capra

I

Nel capitolo XXIV – il penultimo – del primo libro del Capitale Marx parla della (cosiddetta) accumulazione originaria e dice che, visto che l’accumulazione del capitale presuppone il plusvalore e il plusvalore presuppone la produzione capitalistica, ma questa a sua volta presuppone la presenza di masse considerevoli di capitale e forza lavoro nelle mani di produttori di merci; visto tutto ciò, dice, questo movimento sembra aggirarsi in un circolo vizioso, dal quale gli economisti (Marx cita Adam Smith) escono soltanto immaginando un’accumulazione «originaria» – Smith la chiama appunto «previous accumulation»; una (cosiddetta) accumulazione originaria, dice, precedente l’accumulazione capitalistica, e che non sia il risultato del modo di produzione capitalistico, ma il suo punto di partenza.
Nell’economia politica, dice Marx, questa accumulazione originaria ha suppergiù la stessa parte che in teologia ha il peccato originale: Adamo dette un morso alla mela e così il peccato piombò sul genere umano. Se ne spiega l’origine, dice Marx, narrandola come un aneddoto – come un mito.
Per l’economia politica il punto di ingresso nella storia non ha storia.
L’economia politica distende il circolo in una linea retta. Ora tutto si svolge in modo naturale. Solo che, non potendo il capitalismo essere uscito dalle mani di un capitalista, si deve far retrocedere la sua nascita ad un tempo mitico, naturale, eterno, e far sbucare il capitalismo da un presunto stato di innocenza.
L’innocente Adamo,
dando un morso alla mela, esce dal suo stato di grazia ed entra nella storia, entra nel mondo e impara a guadagnarsi il pane con la fatica e con il sudore della fronte. La sua presenza nel mondo è peccato ed espiazione e il suo anelito è abbandonare le cose pratiche che lo circondano e lo tentano. Il percorso è una prova. Il mondo è pieno di pericoli. Fine della vita è ritornare allo stato di innocenza perduto. È uscire dalla storia.
Prima di Adamo il peccato non esisteva. Con il primo peccato di Adamo il peccato entrò nel mondo (Kierkegaard). Ma come ci entrò? Affinché Adamo potesse peccare, la peccaminosità (il divieto, la legge) doveva già esistere.
Se ci fosse qualcosa di vero nel mito (Kierkegaard), dovrebbe essere questo: che la peccaminosità precede il peccato. Ma, dice Kierkegaard, se ammettiamo che la peccaminosità è venuta mediante qualcosa che non è il peccato, il concetto (di peccato) è tolto. E se essa è venuta mediante il peccato, allora questo l’ha preceduta.
Che il peccato sia entrato nel mondo,
dice Kierkegaard, ciò è perfettamente vero; ma ciò non riguarda, a questo modo, Adamo. Se vogliamo esprimerci con perfetta chiarezza e precisione, dice, dobbiamo dire che mediante il primo peccato la peccaminosità entra in Adamo. La peccaminosità si trova nel mondo unicamente in quanto vi entra mediante il peccato. Ogni peccato, ogni volta, introduce nel mondo la peccaminosità, ogni volta nuovamente. L’origine si ripete. Altrimenti bisognerebbe pensare per l’inizio o una peccaminosità senza peccato, o un peccato non peccaminoso – il che non è.
S
e l’accumulazione originaria è ciò che serve affinché il capitalismo prenda piede e si affermi, allora questa prima accumulazione non appartiene alla storia del capitalismo? Il capitalismo comincerebbe con un capitale che non è capitale? E ogni volta, di nuovo, il capitale attenderebbe fuori della storia l’occasione per accedervi? Ogni volta il capitale attenderebbe in un limbo, sotto forma di gruzzolo o di bottino, più spesso di bottino che di gruzzolo, attenderebbe di fare il suo ingresso nel mondo pulito (e storico) del capitalismo – come si immagina che accada sempre per il bottino mafioso?
I
l peccato originale, visto in Adamo, non è altro che quel primo peccato. Allora, dice Kierkegaard, Adamo è l’unico individuo che non partecipa alla storia? In questo caso il genere umano comincerebbe con un individuo che non è un individuo, e con ciò tanto il concetto della specie quanto il concetto dell’individuo sono tolti.
Se non è possibile ammettere una peccaminosità prima del peccato – e viceversa -, come
concepirne l’avvento? Pensare che con l’aumentare delle determinazioni quantitative, alla lunga, venga fuori una determinazione qualitativa nuova è una superstizione, dice Kierkegaard.
Come pensare l’origine?

II

Si tratta di una questione spinosa sulla quale si sono spaccati la testa in tanti, persino Freud.
In Totem e Tabù (1912-13) Freud cerca la linea di demarcazione tra natura e cultura, tra storia e natura, tra civili e selvaggi, e crede di trovarla in un divieto, per così dire, universale.
Qui non conta mettere in evidenza tutto il teatro retorico messo in scena da Freud per far apparire il preistorico. Non conta il giro o il circolo o la circonvenzione
mediante cui l’etnologo, lo storico o lo psicanalista presentano il preistorico, e lo presentano installandosi nella differenza storico-preistorico come se questa differenza fosse un dato naturale e non un prodotto – fosse anche un prodotto del caso. E non conta come, con una certa nonchalance, dunque senza renderne conto, si racconti – si produce? – il preistorico a partire dal confronto con lo storico – il pre-storico è il non-storico, è lo storico messo a nudo, spogliato e ridotto alla nuda vita, e fatto in modo che nessuno, e non era nelle intenzioni di Freud, possa accorgersi che questa nuda vita è nient’altro che la vita storica stessa, vestita dei suoi migliori abiti.
Nonostante ciò la domanda rimane: da dove viene lo storico?
Sarebbe uno scandalo per il pensiero se venisse da se stesso?
E
bbene, dice Freud, ci sono in Australia certi abitanti originari così selvaggi, che sono più selvaggi dei popoli della Melanesia e della Polinesia, con i quali non condividono né aspetto né lingua, selvaggi dai quali, dice, non potremmo aspettarci nulla, soprattutto dalla loro vita. Non potremmo certo aspettarci che, dice, questi poveri cannibali nudi (sic!) si comportino secondo i dettami della nostra moralità e pongano molte limitazioni alle loro pulsioni sessuali. Si ammucchiano come bestie. Eppure, dice, apprendiamo che essi si propongono di evitare con ogni cura e con la più scrupolosa severità rapporti sessuali incestuosi. Anzi, tutta la loro organizzazione sociale sembra obbedire o quanto meno tendere a questo scopo.
Come si spiega tutto ciò?
Presso gli aborigeni australiani il divieto dell’incesto si estende a tutti gli appartenenti ad uno stesso cla
n. I limiti del clan sono definiti dall’appartenenza (o discendenza) da uno stesso totem. È dunque il totem che definisce e spiega il limite di questa parentela storica. In quale modo si è giunti a sostituire la famiglia reale con la parentela totemica, dice Freud, resta un mistero, la cui soluzione coincide forse con la spiegazione del totem stesso.
L’
altro sesso, appartenente al mio stesso totem, è per me tabù. Tabù è il sacer, il santo, il consacrato, ma anche il perturbante (unheimlich), il pericoloso, il proibito, l’impuro.
Le restrizioni derivanti dal tabù, dice Freud, sono diverse dai divieti religiosi o morali. Non vengono ricondotte al comandamento di un Dio, ma propriamente parlando vietano da sé. Non ricorrono a un’autorità superiore per legittimare la propria validità. Non conoscono autorità superiore. Tanto da poter dire che la morale e persino la religione, Dio stesso, non sono altro che istituti attuativi della regolamentazione fondamentale istituita dal tabù. Le proibizioni derivanti dal tabù, dice Freud, sono prive di qualsiasi fondamento; la loro origine è sconosciuta.
Il tabù non risponde ad un’istanza superiore – è il grado massimo. Non può che agire da sé. Il tabù, lo ricordo, è legge. È una legge che agisce da sé. Il tabù violato, dice Freud, si vendica da sé. Vi sono resoconti degni di fede, dice, secondo cui l’aver violato inconsapevolmente uno di questi divieti ha in effetti provocato una punizione automatica. L’ignaro malfattore che, per esempio, ha mangiato la carne di un animale a lui proibito cade in preda a una profonda depressione, aspetta la
morte e infine muore davvero.
La psicanalisi scopre che questo processo non si esaurisce in una volta sola, non si compie una volta sola. Seppur le conquiste sociali vengano tramandate, la prima scelta dell’oggetto del bambino è incestuosa. Il bambino – ogni bambino -, ogni volta, deve ripetere il percorso che lo stacca dalla natura. La legge entra nella vita con ogni nuova vita – e non c’è altro modo per entrare.
La cerimonia dell’ingresso si ripete continuamente. La Legge entra ogni volta da un ingresso diverso. Da ciò quell’effetto di straniamento (unheimlich), di stupore e di paura, come alla vista di un fantasma.
Freud chiama questo processo Complesso di Edipo o Edipo, e dice chiaramente, già nel 1899 (
Interpretazione dei sogni, 244), che il destino del Re Edipo è il nostro destino. Forse a noi tutti era dato in sorte di rivolgere il primo impulso sessuale alla madre, il primo odio e il primo desiderio di violenza contro il padre. Il Re Edipo, che ha ucciso suo padre Laio e sposato sua madre Giocasta, è soltanto l’appagamento di un desiderio della nostra infanzia. Ma, dice Freud, più fortunati di lui, siamo riusciti in seguito – nella misura in cui non siamo diventati psico-nevrotici – a staccare i nostri impulsi sessuali da nostra madre, a dimenticare la nostra gelosia nei confronti di nostro padre. Non a eliminare, ma a rimuovere. Tanto che, nel nostro intimo, quegli impulsi, anche se spostati, sono pur sempre presenti.
Come Edipo, viviamo inconsapevoli dei desideri, offensivi per la madre, che ci sono stati imposti dalla natura e dopo la loro rivelazione noi tutti vorremmo distogliere lo sguardo dalle scene della nostra infanzia.
Il desiderio di ammucchiarsi con la madre è un desiderio naturale – è un
triebe naturale. Mentre il divieto di ammucchiarsi (il divieto dell’incesto), la colpa, il crimine, il delitto, non sono naturali. Dobbiamo lasciar cadere, dice Freud (Totem e Tabù), l’interpretazione che vede nell’orrore per l’incesto un istinto innato. L’orrore per l’incesto segna il passaggio dalla natura – dal gesto impulsivo – alla cultura, alla storia – al gesto sorvegliato dalla legge.
La storia di questo passaggio raccontata da Freud è molto avvincente.
Ma nulla in essa spiega come il passaggio sia avvenuto. Si assume il passaggio come sempre già avvenuto. Il passaggio dal desiderio al divieto del desiderio non può essere frutto di un desiderio, deve essere frutto di un divieto, ma il divieto è storico, come sottolinea giustamente Freud – si deve dunque supporre un divieto prima del divieto – il ché è impossibile. A meno che non si voglia intendere il divieto come un divieto meccanico, un divieto che agisca da sé – ma cos’è il sé (auto) di una macchina?

