La Piattaforma Rousseau

ghigliottina

Un tempo Rousseau era un Sistema Operativo, poi venne declassato a Piattaforma. Un vero Sistema Operativo, si disse, deve essere Standalone, mentre Rousseau non lo è. In questa parabola può essere racchiusa l’intera storia del Movimento 5 Stelle.

La base del Movimento è la Volontà generale, la Piattaforma è solo uno strumento. In molti, quasi tutti, tranne il Capo Carismatico (CC) e qualche adepto della prima ora, si ostinano a confondere la Volontà generale con la Volontà di tutti. È anche per questo motivo che i motti più incisivi del CC vengono sistematicamente interpretati come delle freddure, anziché come emanazioni della Volontà generale. «Io sono tutto, voi non siete un cazzo!», è una traduzione esatta, e adattata al nostro tempo, della sentenza di Emmanuel Joseph Sieyès, teorico della rivoluzione francese: «Che cos’è il Terzo Stato? Tutto. Che cosa sono gli altri Stati? Niente».

Mentre gli idéologues di Sinistra si ostinavano a classificare il Movimento nella Destra, persino fascista, perlomeno per il linguaggio, esibendo papelli di filologia comparata, il Movimento si smarcava ricusando il principio stesso di tale classificazione.

Questa ricusa, che aveva creato sgomento negli elettori di Sinistra che in massa avevano votato il Movimento, è totalmente in linea con la Volontà generale.

Il 2 giugno 1674 Spinoza scrisse una lettera (lettera 50) al suo amico Jarig Jelles, nella quale propose l’argomento esposto nella formula determinatio negatio est. Questa formula sarà adottata da Hegel e trasformata in uno slogan per la sua dialettica: Omnis determinatio est negatio. La determinazione è negazione. Nell’atto in cui una cosa effettivamente esistente (wirklichkeit) si dispiega nella sua individualità, essa separa e nega da sé ciò nei cui confronti si differenzia. Ciò che è negato non è buttato via. Al contrario, proprio includendo nella determinazione della cosa, anche ciò che la nega determinatamente, si può arrivare a conoscere la cosa nella sua verità.

Nel 1912, nella Teoria delle moneta, Mises disse che se l’individuo vuole ottenere il massimo dalle sue risorse, deve acquisire dimestichezza con tutti i prezzi del mercato. Il posizionamento di un bene nella scala di volare di ogni individuo, non è determinato solamente dall’utilità di quel bene, ma anche dal valore dei beni che si possono ottenere in cambio. In più, il valore di ogni singolo bene determinato è fissato dall’ultima dose della serie (utilità marginale). L’acqua ha un’importanza fondamentale per la vita, ma il suo valore economico è fissato dall’ultima dose, fino al punto che, quando essa soverchia la domanda, non solo gli ultimi bicchieri non valgono più nulla, ma nemmeno i primi. Il valore di una parte, dipende dal valore del tutto. Il valore della merce A, dipende dal volare di tutte le merci che essa non-è. Un conto è far parte di un insieme scarso, altro conto è far parte di un insieme illimitato. Il valore non è più il riferimento ad una sostanza. Il valore diventa posizionale, differenziale, strutturale. Il valore di ogni singola merce determinata, appartenente ad una serie specifica, dipende dai rapporti con le merci singole delle serie presenti sul mercato, come mostrò Menger nei Principi.

Il punto è, disse Mises, che, date queste serie, è impossibile dire quanto una merce vale. Potremmo dire che il valore di questo bene è maggiore di quello, ma non ci è consentito di asserire che questo bene vale tanto. Bisogna cercare un modo, disse, per venire a capo del problema.

Ed ecco la soluzione. La valutazione, disse, mette a confronto l’importanza di due insiemi di beni dal punto di vista del soggetto. Il soggetto e l’oggetto della valutazione, disse, devono entrare come elementi indivisibili in ogni dato processo di valutazione. Insomma, bisogna rapportare le serie ad un terzo elemento – il soggetto – il quale, permettendo il passaggio da una serie all’altra, ne stima anche il valore.

Soluzione classica, con la quale si è creduto di poter arginare l’empirismo.

La ragione, disse Hume (Trattato sulla natura umana, 1739), non potrà mai mostrare la connessione di un oggetto con un altro, per quanto appoggiata dall’esperienza e dall’osservazione della costante unione in tutti i casi antecedenti; non potrà convincerci che l’esistenza di un oggetto implichi quella di un altro: per cui, quando passiamo dall’impressione di un oggetto all’idea o credenza di un altro, non siamo spinti a ciò dalla ragione, ma dall’abitudine. Che i casi dei quali non abbiamo avuto esperienza, disse, debbono somigliare a quelli dei quali l’abbiamo avuta, e il corso della natura continuare uniformemente sempre lo stesso, è un’opinione inaccettabile. Si deve dunque rinunciare alla pretesa assoluta della scienza, la quale vuole che le sue dimostrazioni siano necessarie e non contingenti.

