Derrida comunista

comunisti cina

 

C’è lutto anche in politica. E ad essere in lutto non sono i comunisti che hanno creduto di aver perso, con il socialismo reale, anche il sogno di un comunismo possibile. La mente va a Althusser, al ricordo che ne offre Élisabeth Roudinesco, quando, parlando dell’amico scomparso, accosta il suo destino a quello di tutta una generazione di comunisti che, di fronte al disastro del socialismo reale, vedevano inabissarsi il loro ideale ed erano costretti a rinunciare all’impegno militante, con il risultato di sprofondare nella malinconia. Il lutto come ossessione, come un fantasma dell’ossessione, come idealizzazione e reificazione, e la malinconia, come memoria di una perdita, non possano essere confinati al socialismo reale. Rispondendo a Roudinesco, Derrida dice di non credere che la «malinconia» di cui lei parla – questa mezza sconfitta che non è possibile in alcun modo ridurre né esaurire, questo atteggiamento di scacco strutturale che segna l’inconscio geopoltico dei nostri tempi – sia soltanto il segno del decesso di un determinato modello comunista. Esso, dice, non fa che riversare i suoi pianti, talora privi di lacrime e inconsapevoli, più spesso fatti di lacrime e sangue, sul cadavere della politica stessa. Piange quello che è il concetto stesso di politica nei suoi caratteri essenziali, oltreché in quei caratteri specifici propri della modernità – lo Stato nazionale, la sovranità, la forma-partito, la struttura parlamentare nella sua configurazione più diffusa.
Nel
2001, in questo dialogo con Roudinesco, (morirà nel 2004), Derrida parla del suo rapporto con Althusser, suo grande amico e maestro, coinquilino in Rue d’Ulm a Parigi, e dice di essere stato costretto per lungo tempo al silenzio. Un silenzio frutto di una scelta, ma non per questo meno dolorosa.
Anche nel momento in cui nutrivo pesanti riserve nei confronti del partito comunista, dice Derrida, così come nei riguardi di chi cercava di tagliare i ponti con esso, ho sempre – ed è questo che mi ha costretto al silenzio – rispett
ato e direi persino condiviso a modo mio, in modo inquieto e riservato, questo ideale. Personalmente credo alla rivoluzione – vale a dire a un’interruzione, a una cesura radicale all’interno del corso ordinario della Storia. Non esiste d’altronde responsabilità etica né decisione degna di questo nome che non sia, per essenza, rivoluzionaria, che non si riveli in rottura con tutto un sistema di norme dominanti. Ogni responsabilità, dice, ha un carattere rivoluzionario, poiché cerca di compiere l’impossibile: interrompere l’ordine delle cose a partire da eventi non programmabili. Una rivoluzione non si programma. In un certo senso, come l’unico evento davvero degno di questo nome, essa eccede ogni orizzonte possibile, ogni orizzonte del possibile – e dunque della potenza e del potere.
Il 2 marzo 1991, di ritorno da Mosca, Derrida tiene una conferenza a Napoli, il primo capitolo del testo della conferenza propone ancora il tema del Fort/Da, del
ritorno e dell’eterno ritorno intravisto da Freud nella pulsione di morte.
Anche
a Napoli Derrida parla del fantasma del comunismo, il quale, nonostante la caduta del comunismo reale, continua a ossessionare l’Europa e il mondo, dove l’ossessione assume spesso la denegazione, la denegazione da parte di quei partiti comunisti, che di fronte al crollo del comunismo reale, cercano di dissociarsi dal morto, cercano di seppellire il ricordo, di tumularlo, di scongiurane il ritorno.
Una storia che abbiamo visto tutti.