III

Freud passa in rassegna tutte le Teorie sull’origine del divieto – dunque sull’origine della Legge (ricordiamo la domanda: in che modo la colpa – le Legge – entra nella storia?), teorie sociologiche, psicologiche e nominalistiche. Alla fine sceglie una teoria storica – la teoria proposta da Darwin.
Darwin, dice Freud, dedusse dalla condizione delle scimmie superiori la primordiale condizione sociale dell’uomo.
Le scimmie vivevano in piccole orde, nel cui ambito
la gelosia del maschio più vecchio e più forte impediva la promiscuità. Una promiscuità dei sessi allo stato naturale, dice Darwin, è estremamente improbabile. Se guardiamo alle scimmie come antenate dell’uomo, dunque se guardiamo alle scimmie come all’uomo che non è ancora uomo; se volgiamo lo sguardo abbastanza indietro nel fiume del tempo, dice, l’opinione più plausibile è che ogni uomo primitivo vivesse in origine in piccole comunità insieme a tante donne quante ne poteva mantenere, e che egli le difendesse gelosamente contro tutti gli altri uomini. In ogni gruppo si vede soltanto un maschio adulto. Quando il giovane maschio è cresciuto, ha luogo un combattimento per il dominio, e il più forte, dopo aver ucciso e cacciato gli altri, s’impone come capo della comunità. I maschi più giovani, cacciati in tal modo e vaganti di luogo in luogo, allorché saranno finalmente riusciti a trovare una compagna, impediranno unioni consanguinee troppo strette entro la cerchia di una stessa famiglia. Così Darwin.
L
a teoria di Darwin dell’orda primitiva offre un quadro chiarificatore. Tuttavia, dice Freud, in essa non c’è spazio per il totemismo, non c’è spazio per un sistema di divieti – non c’è spazio per la Legge. Inoltre, dice, di un’orda come quella descritta da Darwin non ci sono evidenze di fatto. Ciò che si ritrova nelle forme più primitive di organizzazione conosciute sono bande di maschi dotati di uguali diritti e sottomessi alle restrizioni del sistema totemico. È possibile – chiede Freud – che questa forma di organizzazione sia derivata dall’altra?
Solo la psicanalisi, dice, può gettare un raggio di luce in questa oscurità, intanto, istituendo un rapporto di analogia tra la vita psichica dell’individuo e quella della società.
Il rapporto tra il bambino e l’animale, dice, è molto simile a quello tra uomo primitivo e animale. Il bambino non mostra ancora alcuna traccia di quella alterigia che più tardi induce l’adulto civilizzato a tracciare una rigida demarcazione tra
la propria natura e quella di tutte le altre creature. Nel confessare senza traccia di inibizione i suoi bisogni, egli si sente certo più prossimo all’animale che non all’adulto, il quale probabilmente gli risulta enigmatico.
D
ove non c’è ancora inibizione l’uomo è prossimo all’animale. Anche qui, lo noto di sfuggita, ciò che differenzia l’uomo dall’animale (o ciò che non lo differenzia) è usato ancora prima di essere prodotto – l’uomo è un animale, tale e quale all’animale, prim’ancora che la differenza tra uomo e animale si faccia avanti. Tutto il ragionamento di Freud è tenuto insieme da questi contrattempi. Uno psicanalista può vedere nel bambino un animale. Freud può vedere nel bambino l’animale. E sia. Ma sul piano dell’uscita dalla natura e dell’ingresso nella storia un Freud c’è solo ad un capo e non anche all’altro. In ogni caso, anche la presunzione che uno psicanalista riesca a vedere nel bambino l’animale deve essere messa alla prova. Non solo perché la ferinità – e ciò lo dimostra tutta la psicanalisi – è rimossa e non cancellata, ma soprattutto perché bisogna ancora dimostrare che ciò che è proprio dell’uomo non lo sia anche dell’animale, o di alcuni animali – per esempio le api.

In questa eccellente intesa tra bambino e animale compare non di rado un singolare elemento di disturbo. Il bambino comincia improvvisamente a temere l’animale, il capobranco. Teme che questi possa evirarlo.
Il padre, dice Freud, è ammirato in quanto possessore del grande genitale e temuto
come colui che minaccia il genitale del bambino. Il padre, dice, interpreta la parte di temuto avversario degli interessi sessuali infantili. L’evirazione è la punizione che il padre minaccia. Il bambino ammira il padre – o la posizione del padre, l’ideale del padre -, vorrebbe prendere il suo posto. Ma, per prenderne il posto, deve ucciderlo. Deve sacrificarlo. Ciò che del padre deve rimanere è il posto. La scena edipica è innanzitutto una scena masochista. Da qui il ruolo ambivalente del sacro – del sacer. – come di ciò che deve essere levato e mantenuto, di ciò che si desidera e di ciò di cui si ha paura.
Le due prescrizioni che costituisco il nucleo del sistema totemico – non uccidere il padre-totem e non avere rapporto endogamici – coincidono con i due delitti del Re Edipo, che uccide il padre e prende in moglie la madre, e con i due desideri primordiali del bambino.
Se questa equazione è giusta, dice Freud, dovrebbe permettere di gettare un po’ di luce sull’origine del totemismo in epoche immemorabili. In altri termini, dice, dovrebbe risultare verosimile che il sistema totemico si è prodotto partendo dal complesso edipico – dal sacrificio del padre.