Non mancò chi, per superare l’impasse, relegò l’oggetto assoluto nelle nebbie del noùs, e riservò la necessità non al modo in cui la cosa è in se stessa, ma al modo in cui noi la conosciamo.

È a questo punto che il soggetto, staccatosi dal mondo dell’esperienza e delle cose, diventa il centro o il cardine delle loro permutazioni.

Il soggetto diventò il vero Subiectum, l’autentica sostanza.

L’io penso, disse Kant, deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni. Io sono cosciente del collegamento di tutti i miei atti con il mio io, sono consapevole di essi nella loro molteplicità come di una mia unità, un’unità che si fonda sulla mia egoità (come subiectum). Solo sul fondamento dell’io penso può essermi data una molteplicità. E tuttavia, lio di Kant, non è una cosa, allo stesso modo degli oggetti. Non è l’io empirico, l’io psicologico. La filosofia trascendentale non può essere poggiata su una psicologia – ricadendo in ciò da cui  voleva fuggire, l’empirismo. L’io di Kant è ciò che rimane una volta che siano stati scartati tutti i fatti empirici. Kant deve ripetere lo stesso gesto che fu di Rousseau, ovvero «scartare tutti i fatti».

Si tratta di un sistema ingegnoso, con il quale si pretese di staccare un’unità dal mondo (wirklichkeit), tale da poterlo governare da altezze trascendentali.

Nel 1946, un gruppo di economisti e di alti funzionari delle potenze mondiali, credette possibile far scendere dal suo empireo metafisico la Reinen Vernunft, e farla incarnare nel gold-exchange standard o dollar gold-exchange standard, dimenticando completamente la lezione di Hegel. E cioè che, una volta sceso dal cielo stellato, e incarnatosi nell’oro o nel dollaro, il Dio denaro, uomo tra gli uomini, cosa tra le cose, subisce l’alterazione imposta dalla negazione determinata.

Che questa alterazione si chiami signoraggio, inflazione, deflazione, eccetera, il risultato è sempre lo stesso: il trasferimento forzato di risorse dai creditori ai debitori, o viceversa.

Nel 1973, di fronte ad alcuni seminaristi riuniti a Ginevra, Hayek dovette svelare il mistero della negazione determinata, seppur tacendo su altre conseguenze nefaste che al suo tempo erano già ben visibili. Non appena si comprese diffusamente, circa cinquant’anni fa, disse, che la convertibilità in oro era semplicemente un metodo per controllare la quantità di moneta, che è il fattore che realmente ne determina il valore, i governi erano ansiosi di sottrarsi a tale disciplina, e la moneta divenne, più che mai prima, il giocattolo della politica.

Tuttavia, aggiunse Hayek, il controllo del giocattolo era al quanto difficoltoso, se non impossibile, perché, disse, sebbene al solito assumiamo che ci sia una netta linea di separazione fra ciò che è moneta e ciò che non lo è – e la legge cerca generalmente di affermare tale separazione -, quando ci riferiamo alle occasioni che causano eventi monetari, non c’è alcuna chiara distinzione. Quel che troviamo, disse, è piuttosto un continuum in cui oggetti aventi un diverso grado di liquidità, o i cui valori possono fluttuare in maniera indipendente, sfumano gli uni negli altri, nella misura in cui fungono da moneta. E ciò, si chiarisce in una nota, lo aveva già intuito Hicks nel 1935.

Quando una moneta si incarna, persino nella carta, entrano in campo una serie di complicazioni, che minano la possibilità di un controllo assoluto, al quale una scienza di tipo matematico, come l’economia pretende di essere, mira. E ciò perché la scienza deve passare dalla purezza del suo metodo agli strumenti con i quali essa si esercita, sporcandosi le mani. E qui ci si avvicina di nuovo alla Piattaforma Rousseau, e alle implicazione tra tecnologia e scienza, tra Volontà di tutti e Volontà generale.

