Bataille e la Teoria del valore-lavoro

Bataille

I

In primo luogo Bataille si rivolge al valore-uso, e mostra il suo incardinamento nell’economia ristretta. Dunque, mostra come sia vana la proposta, presente, per esempio, in Pasolini e in Marcuse, di rifiuto del valore-scambio e di un ritorno al valore-uso. Il valore-uso non solo è il puntello del valore-scambio, come pensa Marx, ma è esso stesso, in quanto prodotto, momento di quel processo di valorizzazione che si compie (Aufheben) nel ritorno (ROI) dell’investimento.
In secondo luogo, e soprattutto, Bataille si rivolge proprio all’investimento, mostrando come ogni investimento, in quanto passaggio dall’intenzione all’atto, dalla cattiva possibilità all’attualità, è il momento mediano di un processo che lega l’inizio alla fine, che tiene in pugno, o pretende di tenere in pungo, il futuro.
In terzo luogo, Bataille si volge all’utilità e dice che è utile il prodotto che non ha altre possibilità se non quelle computate dall’inizio, e che dunque l’utilità del neo-classicismo pone il mercato, e non viceversa.
L’operaio, dice Bataille, produce un bullone per il momento in cui il bullone servirà a sua volta a montare una macchina di cui qualcun altro godrà sovranamente, nelle sue passeggiate contemplative.

Non bisogna leggere in questa posizione il disprezzo per il lavoro manuale che si trova, per esempio, in Oscar Wilde. Bataille non vuol contrapporre il lavoro manuale al lavoro artistico o intellettuale e dire che il lavoro manuale è servile mentre il lavoro artistico o il lavoro di ingegno è libero (sovrano). Non vuole nemmeno dire che il lavoro manuale è asservito alla direzione di un altro, del padrone, mentre il lavoro artistico è autonomo.

L’artista controllerebbe tutto il processo di produzione. Qui non è in gioco la riappropriazione e il controllo dei mezzi di produzione o del progetto che guida la produzione. L’artista sarebbe colui che, anche quando non controlla il mezzo di produzione, controlla il progetto dall’inizio alla fine, decide le linee guida dell’operazione, imposta il quadro entro cui tutto si ordina e si muove, realizza ciò che autonomamente pensa, non è asservito ad alcun padrone.

Non si tratta di tutto ciò. Bataille vuol mostrare l’asservimento del presente al futuro. La produzione del bullone – il presente – si incardina in un progetto – la macchina – in cui, dice, il tempo presente è utilizzato a profitto dell’avvenire. Ciò che qui è posto in discussione è il concetto di produzione e di produttore, dunque di genio, di artista, di opera, di lavoro. Non si salva nessuno. Il produttore è servo, è servo di un padrone, il padrone è il progetto, l’idea, il fine, la causa.

Il produttore è votato a una causa, è servo della causa, che questa causa si chiami arte o si chiami capitalismo, o si chiami comunismo, la musica non cambia, nemmeno quando la causa è scelta liberamente.

In questo quadro Bataille non distingue tra Capitalismo e Comunismo. Il comunismo, con il controllo dei mezzi di produzione, non è altro che un perfezionamento del capitalismo. Anche nel Comunismo il futuro non è aperto, ma è chiuso sul presente, l’obiettivo è l’accumulazione, il progetto, il piano quinquennale, eccetera.

In modo ancora più stringente Bataille dice che appena mi pongo, appena parlo, l’immensità diventa qualche cosa di cui posso parlare, qualche cosa che mi parla. E bene ribadire subito che l’immensità di cui qui si parla, coincide perfettamente con ciò che Bataille chiama Sovranità. Provvisoriamente si può intendere per Sovranità l’infinito. Poi, come si vedrà, le cose sono più complicate.

Per adesso mi accontento di questa definizione provvisoria di Sovranità, come del senza limite.

II

Come si esce dall’infinito?

Bel problema.

In linea con Hegel, Bataille dice che l’uomo (ma qui è ancora prematuro parlare di uomo, meglio parlare di infinito. L’infinito non ha di fronte niente, altrimenti non sarebbe infinito), l’infinito, si scinde, l’uno diventa due, e si pone in attesa. L’attesa è durata, o, dice Bataille, la durata è attesa. L’uomo, dice, è sempre più o meno angosciato, perché è sempre in attesa: in un’attesa che dobbiamo chiamare attesa di sé. Questa attesa o questa scissione pone anche termine all’infinito, alla sovranità. L’uomo in quanto prodotto (creatura) di se stesso, si pone nella concatenazione di cause ed effetti. Come il ciabattino fa la scarpa, Dio creò il mondo. Se mi pongo come oggetto, oggettivo anche l’immensità. Dio diventa uomo (Feuerbach). Quindi l’immensità mi trascende. Non è più quel NIENTE in cui io stesso ero NIENTE (non essendo oggettivati né l’uno né l’altra): l’immensità diventa qualche cosa di cui posso parlare, qualche cosa che mi parla.

Un oggetto distinto porta in sé la negazione di ciò che lo determina. Mi tratto io stesso come un oggetto, lavorando al mio proprio servizio. L’uomo si pone, si aliena, si semina, attende, e poi si raccoglie. L’uomo appare in questo circolo creativo, e in questo circolo è un servo, ripreso nella catena delle cause e degli effetti, catena non infinita, ma indefinita, che sfugge alla presa.

Bataille si installa in ciò che Hegel chiama negazione determinata. Tutto il mondo che Bataille definisce servile è il mondo della Negazione Determina. Sottrarsi alla Negazione (determinata) significa sottrarsi al servilismo. Negazione Determinata è anche il nome della dilazione, della Differenza.

Di Hegel, che disperava di poter trovare una strada che conducesse fuori dalla Negazione Determinata, conosciamo la geniale soluzione.

L’assoluto si dilacera, si sdoppia – si aliena – a partire non da una forza o da un urto, ma piuttosto da una spinta interna, né sincronica né diacronica, forse anacronica. Il travaglio dello sdoppiamento del medesimo in sé e nell’altro da sé – nel sé e nella sua negazione (determinata) – si conclude (finisce) nella negazione di ciò che, essendo determinato, negava il sé, limitandone la libertà. Il toglimento di questo limite – negazione della negazione – si conclude con il ripristino della libertà assoluta, arricchita del travaglio della negazione determinata. Alla fine si ritrova quell’assoluto che era all’inizio. Chi porta il peso del travaglio è l’alienato, chi diventa corpo e carne, e dunque storia e cultura, teoria e pressi, è ancora l’alienato.

La teleologia non si aggiunge dall’esterno. La teleologia si dispiega nella dilacerazione: il medesimo diventa unità di sé e di se stesso differito.

In Hegel, l’inizio – che non è un inizio; se fosse tale si cadrebbe nel cattivo infinito – è l’indeterminato. Indeterminato vuol dire che non c’è alcuna posizione, dunque nessuna opposizione. Non c’è forza e contro forza, spinta (trieb), pulsione e repulsione. Non c’è processo, non c’è storia, non ci sono soggetto e oggetto. L’inizio è assoluto – è libero. Una libertà che non ha cognizione di se stessa, perché c’è perfetta coincidenza e presenza a sé del presente. Nessuna dilazione o attesa, promessa, preghiera. Non c’è soggetto. Non c’è NIENTE. Ecco perché è vano porre il geopolitismo come origine del conflitto. All’origine tutto è uguale a NIENTE.

Il sovrano è libero dalla subordinazione alla Negazione (determinata). Non essendo determinato, non avendo un fuori – o un dentro – il sovrano è niente. Non è prassi, perché la prassi o è determinata o non è prassi. E non è nemmeno teoria, perché anche la teoria ha il suo oggetto teorico.

Il mondo delle cose o della pratica, dice Bataille, è il mondo nel quale l’uomo è asservito, o semplicemente nel quale egli serve a qualche cosa, che sia o no il servitore di un altro. L’uomo vi è alienato, è anche lui una cosa, in quanto serve. Anche la teoria è servile. La conoscenza è servile. Perché conoscere, dice Bataille, vuol dire sforzarsi, lavorare, indefinitamente ricominciare, indefinitamente ripetere. La conoscenza non è mai sovrana: per essere sovrana dovrebbe prodursi nell’istante. Ma l’istante resta aldilà o aldiqua di ogni sapere. L’istante è miracoloso – è il miracolo in cui l’attesa si risolve in niente, distaccandoci dal suolo su cui strisciavamo, incatenati all’attività utile. Il pensiero, subordinato a un risultato previsto, totalmente asservito, cessa di essere quando è sovrano – solo il non sapere è sovrano.

Il mondo della pratica è il mondo nel quale l’uomo è alienato, è anche lui una cosa, in quanto serve. Il nostro, dice Bataille, è un mondo di concatenazioni nella durata, e non mondo dell’istante. La concatenazione è guidata da un progetto, e il progetto, l’idea, è ciò che conosciamo. È per ciò, dice, che non conosciamo mai così bene se non l’oggetto di cui conosciamo il processo di produzione, e lo consociamo perché nel processo si ripete ciò che era nel progetto, nella produzione osserviamo ripetersi o riprodursi il progetto.

III

Il servo è il lavatore, il produttore. Il sovrano non può produrre. Non ha niente fuori di sé, non è alienato. La produzione pretende l’alienazione. Si sviluppa in un ordine in cui domina la negazione (determinata).

Quando, nella Lettera sull’umanismo Heidegger dice che se si vuole avere un dialogo produttivo col marxismo, bisogna cominciare a considerare che il materialismo di Marx non sta nell’affermare che tutto è solo materia, ma sta piuttosto in una determinazione metafisica per la quale tutto l’ente appare come materia da lavoro – tutto l’ente, compreso l’uomo – bisogna prenderlo alla lettera. E rifuggire da considerazioni che sterzano dalla produzione verso l’alienazione, la disperazione, il cinismo, la psicologia, eccetera. L’uomo nel comunismo, o nel socialismo, sta ancora sotto questa determinazione. Per capire cosa Heidegger intende con Tecnica, bisogna porre attenzione al lavoro, alla poiesis.

Come il ciabattino fa la scarpa, Dio creò il mondo.

In che modo il ciabattino fa la scarpa?

Il ciabattino ha costruito la scarpa nella sua testa prima di costruirla in cuoio. Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente al suo inizio nella idea del lavoratore, che quindi era già presente idealmente. Non che egli effettui soltanto un cambiamento di forma dell’elemento naturale; egli realizza nell’elemento naturale, allo stesso tempo, il proprio scopo, da lui ben conosciuto, che determina come legge il modo del suo operare, e al quale deve subordinare la sua volontà. E questa subordinazione non è un atto isolato. Oltre lo sforzo degli organi che lavorano, è necessaria, per tutta la durata del lavoro, la volontà conforme allo scopo, ossia il lavoro stesso, l’oggetto del lavoro e i mezzi del lavoro.