IV

Un certo giorno, dice Freud, i fratelli scacciati si riunirono, abbatterono il padre e lo divorarono, ponendo fine così all’orda paterna. Uniti, dice, essi osarono compiere ciò che sarebbe stato impossibile all’individuo singolo. Che essi abbiano divorato il padre ucciso, dice Freud, è cosa ovvia trattandosi di cannibali. Il progenitore violento era stato senza dubbio il modello invidiato e temuto da ciascun membro della schiera dei fratelli. A questo punto – Freud aggiunge un elemento importante – a questo punto, nell’atto di divorarlo, essi realizzano l’identificazione con il padre, ognuno si appropriò di una parte della sua forza.
Il pasto totemico, dice, forse la prima festa dell’umanità, sarebbe la ripetizione e la commemorazione di questa memoranda azione criminosa, che segnò l’inizio di tante cose: le organizzazioni sociali, le restrizioni morali e la religione.
Il pasto ha un ruolo centrale. Come spiega Freud, è tramite il pasto che la sostanza del padre passa nei figli (o fratelli –
e le sorelle?). Senza questa comunione, senza questo comunismo primitivo, senza questa unione sacra e senza questa sacra famiglia riunita faccia a faccia, fianco a fianco, in una prossimità che sembra non possa e non debba essere virtualizzata, si consuma la prima cena – la cena vera e propria – la cena che da sempre è sempre ripetuta ed è da ripetere, viso a viso, fianco a fianco, core a core. Cena che immette nella storia e crea l’organizzazione sociale. Niente società senza cena – senza cibo, senza questa scena di cannibali.
Qui sorvolo su tutto il quadro per così dire virtuale che Freud sottolinea chiaramente, e che porta alla sostituzione del padre con un animale, e alla sostituzione dell’animale con un liquido o con un vegetale,
e in cui il pane e il vino o l’animale totemico surrogano il padre – stanno al posto del padre, eccetera -, e di come il padre stesso, per essere riconosciuto e mangiato in quanto padre, richiede che i figli si riconoscano quali figli, e si riconoscano tali, cioè come forma minima di organizzazione sociale, prim’ancora che sia consumata la cena istitutrice.
Prima che la cena sia consumata, dunque prima che la società sia stata fondata, non c’è alcuna comunità di fratelli, non c’è alcun padre, non ci sono cannibali, non ci sono feste – non ci sono cene e ultime cene. E un brandello di carne è solo un brandello tra altri, oggetto assoluto – solo la virtualizzazione permette di riconoscere quel brano come parte di un tutto chiamato padre. Ma un tutto chiamato padre non si presenta che a cose fatte, a cena consumata.
Sia come sia, per potersi svolgere, la cena
tra intimi deve ammettere un certo grado di virtualizzazione, ovvero di separazione, di distanziamento, di tele-visione – e, forse, prima di tutto, un certo automatismo.
L
a forma più antica di sacrificio, dice Freud, più antica dell’uso del fuoco e della conoscenza dell’agricoltura, era dunque il sacrificio animale, di cui il dio e i suoi adoratori gustavano insieme la carne e il sangue. Era essenziale che durante il pasto ciascuno dei partecipanti ottenesse la sua parte.
Tale sacrificio, dice, costituiva una cerimonia pubblica, festa solenne di un intero clan. La religione in generale era un fatto comunitario, il dovere religioso una componente degli obblighi sociali.
Mangiare e bere con un altro, dice, era al tempo stesso un simbolo e un rafforzamento della comune appartenenza alla società e della assunzione di obblighi reciproci. Ma perché – chiede Freud – si attribuisce questa forza vincolante al mangiare e bere in comune?
La comunità di stirpe significa partecipazione di una comune sostanza. È naturale che, dice, tale appartenenza sia fondata non soltanto sul fatto che si è parte della sostanza della madre dalla quale si è stati partoriti e del cui latte si è stati nutriti, ma che anche il nutrimento che si consuma in seguito e col quale si rinnova il proprio corpo possa produrre e rafforzare la comunità di stirpe. Se si condivideva il pasto con il proprio dio, ciò esprimeva la persuasione di essere fatti della sua stessa materia, mentre con colui che era considerato straniero non si condivideva alcun pasto.
Il pasto sacrificale, dice Freud, era in origine un pranzo solenne di parenti di stirpe, in base alla legge che soltanto membri della stessa stirpe o famiglia mangiano insieme. Insomma, il comunismo primitivo era una cena di famiglia, dalla quale erano esclusi gli estranei.
Ciò che colpisce in questa scena messa in piedi da Freud non è solo il fatto che si tratta di un teatrino approntato da maschi ad uso e consumo di maschi, ma che si lasci passare come un dato di fatto o un dato naturale ciò che non è per nulla naturale, come, per esempio, la trasmissione al figlio della sostanza materna mediante il latte, o la trasmissione della sostanza paterna mediante il sangue.
A
ttraverso il latte materno (e il sangue paterno), dunque non attraverso il latte artificiale o il latte del seno di un’altra donna, passerebbe da un corpo all’altro la sostanza. Il sangue e il latte sarebbero il significante e il mezzo di trasporto, mentre la sostanza paterna o materna sarebbero il significato, l’essenza, eccetera. Solo in quanto questa sostanza viene comunicata si entra in comunione, si crea il comunismo primitivo.
Il comunismo primitivo è un comunismo patriarcale – al più un comunismo matriarcale -, in ogni caso un comunismo familista, sommamente metafisico – teologico.
Anche in epoche successive, dice Freud, ad ogni pasto in comune l’aver condiviso la stessa sostanza che penetra nel corpo dei commensali, genera fra essi un vincolo sacro.
Come si costituisce questa comunità?
Bisogna raccogliersi – ma in base a quale criterio, se ancora il pasto non è stato consumato, se ancora la sostanza che rende partecipi di uno stesso destino non è stata assunta? Bisogna radunarsi tra membri di uno stesso clan, prima che il clan sia costituito. La comunità inizia prima del suo inizio effettivo. Inizia prima della cena –
la cena prima della cena, la legge prima della legge. Bisogna raccogliersi in presenza e bere il sangue mentre sgorga dalla vittima sacrificale. Stare insieme alla vittima sotto lo stesso tetto pare essere indispensabile. Non c’è comunità senza contatto. Il contatto appare essere indispensabile. Il santo mistero della morte sacrificale è fondato sulla considerazione che solo il contatto produce il cemento sacro che mantiene il vincolo che unisce i credenti al loro dio. Questo vincolo, dice Freud, non è altro che la vita dell’animale sacrificale; essa, dice, risiede nella sua carne e nel suo sangue e viene partecipata a tutti i convenuti attraverso il pasto sacrificale.
Il mistero del corpo e del sangue e del pasto sacrificale risiede nel cemento: il pasto cementifica. Prima che
il cemento agisca non c’è società, non c’è comunità e comunismo dei fratelli. Fratelli di tutto il mondo, prima di diventare fratelli veri e propri, fratelli nel sangue, bisogna consumare la cena, e bisogna consumarla in presenza.
Perché la presenza è importante?
Perché, dice Freud, un solo fratello non ha la forza necessaria per ammazzare il padre. Bisogna essere in tanti per sopraffarlo. Ma una volta sopraffatto, e qui sta il tratto masochista di questa cena sacrificale, una volta ucciso il padre e smembrato il suo corpo, affinché la sacra famiglia comunista si costituisca, non è sufficiente ingozzarsi di carne e sangue (o vino), bisogna che il padre diventi un padre ideale, e che, in quanto ideale, prenda il posto della Legge – detti la Legge.
Solo in quanto il padre-morto, divenuto con ciò l’ideale del padre-vivo – l’immagine –; in quanto immagine, a distanza, può istituire la comunità familiare del comunismo primitivo e aprire la cena ai commensali che solo adesso possono riunirsi e riconoscesi in quanto fratelli, e possono farlo solo sotto lo sguardo dell’ideale del padre, sguardo che li istituisce e li schiaccia, che li colloca nel posto che fu del padre, a patto che rimangano sotto il piede del padre, nell’impossibilità di accedere a ciò cui tutta questa messa in scena aveva promesso di farli accedere – il coito endogamico. Il padre, coperto da una pelliccia animale – animale totemico e bestia sacrificale – è ciò che, togliendosi, apre alla possibilità dell’endogamia, ma è anche ciò che, rimanendo in quanto ideale, vieta l’endogamia. Tutto questo cinema richiama da vicino il cinema messo in scena da Sacher Masoch nella Venere in pelliccia.
M
orto, dice Freud, il padre divenne più forte di quanto fosse stato da vivo, secondo un succedersi di eventi che ravvisiamo ancora oggi nel destino degli uomini. Ciò che prima egli aveva impedito con la sua esistenza, i figli se lo proibiscono ora spontaneamente nella situazione psichica dell’”obbedienza posteriore”, che conosciamo così bene attraverso la psicanalisi. Revocarono il loro atto dichiarando proibita l’uccisione del sostituto paterno, il totem, e rinunciarono ai suoi frutti, interdicendosi le donne che erano diventate disponibili. In questo modo, prendendo le mosse dal loro filiale senso di colpa, crearono i due tabù fondamentali del totemismo, che proprio dovevano coincidere con i due desideri rimossi del complesso edipico.
Ecco la colpa entrare nel mondo. È stato necessario un sacrificio, un omicidio. Solo da morto il padre
può dettare la Legge. Solo il morto può parlare ai fratelli, e i fratelli possono diventare tali solo se si sottomettono al morto. Il morto non viene tolto, parla attraverso il totem, deve fare la sua comparsa in pelliccia di animale. Da dietro questa pelliccia l’ideale prende parola, e la legge fa il suo ingresso nel mondo, e insieme alla legge si affaccia anche la colpa.
Di cosa sono colpevoli i fratelli?
Sono colpevoli di ciò che li rende fratelli. Colpevole è la loro origine – la caduta. La caduta nella storia è una colpa – la storia è una colpa. La legge, dice Freud, deve vietare l’assassinio. Il posto del padre deve rimanere vacante. Solo un surrogato può – deve -, di volta in volta, occuparlo.
I fratelli, dice Freud, revocarono il loro atto dichiarando proibita l’uccisione del sostituto paterno, il totem, e rinunciarono ai suoi frutti, interdicendosi le donne che erano diventate disponibili.
Il bisogno sessuale, dice Freud, non unisce i maschi, ma li divide. Se i fratelli avevano fatto lega per sopraffare il padre (lega impossibile da costituire prima dell’
uccisione del padre), ognuno era però rivale dell’altro nei confronti delle donne. Ciascuno avrebbe voluto averle tutte per sé, come le aveva il padre, e nella lotta di tutti contro tutti la nuova organizzazione sarebbe andata distrutta. (Anche qui, il figlio può credere di prendere il posto del padre, solo se è in grado di pensare l’ideale del padre, di pensare il padre morto. La morte del padre deve precedere la morte del padre – il padre deve essere già morto per poter essere messo a morte – ulteriore effetto di contrattempo).
Nessuno, dice Freud, era diventato tanto più potente degli altri da poter assumere con successo la parte del padre.
Così, dice, non restò altro ai fratelli, se volevano convivere, che erigere il divieto dell’incesto in base al quale tutti insieme rinunciavano alle donne che desideravano e a causa delle quali, soprattutto, avevano tolto di mezzo il padre. In tal modo salvavano l’organizzazione che li aveva fatti forti.
La società, dice Freud, poggia d’allora in poi sulla correità nel delitto perpetrato insieme, la religione sul senso di colpa e sul rimorso che esso genera, la moralità in parte sulla necessità di questa società, in parte sul bisogno di espiazione imposto dal senso di colpa.
La scena della sopraffazione del padre, dice Freud, della sua disfatta rovinosa, è diventata qui il materiale per celebrare il supremo trionfo del padre stesso. Dobbiamo ammettere, dice, che la vendetta del padre abbattuto e reinsediato è diventata inesorabile: il dominio dell’autorità ha raggiunto il culmine.
L’origine della Legge è legata ad un assassinio. La morale è legata a un assassinio o a un rimorso. Questo è il racconto di Freud.
Si tratta del mito in base al quale Freud spiega l’origine della legge morale. Il Superio ha origine nella morte del padre. I fratelli stabiliscono l’uguaglianza: di fronte al padre (morto) non sono altro, l’uno nei confronti dell’altro, che pretendenti con uguali diritti.
Quando i fratelli stabiliscono l’uguaglianza tra di loro in seguito all’uccisione del padre, dice Derrida (
La Bestia e il Sovrano), Freud precisa che è nel momento in cui i figli o i fratelli hanno concepito il rimorso in seguito all’uccisione del padre che è nata la morale. La legge morale è nata dal rimorso. Ma, dice Derrida, affinché ci sia rimorso, è necessario che ci fosse già la legge morale. Quindi se hanno cominciato a «espiare», vuol dire che sapevano già che esisteva la legge morale, altrimenti non ci sarebbe stato rimorso né espiazione.
Ci sono due tempi in questa nascita della legge morale. C’è, dice Derrida, un primo tempo in cui la legge morale esiste, c’è ma è virtuale, potenziale, c’è sempre già, e poi si attualizza come tale, appare come tale dopo l’uccisione. C’è già prima dell’uccisione, altrimenti non ci sarebbe rimorso: l’avrebbero ucciso, avrebbero compiuto questo gesto senza rimorso. Perché ci fosse rimorso, doveva già esserci la legge morale. Ma, dice, è nel momento dell’espiazione, o del rimorso, della cattiva coscienza, che la legge morale appare come tale.
Questo ritardo, o questo rinvio, era già stato sottolineato da Derrida nel 1967 nella Grammatologia.
L’incesto non esiste – dice Derrida
(La grammatologia). Prima della festa non c’era incesto perché non c’era proibizione dell’incesto. Dopo la festa non c’è più incesto perché viene interdetto. La festa, dice, è essa stessa l’incesto se qualcosa di simile – l’incesto stesso – potesse aver luogo. Non c’è incesto quando l’incesto c’è.