Quando gli Stati non giocano allo stesso gioco dei privati, si affannano nella ricerca di quegli strumenti tecnici (legislativi e investigativi) capaci di frammentare il continuum in unità discrete, tale da riservare a se stessi il monopolio della forza di battere moneta – anche se questo monopolio si scontra sempre con la dura legge della negazione determinata. Quando non vi riescono, invece, la moneta prolifera e si diffonde, e ogni unità nuova rimbalza su quella vecchia, creando un’onda d’urto, che, propagandosi, la nuova unita monetaria assorbe di ritorno, deflagrando, talvolta, come nel caso dei SubPrime.

Il 15 Agosto 1971, Richard Nixon mise termine unilateralmente agli accordi di Bretton Woods del 1944, secondo i quali si doveva consegnare oro a 35 dollari l’oncia, alla presentazione, da parte di qualsiasi governo o banca centrale, di una carta contenente la promessa di pagamento. Nessuno aveva dubitato che la promessa potesse essere rispettata, anche perché gli affari andavano a gonfie vele. Poi arrivò il momento in cui tutto finì, e finalmente le monete poterono fluttuare liberamente, e posizionarsi su un livello adeguato alle ricchezze che si presumeva denominassero.

L’idealismo di Bretton Woods aveva fissato il tempo a 35 dollari l’oncia. Si trattava di una menzogna bella e buona. Ci vollero quasi 30 anni per accorgersene, forse perché questa menzogna faceva comodo a tanti. Quando il trucco non fu più sostenibile, perché gli USA stampavano dollari a uffa e le banche private creavano moneta dal niente, eccetera, ci si dovette levare la maschera, e mostrare al mondo la realtà dura e cruda, ovvero che 35 dollari l’oncia, l’unità trascendentale del sistema monetario internazionale, era un bluff, una menzogna, una convenzione, un’abitudine, uno Storytelling, una narrazione, e che i grand récit – le grandi narrazioni – erano finite. Nixon non fece tutto da solo. Una bella mano gliela diedero Nietzsche, Freud e Heidegger.

Nel 1947, Claude Lévi-Strauss codificò gli anatemi dei tre grandi decostruttori, e sentenziò, in Le strutture elementari della parentela, la fine di quel centro che aveva permesso fino a quel momento le permutazioni. Il decentramento, che girò sotto il nome di anti-etnocentrismo, levò ogni alibi al centro, e promosse alla stessa dignità ogni determinazione singola presente nel quadrante. Non c’era più un punto di riferimento unico su cui triangolare, ma molti punti e infinite possibilità di triangolazione. Ogni punto era diventato il centro di ogni altro. La pretesa di una superpotenza di controllare gli spostamenti su tutto il quadrante era tramontata. Non c’era più modo di distinguere una panzana da una verità, perché non c’era più un aldilà trascendentale a cui rapportate i discorsi. Nietzsche e Heidegger erano entrati a gamba tesa nella storia effettiva. Non si dovette attendere Francis Fukuyama, le porte all’ingresso nel post-moderno, nella post-storia, nel post-umano e nella post-verità erano aperte. Da quel giorno fu un dilagare di empirismo, anche sotto le vesti apparentemente contrarie dello strutturalismo. Ciò che nel 1912 era stata per Mises una soluzione per sottrarsi al relativismo, un criterio per determinare in modo assoluto, seppur un assoluto trascendente e non immanente, il quanto di valore che permettesse di separare il grano dal loglio; ciò che nel 1912 era apparsa come una soluzione, nel 1947 appariva già come una fregatura etnocentrica, che il centro del mondo rifilava alla sua periferia.

Dopo un periodo di giubilo ed esaltazione, tipico della fase iniziale del lutto, si cominciò a rimpiangere quel centro trascendentale, che seppur fra mille storture, aveva governato il mondo, tenendo da una parte la sinistra e la destra, e dalla parte opposta tutto il regno del lavoro utile, graduato nell’impiego e nella paga, secondo una scala di valori, se non proprio giusta, perlomeno accettabile.

A differenza che nell’industria dell’intrattenimento e nel giornalismo professionale, dove il post- resiste ancora oggi e dove è un tripudio di multiculturalismo e di trans- e post-, nella finanza, la fluttuazione e il relativismo furono sopportati per qualche anno, prima di tornare, almeno in Europa, ad un sistema di cambi fissi, con fluttuazione regolate e minime, legate non più all’oro, ma ad una moneta virtuale, legata a sua volta al dollaro. Con i suoi alti e bassi, questa soluzione durò molto a lungo, sino a quando, dietro la faccia linda e trascendentale dell’unità di conto, non fu intravisto il grugno della realtà effettiva della moneta sonante.

