamente, vede affermato, contro Hegel, che l’astrazione è determinata, che l’astratto è concreto, cioè tanto astrazione che esistenza, tanto idea che fatto; quando legge queste cose, non può non dire, ammettiamolo, che tutto ciò non è facile da capire (Introduzione a Lenin, CXII), e che se le cose stanno così è difficile, su questa base, sostenere con serietà la validità scientifica della teoria del valore.
Piuttosto che arrendersi agli Sraffiani, che in Italia dominavano accanto agli operaisti, e rinunciare al Plusvalore, per salvare la lotta di classe, Colletti sarà costretto, infine, a rinunciare alla lotta di classe.

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Lucio Colletti, Introduzione, Leinin, Quaderni filosofici, 1958
Lucio Colletti, IL marxismo e Hegel, 1969
Lucio Colletti, Intervista politico-filosofica, 19745.Rinascita, 5 maggio 1978 – Tra marxismo e no.
Gianluca Pozzoni, Il mondo mistico del Capitale Scienza, critica e rivoluzione in Lucio Colletti, Consecutio Temporum n. 5.Fracno Chiereghin, Rileggere la Scienza della logica di Hegel, Carocci, 2012.
Heidegger, Il concetto hegeliano di esperienza, Sentieri interrotti 1942.
Frank Engster, Il Capitale e il suo punto cieco: il denaro come tecnica di misura, Consecutio Temporum n.

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