V

Il masochismo rappresenta un enigma, ma solo dal punto di vista economico. Il suo contenuto manifesto, invece, è noto: essere imbavagliati, legati, dolorosamente percorsi, frustati, maltrattati in un modo o nell’altro, costretti a un’obbedienza assoluta, insudiciati, umiliati. L’interpretazione più facile e ovvia, dice Freud, è che il masochista vuole essere trattato come un bambino cattivo. Sempre nel contesto manifesto delle fantasie si esprime un sentimento di colpa. Il soggetto suppone di aver commesso qualche crimine (che resta indeterminato). Tale crimine, dice, deve essere espiato con ogni sorta di procedure dolorose o tormentose.
Freud torna sul tema del masochismo nel 1924 (Il problema economico del masochismo) e apporta una revisione alla posizione espressa nel 1905 nei Tre saggi.
Il masochismo, dice Freud (
Il problema…), si manifesta in tre forme. La più importante, dice, solo di recente è stata determinata dalla psicanalisi come senso di colpa – perlopiù inconscio.
Nel masochismo del terzo tipo – masochismo morale – l’individuo reagisce con sentimenti di angoscia (angoscia morale) alla percezione di non essere riuscito a soddisfare le esigenze del proprio ideale.
Come mai, chiede Freud, l’Io si intimorisce quando si accorge di comportarsi in modo difforme rispetto al proprio ideale?
La paura di essere divorato dall’animale totemico (padre), dice Freud, deriva dall’Edipo.
Con la nascita della morale (Legge) la situazione edipica viene superata. L’Io assume a proprio modello il Padre (morto), e mentre lo assume a modello le relazioni con gli oggetti libidici vengono de-sessualizzate. Solo in questo modo, dice Freud, è stato possibile superare l’Edipo.
L’ideale conserva alcune caratteristiche essenziali delle persone introiettate. Ne conserva il potere, la severità, la tendenza a sorvegliare e punire – dice Freud. La coscienza morale che agisce sull’Io, dice, può ora diventare dura, crudele, inesorabile contro l’io di cui è la protettrice. L’imperativo categorico di Kant si rivela così il diretto erede del complesso edipico.
La coscienza morale (Super-Io), che sostituisce l’Edipo, diventa il rappresentante del mondo esterno reale, e quindi il modello cui l’Io cerca di conformarsi nei suoi sforzi. Edipo, dice Freud, dimostra di essere la fonte della nostra eticità individuale o moralità. Nel corso dello sviluppo infantile, che porta a un progressivo distacco dai genitori, l’importanza personale di questi ultimi passa in secondo piano, diventano importanti altre figure: educatori, autorità, individui esemplari e eroi pubblicamente riconosciuti, cantanti – stelle del cinema.
Attraverso il masochismo, dice Freud, Edipo è riattivato, viene aperta la strada per una regressione dalla moralità all’Edipo. Di solito, dice,
la situazione è presentata come se l’esigenza etica fosse l’elemento primo e originario, e la rinuncia pulsionale la sua conseguenza. Ma, dice, in questo modo l’origine dell’etica resterebbe inesplicabile. In realtà, dice, pare che accada il contrario: la prima rinuncia pulsionale è stata imposta da forze esterne, essa sola ha potuto creare il senso etico che trova espressione nella coscienza morale ed esige una rinuncia pulsionale ulteriore.
Insomma, in principio non ci sarebbe il Verbo – la Legge. In principio ci sarebbe un impasto pulsionale e una spinta che si estroflette sugli oggetti esterni e che corrisponde al sadismo, o che si riflette all’interno e assume come oggetto il soggetto stesso e che corrisponde al masochismo.