La discesa in Terra di un nuovo Dio – l’ECU (European Currency Unit) – discesa che si fece attendere fino al 1993, e che si incarnò nell’EURO, già preannunciava la Resurrezione, ma arricchita (Aufhebung) della sua stessa dilacerazione. La risposta tedesca all’empirismo anglo-americano, a suo tempo, l’aveva messa a punto Hegel, e contemplava la crocifissione di quegli Stati in cui l’Assoluto si era scisso nella Nuova Divisa e nel Debito pubblico.

Sottrattole il ring delle monete nazionali, la negazione determinata mostrò i suoi muscoli nelle oscillazioni e perturbazione violente dei debiti pubblici. Mentre la risposta tedesca prevedeva un recupero (Aufhebung) delle esposizioni estere, ovvero una negazione della negazione degli Stati concorrenti (spremitura), e non un loro annichilimento, la risposta degli Stati concorrenti, soprattutto dell’Italia, contemplava proprio l’annientamento, con una regressione da Hegel a Kant e Rousseau.

Nella negazione determinata l’individualità si afferma distinguendosi da ciò che le si contrappone. Io sono me stesso, in quanto non sono un altro. Ciò che è negato non può essere buttato via. Solo nell’altro, che non-sono-io (alienazione), posso riconoscere me stesso, e solo fintanto che quest’altro non viene annientato. Da ciò deriva una conseguenza importante. Fintanto che la mia determinazione – ciò che io sono o posso fare – dipende dalla determinazione di un altro, non sarò mai libero. Essere libero significa affrancarsi dalla negazione determinata. La volontà è libera quando non urta in nessun ostacolo, quando non trova alcun limite, quando è assoluta, quando è sovrana, ovvero Generale. Questa Volontà Sovrana o Generale non può essere mai approssimata dalla Volontà di tutti, in quanto la volontà di tutti, anche quando si esprime all’unanimità, rimane pur sempre una volontà effettiva (wirklichkeit), dunque alienata ed etero-determinata. Il travaglio della Volontà generale, che tenta di varcare la soglia della realtà effettiva, servendosi della Piattaforma Rousseau, lascia campo aperto alle accuse di brogli elettorali.

La Volontà generale non può alienarsi in una cosa a lei contrapposta, senza dissolversi. Essa vuole salire sul trono del mondo senza perdere la propria sovranità. Ne consegue che non può giungere a nessuna opera positiva. Resta soltanto un universale astratto, e dunque puramente negativo. La Volontà generale non può essere nulla che abbia la forma di un oggetto indipendente, poiché tale oggetto si opporrebbe alla Volontà generale minando la sua sovranità. La sua iconoclastia mosaica, il giustizialismo, il tintinnio delle manette, l’invocazione della ghigliottina, il vaffanculo rivolto ai corpi intermedi, ai sindacati, ai rappresentanti, ai giudici, ai ministri, al parlamento, soprattutto ai sindacati, rei di aver creduto, anch’essi, di poter incarnare l’assoluto, questa iconoclastia deriva dal fatto che i corpi intermedi sono determinati, sono esistenze singolari, prese in un gioco differenziale, strutturale, in cui il senso che esprimono, deriva sempre anche dal senso che esprimono gli altri. Si disprezza in modo totale ogni opera positiva – ogni positum -, perché in essa ci si vede l’inizio di una riorganizzazione del vecchio regime, un ritorno a una differenziazione che il Movimento aveva superato raccogliendo in sé l’intero spirito dei tempi.

La sovranità indivisibile, distribuendosi in potere legislativo, esecutivo e giudiziario, ponendosi o opponendosi, perderebbe questo suo carattere (l’indivisibilità). La massa dei cittadini tornerebbe a organizzarsi in stati aventi compiti propri, limitati a un ramo dell’intero, a una specie dell’operare e della realtà effettiva. Il Movimento cadrebbe al ragno infimo di un partito, di una personalità determinata, cesserebbe in verità di essere una Volontà generale. Si tornerebbe al politeismo e alla divisione in tribù. Dunque, l’idolo deve essere distrutto. Solo la Legge, senza volto, espressione della Volontà sovrana trascendente, può riunire il popolo della diaspora.

Un Movimento che si pensa come Volontà sovrana non si ritrova nelle decisioni di un governo. Gli resta solo (Hegel, Fenomenologia dello Spirito, il Terrore), gli resta solo l’operare negativo, la furia del dileguare. L’unica opera della Volontà generale può essere l’annientamento continuo della volontà singola che emerge sempre di nuovo. Se il governo è sempre colpevole in quanto agisce effettivamente, viceversa, per tale governo, la massa è sempre sospetta. L’unica cosa in cui il Movimento può riconoscersi senza intoppi è l’uniformità dei cittadini davanti alla legge; l’unica azione che il governo può rivendicare senza piombare a terra nei sondaggi è il Reddito universale di cittadinanza. L’unico motto in cui può riconoscersi, oltre al sibilo della ghigliottina, è: «Io sono tutto, voi non siete un cazzo!»