Così si esprime Marx nel Capitale. Il tema era stato affrontato in modo più esteso nell’Introduzione del 57, dove Marx mostra esplicitamente il legame con Aristotele.

Nell’Introduzione, con un linguaggio aristotelico, Marx propone questo argomento. Una ferrovia sulla quale non si viaggi e che quindi non si logori e non venga consumata, è soltanto una ferrovia δύναμει (in potenza), e non in realtà.

Senza produzione, dice Marx, non vi è consumo. Ma, dice, non vi è nemmeno una produzione senza consumo, giacché a questo modo la produzione sarebbe senza scopo. Il consumo produce la produzione in duplice modo:

1) in quanto solo nel consumo il prodotto diviene un prodotto effettivo. Per esempio, un vestito non diviene realmente un vestito che per l’atto di portarlo; una casa che non è abitata, non è in fact una vera casa; il prodotto, quindi, a differenza del semplice oggetto naturale, si afferma e diviene prodotto solo nel consumo. Dissolvendo il prodotto, il consumo gli dà il finishing stroke (l’ultimo perfezionamento).

2) Il consumo produce la produzione in quanto crea il bisogno di una nuova produzione e quindi nel motivo ideale che è lo stimolo interno della produzione; esso crea anche l’oggetto, che esige nella produzione determinandone lo scopo. Se è chiaro che la produzione offre esteriormente l’oggetto del consumo, è perciò altrettanto chiaro che il consumo pone idealmente (ideal setz) l’oggetto della produzione, come immagine interiore, come bisogno, come impulso (trieb) e come scopo. Esso crea gli oggetti della produzione in una forma ancora soggettiva. Senza bisogno non vi è produzione. Ma il consumo produce il bisogno.

A ciò corrisponde da parte della produzione che essa: 1) fornisce al consumo il materiale, l’oggetto. Un consumo senza oggetto non è un consumo. 2) ma non è soltanto l’oggetto che la produzione fornisce al consumo. Essa dà anche al consumo la sua determinatezza, il suo carattere, il suo finish. Allo stesso modo che il consumo dava al prodotto il suo finish come prodotto, la produzione dà il suo finish al consumo. Innanzitutto, dice Marx, l’oggetto non è un oggetto in generale, ma un oggetto determinato, che deve essere consumato in un modo determinato, in un modo ancora una volta mediato dalla produzione stessa. La fame è la fame, ma la fame che si soddisfa con carne cotta, mangiata con coltello e forchetta, è una fame diversa da quella che divora carne cruda, aiutandosi con mani, unghie e denti. La produzione non produce perciò solo l’oggetto del consumo ma anche il modo di consumo, essa produce non solo oggettivamente ma anche soggettivamente. La produzione crea quindi il consumatore. 3) La produzione fornisce non solo un materiale al bisogno, ma anche un bisogno al materiale. Quando il consumo emerge dalla sua immediatezza e dalla sua prima rozzezza naturale – e l’attardarsi in questa fase sarebbe ancora il risultato di una produzione imprigionata nella rozzezza naturale – esso stesso come impulso è mediato dall’oggetto, e il bisogno di quest’ultimo che esso prova è creato dalla percezione dell’oggetto. La produzione produce quindi il consumo a) creandogli il materiali; b) determinando il modo di consumo; c) producendo come bisogno nel consumatore i prodotti che essa ha originariamente posto come oggetti. Essa produce perciò l’oggetto del consumo, il modo di consumo e l’impulso al consumo. Allo stesso modo, il consumo produce la disposizione del produttore, sollecitandolo in veste di bisogno che determina lo scopo della produzione.

Non solo la produzione fornisce l’oggetto esterno del consumo, il consumo fornisce l’oggetto rappresentato della produzione; ma ciascuno di essi – oltre ad essere immediatamente l’altro e il mediatore dell’altro – realizzandosi crea l’altro, si realizza come l’altro. Il consumo porta a compimento l’atto di produzione, perfezionando il prodotto come prodotto, dissolvendolo, consumando in esso la forma oggettiva, indipendente; facendo maturare e divenire abilità, mediante il bisogno della ripetizione, la disposizione sviluppata nel primo atto di produzione; esso non è quindi l’atto conclusivo in virtù del quale il prodotto diviene prodotto, ma anche l’atto in virtù del quale il produttore diviene produttore.

Marx si muove con molta scioltezza dentro il circolo hegeliano e riproduce lo schema triadico: progetto, produzione, consumo. Una ferrovia sulla quale non si viaggi e che quindi non si logori e non venga consumata, è soltanto una ferrovia δύναμει (in potenza), e non in atto: non è una vera ferrovia. La verità deve subire il passaggio attraverso una determinazione. La ferrovia deve essere prodotta, l’idea deve diventare corpo, perché solo un corpo effettivo può dare prova della sua (dell’idea) consistenza, e dà questa prova consumandosi, risolvendosi.

La tecnicizzazione del mondo non significa niente altro che porre la verità in termini di produzione: produzione della verità. La verità non è corrispondenza dell’intelletto con la cosa. La verità si produce, la verità è un processo.

IV

Questo tema della produzione e del produttore si trova nell’Introduzione alla metafisica e nella Lettera sull’«umanismo» di Heidegger.

L’Europa è stretta in una morsa tra Russia e America, si legge nell’Introduzione. Russia e America rappresentano la stessa cosa: la medesima desolante frenesia della tecnica scatenata e dell’organizzazione senza radici dell’uomo massificato. Con il leninismo – come Stalin chiama questa metafisica – si è compiuto un balzo in avanti nel totalitarismo tecno-metafisico – dice Heidegger.

La tecnica viene qui collegata alla massificazione. L’uomo moderno, dice Heidegger (Parmenide), non a caso, scrive con la macchina per scrivere, detta le parole nella macchina. La storia del modo di scrivere è una delle ragioni principali della crescente distruzione della parola. Nella scrittura a macchina – dice Heidegger – tutti gli uomini sembrano uguali. La tecnica distrugge le differenze. Annienta la storia autentica (Introduzione). Qualunque evento in qualsiasi luogo e momento è diventato rapidamente accessibile, si può vivere in un medesimo tempo un attentato in Francia contro un monarca e un concerto sinfonico a Tokyo. Il tempo non è più che velocità, istantaneità e simultaneità.

Questo processo di massificazione è considerato da Heidegger negativo. La massificazione uccide la storia autentica, e la uccide perché la storia è fatta di differenze. In altri luoghi (Il principio di ragione) Heidegger mostrare la forza omologatrice della tecnica tirando in ballo la bomba atomica. La forza dell’energia dell’atomo è capace di ridurre tutto a niente.

Su questo punto Bataille segue Heidegger. La differenza sociale, dice, è la base della sovranità, ed è proprio affermando la sovranità che gli uomini dei tempi remoti dettero alla differenza tutta l’estensione del suo registro. È certo che i comunisti si oppongono con una fermezza insuperabile a ogni forma di sovranità divina o umana, e la coerenza del loro agire è fuori discussione. Senza limitazioni, il movimento comunista è, per definizione fondamentale, una macchina per sopprimere le differenze tra gli uomini: tutto ciò che ha nome «distinzione» deve scomparire per sempre, deve essere abbattuto, schiacciato nei congegni di questa macchina.

Anche Marx (Manifesto, Capitale) vede nella massificazione un momento negativo, ma, a differenza di Heidegger, ci vede anche una possibilità. La massificazione è quell’esperienza senza la quale il proletariato non potrebbe presentarsi in quanto classe universale, ovvero come classe che, liberando se stessa, libera l’intera umanità. Il passaggio – l’esperienza – della massificazione è necessario per accedere al comunismo.

In questi testi di Heidegger emergono due modi di intendere la tecnica. Il primo, quello che ha avuto maggiore eco, considera la tecnica come sistema di standardizzazione. Ogni attività produttiva, quali che siano le sue qualità, produce un identico prodotto. In questo quadro si salva solo l’artigiano e l’artista, i quali non adoperano cliché per realizzare le loro opere, conta ancora la mano. Ogni pezzo uscito dalle mani dell’artigiano o dell’artista è unico. Si mantiene l’elemento della unicità, della differenza tra i diversi prodotti.

Il secondo modo di intendere la tecnica lega quest’ultima alla produzione. È il produrre stesso che si presenta in quanto tecnica. In questo caso non si salva nessuno – nemmeno l’artigiano e l’artista.

È proprio in questa chiave più generale che va intesa la tecnica.

Al centro Heidegger pone la produzione. Per questa ragione, nella Lettera, può dire che la visione marxista della storia è superiore a ogni altra storiografia. In quanto, a differenza di Husserl e Sartre, anche Marx pone al centro la produzione.

Il luogo del confronto con il marxismo, dice Heidegger, non è il materialismo, ovvero l’idea che tutto è materia, ma, dice, la determinazione metafisica per la quale tutto l’ente appare come materiale di lavoro.

V

L’essenza del lavoro secondo la metafisica moderna – dice Heidegger – è anticipata dalla Fenomenologia dello spirito di Hegel come il processo auto-organizzantesi della produzione incondizionata, cioè come oggettivazione del reale ad opera dell’uomo esperito come soggettività. L’essenza del materialismo si cela nell’essenza della tecnica su cui si scrive molto, ma si pensa poco.

Heidegger non crede serio né possibile appiattire il marxismo su una certa determinazione hegeliana dell’alienazione. Con questa precisazione, dice Derrida (Teoria e prassi), egli sostiene che bisogna smettere di pensare il marxismo e il materialismo dialettico come la semplice affermazione della materia o di un fondamento in ultima istanza materiale, ma che bisogna pensarlo a partire dall’essenza del lavoro, dalla trasformazione, dal lavoro di trasformazione.

Qui si innesta il tema dell’Ape e l’Architetto.

Nel suo omaggio a Marx (molto ambiguo dice Derrida), Heidegger riconosce a Marx una determinazione metafisica secondo la quale ogni ente appare come materiale da lavoro. Questa essenza moderna del lavoro sarebbe stata pensata in anticipo da Hegel come processo che si organizza da se stesso della produzione incondizionata, processo che corrisponde a una oggettivazione del reale effettivo da parte dell’uomo sperimentato come soggettività.