VI

Di tutti i testi di Freud, dice Deleuze (Il freddo e il crudele, 1966), il capolavoro Al di là del principio di piacere è senza dubbio quello in cui Freud penetra più direttamente, e con quale genio, nella riflessione propriamente filosofica.
La riflessione filosofica, dice Deleuze, deve essere chiamata «trascendentale». Questo termine (trascendentale) designa un modo di considerare il problema dei principi.
Con «Al di là», dice, Freud non intende affatto considerare delle eccezioni al Principio di piacere. Per Freud non ci sono eccezioni al Principio di piacere, seppure vi siano complicazioni del piacere stesso. Ecco appunto, dice Deleuze, dove inizia il problema: se nulla contraddice il Principio di piacere, se tutto si concilia con esso, questo non significa che possa render conto di quegli elementi e di quei processi che ne complicano l’applicazione. Si manifesta qui, dice Deleuze, la necessità della riflessione filosofica.
Chiamiamo Principio, dice, ciò che governa un ambito. Si tratta allora di un principio empirico o legge. Ma tutt’altra cosa è sapere ciò che sottomette l’ambito al principio.
Freud coglie precisamente il problema. Non prende alcuna scorciatoia. Vuole risolvere il problema del piacere a partire dal piacere stesso. Non vuole cercare alcuna sponda fuori dal piacere. Se il piacere emerge, e se emerge quella cosa chiamata piacere, emerge per piacere. Freud deve compiere lo stesso passaggio che Darwin
ha compiuto rispetto a Lamarck. La giraffa allunga il collo per arrivare ai rami più alti e sviluppa un collo più lungo – si evolve. Sotto la pressione delle condizioni ambientali l’organismo si trasforma, passa da uno stato ad un altro, cambia la sua natura. Questo cambiamento suppone nella giraffa un piano, un progetto – un’idea. Allo stesso modo, nell’uomo la mano si sviluppa come strumento per afferrare. L’afferrare – o l’afferrabilità, l’idea – deve precedere la mano, ma la può precedere solo se si immagina l’organismo contrapposto ad un ambiente che è, per questo organismo, qualcosa di afferrabile. Ma prima della comparsa della mano – questa è la scoperta di Darwin, non c’è niente da afferrare. Non c’è un oggetto afferrabile per un soggetto afferrante. La scissione tra soggetto e oggetto non precede, ma segue o accompagna la comparsa della mano – tuttalpiù, la comparsa della mano retrodata la scissione, riscrive il passato. In ogni caso, non c’è poggetto, se non progetto retro-datato.
Risolvere il problema del piacere a partire dal piacere pone problemi complicatissimi, problemi che Freud affronta in Al di là.
Il piacere, dice Deleuze, è Principio nella misura in cui regola la vita psichica. Ma, chiede, qual è l’istanza superiore – l’istanza trascendentale – che sottomette la vita psichica al dominio empirico del principio di piacere? Già il filosofo Hume, dice, faceva notare che nella vita psichica ci sono dei piaceri, come
ci sono dei dolori; ma inutilmente analizzeremmo sotto ogni aspetto le idee di piacere e di dolore, non riusciremmo mai a trarne la forma di un Principio in base al quale noi cerchiamo il piacere e fuggiamo il dolore. Freud dice la stessa cosa. Ci sono nella vita psichica dei piaceri e dei dolori, ma qua e là, dispersi, sparsi, fluttuanti, «non collegati». Allo stesso modo, ci sono nell’ambiente sparsi qua e là una frasca, una pietra, una mano, e non c’è un Principio che li colleghi, facendo diventare la frasca un bastone. Come dice Sartre (L’Essere e il Nulla) la sete, come fenomeno organico, come bisogno “fisiologico” d’acqua, non esiste. Il condensamento di una soluzione, dalla quale l’acqua evapora, non può essere considerato in sé come un desiderio d’acqua della soluzione.
La
risposta trovata da Freud a questo problema del desiderio di acqua è molto più raffinata di quella di Sartre. Freud sa che non può introdurre di soppiatto la differenza tra Soggetto e Oggetto. Questa differenza deve essere prodotta, non può essere presupposta. La differenza dal piacere deve emerge nel piacere. Ci deve essere una differenza (che non è una differenza) che precede la differenza (tra il Piacere e il suo altro).
C
he un principio sia organizzato in modo che il piacere sia sistematicamente ciò che viene ricercato e il dolore ciò che viene evitato, dice Deleuze, è questo il problema che richiede una spiegazione superiore. In breve, dice Deleuze, esiste almeno qualcosa di cui il piacere non può rendere conto, che gli rimane esterno, ed è il valore di principio che è determinato ad assumere nella vita psichica.
Ora, non c’è cosa più facile
che considerare questo fuori come il fuori di un dentro, e porre in questo fuori il puntello dal quale spiccare il salto. Il fatto è che non siamo nelle condizioni di porre alcun dentro e alcun fuori. Non siamo ancora nelle condizioni di fare alcuna distinzione, alcuna differenza. La capacità di entrare in differenza (in dialettica) deve ancora esser posta.
Q
ual è il legame superiore che fa del piacere un principio, che gli conferisce il rango di principio e gli sottomette la vita psichica? chiede ancora Deleuze.
Il problema posto da Freud, dice, è il contrario di quello che spesso gli si attribuisce: non si tratta di eccezioni al principio di piacere, ma della
fondazione di questo principio. Si tratta, dice, della scoperta di un principio trascendentale: il problema «speculativo» precisa Freud.
Senza un principio di collegamento vi sarebbero scariche e piaceri, ma sparsi, senza valore sistematico. È il legame che rende possibile il piacere. La diluizione di una soluzione, nella quale si riversa dell’acqua non è piacere. Ecco, dice Deleuze, la scoperta di Eros come fondamento. Questo legame costitutivo di Eros, dice Deleuze, dobbiamo determinarlo come «ripetizione»: ripetizione rispetto all’eccitazione; ripetizione del momento della vita o dell’unione necessaria, anche agli unicellulari.
L
a ripetizione, dice Deleuze, precede il principio di piacere. Non c’è alcun piacere senza ripetizione. Ma cosa si ripete nella ripetizione? A ripetersi è il piacere. Per ripetersi il piacere deve essere discontinuo, deve essere un piacere che ammette come piacere un dispiacere, deve intaccare e intaccando far scaturire il tempo. Deve andare avanti e indietro – fort-da. Su e giù, avanti indietro.

