Foucault. Attacco duro ai leninisti.

Vladimir Lenin

 

Tra l’Ottobre del 1978 e il Febbraio del 1979 Foucault si reca in Iran, inviato speciale del Corriere della sera, per seguire il conflitto ingaggiato da un intero popolo contro una tirannia non più sopportabile. Segue attentamente tutte le fasi di quella che troppo frettolosamente la stampa Occidentale aveva considerato come una vera e propria Rivoluzione. Incontra capi religiosi, si intrattiene con gli studenti dissidenti, partecipa ai funerali delle vittime della provocazione e della persecuzione. Ciò che più lo colpisce non sono le sacche della resistenza organizzata, i giovani marxisti o leninisti, i maoisti; non sono le persone radunate intorno al Comitato per la difesa delle libertà e dei diritti dell’uomo. Ciò che lo impressiona e lo affascina sono le azioni sconsiderate di un intero popolo, privo di ogni cosa, che «con le mani nude» combatte per avere tutto, un popolo «attratto dalla morte, più preoccupato del martirio, che della vittoria».
Sente vicina la rivolta iraniana, più del Maggio francese. Assiste al dilagare del dissenso non come «quegli osservatori di oggi», turbati perché in questo trambusto «non vi possono ritrovare né la Cina, né Cuba, né il Vietnam, ma un maremoto senza apparato militare, senza avanguardia, senza partito. Dove non vi si ritrovano nemmeno i movimenti del ’68.»
Conosce già le risposte dei maoisti e leninisti che sguazzano nella Realpolitik, più realisti del re, giacché ha subito le loro pressioni staliniste in rue d’Ulm, immagina i loro commenti, sa che essi daranno un nome a questa rivolta, che gli daranno un senso, che vorranno trovare dei soggetti che la animano, dei gruppi che l’hanno promossa, un fine verso cui essa tende; sa già che essi chiameranno questa serie di strani avvenimenti che hanno caratterizzato gli ultimi dodici mesi della vita politica iraniana con un nome noto; che chiameranno questa lunga successione di feste e di lutti, questi milioni di uomini nelle strade per invocare Allah, i mollah nei cimiteri che incitano alla rivolta e alla preghiera distribuendo i loro messaggi su minicassette; sa che chiameranno il vecchio che ogni giorno attraversa la strada in una cittadina della periferia di Parigi per inginocchiarsi in direzione della Mecca, sa che lo chiameranno con il nome di Rivoluzione. Ma niente di ciò che accade in Iran ha le sembianze della rivoluzione, ovvero di ciò che ha un senso e una direzione.
Nel 1979, giacché gli stalinisti si sono ringalluzziti, e cominciano a piovere le critiche, Foucault prende carta e penna e scrive a le Monde.
Sono i giorni della svolta integralista della Repubblica islamica, delle mani tagliate, dei veli, della pulizia politica. L’ebbrezza e le grida delle persone disposte a morire a migliaia lasciano il posto alla voce dell’ayatollah. Tutto fa credere che non ci siano più speranze, e che le possibilità che la sollevazione serba siano tutte calcolabili e comprese nella voce della restaurazione, nelle parole dell’ayatollah che chiedono il sacrificio e il sangue, «purché la rivoluzione continui».
Cosa fare allora, rinunciare, e rinunciare anticipatamente, perché è inutile sollevarsi, sarà sempre la stessa cosa, giacché la rivoluzione, con la sua astuzia storica, è sempre pronta ad avvolgere (Aufhebung) la sollevazione nelle sue spire?
Le sollevazione, dice Foucault, appartengono alla storia, dunque non possono sfuggire alla sua logica. Viviamo da due secoli nell’età della «rivoluzione» – dice. Per due secoli essa ha organizzato la nostra percezione del tempo e polarizzato le speranze. Ha costituito uno sforzo gigantesco per assorbire la sollevazione all’interno di una storia razionale. Le ha fornito una logica e dato una legittimità, dacché il piccolo funzionario di partito, con la sua smania di razionalizzare e istruire le falange del popolino, ha iniziato a compilare i suoi report e ad analizza dati nel tentativo di recuperare (Aufhebung) – misero tentativo, destinato al fallimento – ciò che è irrecuperabile. Giacché la rivoluzione ha messo le mani sulla faccenda, addomesticando ogni sollevazione, pretendendo di farla apparire nella sua verità e di condurla a esiti reali, qualcuno, dice Foucault, penserà che essa sia stata colonizzata dalla Real-Politik. Qualcun altro dirà che le è stata svelata la dimensione di una storia razionale. Io preferisco una domanda semplice e un po’ febbrile, dice: «Ma la rivoluzione è così desiderabile?».