Che cosa vuol dire tutto ciò? – chiede Derrida (96). Che cosa ha a che fare questa definizione con il materialismo dialettico e con la tecnica?

Ogni ente, dice Derrida, in quanto materia, appare come rapporto di produzione tra un soggetto e un oggetto, un’umanità e una natura che sono fondamentalmente identiche. Il fondo è dunque la natura come produzione, l’unità della totalità dell’ente come produzione, quali che siano le differenziazioni e le determinazioni ulteriori di questa produzione. Quando Heidegger parla di «processo che si organizza da se stesso» della «produzione incondizionata», si comprende subito, dice Derrida, perché egli dica «che si organizza da se stessa» e «incondizionata». Incondizionato e organizzantesi da se stesso precisamente perché, questa produzione, è l’ultima istanza, la determinazione ultima dell’essere come natura, messa in opera della prassi umana. Niente la condiziona, e dunque essa si organizza da sé medesima. Essa è dunque la determinazione ultima dell’ente in quanto ente, in quanto esso è ed appare. È per questo che Heidegger dice che essa è una «determinazione metafisica» di ciò che è, di ciò che è nella totalità, cioè della natura – come unità di cui l’uomo fa parte, secondo Marx – determinazione dell’ente come produzione incondizionata. Ed è su questa produzione, conclude Derrida, che bisogna portare la questione della tecnica.

Che cos’è l’ente?

L’ente è produzione. E la produzione è produzione tecnica.

Bataille insiste nel definire il comunismo come una macchina: solo una macchina, un congegno, può schiacciare tutti allo stesso modo. Cosa, evidentemente, impossibile per un uomo, a meno che anche l’uomo non sia diventato una macchina.

VI

Non si può comprendere l’essenza del marxismo e del suo concetto di produzione senza comprendere l’essenza della tecnica.

Che cos’è la tecnica?

Tutti, dice Heidegger (La questione della tecnica, 5), conoscono le due rispose che si danno alla nostra domanda. La prima dice: la tecnica è un mezzo in vista di fini. L’altra dice: la tecnica è un’attività dell’uomo. Le due definizioni sono connesse. Proporsi degli scopi e apprestare e usare i mezzi in vista di essi, infatti, è un’attività dell’uomo. All’essenza della tecnica appartiene l’apprestare e usare mezzi, apparecchi e macchine, e vi appartengono anche questi apparati e strumenti stessi, come pure i bisogni e i fini a cui essi servono. La totalità di questi dispositivi è la tecnica. Essa stessa è un dispositivo o, in latino, un instrumentum.

La rappresentazione corrente della tecnica, dice Heidegger, per cui essa è un mezzo e un’attività dell’uomo, può perciò denominarsi la definizione strumentale e antropologica della tecnica.

Secondo questa rappresentazione strumentale e antropologia, la tecnica – non solo la tecnica antica, ma anche la tecnica moderna – è un mezzo in vista di fini. A questo proposito il rapporto dell’uomo con la tecnica si riduce ad adoperarla nel modo adeguato, cioè a tenerla in pungo per farla servire allo scopo. Si vuole dominare la tecnica – dice Heidegger. Questa volontà di dominio diventa tanto più urgente, quanto più la tecnica minaccia di sfuggire al controllo dell’uomo.

Ma, si domanda Heidegger (in modo davvero sorprendente), nell’ipotesi che la tecnica non sia un puro mezzo, che ne sarà della volontà di dominarla?

Che cos’è allora la tecnica, se non è un puro mezzo?

VII

Se si intende la tecnica nel suo uso corrente, e ci si riferisce alla strumentalità della tecnica, bisogna chiedersi, dice Heidegger (La questione della tecnica), a cosa ci riportano elementi come mezzo e fine.

Un mezzo è ciò mediante cui qualcosa è effettuato e così ottenuto. Ciò che ha come conseguenza un effetto (wirkung) è detto causa. Là dove si perseguono dei fini e si usano dei mezzi, dice Heidegger, dove domina la strumentalità, là anche domina la causalità.

Da questa osservazione di Heidegger si devono trarre due conseguenze: 1) la realtà, intesa come effetto di una causa, domina nel regime della strumentalità; 2) l’assunzione della realtà come effettualità ha una storia, ciò vuol dire che la realtà non è stata sempre percepita come effetto di una causa, e la stessa temporalità non è sempre stata intesa come un susseguirsi e un concatenarsi di cause e di effetti.

Ciò che la tecnica è, quando è rappresentata come mezzo, si svela quando essa viene rapportata alla causa. Da secoli, dice Heidegger, la filosofia insegna che ci sono quattro cause: 1) la causa materialis (hyle), per esempio la materia con cui si fa un calice di argento; la causa formalis (eidos), la forma o la figura nella quale la materia è entrata; 3) la causa finalis (telos), lo scopo, per esempio il rito sacrificale per cui il calice deve servire, e che lo determina nella sua materia e nella sua forma; 4) la causa efficiens, che produce l’effetto, ossia il calice reale compiuto, e cioè l’orafo.

Cosa fa sì, si chiede Heidegger, che le quattro cause siano fra loro reciprocamente connesse? Qual è il loro carattere unitario?

Da lunga data si usa rappresentare la causa come ciò che opera. Operare (Wirken), dice Heidegger, significa in tal caso produrre dei risultati, degli effetti. La causa efficiens, una delle quattro cause, diventa così il modello per definire ogni causalità.

Il luogo dell’orafo – commenta Derrida – è quello dell’unità, dell’unificazione o piuttosto del riunirsi delle cause. È quindi a partire dal suo luogo che si avvierà la strumentalizzazione della tecnica.

Causa, casus – continua Heidegger è connesso al verbo cadere, e significa ciò che fa sì che qualcosa, nel suo risultato, riesca, accada in questo o quel modo.

Le quattro cause portano qualcosa ad apparire, lo lascino avanzare nella presenza, fanno avvenire ciò che prima non era ancora presente. Che cosa sia questo portare alla presenza, dice Heidegger, ce lo dice Platone in un passo del Simposio: Ogni far avvenire alla presenza – qualunque cosa sia – è ποίησις, produrre.

Il cerchio tra Marx a Platone viene chiuso. Per entrambi la determinazione ultima (fondamentale) dell’ente è la produzione. Il carattere dell’ente nel suo insieme è di essere effetto di un produrre.

VIII

Riassumendo, bisogna pensare il marxismo a partire dall’essenza del lavoro. Pensato in questi termini il marxismo si muove entro una determinazione metafisica, per la quale tutto l’ente appare come materiale da lavoro. Qui metafisica va intesa come caratterizzazione dell’ente nel suo insieme, risponde alla domanda «Che cos’è l’ente?».

L’ente è produzione.

L’essenza del materialismo si cela nell’essenza della tecnica.

Come si collega la tecnica al lavoro?

La tecnica viene intesa come un mezzo mediante il quale qualcosa è effettuato e così ottenuto, per esempio il calice mediante l’arte orafa.

Ciò che ha come conseguenza un effetto è detto causa.

Le cause che determinano la tecnica, in quanto mezzo, sono quattro, ma una di esse, la causa efficiente, diventa il modello per definire ogni causalità.

Che cos’è la causa efficiente?

La causa efficiente, quella che produce l’effetto, ossia il calice reale compiuto, è l’orafo. È l’orafo che, usando la tecnica come mezzo, imprime alla materia prima (causa materiale) la sua idea (causa finale) e ottiene come effetto (causa efficiente) il prodotto finito (realtà effettiva). L’orafo è poiesis, produzione.

Nel passo del Capitale, dove Marx parla dell’Ape e dell’Architetto, non si fa altro che presentare con un esempio eloquente questo schema.

Il carattere dell’ente nel suo insieme è di essere effetto di una produzione.

Dunque, il carattere dell’ente nel suo insieme è il produrre, e il produrre è un dischiudere e un effettuare e un portare alla presenza. Se questo portare alla presenza è l’essenza stessa della tecnica, allora la verità stessa, intesa non come rettitudine, ma come disvelamento, come Aletheia, è interamente dominata dalla tecnica. La verità è una verità tecnica.

La tecnica, dice Heidegger (Lettera) in quanto forma della verità ha il suo fondamento nella storia della metafisica. Questa, a sua volta, è una fase eminente della storia dell’essere, e finora la sola che possiamo abbracciare con il nostro sguardo. Si possono prendere varie posizioni sulle dottrine del comunismo e sulla loro fondazione – dice Heidegger -, ma sul piano della storia dell’essere resta fermo che in esso si esprime un’esperienza elementare di ciò che è la storia del mondo. Chi prende il comunismo solo come «partito» o come «visione del mondo» pensa in modo altrettanto angusto di coloro che pensano che con il termine «americanismo» si indichi solo, e per giunta in modo spregiativo, un particolare stile di vita.

Invece, in accordo con l’idea marxista di materialismo, bisogna intendente il comunismo come

comprensione essenziale della storicità o dell’istorialità dell’essere. Il comunismo (Ideologia tedesca) è il movimento reale (non un movimento, ma il movimento), non è la storia (storiografia) di questo movimento, o un metodo per intendere o descrivere questo movimento. È il movimento stesso che si invia, che si muove, che si destina, e che inviandosi si comprende. Il comunismo è ciò che accade – idem l’americanismo.

Se l’americanismo e il comunismo sono ciò che accade, ciò che avviene, e se l’ambito nel quale entrambi avvengono è quello tecnico, allora l’epoca in cui si presentano è un’epoca all’insegna della tecnica. Se la tecnica è dominata dalla causa efficiente, allora bisogna pensare l’ente nel suo insieme come effetto di una produzione e come un valore. Tutto ha un valore in quanto è prodotto di un produrre. Siccome l’ente vale in quanto oggetto di un fare, l’oggettività dell’oggetto si presenta come valore.

Il gesto insolito e inedito di Heidegger – dice Derrida (Teoria e prassi, 98) – è pensare la techne come aletheia o, piuttosto, far apparire come la determinazione dell’aletheia (physis) in techne sia un evento fondamentale da cui è dipesa tutta la storia della metafisica.

Qual è allora il gesto proposto da Heidegger e che egli chiama «pensare»? – chiede Derrida.

È il gesto di liberarci da questa determinazione tecnica, da questa interpretazione tecnica della verità che egli fa risalire a Platone e Aristotele.