VII

Nel 1914, dopo la rottura con Jung e Adler, e per rivendicare la paternità del movimento psicanalitico, Freud scrive Per la storia del movimento psicanalitico [SMP]. È qui che dice che la teoria della Rimozione è il pilastro su cui poggia l’edificio della psicoanalisi.
Sono certo, dice Freud,
di aver elaborato autonomamente la teoria della rimozione. Non so di alcuna fonte che mi abbia influenzato e avvicinato ad essa, e per lungo tempo ho ritenuto che si trattasse di una concezione originale, fino a quando Rank ha segnalato il passo del Mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer dove il filosofo tenta una spiegazione della follia. Ciò che là è detto coincide così perfettamente con il contenuto del mio concetto di rimozione, che ancora una volta ho potuto ringraziare le lacune della mia cultura che mi avevano permesso di fare una scoperta. Altri, infatti, hanno letto quel brano senza soffermarvisi, senza fare questa scoperta, e forse lo stesso sarebbe capitato a me se negli anni giovanili avessi trovato più gusto nella lettura di autori filosofici. Più tardi, continua Freud, mi sono interdetto l’alto godimento delle opere di Nietzsche con il deliberato obiettivo di non essere ostacolato da nessun tipo di rappresentazione anticipatoria nella mia elaborazione delle impressioni psicoanalitiche. Perché in effetti, sia nella Gaia Scienza, sia nella Volontà di potenza, nota Derrida [Speculare – su “Freud”] si trovano espressi contenuti ripetuti quasi alla lettera in Freud. Il quale, successivamente, in Al di là del principio di piacere [1919], parla di Eterno ritorno dell’eguale (tutto fra virgolette) per far riferimento ad una ripetizione che non tiene più conto del principio di piacere e si collocherebbe anzi al di sopra di quest’ultimo. Il nome di Nietzsche, dice Derrida, non viene menzionato, ma poco importa.
La teoria della rimozione, dice Freud in SMP, costituisce l’elemento più essenziale della psicoanalisi e non è altro che l’espressione teorica di un’esperienza ripetibile a volontà.
Nel 1915, in vista di un’opera generale sull’impalcatura concettuale della teoria psicoanalitica, Freud scrive un saggio sulla Rimozione.
Non è facile, dice Freud, inferire teoricamente la possibilità di una rimozione. Perché mai un moto pulsionale dovrebbe incorrere in un destino siffatto? È evidente che dovrebbe verificarsi la condizione che il raggiungimento della meta pulsionale rechi dispiacere in luogo di piacere. Ma questo caso non è facilmente immaginabile. Non esistono pulsioni siffatte: il soddisfacimento di una pulsione è sempre piacevole.
La pulsione è sempre attiva, è positiva. Come si produce allora la rimozione? Bisognerebbe ammettere, dice Freud, condizioni particolari, e cioè un processo in virtù del quale il piacere del soddisfacimento si affacci come dispiacere.
Su cosa sia il piacere e il dispiacere, Freud, dice Derrida, ammette di rimanere all’oscuro di tutto, e alla fine di privilegiare il punto di vista economico e stabilire, da questo punto di vista, un primo rapporto. Un rapporto fra due quantità, e non tra due essenze.
Il soddisfacimento della pulsione soggetta a rimozione sarebbe ben possibile, dice Freud [1915], e che inoltre sarebbe di per sé sempre piacevole. Tale soddisfacimento sarebbe però inconciliabile con altre esigenze e propositi. Produrrebbe dunque piacere da un lato e dispiacere dall’altro. Condizione della rimozione diventa dunque che il motivo del dispiacere ottenga un potere maggiore del piacere che si ricava dal soddisfacimento. In più, Freud nota come ci sia una correlazione talmente grande tra rimozione e inconscio da costringerlo a procrastinare l’approfondimento dell’indagine sull’essenza della rimozione a quando avrà appreso qualche cosa di più circa i lineamenti strutturali delle istanze psichiche e la differenziazione tra inconscio e conscio. E ciò perché l’essenziale nella rimozione consiste semplicemente nell’espellere e nel tener lontano qualcosa dalla coscienza.
È proprio in virtù di questo meccanismo che Derrida può accostare Freud a Hegel e dire che questa struttura non si lascia più padroneggiare, e che il ritorno a sé non è mai assicurato. Dal momento in cui un’istanza autoritaria – il principio di piacere – si sottomette al lavoro di un’istanza secondaria o dipendente – signore/servo – (che nel testo del 1915 Freud chiama genericamente altre esigenze e propositi, e che poi trasformerà in principio di realtà) la quale si trova a contatto con la “realtà” non si dà più opposizione, come a volte si crede, fra principio di piacere e principio di realtà. È lo stesso che differisce, che è in différance rispetto a sé. Poiché, dice Derrida, il principio di piacere stipula un contratto unicamente con se stesso e con la propria metastasi, poiché esso s’invia tutto ciò che vuole e tutto sommato non incontra alcuna resistenza, esso scatena in sé l’altro assoluto.
C
iò che qui Derrida vuol far emergere è che non c’è opposizione, non c’è contraddizione, e dunque non c’è tesi – non c’è sintesi: c’è alterazione senza sintesi. In più, e credo sia la cosa più importante, ciò che conta in questo scatenamento è la disseminazione di un altro assoluto, di una posizione per così dire empirica che ammette un ritorno pieno – ma solo possibile.
Abbiamo da una parte il piacere e dall’altra il dispiacere, ma il dispiacere è piacere differito.
Con la strutturazione topica, con la strutturazione delle istanze che la Rimozione istruisce e significa, essa sconvolge la logica implicita in
ogni filosofia: essa fa in modo che un piacere possa essere avvertito – dall’Io – come dispiacere. Questa differenza topica è inseparabile dalla Rimozione. Si ha effettivamente piacere effettivo, effettivamente, attualmente vissuto come dispiacere. L’esperienza in senso classico, conclude Derrida, in senso filosofico e nel senso corrente (è lo stesso), il “come tale”, l’esperienza in senso classico data attraverso l’esperienza cosciente, attraverso la coscienza della presenza, ecco ciò che non costituisce più la misura.
Finché piacere e dispiacere – differenza resa possibile dalla Rimozione – sono localizzati in istanze differenti (ciò che
qui è piacere è dispiacere), la differenziazione topica introduce un elemento di coerenze sistematica e di razionalizzazione classica. Il piacere e il dispiacere restano al loro posto. Giudiziosamente, dice Derrida, visto che nessuna commistione è possibile e che commistione è follia. Il principio di identità è rispettato dalla topologia e dall’attribuzione dei luoghi. Qui bisogna leggere la fine di ogni geopolitismo – di ogni querelle amico-nemico.
Benché la distribuzione topica
di Freud sia un effetto della différance, dice Derrida, essa trattiene ancora la différance in seno ad un elemento rassicurante e nel quadro di una logica opposizionale: non è ancora il piacere stesso ad essere avvertito come dispiacere.