Le sollevazioni, dice Foucault, appartengono alla storia. Solo in quanto vi appartengono trovano ascolto presso i funzionari della rivoluzione – anche armata – la virtù dei quali è, appunto, far funzionare le cose, far in modo che esse si incasellino in uno processo teleologico, in una sequenza causale, in uno schema razionale, dunque logico, comprensibile, e, in quanto comprensibile, insegnabile all’università a quel branco di caproni che sono oggi gli studenti. Parola verticale e autoritaria – della vecchia scuola stalinista.
Tentativo fallimentare, dice Foucault. Poiché se è vero che la sollevazione appartiene alla storia, e pur vero che essa in qualche modo le sfugge. Enigma della sollevazione, con il quale il rivoluzionario per vocazione non sa rapportarsi. E non lo sa fare giacché l’enigma frattura la solidità di quel terreno razionale sul quale il rivoluzionario per investitura onomastica traccia le linee strategiche e muove i soldatini di piombo.
Non ubbidisco più, non mi muovo più, mi pianto qui, come un asino. Non vado né avanti né indietro. Non voglio sentire ragioni. Non volgio sentire storie. Questo atteggiamento, dice Foucault, mi sembra irriducibile. Ma non ne sono sicuro – dice. Anche la più piccola sicurezza appare insopportabile. Quelli che hanno capito qualcosa, quelli che si presentano con grafici e numeri (come è facile staccare due numeri da un database, impaginarli con un foglio di calcolo, illustrarli con grafici e fargli dire quello che si vuole!), i sapientoni, quelli che ti dicono «qui bisogna studiare, bisogna conoscere la storia» eccetera, ebbene, questi saputoni, in questa circostanza, prigionieri della storia, non possono far altro che rimacinare il passato o prevedere il futuro – ma non si avvicinano mai all’avvenire, a quella debole ed enigmatica forza messianica di cui parlava Benjamin – se non per esorcizzarla.
Esiste un punto di ancoraggio, dice Foucault, più solido e più vicino dei «diritti naturali», dunque più solido della natura stessa, grazie al quale (cito alla lettera*) i poteri non sono «assolutamente assoluti». Questo accade perché di là da ogni coercizione e minaccia, da ogni violenza e persuasione, si dà la possibilità di un momento in cui i poteri non possono più niente – un momento in cui i poteri, dunque anche il potere di ragionare o di raccontare la storia, non possono più nulla, non possono raccontare niente, insegnare niente, guidare niente. I poteri rimangono, per così dire, in silenzio, muti, rapiti da ciò che accade, intontiti, incaproniti, imbestialiti, presi dal panico. Protagonisti di un futuro che li sopravanza – protagonisti loro malgrado.
Bisogna leggere attentamente queste pagine di Foucault, se non si vuole ridurre il filosofo francese alla macchietta del pensatore dei poteri-saperi, in una microfisica da guerra di salotto, combattuta con soldatini di piombo, con l’ossessione di un potere che permea ogni cosa. Può darsi la possibilità, dice Foucault, in cui non si scambia più niente, in cui il potere non può più niente; si dà una possibilità che non è un potere, ma un patire. Di un potere che non è un potere, e di un «no» che eccede ogni dialettica.

 

* Si les sociétés tiennent et vivent, c’est-à-dire si les pouvoirs n’y sont pas « absolument absolus », c’est que, derrière toutes les acceptations et les coercitions, au- delà des menaces, des violences et des persuasions, il y a la possibilité de ce moment où la vie ne s’échange plus, où les pouvoirs ne peuvent plus rien et où, devant les gibets et les mitrailleuses, les hommes se soulèvent.

 

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M. Foucault, Teheran: la fede contro lo Scià.
M. Foucault, Una rivolta con le mani nude.
M. Foucault, Sollevarsi è inutile?

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