Infatti – continua Derrida –, secondo Heidegger, è proprio perché i greci dopo Platone e Aristotele hanno pensato il pensiero come techne, proprio perché essi lo hanno pensato al servizio della praxis e della poiesis, dell’agire e del fare, del produrre, che si è venuto a determinare – cosa che è perlomeno paradossale – il pensiero come teoretico. Detto altrimenti, il teoretico non si oppone a partire da questo momento al tecnico e, in esso, al pratico; il teoretico è un modo del pensiero come prassi. Il pensiero, preso in se stesso, dice Heidegger (ma cosa vuol dire qui «in se stesso»?) non è prassi, ma a partire dal momento in cui esso si determina in base all’esigenza pratica, si è arrivati, per reazione, a determinare l’essenza del pensiero come teoria.

Il tradizionale teoreticismo, dice Derrida, è un effetto del suo iniziale prassismo e dunque tecnicismo. Il teorico non gode di un privilegio se non all’interno di uno spazio che privilegia la dimensione pratica e tecnica.

Che ne è dunque di questa tecnica di cui la prassi e la teoria sarebbero dei derivati, che sarebbero, rispetto ad essa, in posizione secondaria? – chiede ancora Derrida.

L’interesse del tentativo di Heidegger, qualunque cosa pensiamo del suo valore e della sua necessità, dice Derrida, sta nel fatto che esso pretende risalire aldiqua di un’opposizione e comprendere la legge di questa opposizione e di questa alternativa, l’interminabile dibattito da cui essa non può uscire perché i due termini appartengono di fatto alla medesima combinatoria di un medesimo sistema.

Che cos’è dunque la tecnica? – chiede allora Derrida.

IX

Heidegger ci chiama a pensare aldiqua (o aldilà) della coppia teoria/prassi, coppia che apparterrebbe interamente al regime tecno-logico della verità. Sia la teoria, sia la prassi, rimandano al logos. Il rapporto della prassi al desiderio e alla legge è posto come essenziale (in ciò Heidegger segue Aristotele). Un essere senza desiderio, senza logos e senza legge non possiede un comportamento pratico. La prassi così intesa è riservata solo all’uomo, in opposizione all’animale che, dice Derrida, non avendo che l’aisthesis, non potrebbe deliberare e dunque accedere alla prassi. Qui, dice Derrida, si dispone di un filo continuo che, fino a Marx compreso, riserva la praxis all’uomo e la rifiuta, come rifiuta il lavoro, all’animale.

È a questo punto che Derrida cita l’intero passo del Capitale dove si fa riferimento all’Ape e all’Architetto, e nel quale Marx colloca il lavoro esattamente nel quadro di quell’umanismo aldilà (o aldiqua) del quale Heidegger cerca di risalire.

A questo viaggio di risalita aldiqua della tecno-metafisica Heidegger dà il nome di Besinnung, una risalita che non dovrebbe essere né pratica né teorica, né filosofia né scientifica, in quanto, tutti e quattro questi atteggiamenti, sono delle conseguenze di ciò aldiqua del quale si vuole risalire, ovvero la tecnica. In più, come Heidegger spiega bene nel saggio Scienza e Meditazione, questi quattro atteggiamenti non possono aggirare ciò che fornisce loro il terreno su cui poggiano. Ecco perché, risalire oltre la tecnica, richiede una Besinnung, la quale non è una mera meditazione – come si traduce in italiano – ma (nota Derrida) è innanzitutto un andare aldilà o aldiqua della filosofia come metafisica e/o come scienza. La Besinnung è dalla parte del pensiero in quanto debordamento del filosofico. Questo debordamento non è una semplice meditazione, una faccenda del pensiero (una cosa teorica), ma è un cammino, una marcia, una traversata della filosofia e della scienza, della lingua, una traversata verso un senso nascosto che segue un tragitto, che marcia verso un senso, e che nella marcia traccia questo senso. Nessun senso precedente, né filosofico, né scientifico, né teorico, né pratico guida la marcia, nessun senso anteriore o ulteriore o bordatura teleologica della marcia, dice Derrida, che non sia la marcia stessa.

Tuttavia, dice Derrida, questa marcia che pretende ritornare o andare aldiqua della coppia teoria/prassi, verso un luogo dove l’occultamento tecno-logico e metafisico e metafisico-tecnologico che mette in campo l’opposizione teoria/pratica non ha ancora avuto luogo, questa marcia (o questa Besinnung – meditazione) è già una prassi: non soltanto perché essa lavora la lingua e non è una teoria ma perché sempre nel valore della prassi emerge il valore di una traversata, di un movimento di attraversamento, di un passo. Ogni volta che si cercherà di debordare l’opposizione teoria/prassi lo si farà secondo un gesto che sarà tanto analogo a una prassi, tanto analogo a una teoria, tanto analogo ad entrambi. Ogni volta che si deborda si assomiglia a ciò che è debordato; il debordante resta affine al debordato, affine e anche confinato al debordato. Tanto analogo ad uno dei termini della coppia, per esempio praxis, quanto all’altro, tanto a entrambi. È proprio questo il caso – conclude Derrida. La Besinnung è un viaggio, una traversata pratica aldiqua della prassi, ma è anche una praxis passiva, che lascia essere o fare, e che attraverso ciò somiglia a qualcosa come la theoria. Essa ripete la coppia di cui deve rendere conto e fino alla dialettica che le renderà indissociabili.

Inoltre (secondo appunto di Derrida a questa traversata), pretendendo di risalire, attraverso il pensiero, aldiqua della metafisica, della tecno-metafisica, forse che Heidegger non riproduce questa ricerca “reattiva” che vorrebbe risalire più vicino alla propria origine, e salvare il più iniziale, il più proprio, quel più originario che la determinazione tecnica della verità avrebbe messo alla deriva, deportato, minacciato?

Infine (terzo appunto di Derrida a questa traversata), forse che Heidegger non riproduce la filosofia, il rapporto della filosofia a se stessa, nel momento stesso in cui propone di debordarla, di pensarla, di pensare il filosofico a partire dal bordo, di pensare la metafisica come determinazione dell’aletheuen nella techne, determinazione che coprirebbe tutto lo spazio teorico-pratico e, per esempio, l’epoca moderna e marxista di questa determinazione?

Heidegger, dice Derrida, pretende di pensare la situazione concettuale storica moderna della tecnica e della coppia teoria/prassi risalendo all’alba dell’antica Grecia, ciò che presuppone la continuità di una tradizione – staccarsi dalla tradizione nella tradizione.

Questo staccarsi, dice Derrida, non è una reazione contro la tecnica nella modalità che si è identificata spesso come ideologia reazionaria e naturalistica o ecologista. Heidegger vi insiste spesso: la tecnica non è Diabolica, e non si tratta di risalire aldiqua della tecnica, antica o moderna. Nondimeno, se la tecnica non è minacciosa, l’essenza della tecnica – essenza che, di per sé, non è tecnica – è il pericolo. Ciò evidentemente evita la reazione, la reattività contro la tecnica nel suo schema ideologico corrente, ma può anche aggravarlo molto, radicalizzarla, essenzializzarla, e darle il suo peso di pensiero, il suo peso pensante.

X

Marx pone l’Architetto nello schema della causalità efficiente, iscrive la produzione nell’ordine tecno-logo. La produzione è produzione tecnica, non tanto perché utilizza mezzi e impianti, non tanto perché, come si dice, il capitale morto finisce per comandare sul capitale vivo. E nemmeno perché l’uomo aliena il suo potere, e a comandare sono il feticcio, il denaro contante, la merce, il macchinario, eccetera. Stando a questa interpretazione, si rimane confinati in una discorso che vede nel macchinario il demoniaco.

Se poniamo con ordine il problema di cosa sia veramente la tecnica concepita come mezzo, dice Heidegger (La questione della tecnica, 9), arriviamo passo passo al dis-albergamento (Entbergen) . In esso si fonda la possibilità di ogni fabbricazione producente.

La tecnica, dice Heidegger, non è semplicemente un mezzo. La tecnica è un modo di disvelamento, e questo disvelamento è un un dis-albergamento (Entbergen).

Questa prospettiva – la tecnica intesa come disvelamento, ovvero come una forma della verità – ci inquieta (befremdet uns – ci estranea) – dice Heidegger. Ciò è necessario; bisogna che ci estranei il più a lungo possibile e in modo così pressante da farci prendere una buona volta sul serio l’elementare domanda su cosa significhi in fin dei conti il nome «tecnica».

Dalle origini sino al tempo di Platone la parola tecnica (τέχνη) si accompagna alla parola episteme (ἐπιστήμη). Entrambe sono termini che indicano il conoscere nel senso più ambio. Significano il sapere di qualcosa, l’intendersene. Il conoscere dà apertura. In quanto aprente esso è disvelamento (Entbergen).

Nell’Etica Nicomachea, dice Heidegger, Aristotele distingue l’episteme e la techne, in base al che cosa e al modo in cui esse disvelano o dis-albergano (Entbergen).

La techne è un modo dell’aletheia. Ma essa disvela ciò che non si produce da se stesso e che ancora non sta davanti a noi, e che dunque può apparire in un modo o in un altro. Chi costruisce una casa o una nave, o modella un calice sacrificale, disvela la cosa da produrre rispetto ai quattro modi del far-avvenire. Questo disvelare riunisce dapprima l’aspetto e la materia della nave e della casa nella visione compiuta della cosa finita e determina su questa base le modalità della fabbricazione. L’elemento decisivo della techne non sta perciò nel fare e nel maneggiare, nella messa in opera di mezzi, ma nel disvelamento, nel dis-albergamento (Entbergen). In quanto tale, non intesa come fabbricazione, la techne è un produrre.

La techne deve essere associata alla poiesis.

La poiesis si esprime in due modi: 1) in modo auto, quando il venire alla luce si dischiude da se stesso, come il fiorire del fiore; e 2) in modo allo, quando ciò che si presenta si dischiude a partire da altro, come nel caso dell’arte.

Questo altro – qui si apre la falla nella physis – fa ancora parte della physis, la physis si differenzia, tra una physis che criptata – dice Derrida – e una physis che riceve la telefonata sempre da parte della physis, telefonata che la decripta e la dischiude. Telefonata della quale Heidegger tralascia di parlare.

 

XI

 

Aristotele, dice Derrida, distingue tra 1) le cose necessarie, che non possono essere diversamente da come sono (eterne, ingenerate, incorruttibili) e delle quali si occupa l’episteme; e 2) le cose che potrebbero essere altrimenti da come sono (allos), le quali sono effetto A) della poiesis, e B) della praxis.

L’architettura, ad esempio, è una techne, è una disposizione a produrre (poiein) secondo una regola (logos). Non c’è alcuna tecnica e alcuna arte che non siano disposizioni a produrre (poiein) secondo una regola. C’è dunque identità, dice Aristotele, tra techne e poiesis (secondo un logos).