VIII

Il masochista non cerca piacere nel dispiacere. Non c’è piacere. Non c’è presenza o presente per il piacere – o per il dispiacere. Il piacere e il dispiacere arrivano strada facendo. La differenza (non la differenza secondaria tra piacere e dispiacere, ma la differenza che differisce lo stesso, che lo spazializza e lo temporalizza) deve essere all’opera prima che compaiano piacere e dispiacere.
N
el caso del masochista, dice Deleuze, siamo di fronte a una vittima che cerca un carnefice, che ha bisogno di formarlo, di persuaderlo, di stabilire con lui un patto per la realizzazione della più strana delle imprese. L’eroe masochista, dice, sembra educato, formato dalla donna autoritaria, mentre più profondamente è lui che la forma e la traveste, suggerendole le dure parole che lei gli rivolge. È la vittima che parla attraverso il proprio carnefice, senza risparmiarsi. In una inversione in cui la vittima vera e propria è il carnefice – leggere Le mie confessioni di Wanda von Sacher Masoch per credere.
F
arsi frustare dal proprio ideale, e farlo perché si vuole regredire all’Edipo; perché si vuole ri-sessualizzare il rapporto con la madre. Per paura di un male maggiore – castrazione – ci si fa punire, e a punire è proprio l’ideale del padre.
Si parte appunto dall’idea
che, dice Deleuze, il masochista si pone al posto del padre, e vuole impadronirsi della potenza virile (stadio sadico). Poi, un primo sentimento di colpa, una prima paura di castrazione come punizione, lo indurrebbe a rinunciare a questo scopo attivo per prendere il posto della madre e offrirsi egli stesso al padre. Ma, dice, in tal modo cadrebbe in una seconda colpa, in una diversa paura di castrazione, in questo caso implicata dall’impresa passiva; al desiderio di una relazione amorosa con il padre si sostituirebbe allora «il desiderio di essere picchiato». Ma questo quadro non è esauriente dice Deleuze. Si finisce per ridurre il masochismo ad una inversione del sadismo, seguendo una via che ignora persino le piè ricorrenti evidenze empiriche.
Il masochista, dice Deleuze, si sente colpevole, si fa picchiare e espia; ma che cosa e perché? Non è forse proprio l’immagine del padre che, in lui, viene sminuita, picchiata, ridicolizzata, umiliata? Ciò che egli espia non è forse la sua somiglianza con il padre, la somiglianza del padre? La formula del masochismo,
chiede Deleuze, non è forse il padre umiliato? Al punto che il padre sarebbe in minor misura colui che picchia di colui che viene picchiato.
Il masochista, dice Deleuze, pensa in termini di alleanza pattuita. La possessione è la follia propria del sadismo, il patto quella del masochismo. Il masochista, dice, deve formare la donna despota. Deve persuaderla, farla Firmare. È essenzialmente un educatore.
Con il contratto, dice Deleuze, il masochista si fa picchiare; ma quel che fa colpire, umiliare e ridicolizzare, è l’immagine del padre, la somiglianza del padre, la possibilità del ritorno offensivo del padre.
Non è «un bambino», è un padre a essere picchiato.
Il complesso piacere-dolore, dice Deleuze, non è sufficiente a definire il masochismo. Si osserva e si dice che il masochista è come tutti, che trova il proprio piacere là dove tutti gli altri lo trovano, ma che gli sono semplicemente necessari un dolore preliminare, una punizione o una umiliazione come condizioni indispensabili per il raggiungimento del piacere. Tuttavia, dice Deleuze, un tale meccanismo rimane incomprensibile se non viene riferito alla forma, e precisamente alla forma di tempo che lo rende possibile. È dunque inopportuno partire dal complesso piacere-dolore come da una materia che si presterebbe in quanto tale a tutte le trasformazioni, a partire dalla pretesa trasformazione sadomasochista. Infatti, dice Deleuze, la forma del masochismo è l’attesa. Masochista è colui che vive l’attesa allo stato puro. È proprio dell’attesa allo stato puro,
dice, sdoppiarsi in due flussi simultanei, il primo che rappresenta ciò che si attende e che essenzialmente tarda, sempre in ritardo, sempre rinviato, l’altro che rappresenta qualcosa che ci si aspetta, l’unica cosa che potrebbe far precipitare l’arrivo dell’atteso. Che una tale forma, un tale ritmo di tempo con i suoi due flussi, sia precisamente riempito da una certa combinazione piacere-dolore, dice, è una conseguenza necessaria. Il dolore giunge a realizzare quello che ci si aspetta, mentre il piacere realizza quel che si attende. Il masochista attende il piacere come qualcosa che è essenzialmente in ritardo e si aspetta il dolore come una condizione che rende finalmente possibile (fisicamente e moralmente) l’arrivo del piacere. Rinvia dunque il piacere per tutto il tempo necessario affinché il dolore, anch’esso atteso, lo permetta.
In un frammento della primavera del 1888 (14,173), parlando del dolore Nietzsche dice che il dolore è qualcosa di diverso dal piacere, ma non è il suo contrario. Il piacere è condizionato da una successione ritmica di piccoli stimoli di dispiacere. Così avviene per esempio per il solletico, anche per il solletico sessuale nell’atto del coito: vediamo qui che il dispiacere agisce come ingrediente del piacere. Sembra un piccolo impedimento che viene superato e a cui segue subito un altro piccolo impedimento, che viene a sua volta superato – questo gioco di resistenza e vittoria suscita nel modo più forte quel sentimento generale di potenza eccedente e sovrabbondante che costituisce l’essenza del piacere.
Le definizioni di masochismo fondate sul comp
lesso piacere-dolore, dice Deleuze, sono insufficienti. Non mostrano la possibilità di ciò che definiscono. Piacere e dolore sono certamente implicati nel masochismo, e senza l’alternarsi di piacere e dolore non ci sarebbe masochismo. Ma, dice Deleuze, essi non mostrano la possibilità del risultato. Ma, dice, cosa ancora più grave, essi non sono distintivi e lasciano libero corso a tutte le confusioni tra sadismo e masochismo. Le definizioni morali, in base alla colpa o alla espiazione, non sono migliori, perché anch’esse si fondano sulla pretesa comunicabilità tra sadismo e masochismo.
Il masochismo di base, dice Deleuze, non è né materiale né morale, è formale, unicamente formale.
Nelle avventure reali, come nei romanzi, nel caso specifico di Masoch come nella struttura del masochismo in generale, dice Deleuze, il contratto appare come la forma ideale e la condizione necessaria della relazione amorosa. Viene dunque stabilito con la donna-carnefice un contratto che rinnova l’idea degli antichi giuristi secondo cui la stessa schiavitù si fonda su un patto. Il masochista, dice, solo in apparenza è tenuto dai ferri e dai lacci: in realtà è tenuto solo dalla sua parola. Il contratto masochista non esprime soltanto la necessità del consenso della vittima, ma anche il dono della persuasione, lo sforzo pedagogico e giuridico mediante il quale la vittima educa il proprio carnefice.
La funzione contrattuale, dice Deleuze, è quella di stabilire la legge, ma più la legge è stabilita, più diventa crudele e più limita i diritti di una delle parti contraenti (in questo caso la parte istigatrice). Non esiste masochismo senza contratto.
L’
ostilità di Sade per il contratto, dice Deleuze, la sua ostilità per ogni riferimento al contratto, per ogni idea o ogni teoria del contratto non ha limiti. Tutta la derisione sadica si esercita contro il principio del contratto.
Ma ancora più caratteristica, dice, è la differenza tra contratto e istituzione in rapporto a quel che si definisce una
legge: il contratto è realmente generatore di una legge, anche se questa legge supera e smentisce le condizione che l’hanno generata; al contrario, dice, l’istituzione si presenta come appartenente a un ordine molto diverso da quello della legge, come vanificante le leggi, come sostituente al sistema dei diritti e dei doveri un modello dinamico d’azione, di potere e di potenza.
Sade, dice Deleuze, non ha alcuna simpatia per la concezione contrattuale del regime repubblicano, e ancor meno per l’idea di legge. Nella rivoluzione ritrova ciò che odia,
la legge e il contratto. La legge e il contratto sono ciò che ancora separa i francesi dalla vera repubblica. Sade appare precisamente in questo: nel modo in cui contrappone l’istituzione alla legge.
Le leggi, dice
Deleuze, vincolano le azioni: le immobilizzano, le moralizzano. Costringono alla ripetizione, all’appiattimento, all’esecuzione e alla routine. Delle pure istituzioni senza leggi sarebbero per natura modelli di azioni libere, anarchiche, in costante stato di immoralità. Delle pure decisioni (ci avviciniamo a Schmitt), senza vincolo legale (sovrane) sarebbero per natura spinte ad agire liberamente – sarebbero la libertà stessa (se ce ne fosse).
Il problema, dice
Deleuze, consiste in questo: se è vero che il contratto è una mistificazione, se è vero che la legge è anch’essa una mistificazione che serve il dispotismo, se è vero che l’istituzione è la sola forma politica che in natura differisce dalla legge e dal contratto, quali devono essere allora le istituzioni perfette, ossia quelle che si oppongono a qualsiasi contratto, e che presuppongono soltanto un minimo di legge? La risposta ironica di Sade è che, a queste condizioni, l’ateismo – la calunnia, il furto – la prostituzione, l’incesto e la sodomia – e perfino l’assassinio – sono istituzionalizzabili e, ancor meglio, sono l’oggetto necessario delle istituzioni ideali, delle istituzioni in movimento perpetuo.
Q
ualcuno ha preso alla lettera il suggerimento di Sade e ha pensato che per davvero bisogna farsi governare dai criminali, che i criminali sono un affronto al potere costituito e che il furto (o il contro-furto) condiziona la dissoluzione dello status quo. Tutto ciò ha consentito a molti anarchici di godere sonni tranquilli.
Vi è in Sade, dice Deleuze, un pensiero politico profondo, quello dell’istituzione rivoluzionaria e repubblicana, nella sua duplice opposizione alla legge e al contratto. Ma questo pensiero dell’istituzione è, nella sua interezza, ironico, perché sessuale e sessualizzato, è innalzato al rango di provocazione contro ogni tentativo contrattuale e legalista di pensare la politica.
Non bisogna forse sospettare da Masoch un prodigio contrario? – chiede Deleuze. Non più pensiero ironico, in funzione della rivoluzione del’89, ma un pensiero umoristico, in rapporto alla rivoluzione del ‘48?