Mentre tutto ciò accade, e le operazioni di tumulazione incessante continua
no in Europa e in America, in un momento in cui tutti aveva perso speranza nella rivoluzione, senza però sapere in quale senso, io, dice Derrida, se accumulo segni di fede o di credulità entusiasta è per precisare un background: benché io non sia mai stato né marxista né comunista strictu sensu; benché abbia letto da quando avevo quindici anni (1945), nella mia ammirazione giovanile per Gide, il suo Retour de l’Urss, che non lasciava alcun dubbio sul tragico scacco della rivoluzione sovietica; benché più tardi, negli anni Cinquanta-Sessanta, abbia dovuto oppormi a Parigi, e non era facile, a una terrificante intimidazione politico-teorica di tipo stalinista o neo-stalinista – ebbene, dovrei descrivere come tutto questo non mi abbia mai impedito di condividere, sia nella speranza come nella nostalgia, qualcosa della passione disarmata o dell’immaginario infantile di Etiembe nella sua relazione con la Rivoluzione Sovietica. Sono sempre turbato quando sento l’Internazionale, tremo d’emozione e mi vine voglia di «scendere in strada» per battermi contro la Reazione.
Derrida ritorna
ancora sul tema, in un intervento improvvisato il 15 marzo 1997 al Théâtre des Amandiers, a margine della rappresentazione dello spettacolo Karl Marx Théâtre inédit, messo in scena da Jean-Pierre Vincent.
Cosa dice in quest’occasione del suo
rapporto con Marx e il Comunismo?
Anche
qui ritorna l’ossessione per la morte, l’ossessione Marx, l’ossessione che porta il nome di Karl Marx.
Da una parte c’è l’ossessione di tutti quelli per i quali, e sono tanti, Marx è morto, ed è morto allo stesso modo in cui Dio è morto. Si ha un bel ripetere, dice Derrida, che Marx è morto,
si ha un bel ripetere che le sue teorie sono interessanti, che la sua statura di studioso della filosofia e dell’economia è pari a quella dei massimi filosofi ed economisti moderni, ma che le sue parole non hanno nulla da dire sull’oggi, su ciò che ci sta accadendo oggi, che non bisogna più avvalersi di lui. Mentre si ripete che Marx è morto, mentre si cerca di seppellirlo dentro le enciclopedie, si moltiplicano i gesti che lo fanno rivivere, che lo riportano in vita, che lo spettralizzano.
Dall’altra parte ci sono gli eredi legittimi, gli interpreti autorizzati, i custodi della tradizione, i quali diffidano di ogni filiazione spuria. E diffidano ancor di più, dice Derrida, di virus non marxisti ai quali è affidata
l’eredità più virulenta del nome di Marx, come se gli eredi legittimi, normali, di Marx diffidassero di questi virus illegittimi che portano la parola di Marx oggi tanto quanto i conservatori tradizionali.
Chi porta oggi il nome di Marx? –
chiede Derrida.
Che
cosa ne è della parola Marx, della sua eredità? Chi può ereditare i beni del morto? Che ne è della parola comunismo? Una parola che non si è più capaci nemmeno di pronunciare, una parola che deve nascondersi, per nascondere le vergogne. Ci si vergogna per il morto (per ciò che in sé vi è di morto e del morto) dietro altre parole (Partito della Sinistra, Di Linke, Sinistra Ecologia, Alba, Rivoluzione civile, eccetera), una parola, dice Derrida, che non si è più capaci di pronunciare, di ricordare. La parola comunismo non torna più. Che ne è di quel linguaggio che sbatteva come una bandiera rivoluzionaria, e della lotta delle classi, e del proletariato, e dell’Internazionale, e dei lavoratori, e del lavoro, anche?
Quando si dice
«Marx è morto» – continua Derrida – questa formula tanto spesso ripetuta – che cosa dice? Quando qualcuno muore e si ripete per più di un giorno l’annuncio della sua morte – normalmente quando un giornale annuncia la morte di qualcuno, lo si dice un giorno e poi non se ne parla più -, quando si ripete ancora e ancora, è perché il morto non è così morto. E infine, conclude Derrida, e infine, la questione capitale. Vale a dire la questine sempre nuova del – «mi verrà la parola?» (le virgolette sono di Derrida, e hanno tutto il loro peso testamentario, sepolcrale) – non è il comunismo, è il capitale. È una questione tutta nuova, che riguarda la formazione capitalistica del plusvalore, nelle sue nuove formule. Non si tratta, contrariamente a ciò che si dice, di un ritorno a Marx: Marx, si sa, è morto. Non si tratta di riapplicare questo o quel teorema di Marx all’economia – sebbene su questo ci sia molto da imparare da lui -, ma di ricordare una certa lezione, una certa maniera di non lasciarsela raccontare a proposito del capitale e di vedere ciò che accade oggi di nuovo, di inedito.