La techne riguarda sempre un divenire (genesis), e applicarsi alla tecnica significa Considerare – considerare = theorein (nota Derrida): qui la techne è inseparabile dalla theoria. La techne è un modo di portare all’esistenza cose che possono essere o non essere, ma il cui principio (arché) d’esistenza risiede nel poiuon e non nel poema, nell’artista e non nel prodotto (differenza dalla natura: radice dell’opposizione tra techne e physis). La techne, che è ancora physis, si differenzia dalla physis, rispetto al modo in cui la poiesis si esprime: nella physis si esprime en auto, nella techne si esprime en allo.

Poiché la praxis e la poiesis sono differenti, la techne, dice Derrida, è parte della poiesis e non della praxis; più vicina alla theoria che alla praxis. Entrambe – theoria/praxis – hanno un legame essenziale con il logos e la verità. Anche la techne ha un legame con il logos, essa produce sempre secondo un logos, un logos che è estraneo all’animalità.

L’opposizione tra il pratico e il teorico, dice Derrida, è interna alla ragione, al logos e alla dianoia. C’è una ragione pratica e una ragione teoretica. Che ci sia una gerarchia che pone il teoretico al di sopra del pratico non rende il pratico estraneo alla razionalità. Questa struttura teorico-pratica del logos è essenzialmente antropologica. Essa è l’uomo: desiderio + ragione. Non si può in questo sistema definire il teorico e il pratico, né la ragione teorico-pratica, senza restare in un certo antropologismo, Heidegger direbbe una metafisica come umanesimo.

Dopo Platone e Aristotele il pensiero diventa techne al servizio della praxis e della poiesis, dell’agire e del fare. Il pensiero in se stesso non è teorico, diventa teorico quando, per reazione, si oppone alla prassi. La teoria è un effetto dell’iniziale prassi, e dunque tecnicismo – il teorico non gode di un privilegio se non nella dimensione pratica e tecnica.

Prassi e teoria sarebbero dei derivati della tecnica. In quanto derivati, ad entrambi competerebbe il logos. Una prassi senza logos (senza teoria) non è una prassi, non ha un comportamento pratico – l’animale non è pratico, non lavora.

Come Heidegger aveva già detto in un corso del 1930 sulla libertà (Dell’essenza della libertà umana, p 163) la techne non designa né la “tecnica” in quanto attività pratica né è limitata soltanto alla competenza artigianale, ma intende tutto il produrre nel senso più ampio e la conoscenza che lo guida. In essa si esprime la lotta per la presenza dell’ente.

Perché si tratta di una lotta?

Perché il destino della tecnica non è ancora deciso, e non è ancora deciso in quanto la tecnica non è un puro mezzo, ma un modo del disvelamento.

XII

Tutte queste considerazioni sulla tecnica, dice Heidegger (La questione della tecnica), vanno bene per il pensiero greco e si adattano, nel migliore dei casi, alla tecnica artigianale, ma non sono adeguate alla tecnica moderna fondata sul motore.

Si dice che la tecnica moderna sia differente da qualunque altra, perché essa si fonda sulle scienze esatte.

Che cos’è dunque la tecnica moderna? – chiede Heidegger.

Anch’essa è disvelamento – risponde.

Tuttavia, il disvelamento della tecnica moderna non si dispiega in un produrre nel senso della poiesis. Il disvelamento che vige nella tecnica moderna, dice Heidegger, è una provocazione, la quale pretende dalla natura che essa fornisca energia che possa come tale essere estratta e accumulata.

Ma ciò, chiede Heidegger, non vale anche per l’antico mulino a vento?

No – risponde.

Le pale girano spinte dal vento, e rimangono dipendenti dal suo soffio. Ma il mulino a vento non ci mette a disposizione le energie delle correnti aeree perché le accumuliamo. Al contrario, la centrale elettrica impiantata (gestell) nelle acque del Reno richiede al fiume di fornire la pressione idrica che mette all’opera le turbine. La centrale non è costruita sul Reno come l’antico ponte di legno che da secoli unisce le due sponde. Qui è il fiume, invece, che è incorporato nella costruzione della centrale. Esso è ciò che ora, come fiume, è, cioè produttore di forza idrica, in base all’essere della centrale.

Di fronte alla tecnica moderna, dice, l’ente si svela come Fondo. Non più come ciò che sta di fronte (Gegenstand), ma come Fondo (Bestand). Ciò che vien alla luce come Fondo è ancora chiamato dall’uomo, e l’uomo può bensì rappresentarsi questa o quella cosa in un modo o in un altro, e così pure in vari modi foggiarla e operare con essa. Ma sulla disvelatezza (Unverborgenheit) entro la quale il reale si mostra o si sottrae, l’uomo non ha alcun potere.

In rapporto a questo fondo, commenta Derrida, ciò che interpella in modo provocatorio e disocculta il fondo come reale, è apparentemente l’uomo. Ma l’uomo stesso – nella sua attività apparente, nonostante appaia il soggetto di questa provocazione persecutrice, è lui stesso provocato a…, inviato, chiamato, domandato, interpellato da ciò che lo attira – l’altro – e lo porta verso il non-nascosto, il disoccultamento (Unverborgenes). Nello scoprire, nel disoccultare, l’uomo risponde a questo appello della disvelatezza.

La tecnica moderna, dice Heidegger, intesa come dis-albergare impiegante non è un operare (tun) umano.

L’uomo – commenta Derrida – è costituito, raccolto in questa messa in atto provocatoria.

Come chiamare questo raccogliere così l’uomo?

Heidegger lo chiama Ge-stell.

Questo Ge-stell che regge l’essenza della tecnica moderna non è in se stesso tecnico.

Nell’imposizione (Ge-stell), dice Heidegger, si produce il disalbergamento conformemente al quale il lavoro della tecnica moderna disvela, disalberga il reale come fondo. Ma questo disoccultamento, questo decriptaggio non è un atto umano né un mezzo, uno strumento al servizio dell’uomo.

La condizione strumentale della tecnica diventa totalmente caduca.

A questo punto, chiede Heidegger, se l’uomo è in tal modo provocato e impiegato, non farà parte anche lui, in modo ancora più originario che la natura, del fondo?

Il parlare comune di Materiale Umano, di Contingente di malati di una clinica o di Capitale Umano di una fabbrica, lo fa pensare. Nella società di oggi l’uomo è un impiegato, un addetto, innestato in un sistema nel quale svolge una funzione: è un funzionario assorbito dalla missione. Tuttavia, dice Heidegger, proprio perché l’uomo è provocato in modo più originario che le energie della natura, egli non diventa mai puro Fondo (Bestand).

Dove accade il disvelamento, se esso non è semplicemente opera dell’uomo?

La disvelatezza è già accaduta – dice Heidegger. Là dove l’uomo si trova e apre gli occhi e le orecchie, dovunque dischiuda il suo cuore, dovunque si dedichi alla riflessione e alla considerazione, al domandare e al ringraziare, la disvelatezza è già accaduta. Quando l’uomo rivela ciò che è presente entro la disvelatezza, egli non fa che rispondere all’appello della disvelatezza, anche nel caso che vi contraddica. Quando dunque l’uomo, nella ricerca e nello studio, cerca di catturare la natura intesa come uno dei campi del suo rappresentare, egli è già reclamato da un modo del disvelamento, che lo provoca a rapportarsi alla natura come a un oggetto della ricerca.

La tecnica moderna, dice Heidegger, non è un operare puramente umano. Per questo bisogna prendere così come si mostra quella provocazione che richiede l’uomo a impiegare il reale come fondo. L’appello provocante che riunisce l’uomo nell’impiegare come Fondo ciò che si disvela Heidegger lo chiama Ge-stell, l’Erezione (traduzione di Derrida). [Confrontare con quanto Nietzsche dice del solletico sessuale nell’atto del coito: frammento della primavera del 1888 (14,173)].

Erezione, dice Heidegger, si chiama il modo di disvelamento che vige nell’essenza della tecnica moderna senza essere esso stesso qualcosa di tecnico. All’ambito tecnico appartiene invece tutto ciò che conosciamo sotto il nome di intelaiature, pistoni, armature, e che sono parti costitutive di ciò che si chiama un montaggio. Questo, tuttavia, insieme con le menzionate parti costitutive rientra nell’ambito del lavoro tecnico, il quale risponde sempre soltanto alla provocazione dell’erezione, ma non la costituisce né la produce. La concezione puramente strumentale, puramente antropologica, della tecnica, diventa caduca nel suo principio.

La tecnica, dice Heidegger, non è nulla di tecnico, nulla di simile ad una macchina. È, invece, il modo in cui il reale si disvela come Fondo.

Questo disvelamento – chiede ancora Heidegger – accade in qualche luogo di là dall’attività dell’uomo?

No. – risponde.

Ma, d’altra parte, dice, esso neppure accade solo nell’uomo e in modo decisivo per opera sua. In quanto è provocato l’uomo si mette in relazione con il fondo nel modo dell’impiegare. Non si può pensare, precisa Heidegger (precisione molto importante), che si metta in rapporto con essa solo in un secondo tempo. L’uomo arriva sempre già tardi per una tale questione. Eppure, dice, non è mai tardi per domandare se e come noi esplicitamente ci impegniamo in ciò in cui l’erezione stessa impiega il suo essere.

E come?

Il disvelamento, dice, non è governato dall’uomo, né tanto meno l’uomo può rappresentarselo come qualcosa che gli sta di fronte (Gegenstand), in quanto egli stesso fa parte del plico che si invia, si apre e diventa storia (Geschichte). Ciò non significa che l’uomo è legato a questo plico e a questo invio dalla fatalità di una costrizione. L’uomo diventa libero solo nella misura in cui, appunto, appartiene all’ambito dell’invio e così diventa un ascoltatore, non però un servo.

L’essenza della libertà, dice Heidegger, non è originariamente connessa alla volontà, e meno ancora soltanto alla causalità del volere umano. Ma ciò non significa che la tecnica è il fato (Schicksal) della nostra epoca, dove fato significa l’inevitabile di un processo immodificabile. Siamo provocati dalla tecnica, siamo già nell’invio, nel pacchetto del disvelamento, ma ciò non vuol dire che siamo effetti di una causa, che ciò che accadrà è già stato deciso e che bisogna darsi alla tecnica in modo cieco, o, all’opposto, dice, rivoltarci vanamente contro di essa e condannarla come opera del demonio. Invece, se ci apriamo autenticamente all’essenza della tecnica, ci troviamo insperatamente richiamati da un appello liberatore.