IX

L’immagine classica della Legge, fissata da Platone, si impone nel mondo cristiano e arriva siano alla modernità. È l’immagine di una Legge che è sottomessa a un principio superiore. La Legge è un rappresentante del Bene. La Legge deve realizzare il Bene. Una buona Legge è una legge che tende al Bene.
In questo passaggio verticale verso l’alto, dice Deleuze, c’è qualcosa di ironico. C’è molta ironia nel processo che sale dalle leggi a un Bene assoluto come a un principio necessario per la loro fondazione. È come ammettere che la nozione di legge non si sostiene di per se stessa, ma con la forza, e che ha idealmente bisogno di un più alto principio come di una più lontana conseguenza.
Nel passaggio verticale che scende
verso il caso ci si conforma alla Legge. Obbedire alle leggi, dice Deleuze, è il «meglio», essendo il meglio l’immagine del Bene. Il giusto si sottomette alle leggi. È forse questo il motivo per cui, secondo un misterioso testo del Fedone, i discepoli non assistono senza ridere alla morte di Socrate. C’è molto umorismo nel processo che discende dalle leggi al Meglio relativo, necessario per persuaderci a obbedirvi.
L’ironia (Sade), dice Deleuze, è il gioco di un pensiero che si permette di fondare la legge su un Bene infinitamente superiore; l’umorismo (Masoch) è il gioco di questo pensiero che si permette di sanzionarla mediante un Meglio infinitamente più giusto.
Questa immagine classica della Legge, che da Platone giunge sino all’illuminismo, e che non smette di esercitare la sua influenza, subisce una stoccata decisiva per mano di Kant.
Se,
dice Deleuze, ci chiediamo sotto quali influssi l’immagine classica della legge viene rovesciata e distrutta, è certo che questo non accade per la scoperta di una relatività, di una mutevolezza delle leggi. Questa relatività era infatti pienamente conosciuta e compresa nell’immagine classica; ne faceva necessariamente parte. Il vero motivo è un altro. Se ne troverà l’enunciazione più rigorosa nella Critica della ragione pratica di Kant. Lo tesso Kant dice che la novità del suo metodo consiste nel fatto che la legge non dipende più dal Bene, ma che al contrario è il Bene a dipendere dalla legge. Questo, dice Deleuze, significa che la legge non deve più fondarsi, non può più fondarsi su un principio superiore da cui trarrebbe il proprio diritto. Questo significa che la legge deve valere per se stessa e fondarsi su se stessa, che non ha dunque altra risorsa che non sia la propria forma. È dunque per la prima volta che si può, che si deve parlare DELLA LEGGE, senza altra specificazione, senza indicare un oggetto. L’immagine classica non conosce che le leggi, specificate in base all’ambito del Bene e alle circostanze del Meglio.
Dopo Kant l
a Legge (che conquista la sovranità della lettera maiuscola) la Legge morale è la rappresentazione di una pura forma, indipendente dal contenuto e da un oggetto, da un ambito e dalle circostanze. La legge morale significa LA LEGGE, la forma della legge, escludente ogni principio superiore capace di fondarla. In questo senso, dice Deleuze, Kant è uno dei primi a rompere con l’immagine classica di legge, ad aprirci un’immagine propriamente moderna. La rivoluzione copernicana di Kant nella Critica della Ragion pura consiste nel far ruotare gli oggetti della conoscenza intorno a un soggetto; ma la rivoluzione della Ragion pratica, che consiste nel far ruotare il Bene intorno alla Legge, è senza dubbio più importante.
L
’empirismo della scuola economica austriaca vorrà recuperare, e di fatto rimetterà al suo posto il Bene (sotto forma delle preferenze del consumatore, della teoria dei bisogni o della domanda effettiva) quale ultima ratio nella determinazione del prezzo o dell’equilibrio economico generale. Le leggi economiche devono ruotare intorno alle preferenze del consumatore, allo stesso modo i prezzi, l’offerta di moneta, l’equilibrio economico, il livello degli investimenti, eccetera. Si fa arretrare il dibattito economico a prima della rivoluzione di Kant.
Senza dubbio,
dice Deleuze, la rivoluzione di Kant era espressione di importanti cambiamenti nel mondo. E senza dubbio esprimeva le estreme conseguenze di un ritorno al di là del mondo cristiano, alla legge giudaica; forse annunciava anche il ritorno a una concezione presocratica (edipica) della legge, al di là del mondo platonico. E in ogni caso, rendendo LA legge un fondamento ultimo, Kant dotava il pensiero moderno di una delle su principali dimensioni: l’oggetto della legge si sottrae in modo essenziale.
Quel che è più chiaro,
dice Deleuze, è che LA LEGGE, definita dalla sua pura forma, senza materia e senza oggetto, senza specificazione, è tale che non si sa che cosa sia, e che neppure si può saperlo. Essa agisce senza essere conosciuta. Aldilà anche di ogni teologia negativa, perché la legge è trasparente, di essa si sa tutto. Non c’è segreto. Essa definisce un ambito di erranza in cui si è già colpevoli, vale a dire in cui si sono già trasgrediti i limiti prima di sapere cosa essa sia: così Edipo. E neppure la colpa e il castigo ci fanno conoscere cosa sia la legge, lasciandola in quella stessa indeterminazione che, come tale, corrisponde all’estrema precisione del castigo. Kafka, dice Deleuze, ha saputo descrivere tale mondo. Non si tratta di porre Kant accanto a Kafka, ma soltanto di far emergere i due poli che formano il pensiero moderno della legge.
Se la legge non si fonda più sul Bene preliminare e superiore, se essa vale per la sua propria forma che ne lascia totalmente indeterminato il contenuto, diventa impossibile,
dice Deleuze, sostenere che il giusto obbedisce alla legge per il meglio. O piuttosto: colui che obbedisce alla legge non è e dunque non si sente un giusto. Si sente colpevole, è preliminarmente colpevole e tanto più colpevole quanto più rigidamente obbedisce alla legge. È con la stessa operazione che la legge si manifesta in quanto legge pura, e ci costituisce come colpevoli. Le due proposizioni che formavano l’immagine classica, quella del principio e quella delle conseguenze, quella della fondazione da parte del Bene e quella della sanzione da parte del giusto, crollano contemporaneamente.
Spetta a Freud,
dice Deleuze, l’aver fatto emergere il fantastico paradosso della coscienza morale: ben lungi dal sentirsi più giusti nella misura in cui ci si sottomette alla legge, è la legge che «si comporta con tanta maggiore severità e manifesta tanta maggiore diffidenza quanto più virtuoso è il soggetto… Rigore straordinario della coscienza morale nella creatura migliore e più docile…»(Disagio della civiltà).
Max Brod, dice Deleuze, ricorda che quando Kafka lesse
Il processo, gli ascoltatori ridevano, in modo irrefrenabile, e anche lo stesso Kafka. Riso altrettanto misterioso di quello che accolse la morte di Socrate.
Il falso senso del tragico
che si avverte in molte letture di Kafka, aggiunge Deleuze, il falso senso del tragico rende stupidi; quanti autori deformiamo a forza di sostituire un sentimento tragico e puerile alla potenza comica aggressiva del pensiero che li anima.
Cosa accade, chiede Deleuze, cosa accade quando il principio superiore non esiste più, non può più essere un Bene capace di fondare la legge e di giustificare il potere che gli ha delegato?
Succede che, come nel sadismo, il posto del Bene è preso dal Male, e il posto del Giusto è preso dal Criminale, dal grande Criminale: essere supremo in malvagità, che rovescia la legge. Rovesciamento del platonismo, rovesciamento della stessa legge.
L’idea del male assoluto, dice Deleuze, non si confonde con la tirannia, che presuppone ancora le leggi, né con una forma di capriccio e di arbitrio. Il suo modello superiore e impersonale, dice, è situato nelle istituzioni anarchiche di movimento perpetuo e di rivoluzione permanente. Sade lo ricorda spesso: la legge non può essere superata che verso l’anarchia come istituzione.
Il masochista non è un sadico alla rovescia – non è il suo contrario. Deleuze non smette di ribadirlo. Non è per nulla sufficiente presentare l’eroe masochista come sottomesso alle leggi e lieto di esserlo.
Il masochista, dice Deleuze, attacca la legge da un lato diverso.
L’umorismo masochista non è il movimento che sale dalla legge verso un più alto principio, ma il movimento che discende dalla legge verso le sue conseguenze.
In che modo il masochista mette in moto l’umorismo?
Con un eccesso di zelo.
È mediante la scrupolosa applicazione della legge che, dice Deleuze, il masochista tende a mostrarne l’assurdità, e a suscitare precisamente quel disordine che si presumeva dovesse impedire o scongiurare. Si prende la legge sulla parola, alla lettera. Non si contesta il suo carattere ultimo o primo – contestazione sadica. Si fa come se, dice Deleuze, in virtù di questo carattere, la legge riservasse a sé i piaceri che ci vieta. Così, a forza di osservare la legge, di sposare la legge, che si gusterà qualcosa di tali piaceri. La legge, dice, non è più rovesciata ironicamente, risalendo verso un principio, bensì raggirata umoristicamente, obliquamente, per approfondimento delle conseguenze.
La legge non può più raggiungere il suo effetto. Quando il masochista viene punito e frustato prova il contrario di ciò che ci si attende dalla punizione. Non prova dolore, prova piacere. I colpi di frusta, dice Deleuze, lungi dal punire o dal prevenire un’erezione, la provocano, la garantiscono. È una dimostrazione di assurdità. Nella punizione il masochista scopre una ragione che l’autorizza e perfino gli comanda di provare quel piacere che la legge era tenuta a impedire. La stessa legge che mi impedisce di realizzare un desiderio sotto pena di una conseguente punizione, è ora una legge che pone la punizione all’inizio e mi ordina di conseguenza di soddisfare il desiderio.
Il masochista, dice Deleuze, trova nella punizione e nel dolore un piacere preliminare. Ma il suo vero piacere lo scopre dopo, in quello che l’applicazione della punizione rende possibile. Il masochista, dice, deve subire la punizione prima di provare piacere. Sarebbe dannoso confondere questa successione temporale con una causalità logica: la sofferenza non è causa di piacere, ma condizione preliminare indispensabile alla venuta del piacere.
Il masochista è insolente, per ossequiosità, ribelle per sottomissione: in breve, dice Deleuze, è l’umorista, il logico delle conseguenze, così come l’ironico sadico era il logico dei principi. Il masochista, dice, non rovescia in misura minore del sadico la legge, sebbene lo faccia in un modo diverso.

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