L’empirista ha imparato la lezione, sa che Dio non può essere una cosa. Non può mostrarsi. Non può manifestarsi direttamente. Altrimenti, diventando cosa tra le cose, perderebbe la sua trascendenza, la sua Assolutezza, la sua Sovranità. Dio deve rimanere «estraneo a tutti i fatti». Quando ha voluto parlare agli uomini, dapprima con le tavole delle leggi, poi con Gesù, ha dovuto scindersi nel Significato e nel Significante, nel Padre e nel Figlio. Per parlare all’uomo (singolare), Dio (Volontà generale), ha dovuto farsi uomo (particolare). Il particolare (il profeta) è il corpo inter-medio: mezzo uomo, mezzo Dio – corpo mistico. Il sovrano, se decidesse di entrare nella storia, non potrebbe farlo direttamente. L’idea di una moneta sovrana è un pugno allo stomaco del buon senso, prim’ancora che della teologia. Dovrà farlo sempre mediante una moneta sonante. Tuttavia, il medio, questo Hegel lo ha sottovalutato, non ritorna necessariamente al padre arricchito dell’esperienza mondana. Marx, più coscienzioso di Hegel, sapeva che il ritorno (ROI) può non avvenire, o può avvenire in perdita, e che il pareggio dei conti è una mera accidentalità. Sapeva che Dio è un Bluff, un Bluff necessario, ma pur sempre un Bluff. Come Nietzsche, sapeva che la verità è una menzogna che aiuta a vivere.

Gli empiristi conseguenti, che pretendono di andare oltre il Bluff, mettendosi nella mani della scienza e della tecnologia, del sondaggio o del carotaggio, rincorrono il particolare col particolare, posizionano un computer in ogni tasca (Hayek), tale da carpire, quasi in tempo reale, le intenzioni del 100% della platea. Ma il 100%, tecnologicamente rilevato, non può in nessun caso – a priori – essere scambio per un dato assoluto (Dio).

Mentre la sana ragione, disse Hume nel 1739, ci convince che ci sono corpi enormemente più piccoli di quelli che appaiono ai sensi, una falsa ragione ci vorrebbe persuadere che ce ne sono di infinitamente più piccoli. Noi, disse, ci accorgiamo, allora, di non possedere uno strumento o un’arte di misurare tale che ci assicuri di non incorrere in qualche errore o incertezza. Convinti che l’addizione o la sottrazione di una minuta particella sfuggirà sempre al senso e alla misura, e poiché pensiamo che due figure, se prima erano uguali, non possono esserlo più dopo quella sottrazione o addizione, supponiamo, disse, che ci sia un immaginario criterio di uguaglianza, capace di correggere esattamente l’impressione e la misura, e di cogliere la proporzione di quelle figure interamente, tale criterio è puramente immaginario: l’idea vera e propria di uguaglianza è quella data da una particolare apparenza, corretta con la sovrapposizione o con una misura comune; sì che la nozione di una correzione che sorpassa gli strumenti e l’arte di cui disponiamo, è una finzione tanto inutile quanto incomprensibile.

Una correzione che sorpassa la precisione degli strumenti tecnologici disponibili, è essa stessa una finzione. La volontà generale, dice Hume, è essa stessa una finzione. Ciò di cui dobbiamo accontentarci è una misura convenzionale, approssimativa, probabile, aggiustabile, pettinabile -come si dice in televisione. È inutile, qui, soffermarsi sulle obiezioni che già Hegel muoveva a Hume, e cioè che anche nel suo empirismo spinto, si era dovuta far entrare dalla finestra quella teologia cacciata dalla porta.

Se alla fine del Settecento Joseph de Maistre poteva prendersi facilmente gioco di Rousseau, è perché partiva avvantaggiato, partiva da quella teologia che Rousseau, a parole, aveva rifiutato, ma che nei fatti trasudava da ogni goccia dell’inchiostro che usava per redigere i suoi Discorsi.

L’empirista, che osò rinunciare a Dio, si consegnò mani e piedi alla tecnologia, al sapere tecno-scientifico, ai sistemi di misurazione e calcolo, troppo sicuro di avere così scongiurato o allontanato dalla storia la mannaia della Volontà generale e del Terrore, quella mannaia che divide il tempo tra il prima e il poi.

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