Insomma, dice Heidegger, camminiamo sul filo del destino, in bilico, pronti a cadere dall’una o dall’altra parte. Il destino del disalbergamento è in ognuno dei suoi modi e perciò necessariamente, pericolo. La disvelatezza, in cui tutto ciò che è si mostra, nasconde il pericolo che l’uomo si sbagli a proposito del disvelato e lo interpreti erroneamente. Così, là dove tutto ciò che è presente si dà nella luce del nesso causa-effetto, persino Dio può perdere per la rappresentazione tutta la santità e la sublimità, la misericordia della sua lontananza. Dio, nella luce della causalità, può decadere al livello di una causa efficiens. Allora, anche nell’ambito della teologia, egli diviene il Dio dei filosofi, ossia di coloro che definiscono il disvelato e il nascosto sulla base della causalità del fare, senza mai prendere in considerazione l’origine essenziale di questa causalità. Parimenti, dice Heidegger, la disvelatezza conformemente alla quale la natura si rappresenta come una calcolabile concatenazione causale di forze, può bensì permettere costatazioni esatte, ma proprio a causa di questi successi può rimanere il pericolo che in tutta questa esattezza il vero si sottragga.

Quando il destino domina nel modo del Ge-stell, il pericolo è supremo – dice Heidegger. Questo pericolo si presenta sotto due aspetti. Quando il disvelato non si presenta più all’uomo come oggetto, ma lo concerne esclusivamente come Fondo – all’ora, dice, l’uomo cammina sull’orlo estremo del precipizio, cioè là dove egli stesso può essere preso solo più come un Fondo. Proprio quando è sotto questa minaccia l’uomo si veste orgogliosamente della figura di signore della terra. Così si viene diffondendo l’apparenza che tutto ciò che incontra sussista solo in quanto è un prodotto dell’uomo. Matura l’illusione per la quale sembra che l’uomo, dovunque, non incontri altri che se stesso. Seguendo questa via accade che ciò che fa essere l’ente nel suo insieme, cioè il disvelare, viene nascosto, e al suo posto si piazza l’uomo. In più – e questa è la deviazione e il pericolo capitale – l’ente nel suo insieme non viene inteso più come un accadere, come un destino, ma viene inteso come il generale, presente, persistente. Il Ge-stell, dice Heidegger, maschera il risplendere e il vigere della verità. Il destino che si invia nel modo del Bestellen, dell’impiego, è così il pericolo supremo. Il pericolo, dice, non è la tecnica. Non c’è nulla di demoniaco nella tecnica; c’è bensì il mistero della sua essenza. L’essenza della tecnica, in quanto è un destino del disvelamento, è il pericolo.

Il pericolo viene da una interpretazione sballata dell’essenza.

Che cos’è allora l’essenza?

XIII

La minaccia per l’uomo, ribadisce Heidegger, non viene anzitutto dalle macchine e dagli apparati tecnici, che possono anche avere effetti mortali. La minaccia vera ha raggiunto l’uomo nella sua essenza. Il dominio del Ge-stell minaccia fondando la possibilità che all’uomo possa essere negato di raccogliersi ritornando in un disvelamento più originario e di esperire così l’appello di una verità più principale. La minaccia per l’uomo è di rimanere un funzionario del fondo, assorbito dal fondo, ripreso e macinato dal fondo. E tutto ciò accade in quanto il disvelamento che si impone come tecnica, si afferma nascondendo l’essenza in quanto invio e mostrando al suo posto l’essenza come genere.

Nel linguaggio filosofico scolastico, dice Heidegger, Essenza significa ciò che qualcosa è, in latino il quid. La quidditas, la quiddità (die Washeit) risponde alla domanda circa l’essenza. Ciò che, per esempio, conviene a tutte le specie di alberi, alla quercia, al faggio, alla betulla, all’abete, è la stessa Arboreità. In questa, intesa come genere, come l’universale, rientrano gli alberi reali e possibili.

Ora, chiede Heidegger, l’essenza della tecnica, il Ge-stell, è forse il genere comune di tutto ciò che è tecnico?

Se ciò fosse vero, risponde, dovremmo dire che per esempio la turbina a vapore, la stazione radiotrasmittente, il ciclotrone sono ciascuno un Ge-stell. Ma la parola Ge-stell non sta qui a indicare uno strumento o qualche specie di apparecchio. E ancora meno vale come concetto comune di tali tipi di Fondi. Le macchine e le apparecchiature non sono specie e casi particolari del Ge-stell, così come non lo sono l’uomo che sta al quadro dei comandi o l’ingegnere nell’ufficio costruzioni. Tutti questi appartengono bensì, ciascuno a suo modo, al Ge-stell, sia come parti costitutive del Fondo, sia come Fondo, sia come Impieganti il Fondo, ma il Ge-stell non è mai l’essenza della tecnica nel senso del genere. Il Ge-stell, dice Heidegger, è un modo destinale, istoriale (Geschickhafte) del disvelamento. Il Ge-stell non è il genere, ma è ciò che accade. L’essenza è ciò che accade. Un modo destinale di questo tipo è anche quello del disvelamento produttivo, la poiesis. Ma questi modi non sono specie che si pongono l’una accanto all’altra e rientrano insieme nel concetto di disvelamento. Il disvelamento è quel destino [invio] che repentinamente e in modo inesplicabile per qualunque pensiero si impartisce [si destina al destinatario] all’uomo.

Così, dice Heidegger, il Ge-stell, in quanto è un destino del disvelamento, è bensì l’essenza della tecnica, ma non è mai essenza nel senso del genere e della essentia. Se facciamo attenzione a questo, dice, siamo colpiti da qualcosa di sorprendente: è proprio la tecnica ad esigere da noi che pensiamo in un senso diverso ciò che si intende generalmente con il termine Essenza (Wesen). La tecnica ci travia rispetto alla sua essenza, facendocela comprendere non come invio ma come il generico.

Già Platone e Socrate, dice, pensano il Wesen (essenza) di qualcosa come ciò che è (das Wesende) nel senso di ciò che dura (das Wahrende). Pensano ciò che dura come ciò che perdura. E ciò che perdura, poi, lo vedono in quello che, in qualunque cosa accada, si mantiene come il permanente, questo permanente, poi, lo trovano nell’aspetto (eidos, idea), per esempio nell’idea Casa. In essa si mostra ogni ente che sia del genere Casa. Le singole case reali e possibili, invece, sono modificazioni mutevoli e caduche della Idea e appartengono perciò al regno del non-durevole.

Tuttavia, dice Heidegger, in nessun modo si potrà mai dimostrare che ciò che dura debba risiedere unicamente ed esclusivamente in ciò che Platone pensa come ἰδέα, Aristotele come τὸ τί ἦν εἶναι, e che la metafisica pensa, secondo interpretazioni più diverse, come essentia.

L’essenza della tecnica dura forse nel senso del perdurare di un’idea, che si libra al di sopra di tutto ciò che è tecnico, in modo da originare l’apparenza che il termina «la tecnica» designi un’astrazione mitica? – chiede Heidegger.

Il modo in cui la tecnica dispiega il suo essere (west), dice Heidegger, si può capire solo riferendosi a quel perdurare nel quale il Ge-stell accade come un destino del disvelamento. Il chiamare all’impiego del reale come Fondo rimane sempre un mandare (Schicken), che mette l’uomo su una certa via del disvelamento. In quanto è tale destino, dice, ciò che costituisce l’essere (das Wesende) della tecnica porta l’uomo verso qualcosa che egli non potrebbe inventare né tanto meno produrre da se stesso; giacché un uomo che sia solo uomo unicamente da se stesso, è qualcosa che non esiste.

Questo destino, conclude Heidegger, il Ge-stell, è il pericolo estremo non solo per l’essenza dell’uomo ma per ogni disvelamento come tale, e tuttavia, in un tale mandare (Schicken), in un tale destino, cresce anche ciò che salva. Così, contrariamente ad ogni aspettativa, ciò che costituisce l’essenza della tecnica alberga in sé il possibile sorgere di ciò che salva. L’essenza della tecnica, dice Heidegger, è in alto grado ambigua. Tale ambiguità richiama l’arcano (Gehemnis) di ogni disvelamento, cioè della verità.

Adesso si spiega l’ambiguità dell’omaggio di Heidegger a Marx.

Marx ha il merito di concepire l’essenza come invio – e alienazione è un altro nome di questo invio. Ma, nello stesso tempo, in linea con Aristotele e la filosofia scolastica, continua a pensare l’essenza come il genere, come idea, e a ritenere la produzione come l’attualizzarsi di ciò che in potenza risiede nell’idea. Il lavoro (fonte del valore) è il genere, ciò che conviene a tutte le specie di lavori concreti, alla carpenteria, alla ragioneria, alla falegnameria, alla medicina. A tutte queste specie conviene il lavoro. In esso, inteso come genere, come l’universale, rientrano i lavori reali e possibili.

XIV

Su un punto tutti (Hegel, Marx, Heidegger, Bataille) sono d’accordo: è il lavoro il tratto fondamentale. Diverse sono invece le soluzione che propongono. Solo Heidegger volge (ma solo in parte) lo sguardo verso il passato, e solo Hegel (e in buona parte Marx) volgono lo sguardo verso il futuro e considerano il lavoro la strada della sofferenza, ma anche l’unica strada, l’unica esperienza, in grado di liberare l’uomo da questa stessa sofferenza. La soppressione dell’auto-estraneazione, scrive Marx, segue la stessa strada dell’auto-estraneazione. Hegel controfirmerebbe questa affermazione.

A differenza di Marx e di Hegel, Bataille crede fermamente che non sia possibile sopprimere l’estraneazione seguendo la stessa strada dell’estraneazione. I lavoratori non incarnano il sol dell’avvenire, salvando se stessi non salveranno tutti, anzi, al contrario, la salvezza che propongono è la peggiore delle schiavitù, o, perlomeno, la strada verso la salvezza passa attraverso il terrore sovietico.

Innanzitutto, è evidente in questa ricerca di Bataille la delusione cocente per il fallimento della rivoluzione russa. Le notizie che arriva dall’unione sovietica non sono buone. Sia Céline, sia Gide, già negli anni Trenta, nei loro viaggi in Russia non trovano quello che si aspettavano. La delusione è forte. L’uomo dell’avvenire è schiacciato e ridotto a nulla.

Davvero non c’è speranza, davvero non c’è niente da fare, davvero è tutto perduto?