Poi c’è
Spettri di Marx. Un testo che raccoglie a approfondisce un intervento tenuto il 22 e il 23 aprile del 1993 alla California University di Riverside, dal tema Il deperimento del marxismo.
Spettri di Marx rimane una pietra miliare (mi viene da dire una pietra tombale) del marxismo – a partire da Marx. Anche se affiliare questo testo al marxismo è davvero problematico. E d’altronde il libro tratta proprio una certa economia del lutto, parla della filiazione, dell’eredità del morto, e del lavoro del lutto, in politica come in economia.
Anche Marx, forse scherzando, si definita non
marxista.
In una lettera di Engels a x si riferisce di un Marx che si rifiuta
va di accettare una certa eredità, una certa filiazione; che ripudiava certi figli, legittimi o meno (e si sa che Marx ha avuto un figlio illegittimo, con la sua domestica); che si rifiutava di affiliarsi ad un certo marxismo, di stare insieme a certi figli – legittimi o meno – che richiamandosi al nome di Marx, come al nome di un morto, costruivano una scuola a partire dalla sua eredità. Anche Marx si dissociava dal morto. O perlomeno ripudiava una parte dell’eredità.
I
n effetti, Spettri di Marx ha creato un certo dibattito tra i marxisti dichiarati, in merito agli eredi legittimi di Marx. I testi sono stati raccolti dall’editore inglese Verso e pubblicati in una raccolta dal titolo Marx & Sons (il titolo italiano è più bello dell’originale inglese – Ghostly Demarcations).
La risposta di Derrida a questi interventi è del 1998. Le reazione di certi marxisti patentati pronti a salire in cattedra,
di certi marxisti statuari o pietrificati, era prevedibile. Era prevedibile che gli dicessero, con rimprovero, Dov’eri tu, Derrida, quando avevamo bisogno di te? dov’eri? Te ne esci fuori adesso, a cose fatte, per fregiarti del nome di Marx, e ripulirti dall’accusa di relativismo e postmodernismo. La tua adesione non vale più. È arrivata a tempo scaduto, e noi (noi chi? Chiede incredulo Derrida. In base a quale Costituzione costituite questo noi?), noi, non ti vogliamo, non ti consideriamo uno di noi. Noi, figli legittimi di Marx.
Quello che continua a stupirmi – dice Derrida – di fronte all’ossessione gelosa di tanti marxisti, non è solo l’aspetto un po’ comico, sempre presente in qualunque rivendicazione di proprietà, comicità ancora più teatrale quando si tratta di un’eredità, di un’eredità testuale, e ancora più desolante visto che si tratta dell’appropriazione di un’eredità chiamata “Marx”! (Le virgolette sono di Derrida e, credo, circoscrivano il luogo, la portata e l’effetto dell’eredità di Marx – senza virgolette).
No – continua Derrida -, ciò che mi chiedo sempre, e ancora di più in questo caso, è dove si trovano questi presunti titoli di proprietà. In nome di cosa, adducendo cosa esattamente, ci si spinge fino a confessare, come fa Gayatri Spivack, una reazione possessiva [proprietorial reaction] nei confronti di Marx?