Questa delusione diventa depressione, una depressione che coglierà molti giovani comunisti occidentali. Althusser ne sa qualcosa.

Il compito di Bataille è prendere in consegna quella voglia di libertà e riscatto delusa dall’esperienza sovietica e slegarla dal progetto di Hegel e di Marx. In questa impresa lo aiuteranno Heidegger e Nietzsche, soprattutto Nietzsche.

Ciò che è vero, deve essere nella realtà ed esservi per la percezione. Questo principio è opposto al dover essere, col quale la riflessione si gonfia e prende atteggiamenti sprezzanti verso il reale e presente, adducendo un aldilà. Ciò che Bataille eredita da tutti e quattro i suoi predecessori è questo atteggiamento, per così dire, empirista. Ciò da cui bisogna partire non è l’infinito, non è l’uno che diventa due e poi torna a essere uno.

La verità è storica, e si afferma nell’esperienza. Ma come è possibile, visto che l’esperienza è sempre singolare, vale solo per me che la faccio, mentre la verità vale per tutti?

La verità – che Bataille chiama sovranità; l’esperienza della verità è un’impossibilità che tutt’a un tratto si trasforma in realtà.

Cosa vuol dire?

Impossibile è ciò che si ritiene non passa accadere. Tutto ciò che può accadere è computato nell’ordine del possibile. Il possibile è anche prevedibile, dunque calcolabile. Ciò che è possibile calcolare, è anche prevedibile. Ma è possibile calcolare solo ciò che è già sempre stato. Ciò che non è già stato, non è calcolabile. Il futuro calcolabile, per essere tale, deve essere già stato. Pertanto, il nuovo, l’inatteso, è anche l’incalcolabile: impossibile da calcolare. Si tratta di sottrarre l’avvenire al concetto di essenza, in quanto l’essenza è ciò che è già sempre stato – il calcolabile.

Impossibile da prevedere, e dunque da calcolare, è il futuro che non è già stato.

Il possibile prevedibile, e dunque calcolabile, è il cattivo possibile.

Il buon possibile, cioè il possibile che mantenga il tratto di possibile, deve contemplare anche l’impossibile. Deve poter non essere, non avvenire, non accadere. Tale che, se accade, è una sorpresa, anche una cattiva sorpresa. Il miracolo può anche essere infelice. Il buon possibile deve avere il tratto del miracolo, ovvero dell’impossibile. Il vero avvenire – il comunismo – deve avere il tratto dell’impossibile. Tutto il resto è ragioneria.

Per illustrare il cattivo possibile Bataille parla dell’attrezzo.

Il senso dell’attrezzo, dice Bataille, è dato dal futuro, in ciò che l’attrezzo produrrà, nell’uso futuro del prodotto; come l’attrezzo, colui che serve – che lavora – ha il valore di ciò che sarà più tardi, non di ciò che è.

In queste poche parole Bataille riassume i tre momenti della dialettica di Hegel. Il Fine è già là nell’Origine, e l’origine diventa tale, si afferma, solo nel fine – nel fine ritorna cioè che è già sempre stato – la previsione, l’idea, l’essenza.

Il capitale è niente se non viene investito. Nell’investimento diventa prodotto, e in quanto tale non è più denaro, ma prodotto, prodotto che incarna un valore, ma che torna ad essere capitale, capitale arricchito proprio in quanto investito, solo se il prodotto cessa di essere tale, se viene venduto e consumato. Il capitale è tale solo e soltanto se, investito, finisce di essere prodotto e torna ad essere capitale aumentato. Se il capitale non è investito e aumentato, non è capitale, ma ricchezza generica. Solo se è investito in forza-lavoro il capitale può definirsi tale. Non è capitale all’origine, se non sarà capitale alla fine. La verità del Capitale è nella sua Fine. Entra qui in questione una concezione della verità che implica il tempo. La tecnicizzazione del mondo di cui parla Heidegger, non ha a che fare con una mera meccanizzazione, ma con una particolare struttura metafisica, con una concezione della verità.

È evidente che qui Bataille ha di mira il concetto di essenza, così come è restituito della tradizione filosofica, ovvero con l’esser già stato. Lo stabile – il vero – è il già stato. Solo a partire da ciò che è già stato noi possiamo incardinare ciò che sarà. Ciò che sarà è già da sempre incardinato in ciò che è già stato, è atteso, predeterminato – è un effetto, e in quanto effetto, trova la sua ragione d’essere in ciò che è già stato, ovvero nella sua causa – in Dio, il Dio ciabattino.

Ma se le cose non stessero così? Oppure, ammesso e non concesso che le cose stiano così, come è possibile sottrarsi alla presa del presente-passato sul futuro? Davvero l’orizzonte è chiuso e la storia finita? D’avvero non c’è più nulla da attendersi, e tuttalpiù dobbiamo rassegnarci a vivere sotto il comunismo, ovvero sotto l’ordine del terrore comunista, che altro non è se non una radicalizzazione, un perfezionamento del capitalismo?

XV

Il senso dell’attrezzo, dice Bataille, è dato dal futuro, in ciò che l’attrezzo produrrà, nell’uso del prodotto; come un attrezzo, colui che serve – che lavora – ha il valore in ciò che sarà più tardi, non di ciò che è. Ma ciò che ci si attende dal futuro è ciò che era già nel progetto, nell’idea.

Come smarcasi da questo circolo?

Ogni esperienza è un’esperienza servile. Per diventare un individuo, l’uomo deve diventare un servo. Un essere che esistesse solo nell’istante, dice, non potrebbe essere separato così da se stesso, in una sorta di «trauma». Ma non sarebbe, soggettivamente, un individuo. Per esistere in quanto uomo, l’uomo deve alienarsi, deve subire il trauma della separazione, deve sdoppiarsi, deve vivere nel tempo. L’esperienza del tempo è l’esperienza stessa dell’alienazione. Sdoppiandosi in un sé che attende e in un sé che si protende, l’uomo può ritrovarsi, può ritornare sui propri passi, ripetendosi può riconoscersi. L’uomo, dice Bataille, è sempre più o meno angosciato, perché è sempre in attesa: in un’attesa che dobbiamo chiamare attesa di sé, poiché deve afferrare se stesso nel tempo futuro, attraverso i risultati previsti della sua azione. Nella prospettiva in cui si sforza senza posa di cogliere se stesso, la morte possibile è sempre lì.

Per un essere infinito (Dio), oppure per un essere che vivesse nell’attimo, la possibilità non può costituirsi. Dio non può niente. Non può morire. Avendo esaurito tutte le possibilità, è in quiete. In Dio potenza ed esistenza coincidono. Tutto ciò che poteva fare lo ha già fatto. Essenza ed esistenza coincidono. Passato e futuro sono la stessa cosa. Dio è sovrano. Il sovrano è Dio. Ma questo sovrano non può più niente, non è un uomo, un questo, non è qui.

Ciò che è vero deve essere nella realtà, deve esserci, deve esser qui, ma nella realtà ogni esperienza è servile.

Come smarcarsi?

Noi, dice Heidegger (Che cos’è metafisica), abbiamo paura sempre di questo o di quell’ente determinato, che in questo o in quel determinato riguardo ci minaccia. La paura di… è sempre anche paura di qualcosa di determinato. E poiché è propria della paura la limitazione del suo oggetto e del suo motivo, chi ha paura ed è pauroso è prigioniero di ciò in cui si trova. Nel tendere a salvarsi da questo qualcosa di determinato, dice, egli diventa insicuro nei confronti di ogni altra cosa, cioè, nell’insieme, «perde la testa».

Consegnati all’esperienza della propria finitudine si perde la testa. Si diventa servi del pericolo, servi di ciò che delimita o vuol eliminare la nostra differenza. Ogni tentativo di salvarsi viene ripreso da ciò da cui ci si vuole salvare. Il lavoro è disperazione. L’alternativa, vivere l’attimo, essere un Dio, non avere alcun’altra possibilità, è anche peggio.

L’alternativa è tra 1) esserci, determinato, cosa tra le cose, servo, avere almeno un’altra possibilità, avere paura, attendere la morte, oppure 2) essere sovrano.

L’uomo sovrano, dice Bataille, sfugge alla morte: non può morire umanamente. Non può vivere in un’angoscia capace di asservirlo, di decidere in lui quel moto di fuga davanti alla morte che è l’inizio della servitù. Vivere come l’animale. L’animale, dice Heidegger, propriamente non muore. Morire è avere la possibilità, la possibilità si costituisce nel tempo, e il tempo si spazializza nella differenza. L’animale non pensa, non ha un senso che si protende e si attende. L’animale non lavora. L’Ape, a differenza dell’architetto, non investe, non avendo un presente non ha un futuro, e non avendo un futuro non può attendersi un ritorno (ROI).

L’uomo sovrano, dice Bataille, sfugge alla morte in quanto vive nell’istante. L’umo sovrano, dice (in modo del tutto tradizionale), vive e muore nello stesso modo dell’animale. Ma è tuttavia un uomo.

In ogni caso, dice Bataille (qui inizia lo smarcamento dal tempo e dall’esperienza e da Hegel e Heidegger), la morte è una negazione realizzata del mondo della pratica.

La sovranità di cui parla Bataille è una sovranità che non si smarca dalla storia, che non regredisce verso uno stato adamitico, o si lancia nel sogno di un messianismo, eccetera.

Bataille ha enumerato le possibilità che la tradizione gli offre: 1) un vitalismo tragico, alla Nietzsche prima maniera, in cui si rimane invischiati nella negazione determinata e non si esce dal servilismo (geopolitismo); 2) una fuga in avanti, che però implica il passaggio necessario dall’esperienza delle servitù (Hegel e Marx – capitalismo e comunismo); 3) rimontare le condizioni che hanno consegnato il mondo all’esperienza logica (Heidegger); 4) la teologia negativa, ritirarsi dall’esperienza, anche se ogni ritirarsi non può non tirarsi dietro ciò da cui si ritira.

XVI

Bataille inizia col definire il sovrano nel modo più classico (alla Bodin). Il sovrano è colui che è, come se la morte non ci fosse. È addirittura colui che non muore. Non è l’individuo che, nell’identità con se stesso, è una cosa distinta.

Definisce due corpi, un corpo fisico, il corpo del Re, e un corpo metafisico, quello del sovrano. Ma il problema è sempre stato quello di far comunicare i due corpi. Hegel aveva scoperto un interessante passaggio, ma questo passaggio implicava l’alienazione, l’incarnazione e la resurrezione.

Se l’alienazione è il lavoro e il lavoro è l’utile, allora, se si vuol rimanere sul piano dell’esperienza e della finitudine, bisogna cercare la sovranità aldilà dell’utile, aldilà del lavoro. Ma poiché tutto è lavoro, e non esiste un aldilà del lavoro, perché tutto è aldiqua, l’impresa appare impossibile, a meno che, non si cerchi qualcosa che sia impossibile ma reale.

La sovranità, dice, non può essere il risultato previsto di uno sforzo adeguato. Ciò che è sovrano può venire solo dall’arbitrio, dalla sorte. Non dovrebbe esistere un mezzo grazie al quale un uomo possa diventare sovrano.

Il sovrano, essendo colui che fonda la legge, è al di sopra di ogni legge. Il suo comportamento non può essere dettato da una norma. Se così fosse sarebbe un potere subordinato. La facoltà di dare la grazia, ovvero di sospendere gli effetti della legge, rimarca questo potere. Qui lo schema dei due corpi viene ribaltato. La sovranità non è più in cielo, ma è in terra. Ma il problema rimane intatto. È il problema di Carl Schmitt. Anche Schmitt porta la sovranità sulla terra, e la sua fonte è la decisione, decisione preceduta da niente, decisione che si staglia sul niente – arbitraria, dittatoriale, aleatoria, a tiramento di culo. Come far accedere la decisione, come fare affinché la decisione non rimanga chiusa – muta – nel gesto che la pone; come fare in modo che essa possa parlare in generale, a tutti? Come farsi intendere? Come farla entrare nella storia? È il problema di Kafka, il problema che K ha posto in maniera molto rigorosa. Per essere compresa la decisione deve poter collegare l’elemento di assoluta novità – che decisione è una decisione che sia già stata presa? – a qualcosa che sia già stato, dunque che sia riconoscibile.

Bataille non imbocca la via che da Hobbes porta fino a Carl Schmitt. Il sovrano non è chi decide, il sovrano non è l’ultima istanza o il fondamento. Soprattutto, il sovrano non è un individuo, non è l’uomo. Pur restando sul piano dell’esperienza, pur rimanendo sul piano del lavoro, dunque dell’uomo e dell’umano, Bataille afferma, con un gesto che fu di Nietzsche (e in una certa misura anche di Marx – bisogna saper cercare) che il sovrano è il miracolo, l’impossibile. Senza voltare lo sguardo al futuro, senza dover rinunciare a quel desiderio di messianesimo che è del comunismo, e a quel desiderio di giustizia che ad esso è connesso, Bataille si volge al futuro e vede in esso, ma non nel futuro pilotato teleologicamente, ci vede il messia, e il messia è il caso.

Il messia – su questo punto Bataille è chiaro – non viene per sconfiggere l’anticristo. L’elemento sovrano può essere felice o infelice, fasto o nefasto. Comprende un elemento aleatorio, non necessariamente conforme alle aspettative. Fa parte del caso, deludere o sorprendere.

Ma anche qui, siamo punto e a capo. Come fa il caso a entrare nella storia?

Intanto bisogna dire che il sovrano, inteso in quanto miracolo, si sottrae alla concatenazione delle cause e degli effetti. Il caso non si lascia lavorare o mettere al lavoro nella catena delle cause e degli effetti. Niente di ciò che è già stato (essenza) lo può, non dico annunciare, in quanto l’annuncio (per quando, per oggi, sarà oggi il giorno giusto?) può o deve sempre risuonare, niente di ciò che è già stato lo può prevedere. Noi, dice Bataille non conosciamo mai così bene se non l’oggetto di cui conosciamo il processo di produzione, il fenomeno che sappiamo riprodurre o del quale possiamo prevedere la ripetizione. Ma tutto ciò che si sottrae al lavoro e alla produzione, tutto ciò che non è investimento – il caso -, tutto ciò che non si ripete, meglio, tutto ciò che non ripete il progetto, non è anticipabile, non è prevedibile. Rimane da capire come accade l’imprevedibile, come si manifesta l’impossibile.

XVII

Il mondo delle cose, dice Bataille, ci è dato come una serie di apparenze dipendenti le une dalle altre. L’effetto dipende dalla causa, e in generale ogni oggetto dipende dall’insieme degli altri. In questo percepiamo dei rapporti di forza. La subordinazione presuppone il rapporto tra oggetto e soggetto. Presuppone il lavoro e la servitù. La subordinazione, del forte al debole è una conseguenza dello sdoppiamento tra soggetto e oggetto, dice Bataille. In noi stessi, dice, ciò che ci è dato di noi oggettivamente, come il corpo, ci appare subordinato. Il mio corpo è sottomesso alla mia volontà, che identifico in me alla presenza, sensibile dell’interno, dell’essere che sono. In un mondo dove non c’è scissione tra un sé corporeo e un sé che appercepisce questo corpo, non c’è subordinazione. Niente, dice Bataille, potrebbe mai godere di una preminenza, la preminenza è propria al soggetto per il quale l’altro è un oggetto. Il sovrano non è il forte o il più forte, il più forte di tutti. Non è possibile essere sovrano se si è determinati. Inserito nella catena degli oggetti finiti, nessuno può emanciparsi dalla servitù.

È perciò che Bataille dice che il sovrano è impossibile. Impossibile – qui è la sorpresa e la vera novità del suo tentativo – eppure esiste.

Ma come esiste?

In teoria, dice Bataille, il sovrano, grazie al mio lavoro, può vivere, se lo vuole, nell’istante: d’altronde non è importante che lo voglia, ma che lo possa e, in tal caso, manifesti questo potere.

Il potere sovrano si manifesta, sempre che si manifesti, grazie al mio lavoro. Nell’istante può incardinarsi nel mio lavoro. Ecco balenare una nuova teoria del valore-lavoro, in tutto simile alla vecchia.

L’unzione, le insegne della regalità, le proibizioni regali e la magnificenza, dice Bataille, apparentemente non solo designano il re ma lo fanno essere ciò che è. Però, dice, ciò che il re è veramente resta estraneo alle concatenazioni delle cause e delle effetti. Se il re è l’unto del Signore, è il Signore che l’ha deciso, e non gli uomini in quanto dispongono di quelle concatenazioni.

Le insegne, le proibizioni e il fasto mondano approntati dal lavoro, incardinati in un progetto, fanno essere il re ciò che è. Affinché il sovrano si presenti, deve essere atteso, devono essere issate le insegne regali. Senza attesa, dunque senza lavoro, il sovrano non si manifesta. Ma si tratta di un’attesa che non attende niente, di un lavoro inutile, perché l’attesa, per definizione, in linea di principio, attende il niente – attende ciò che può anche non venire, il caso. E tuttavia, nonostante senza lavoro non c’è alcuna possibilità, dunque alcuna possibilità che il sovrano si presenti, esso rimane strutturalmente estraneo al lavoro, e se si incardina mantiene la sua impossibilità intatta, la sua casualità assoluta. Rimane sempre uno scarto tra l’ordine delle cause e degli effetti, dunque del prevedibile, e l’istante sovrano. Uno scarto miracoloso, che può volgere al bene o al disastro.

Appare del tutto evidente che il sovrano deve essere atteso. Questa attesa paziente e trepidante, che attende il bene, sapendo che può arrivare il male o il peggio, non deve essere confusa con l’azione. L’uomo d’azione, se fosse attento, dice Bataille, si accorgerebbe che un altro che non agisce, che aspetta, può essere in un certo senso derisorio ma prende con serietà le conseguenze di un avvenimento: chi attende senza agire trascura quei fini immediati che non hanno mai tutta l’importanza, e neanche l’esatta importanza, che attribuisce loro l’azione. Può darsi insomma, dice, che oggi, ancora una volta, sia possibile – e anche positivo – vedere ciò che l’azione ci impedisce di vedere. Certuni dicono: e se nessuno agisce!… come se fosse inammissibile che un uomo eviti la folla assordante e cerchi di vedere più lontano, più liberamente di quelli che strillano. Ciò che accade è sempre difficile da riconoscere per quelli che vedono soprattutto ciò che desiderano. Ciò che viene sarebbe alla misura di idee prefabbricate? di idee elaborate in un tempo in cui nessuno avrebbe immaginato a che punto saremmo diventati oggi mostruosi, terribili, e insieme vigliacchi, sottomessi. Non so se è ragionevole proporre all’umanità un «avvenire radioso», ma vale la pena anche di non chiudere gli occhi su una verità che la lotta «per un radioso avvenire» ci impedisce in parte di vedere. Di questa verità, di cui non si possono ancora conoscere gli esiti, possiamo distinguere i dati presenti solo a patto di non essere costretti a parlare per ricevere l’approvazione delle masse.

XVIII

Se mi pongo come oggetto, dice Bataille, oggettivo anche l’immensità. Impigliati tra le cose, si finisce per ridurre a cosa anche il sovrano. Cosa vuol dire tutto ciò? Vuol dire che non c’è verso di quadrare la teoria del valore-lavoro con nessuna tecnica conosciuta – soprattutto con la matematica. Non c’è via di uscita. L’immensità mi trascende – è l’altro, è l’altro del servo, un altro servo. Non è più quel NIENTE in cui io stesso ero NIENTE (non essendo oggettività né l’uno né l’altra). L’immensità diventa qualche cosa di cui posso parlare, qualche cosa che mi parla. L’esplosione del linguaggio è il principio dell’operazione, dice. Porta con sé la «significazione» in virtù della quale le parole rinviano di continuo le une alle altre, e si perdono in un indefinito empirico. Se oggettivo l’immensità, dice, apro la strada all’ordine regolare della parola. La teoria circuitista, che passa dalla moneta sonante alla moneta segno crede con ciò di quadrare abbandonando il piano della carta moneta o dell’oro per un mero segno, come se il segno potesse esistere senza incarnarsi.

Se rimango NIENTE in questa immensità che non è NIENTE mi ritiro dal gioco. Non posso niente. E non potendo niente, non posso dare al sovrano la possibilità di accadermi. Non gli apro la porta. La porticina sono io, ma si tratta di una porta aperta sul NIENTE. Senza orizzonte di attesa, un’attesa che non attende NIENTE. Se attendesse qualcosa, questo qualcosa non sarebbe il sovrano. Il sovrano non arriva come una cosa che si attende. Il semplice fatto di attendere mi oggettiva, e oggettivandomi, dice, mi escludo dall’immensità indifferenziata, ma l’oggetto in gioco che io sono si dà in balia del gioco, il quale lo annienta come oggetto e lo restituisce, come oggetto aleatorio, a quel NIENTE inafferrabile che è il soggetto.

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