Ora, sappiamo che il tema della filiazione, dell’affiliazione, della legittimità o dell’illegittimità crea
ancora oggi, in Italia, motivi per scissioni, espulsioni e rifondazioni di rifondazioni. Senza avvedersi che la legittimità, nella famiglia marxista o comunista, come altrove, la legittimità è sempre presunta, soprattutto quando si tratta di filiazione in generale, e non solo, come si è troppo ingenuamente creduto, fino a Joyce compreso, della filiazione paterna come Legal Fiction, perché questa filiazione vale anche per la maternità, prima ancora di venire sostituita da una Surrogate Mother.
Insomma, Derrida rivendica una certa eredità marxista, e i marxisti e comunisti affiliati a qualche partito o scuola, con un certo passato da comunista che li legittima a parlare in nome e per conto del comunismo o del marxismo, ripudiano l’adesione tardiva di Derrida al marxismo. Ma Derrida ha mai aderito al marxismo?
Se consideriamo il marxismo come un lascito, questo lascito ha preso diverse strade, si è ripresentato sotto diverse spoglie. E abbiamo visto come anche Marx, stando al ricordo, dunque all’eredità di Engels, abbia ripudiato la sua appartenenza ad un certo marxismo, e che il marxismo sia cominciato prima di quando si crede che sia effettivamente cominciato. Anche qui opera qualcosa come un inizio prima dell’inizio.
Anche a proposito del marxismo c’è un lavoro del lutto, che inizia prima della tumulazione di Marx.
L’intenzione di seppellire il marxismo c’è sempre stata. I primi sono stati i marxisti stessi. Se non addirittura Marx stesso. Poi, poiché si è dato per morto il marxismo, e lo si è dato per morto prima ancora che ufficialmente nascesse, si trema, dice Derrida in Spettri di Marx, si trema all’ipotesi che, in virtù di una di quelle metamorfosi di cui Marx ha tanto parlato, un nuovo “marxismo” (le virgolette sono di Derrida, e tra breve ne misureremo il peso) non abbia più la forma sotto cui si era abituati a identificarlo e a metterlo in rotta. Forse non si ha più paura dei marxisti, ma si ha ancora paura di certi non-marxisti che non hanno rinunciato all’eredità di Marx, dei cripto-marxisti, degli pseudo- o para-“marxisti” che sarebbero pronti a dare il cambio sotto alcuni tratti o virgolette che gli esperti angosciati dell’anticomunismo non sono allenati a smascherare.
Infine, di recente sono stati pubblicati i seminari degli anni Settanta proprio su Marx e Althusser. Dunque, non c’è bisogno di leggere tra le righe, come fa Guy Scarpetta, in un’intervista del 1971 pubblicata in Promesse.
C’è un passo da
La différance (uno dei testi più importanti di Derrida), dove, chiede Scarpetta a Derrida, parlando della messa in questione della “coscienza nella sua certezza e sicurezza di sé”, Lei si è riferito a Nietzsche e a Freud ma ha lascito in sospeso (benché poi questo stesso lasciare in sospeso sia perfettamente leggibile) il riferimento a Marx, e con Marx al testo del materialismo-dialettico.
L
e «lacune» a cui Lei allude, rispende Derrida, – e La prego di credermi – sono esplicitamente calcolate per marcare i luoghi di una elaborazione teorica che, almeno per parte mia, resta ancora da fare. E si tratta proprio di lacune e non di obiezioni: lacune che hanno uno statuto assolutamente specifico e deliberato, e oserei quasi dire che hanno anche una certa efficacia. Non possiamo considerare il testo di Marx, quello di Engels o quello di Lenin, dice, come un’elaborazione già interamente fatta che si tratterebbe solo di «applicare» alla congiuntura attuale. Dicendo questo, sono sicuro di non enunciare niente di contrario al marxismo. Non bisogna infatti leggere i testi marxisti con metodo ermeneutico o esegetico che vi cerchi un significato già interamente compiuto sotto la superficie testuale. La lettura è trasformatrice – come credo potrebbero confermare certe frasi di Althusser. Ma siffatta trasformazione non si opera in un modo qualunque, bensì esige dei precisi protocolli di lettura. E – perché non dirlo brutalmente? – io non ne ho ancora trovati che mi soddisfino.

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